IL PASSAGGIO ALL’ATTO SECONDO MANUEL DE PEDROLO

Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole.
(F. Nietzsche).

Esistono delle situazioni – tragiche situazioni –
nelle quali è impossibile agire senza attirare su
di sé una colpa (G. Lukács).

Non c’è legge, vi dico. La città ne vuole una nuova…
Tutti si sono chiusi in casa, persino la polizia.
(M. De Pedrolo).

Quella che segue non è una recensione, ma una “libera” riflessione sollecitata dalla lettura del bel romanzo di Manuel De Pedrolo Atto di violenza (Paginaotto, 2020), finito dallo scrittore catalano nel 1961 e pubblicato solo dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975), dopo anni di ostinata censura da parte del regime (1). Nonostante tutto, l’opera di Pedrolo vince il premio Prudenci Bertrana nel 1968 con un titolo differente ma molto significativo ed evocativo: Estat d’excepció. Ed è un vero e proprio stato di eccezione che si realizza nella città “immaginaria” governata con il pugno di ferro dal Giudice Domina; una lacerazione nel tessuto della normalità che si compie sotto l’egida di una parola d’ordine tanto semplice quanto socialmente “impattante”: «È molto semplice: restate tutti a casa». Qui forse trovano appiglio le parole di Slavoj Žižek tratte da un suo saggio del 2007: «Talvolta, non fare nulla è la cosa più violenta da fare. Meglio non fare nulla che impegnarsi in atti che in definitiva servono a far funzionare meglio il sistema».

L’intellettuale sloveno non alludeva all’astensione dal lavoro, come nel caso presentato da Atto di violenza, ma a quella dal voto: «L’astensione dal voto si pone come un autentico atto politico: ci obbliga a confrontarci con la vacuità delle odierne democrazie» (La violenza invisibile, Rizzoli, 2008). Personalmente sono da sempre un “astensionista strategico” e un critico radicale della democrazia capitalistica, e quindi non faccio fatica a comprendere la «vacuità delle odierne democrazie» di cui parla Žižek e la straordinaria portata politica dell’idea da egli fatta balenare – peraltro sulla scia di un romanzo di Josè Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2004), nel quale si narra appunto di una tornata elettorale che, tra astensionismo e schede nulle, evoca agli occhi dei politici (tanto di “destra” quanto di “sinistra”) lo spettro della delegittimazione del sistema democratico nel suo insieme.

Il romanzo di De Pedrolo e il saggio di Žižek mettono insomma al centro della riflessione la violenza oggettiva del Potere, sia quella visibile, legata immediatamente al potere politico e ai suoi “dispositivi” di controllo e di repressione, sia quella invisibile, della quale «è necessario tenere conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni “irrazionali” di violenza soggettiva» (La violenza invisibile). La realtà è che il corpo sociale trasuda violenza sistemica (politica, fisica, psicologica, “esistenziale”) da tutti i pori, in alto come in basso, al centro come alla sua periferia e, cosa molto difficile da accettare per il pensiero comune, con stringente necessità. È con questa verità davvero sconvolgente che ci confrontiamo tutti i giorni. Il fatto che nella routine quotidiana appariamo tutt’altro che sconvolti, è forse l’elemento più inquietante della nostra attuale tragica condizione umana – e di certo ciò che alimenta il sempre più rigoglioso commercio di psicofarmaci e il mercato delle razionalizzazioni “pur che sia”. Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene». Ma qui si divaga! Forse.

Il luogo (o location, visto il «taglio quasi cinematografico» del racconto) immaginato da Pedrolo per la sua storia ricorda molto da vicino la Spagna (soprattutto ricorda Barcellona) alle prese con il tardo franchismo, un regime desideroso, per così dire, di avviare una stagione di “riforme” sociali e politiche necessarie alla modernizzazione capitalistica del Paese e alla stessa sopravvivenza di una classe dirigente che sente di non aver più alcuna solida base sociale su cui contare né una sponda politica internazionale che le facesse da supporto e da scudo; un regime ormai declinante eppure ancora così violentemente repressivo nei confronti degli oppositori politici e sociali. “Riformismo”, certo, ma dall’alto e con giudizio. La “lunga transizione” alla democrazia in Spagna non fu certo un pranzo di gala, sebbene l’epoca franchista si concludesse in modo abbastanza ridicolo, cioè con il fallito golpe del 23 febbraio 1981. Mi fa ancora ridere il ricordo del tenente colonnello Antonio Tejero Molina che si aggira spaesato alla Camera dei deputati di Madrid mentre agita nervosamente la pistola d’ordinanza in direzione dei deputati che cercano riparo sotto i loro scranni. Il poverino, esponente fantasmatico di una Spagna che non esisteva più, non solo scambiò la Camera dei deputati per il vero centro del Potere, ma soprattutto non capì come l’Esercito spagnolo, del quale credeva di essere un’avanguardia, fosse diventato lo strumento e il supporto di una borghesia desiderosa di partecipare al grande gioco del business globale, e sicuramente di quello europeo – magari sotto le ali protettive della Germania (2).

«Caratterizzato fortemente dai temi della disobbedienza civile, dello sciopero e del conflitto, Acte de violència non solo si scontra con lo zelo censorio del regime ma non si trova in sintonia neppure con l’opposizione rappresentata dal PCE, ormai passato a sostenere la politica di riconciliazione nazionale» (Catalunyasenzarticolo). E dove c’è «riconciliazione nazionale», c’è reazione, controrivoluzione, conservazione sociale, e su questo terreno franchismo e stalinismo (con caratteristiche spagnole) si davano la mano. La stessa cosa vale per l’Italia e per il PCI, beninteso.

Nelle pagine di Atto di violenza viene insomma fuori con forza il violento tramonto di un’epoca. Scrive Paco Camara su Courmayeur noir in festival: «Franco muore il 20 Novembre 1975 (quel giorno ci fu il massimo consumo di champagne di tutta la storia della Spagna), ma non si può dimenticare che soltanto due mesi prima aveva firmato ancora cinque condanne a morte. Cinque antifranchisti morirono fucilati». L’ultimo ordine impartito dal Giudice Domina in fuga dalla città insubordinata descritta da De Pedrolo riguarda la fucilazione di un giornalista: «Un uomo come me non si può permettere debolezze! Né adesso né mai! Non voglio che la storia mi giudichi per un’azione da perdente. Fucilatelo». Non sappiamo se l’ordine è stato eseguito dagli ex collaboratori di un perdente che non vuole arrendersi alla realtà: «Non sto scappando! Ho pianificato tutto, ricomincerò come quindici anni fa, dalle montagne se necessario…». Ci penserà, suo malgrado, Batxera, l’autista incaricato di mettere in salvo l’ex uomo forte in fuga, a mettere fine alla vicenda del Giudice Domina con la sola pistolettata che De Pedrolo concede nel suo racconto a favore dei subordinati. «Ero pronto a portarla alla Casetta Verde, alla frontiera, dove avesse voluto. Non ho mai avuto l’intenzione di ucciderla. […]«Perché non ha scelto di andare via davvero? Perché? Perché questa ambizione distruttiva? La città non vuole sangue, vuole vivere…». Poi la pistola che impugna Batxera si abbassa verso il «maledetto vigliacco» che adesso implora clemenza mentre anche il cielo piange, non si sa per tristezza o per gioia; parte un colpo, poi «una seconda vampa esplode, precisa e totale, nell’oscurità della sua carne lontana, che non sentirà mai più la pioggia».

«È molto semplice: restate tutti a casa»: come suona male, malissimo, questa “parola d’ordine” in tempi di pandemia e di segregazione domiciliare imposta alla gente dal governo! Lo stesso effetto deve aver fatto ad Alberto Prunetti, il quale nella sua Postfazione al racconto di De Pedrolo scrive: «Chiudo questo prologo pensando alle strade vuote dei giorni del Covid. Non è l’idea di Atto di violenza ma sarà impossibile, sfogliandolo, che certi ricordi recenti del nostro confino domestico non vengano a galla. Leggiamo De Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa». Stando in casa oppure altrove (nelle strade, nei posti di lavoro, ovunque esercitiamo le nostre molteplici attività lavorative e ricreative) rifiutiamoci di collaborare con il Potere: «Per vedere l’effetto che fa»! In ogni caso, lo stare in casa del libro in questione si configura come un atto di insubordinazione e di liberazione, anche psicologica, non certo di confinamento obbligato (o lockdown, nella sua espressione “neutrale”, cioè ipocrita) come quello che ci tocca vivere in questi cupi giorni. «A pensarci bene, è ammirevole che, impauriti o no, tutti quanti abbiamo deciso di ribellarci al Giudice. Perché questa è ribellione»: come invidio i ribelli di De Pedrolo!

Come si può immaginare oggi una rivoluzione sociale? Credo che il libro di De Pedrolo abbia a che fare, di fatto, “oggettivamente”, attraverso i mille fili invisibili che legano le esperienze del passato a quelle del presente, con questa domanda di eccezionale portata storica, sociale e politica. Questo libro ha a che fare anche con la risposta a questa domanda così impegnativa? Questo non so dirlo, anche perché la trasformazione sociale che aveva in testa il suo autore è probabilmente molto diversa da quella che ho in testa io; nondimeno subisco il fascino dell’idea che sta al centro di questo romanzo “utopico”: l’azione di insubordinazione collettiva che disorienta il Potere e gli toglie qualsiasi fondamento sociale, qualsiasi legittimazione politica o di altro tipo. Certo, poi si tratta, appunto, di precisare la natura di questo potere, di chiarire come dovremmo “declinarlo” per averne un’adeguata comprensione; e si tratterebbe anche di chiarire in vista di che cosa intendiamo superare lo stato di cose esistente, o Potere che dir si voglia. Ma entrare nel merito di queste importanti “problematiche” ci condurrebbe, forse, troppo fuori tema, e di certo non mancherà occasione di ritornarci sopra – anche perché i miei modesti scritti non sono che una variazione su un unico tema: la vigenza del Dominio e la possibilità di metterlo definitivamente fuori dalla dimensione storica. Ho scritto Dominio, non Domina.

Leggendo il romanzo di Manuel De Pedrolo, mi è tornato subito alla mente quello che scrisse Marx in una sua lettera a L. Kugelmann datata 11 luglio 1868: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa». In fondo, di cosa parla essenzialmente il libro di De Pedrolo se non di una sospensione generale del lavoro orientata a rendere impraticabile la vita normale di una comunità, e per questa via privare il potere politico di ogni sua ragion d’essere, e così costringerlo ad abbandonare la scena? Disertare le fabbriche, disertare gli uffici, disertare le scuole, disertare i negozi e ogni altra attività che possa in qualche modo sostenere, appunto, la normalità del vivere e con essa il Potere che se ne nutre. Astenendosi dal lavoro, il “popolo” apre di fatto, “oggettivamente”, le porte all’evento eccezionale che improvvisamente svuota di contenuti sostanziali il regime, che ad un tratto scopre di essere un colosso dai piedi d’argilla. La tradizione cinese parla di «revoca del mandato popolare». Purtroppo i limiti di questa revoca stavano nel fatto che a un Imperatore “revocato” (spesso con la violenza) dal popolo seguiva un altro Imperatore, e così via lungo i secoli e sempre sotto l’attenta sorveglianza delle Potenze Celesti, perché da quando si dà storia delle civiltà tutto ciò che accade, accade sotto il Cielo – del Dominio. Chi prenderà il posto del Giudice Domina, caduto in disgrazia dopo quindici anni di incontrastato potere? Questo non lo sapremo mai!

Su quegli anni “controversi” conosciamo però il giudizio di Tara, un capitalista di “destra” alle prese con lo sciopero dei suoi operai: «Mai, sentimi bene, mai c’era stata una legislazione tanto progressista! Durante i quindici anni di cui parli abbiamo fatto un balzo in avanti che neppure i più ottimisti si azzardavano a sperare». Tara discute con il suo socio Bran, un capitalista di “sinistra”, il quale ascoltando l’adirato collega ride e scuote il capo: «No, Tara, no! Queste sono tutte chiacchiere. Per progresso sociale intendo non solamente il miglioramento delle condizioni materiali degli operai e di tutti quanti. […] L’uomo non vive di solo pane… Persino noi vogliamo qualcosa di più». Perle di saggezza progressista che però non schioderanno il collega reazionario dalle sue convinzioni, peraltro subito soddisfatte dall’arrivo della polizia nella fabbrica vuota di operai: «Tenente Orsia, delle forze di polizia. Abbiamo l’ordine di fare un rapporto su tutti i vostri operai che non si sono presentati al lavoro». Tara non si fa pregare: «”Sì. Entrate, entrate!”. Mentre l’altro poliziotto accosta la porta alle sue spalle, il tenente spiega: “L’ordine non riguarda soltanto la sua azienda, signor Flixa; sono stati presi provvedimenti per tutte le imprese con più di cinquanta Lavoratori”. Il sorriso di Tara si accentua.“Naturalmente. E, se me lo consente, le dirò che era ora”. Indica le poltrone. “Ma, prego, accomodatevi mentre cerchiamo l’elenco del personale”». Questo significa essere collaborativi!

Nella fabbrica di Tara e Bran si sono presentati «solo tre operai»: «Nel capannone non c’è anima viva. Solo decine e decine di macchine da scrivere, in diverse fasi di montaggio, giacciono allineate sui banchi degli operai, accanto a mucchi di pezzi e di arnesi invecchiati dall’uso». Tutto profitto andato a male. «Quale triste logorio morale del capitale!», avrebbe chiosato ironicamente l’ubriacone di Treviri dinanzi a una siffatta «distruzione di capitale»: «In quanto il processo di produzione si arresta e il processo lavorativo viene limitato o, in certi luoghi, completamente fermato, vi è distruzione di capitale reale. Il macchinario, che non viene usato, non è capitale. Il lavoro, che non viene sfruttato, equivale a una perdita di produzione. Le materie prime, che giacciono inutilizzate, non sono capitale. I valori d’uso (come pure le macchine di nuova costruzione), che restano o inutilizzati o incompiuti, le merci che imputridiscono nei magazzini, tutto ciò è una distruzione di capitale. [..]. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio se ne vanno al diavolo» (Il Capitale, II). Si può dunque rimproverare Tara per il suo zelo collaborativo? «È grazie al Giudice che c’è disciplina e possiamo lavorare senza la paura di disordini», osserva senza tanti fronzoli “progressisti” il nostro «funzionario personificato del capitale» (Marx). Ciò che invano cerca di fargli capire il collega “progressista” , Bran, è che l’ordine sociale, che per un capitalista è di gran lunga il genere di ordine che occorre preservare a tutti i costi, va tutelato in modo “intelligente”, “pragmatico”, adeguato alle contingenze, in altre parole tenendo conto dei cambiamenti che si verificano nella società, nella sua “struttura” come nella sua “sovrastruttura”. «Questo istinto di conservazione ci ha fatto guadagnare quindici anni», osserva Bran, ma adesso è venuto il momento di cambiare pelle, non certo natura. Non si tratta di una libera scelta, ma di un fatto che si impone alla volontà dei due capitalisti, a quello “buono” come a quello “cattivo”, con assoluta necessità, se vogliono continuare a smungere con una certa serenità la vacca del profitto. Questa assoluta necessità è vissuta da chi non vuole mutamenti sociali e politici significativi come un vero e proprio atto di violenza.

Anche lo sciopero della fame condotto fino alle estreme conseguenze, ad esempio dai detenuti per ottenere migliori condizioni di detenzione, estrema forma di lotta che esprime un’incolmabile squilibrio di forza tra lo Stato e chi ne subisce l’oppressione, è spesso condannato dai governanti come un atto di violenza: «Ma così ci ricattate, ci sparate contro il vostro stesso corpo, e venite a parlarci di pacifica disobbedienza civile!» Evidentemente il concetto di violenza si presta a diverse letture; come sempre, è una questione di punti di vista – e di interessi.

A proposito: chi ha dato l’ordine di sospendere in modo generalizzato e a oltranza il lavoro, così da paralizzare qualsiasi attività economica? A quanto pare nessuno. E com’è possibile? Qualcuno avrà pure scritto l’ordine di rimanere tutti a casa! Dove c’è un muro si legge la famosa, o famigerata, scritta. Anche i muri delle toilette non vengono risparmiati: «Mentre si sbottona la patta dei pantaloni legge la frase che qualcuno ha scritto sulle mattonelle bianche: “È molto semplice: restate a casa”, scuote il capo e, mentre orina, fruga nella tasca interna della giacca in cerca della matita che porta sempre con sé. Si riabbottona, con una mano sola. Poi, inclinato sulla tazza, aggiunge un “tutti” alla frase, cercando di imitare la grafia dello sconosciuto». Restate tutti a casa: suona meglio! Va bene, ma chi è stato il primo a pensare, a dire e a scrivere quell’idea diventata tanto popolare (virale!) in così poco tempo?

Insomma, chi c’è dietro la cosa cospirativa? O si tratta forse di un movimento spontaneo? Tara, a differenza di Bran, non lo crede possibile: «Spontaneo? Non farmi ridere! Credi davvero che qualche migliaio, qualche milione di persone possano mettersi d’accordo in questa maniera… Spontanea? Sicuramente c’è qualcuno dietro. Vedrai se non è così! Tutte le cose hanno un motivo e qui, come ovunque, ci sono interessi privati, inconfessabili, che si servono di quei disgraziati per i loro scopi». Per Tara i «disgraziati» che se ne stanno a casa ad annoiarsi e a non guadagnare sono essi stessi vittime di qualcuno che persegue «interessi privati, inconfessabili»: è la logica del potere che parla con la bocca del capitalista smaliziato. E poi, quando mai gente che si accontenta di portare a casa la pagnotta quotidiana, magari mentre esalta la propria squadra di calcio e sputa sulle altre, è stata in grado di simili azioni generalizzate, coordinate e organizzate? Anche Domina naturalmente è dello stesso parere: «I popoli sono incapaci di prendere iniziative se nessuno li dirige. La storia ce lo dimostra chiaramente». Eppure questa volta sembra che la spontaneità delle masse abbia avuto la meglio sul “momento organizzativo” e sulla stessa storia!

La natura astratta – inafferrabile, impalpabile, eppure tremendamente concreta – del dominio sociale capitalistico forse ha qualcosa a che fare con il carattere anonimo dell’insubordinazione raccontata da De Pedrolo. Forse. C’è da riflettere anche sul fatto che ai tempi in cui egli scriveva il suo libro non c’era niente che possa far ricordare i nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai cosiddetti “social”. Forse è proprio per questo che una singola “parola d’ordine” è potuta diventare, nella sua asciutta semplicità, così potente e dirompente? Non sono in grado di dire cose intelligenti su questo punto – perché, sul resto?

Il dottor Morns, dopo aver visitato una giovane donna ferita dalla polizia, «va verso il lavabo, apre il rubinetto. Ma [l’infermiera] interviene: “Attenzione, dottore. Quando i serbatoi si saranno svuotati non avremo neanche l’acqua”». Chissà come sono messi ad alcol, Amuchina e a dispositivi sanitari di vario genere: occhio ai virus! Ma che dico! Purtroppo l’attualità si infila da tutte le parti: mi scuso! La benzina è finita, quasi tutti i negozi sono chiusi perché non hanno più nulla da vendere («La maggior parte delle famiglie si è attrezzata per resistere a questo strano assedio e già da giorni ha fatto scorte, al punto che molti negozi di alimentari e affini sono ormai vuoti»); scarseggia il cibo, le scuole sono chiuse. «I miracoli non li so fare», confessa il cuoco Pots al vecchio cameriere Carbi, entrambi “crumiri” evidentemente; «Non c’è gas, non c’è energia, non abbiamo quasi più legna, manca il carbone. E il cibo? Cosa vuole che cucini se non c’è niente?». «Questo si chiama fare le cose per bene…».

D’altra parte, se tutti si astengono dal lavoro, “materiale” e “immateriale”, chi produce e commercializza i “beni e servizi” di cui una società ha quotidianamente bisogno? Nessuno, è ovvio! Chi c’è lungo le strade della città insubordinata? Nessuno. Chi c’è nelle fabbriche? Nessuno. E negli uffici? Nessuno! «Non si può nemmeno telefonare al paese accanto. Non c’è nessuno!» Si materializza insomma una condizione che potremmo chiamare, appunto, Niente e Nessuno; una contingenza straordinaria in grado di mettere il Potere (peraltro ancora tutto da decifrare quanto a natura) con le spalle al muro. Nessuno decide di non ubbidire più al Potere e con questa sola decisione ne minaccia la continuità. Ricordate la “suggestiva” vicenda di Polifemo e Odisseo? «Amici, Nessuno mi vuol uccidere per via d’inganni e non con la forza». Chi vinse dunque il possente ciclope con la sola forza dell’intelletto? «Nessuno fu». Parola di Omero. «La rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima», disse una volta Amadeo Bordiga, il “vero fondatore” del PC d’Italia (Livorno 1921); e aggiunse: «Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire». Accostare Bordiga a De Pedrolo può suonare ideologicamente “blasfemo” ed “esteticamente” dissonante, ed è esattamente per questo che al mio bizzarro orecchio la cosa suona benissimo! Nessuno deve arrivare: chissà se, alla fine, Nessuno arriverà…

Il treno non si muove, la stazione è praticamente deserta di viaggiatori indaffarati con i riti della partenza: biglietti da pagare, valigie da spostare, richieste di informazione da formulare, qualche panino da addentare frettolosamente. Niente di tutto questo. «Tutti. Macchinista, fuochista, bigliettaio… hanno abbandonato tutti il treno». E non c’è uno straccio di macchina che supplisca alla bisogna, né locande che possano ospitare anche solo per poche ore i pochi e stanchi viaggiatori presenti nella stazione. Uno di questi si lamenta: «Capisco che il personale delle ferrovie sia solidale con tutta la popolazione. Io stesso, e immagino anche voi, stavo tornando a casa prima di aver finito il mio giro per collaborare, per essere uno di più… Ma questi stronzi potevano almeno arrivare in città per non creare problemi a nessuno». Ma il disservizio è implicito nel concetto stesso di sciopero, direbbe a questo punto un sociologo. «Forse vivono qui», azzarda un «omone». Non si sa. Improvvisamente il silenzio è rotto da «violenti colpi, accompagnati da un brusio di voci concitate». Alcune persone cercano di forzare la porta del bar della stazione: «Le otto mani stringono forte la sbarra e il rappresentante comincia a contare: “Uno… due… e tre!”». Quantomeno si può bere e mangiare qualcosa alla faccia dell’ordine costituito. Non si vive di sola disobbedienza civile!

Il professor Jurt Nadia invece non approva l’azione; secondo lui quell’«atto di vandalismo» ai danni del bar non si armonizza con lo spirito della pacifica e civile insubordinazione ai danni del Giudice Domina. «Una delle donne fa: “Se le Ferrovie ci hanno abbandonati in questo posto sperduto è naturale che cerchiamo di difenderci”. L’uomo maturo la appoggia: “Ha ragione. Qui ci deve essere da mangiare e da bere. Perché dovremmo digiunare?”». Già, perché? «Ma possibile che nessuno si renda conto che, comportandoci così, ci mettiamo allo stesso livello della mentalità che stiamo combattendo?». «”Si spieghi meglio!”, esclama un’altra delle donne». A questo punto subentra nella discussione Job, l’amico di Jurt (i due si sono incontrati nella sala d’attesa della stazione casualmente): «Sappiamo tutti che, in molti quartieri, la polizia e i soldati sono intervenuti per sfondare le porte dei negozi che avevano chiuso e fare irruzione nelle case… Anche se la finalità è diversa, i procedimenti sono gli stessi. È questo che voleva dire il mio amico». Ciò che per Job e Jurt conta è salvaguardare il carattere pacifico della «resistenza passiva», ed estendere questo carattere a tutte le azioni che in qualche modo hanno a che fare con quella forma di lotta.

«Dobbiamo evitare a ogni costo che questa resistenza passiva venga stravolta da momenti di impazienza, malumori o difficoltà momentanee. Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta. Sì, avete ragione. È un episodio minimo che coinvolge appena una decina di persone in un posto fuori dal mondo. E che, lo ammetto, non ha nessuna importanza. Ma non ci siamo soltanto noi. Qui, là, ovunque, ci sono gruppetti, alcuni addirittura più piccoli del nostro, che si trovano di fronte a tentazioni molto simili. Ora, se ciascuno di quei gruppi si convince che ciò che fa non conta, perché è un atto isolato, irrilevante nell’insieme delle cose, alla fine potremmo scoprire che la società intera si è allontanata da una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa…». L’”intellettuale” della situazione alla fine riesce a convincere gli affamati e arrabbiati viaggiatori: «”Tutti abbiamo capito. Non siamo così ignoranti”…. Quello con la sciarpa rossa, accigliato come se stesse facendo un grosso sforzo di concentrazione, interviene: “Adesso quello che manca è che in ciascun gruppo ci sia una persona come voi per mettere le cose in carreggiata…”». La funzione sociale dell’intellettuale dissidente trova qui una puntuale conferma, per la grande soddisfazione di Job: «Per fortuna qui quella persona l’abbiamo». Si decide di comune accordo di richiudere la porta del bar appena sfondata: «”Forse io vi posso aiutare. Sono fabbro”. Scoppiano tutti a ridere di cuore».

A proposito di cuore, non c’è dubbio che abbiamo appena toccato, almeno credo, il cuore politico ed etico che pulsa nelle pagine di Atto di violenza. Alludo alla scottante questione circa la relazione che stringe, o dovrebbe farlo, i mezzi ai fini. Anche il problema della responsabilità individuale nel contesto di un’azione collettiva è senza dubbio evocato, eccome.

«Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi», soleva dire giustamente Friedrich Nietzsche. E non c’è dubbio che tra lo scopo che si persegue e i mezzi idonei a praticarlo deve insistere una qualche “relazione dialettica”; si tratta di precisare, magari attraverso una serie di approssimazioni, i termini teorici e politici di questa relazione. Ad esempio, in che senso e fino a che punto i mezzi devono – e possono – essere adeguati allo scopo che si vuole conseguire? Di più, e più radicalmente: è possibile una tale corrispondenza? De Pedrolo immagina un’insubordinazione generale nei termini di «un’azione solidale e passiva a braccia incrociate»; argomenta il professor Jurt: «Adottare i procedimenti propri del nemico ci equipara moralmente al nemico stesso e, di conseguenza, indebolisce le nostre posizioni. Avere ragione, essere i migliori, non è una questione di forza bruta. […] Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta». La non-violenza è «una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa». È un punto di vista che ovviamente rispetto ma che mi sembra passibile di un approfondimento critico. La stessa conclusione della storia narrata da De Pedrolo credo che spinga in quel senso. Commenta  Prunetti nella sua Postfazione: «Il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla. Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza. Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere». Sembra insomma che la ribellione non possa fare a meno di misurarsi con il problema della violenza.

Scriveva György Lukács nel 1919: «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa» (Tattica ed etica) Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, credo che questa considerazione valga anche per quello che possiamo chiamare “diritto rivoluzionario”: il diritto dei dominati alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione e il diritto generato dalla rivoluzione trionfante – si spera… In altri termini, la rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada, si può “gestire” al meglio, quanto di cattivo, anche moralmente ed eticamente parlando, cercherà di insinuarsi nel processo rivoluzionario. Ma su questa importantissima e assai divisiva “problematica” rinvio a due miei scritti: L’Angelo Nero sfida il Dominio e Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano. Concludo questa riflessione, già fin troppo lunga, dicendo che bisogna porre – anche – la relazione mezzi-fini su un terreno non ideologico, perché l’ideologia fa delle convinzioni, perfino di quelle che consideriamo giuste, una prigione che non permette al pensiero critico-radicale di trovare le risposte adeguate ai problemi che esso si trova a dover affrontare nella realtà, e non nel cielo degli astratti principi.

 

(1) Durante la Guerra civile spagnola, Manuel de Pedrolo combatté per la Repubblica tra gli anarcosindacalisti e fu maestro rurale in una zona mineraria. «Marxista eterodosso e deciso sostenitore dell’indipendenza di Catalunya, per Manuel Pedrolo la liberazione di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia. In questa prospettiva Pedrolo si esprime chiaramente in un’intervista televisiva realizzata nel 1983: “Ciò che sembra intollerabile è che partiti che in principio sostengono la libertà, la libertà per tutti, nel senso di liberare i lavoratori dal loro giogo, liberare le donne dal loro giogo (che esiste), liberare le razze e liberare anche i popoli, quando si tratta di liberare una porzione di questo concetto geografico chiamato Spagna che non si accorda con la cultura spagnola perché ne ha un’altra, che ha un’altra lingua e che perciò non ha motivo di adottare quella spagnola, allora questi stessi partiti girano la schiena e dimenticano tutto ciò che significa libertà”. Un vero e proprio invito alla riflessione, rivolto a quella parte della sinistra che ancora si mostra scettica sulla repubblica catalana e sull’indipendenza dei Països Catalans, oggi più che mai all’ordine del giorno» (Catalunyasenzarticolo). Sulla questione catalana ho scritto diversi post, ai quali rimando chi fosse interessato alla mia opinione in materia.
(2) « Dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna è sottoposta dalla comunità internazionale a misure di ritorsione politiche ed economiche a causa del suo regime autoritario. Il suo isolamento viene spezzato dagli Stati Uniti che, nel 1953, stipulano con il paese un accordo bilaterale per l’installazione di basi militari. Nella seconda metà degli anni cinquanta la Spagna viene ammessa nell’organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel 1962 avanza una richiesta di ingresso nella Comunità Economica Europea. Il timore di una contrazione delle esportazioni agricole della Spagna verso i Paesi della Comunità, a seguito della politica agricola protezionista dei sei, ha un peso importante nell’indurre il paese a questo passo. La Comunità, considerando l’adesione ai principi democratici come prerequisito indispensabile per l’ammissione di nuovi membri respinge la richiesta, ma stipula più tardi (1970) con il paese un accordo preferenziale di tipo economico. Dopo la costituzione della Junta democratica (1975), il dialogo con la Comunità viene ripreso. Nel 1986 la Spagna diventa, assieme al Portogallo, membro della Comunità Europea» (PuntoEuropa).

LA PERFETTA CONTINUITÀ DELLO STATO. OVVERO: LO STATO ETERNO

La macchina statale va avanti sempre,
automaticamente, e nessun braccio può
d’un tratto fermarla (Benito Mussolini).

Quella che segue non è una recensione, ma piuttosto una riflessione sul fascismo e dintorni che prende spunto dalla lettura del libro di Guido Melis La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (Il Mulino, 2018).

La lettura del lungo (616 pagine) e assai documentato saggio sul fascismo dello storico Guido Melis è a mio avviso da consigliare soprattutto a chi intenda farsi un’idea di ciò che realmente fu il regime fascista al di là della retorica sia fascista che antifascista, oltre la mitologia costruita sul suo conto dai fascisti (già in epoca fascista) come dagli antifascisti. Ma la lettura del libro si segnala di un certo interesse anche perché potrebbe aiutare a collocare la contingenza politica in un contesto storico di più vasto respiro, in grado cioè di gettare luce su alcuni aspetti dell’attuale vicenda politico-sociale che non appaiono del tutto chiari, oppure che si ritengono essere del tutto originali e per molti versi addirittura “rivoluzionari”. La comparazione di eventi passati e presenti, se riesce a mettersi al riparo da tentazioni ideologiche tese a piegare i primi in direzione di una tesi prestabilita che soddisfi la nostra lettura del presente, può essere un’operazione politica di una certa importanza.

A proposito di eventi “rivoluzionari”, c’è da dire che lo stesso fascismo presentò se stesso come un movimento politico “rivoluzionario”, mentre esso fu lungi dall’essere tale anche sul ristretto terreno della prassi politica borghese. L’affettazione di pose antiborghesi da parte del fascismo dello origini, poi riprese ed esasperate nel suo periodo agonico, riuscirono ad ingannare solo gli elementi della piccola-borghesia rovinata dalla guerra e fremente di una qualche rivincita sociale. La stessa “mitica” Marcia su Roma non andò oltre la farsa intesa a pompare e a drammatizzare un evento, la nascita del Governo Mussolini, che non ebbe appunto nulla di “rivoluzionario”, sotto ogni rispetto, a cominciare dal comodo (“borghese”!) viaggio del Duce in vagone-letto. Molto rumore per nulla, si potrebbe dire.

E qui entriamo in qualche modo nel merito della tesi di fondo esposta da Melis nel suo interessante libro, tesi, occorre dirlo, che si impone “spontaneamente” alla coscienza del lettore attraverso l’attenta analisi compiuta dall’autore dell’edificio politico, amministrativo, giuridico e sociale costruito dal fascismo tra l’ottobre del ‘22 e il luglio del ’43. Particolarmente interessanti appaiono i documenti conservati negli archivi che danno conto della relazione che il regime fascista ebbe con le diverse articolazioni, centrali e periferiche, dello Stato, e con la frammentata società civile italiana. Ma prima di esporre il filo rosso, o nero, che percorre il libro in questione, mi permetto una sorta di breve introduzione.

Come concordano tutti gli storici che lo hanno studiato a fondo, la genesi del fascismo sarebbe inspiegabile senza chiamare in causa i processi sociali innescati dalla Grande Guerra, la quale per molti aspetti ebbe per l’Italia il significato di una rivoluzione capitalistica, in quanto le permise di accelerare quel processo di modernizzazione “strutturale” e “sovrastrutturale” che l’avrebbe fatta avanzare di molti passi sul terreno della società di massa basata sulla produzione industriale, sui nuovi mezzi di trasporto (automobili e aerei, in primis) e di comunicazione (stampa, radio e cinema). Un’esigenza che era stata annunciata già prima della guerra dall’arte e dalla cultura d’avanguardia orientate in senso futurista-nazionalista. La guerra, accelerando processi economici e sociali già in atto ma frenati da una forte inerzia di interessi di diverso genere e provenienza sociale, consentì al Paese di colmare, almeno in parte, il gap sistemico che la divideva dalle potenze capitalistiche di più vecchia formazione, ma innescò anche movimenti sociali e politici che scuotevano la vecchia architettura politico-istituzionale.

Per evitare qualche antipatico (soprattutto per chi scrive!) equivoco, è forse il caso di chiarire che la rivoluzione capitalistica di cui parlo non ha nulla a che vedere con la tesi gramsciana della rivoluzione borghese incompiuta (o mancata, tradita, ecc.), tesi che peraltro echeggia e per molti aspetti incrocia quella sposata da molti interventisti di “sinistra”: la Prima guerra imperialistica mondiale come Secondo Risorgimento Italiano, come compimento della rivoluzione nazionale-borghese. Com’è noto, Giovanni Gentile definì il fascismo come «l’erede più legittimo» del lungo Risorgimento italiano. Niente di tutto questo: qui il concetto di rivoluzione capitalistica è interamente ripreso dall’analisi marxiana della società capitalistica concepita nel suo contraddittorio e tumultuoso (“rivoluzionario”, appunto) evolversi. La natura compiutamente capitalistica della società italiana, sebbene segnata da profonde contraddizioni sistemiche (alcune delle quali ancora operanti: pensiamo solo al gap Nord-Sud), può ben farsi risalire agli anni Settanta del XIX secolo.

Spiegare il successo del fascismo come il frutto avvelenato della debolezza dello Stato democratico-liberale, secondo una lettura abbastanza diffusa nella storiografia di matrice liberale, è quanto di più sbagliato si possa fare alla luce dei fatti e dei documenti. È vero invece che lo Stato democratico-liberale affrontò con successo i momenti più difficili della crisi economico-sociale che caratterizzò il passaggio dalla situazione di guerra a quella postbellica, e questo successo è visibile soprattutto sul terreno della lotta di classe. Quello Stato, infatti, riuscì a fronteggiare assai efficacemente, anche in grazia di un forte potenziamento degli apparati di repressione (con l’inserimento di molte migliaia di uomini nei ranghi dei carabinieri, della Guardia di Finanza, dei servizi investigativi e della Guardia Regia di recente formazione), la radicalizzazione del conflitto sociale e a spezzare la resistenza operaia concentrata soprattutto nelle Camere del lavoro e nei Circoli operai delle grandi città industriali del Nord’Italia. Le squadre paramilitari armate dal fascismo conquistarono terreno non contro lo Stato democratico-liberale, ma grazie alla sua attiva complicità. La sinergia tra apparato repressivo legale e organizzazioni repressive “illegali” fu praticamente perfetta, anche se trovò un’accanita resistenza da parte delle avanguardie proletarie che non volevano chinare il capo senza lottare. Come notò L’Ordine Nuovo del 26 marzo 1921, la «legalità borghese» fu, per così dire, molto parziale e discrezionale: «tutti i bianchi che nella loro azione antirivoluzionaria trovino comodo oltrepassare i limiti delle leggi» venivano perlopiù assolti «ad occhi chiusi», mentre il pugno di ferro del Diritto si abbatteva immancabilmente, con fin troppa durezza e facilità, sui «sovversivi», contro i quali lo Stato democratico-liberale inventava «pretesti inammissibili». Ma il giornale comunista coglieva un aspetto fondamentale della situazione che gli oppositori democratici e socialisteggianti del fascismo, con la loro richiesta di ripristinare il precedente status democratico-liberale, erano lontano da considerare: «I comunisti sanno che nei limiti convenzionali della legalità borghese non si ritornerà più. […] Essi non si pongono come obiettivo di riaprire il periodo dei rapporti normali, politici e giuridici – che sarebbe, ove non fosse assurdo, il periodo del ristabilimento pacifico dei poteri e dei privilegi capitalistici». La prassi sociale del periodo bellico e postbellico aveva prodotto nuovo diritto, formale e informale, dottrinario e politico, e di ciò si trattava di prendere in qualche modo atto, senza nutrire sogni piccoloborghesi di un ritorno a una precedente epoca del dominio capitalistico. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando nel 1924: «La verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più che l’apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una specie di direttorio, composto dai delegati dei gruppi» [parlamentari].

Spesso ci si dimentica che la violenta, per non dire feroce, repressione del movimento operaio (con tanto di fucilate, cannonate, attacco della cavalleria militare, atti di vero e proprio terrorismo) è una pratica che precede di molto l’avvento al potere del fascismo, il quale non ha affatto l’esclusiva quanto a uso di mezzi violenti per regolare i conti con la combattività proletaria. Ci si dimentica anche che nel Primo dopoguerra la violenza antiproletaria, “legale” e “illegale”, fu un fenomeno comune a tutti i grandi Paesi occidentali: dalla Germania alla Francia, dall’Inghilterra agli Stati Uniti. Ovunque assistiamo alla “dialettica” di bastone e carota, di carota e bastone, il quale è usato dalle classi dominanti con pieno Diritto (il Diritto borghese, si capisce) e a prescindere dalla forma politico-istituzionale che in un dato momento dà espressione al loro potere sociale.

Per Benedetto Croce non ha alcun senso contrapporre la forza al consenso, «perché, in verità, forza e consenso sono in politica termini correlati, e dov’è l’uno, non può mai mancare l’altro. Consenso (si obietterà) “forzato”; ma ogni consenso è forzato, più o meno forzato ma sempre forzato, cioè tale che sorge sulla “forza” di certi fatti, e perciò “condizionato”. […] Non c’è formazione politica che si sottragga a questa vicenda: nel più liberale degli Stati come nella più oppressiva delle tirannidi» (1). Occorre a mio avviso declinare in termini squisitamente sociali la natura di questa forza e di questo condizionamento. Ad esempio, il cuore dell’ideologia dominante è rappresentato dai rapporti sociali dominanti in una data situazione storica: ancor prima che “sovrastrutturale”, l’ideologia si configura dunque come un problema essenzialmente “strutturale”. Per Marx l’ideologia dominante è borghese in primo luogo perché essa prende corpo spontaneamente a partire dai rapporti sociali peculiari della moderna epoca borghese, e non perché esce fuori in guisa di libri, giornali e forme artistiche di varia natura dai cervelli dell’intellighentia borghese. La divisione sociale del lavoro, ad esempio, produce da sola più ideologia di tutti gli intellettuali del pianeta messi insieme, e la stessa cosa si può dire a proposito del rapporto capitale-lavoro, della forma-merce, della forma-denaro e così via. I concetti di alienazione, reificazione, massificazione si limitano a esprimere la materialità della condizione disumana nell’epoca del dominio totalitario del Capitale, il quale, per così dire, trasuda ideologia da tutti i pori. In questo peculiare senso l’ideologia dominante in una data epoca storica è l’ideologia delle classi dominanti.

Alla fine di un processo sociale e politico molto complesso e dagli esiti tutt’altro che scontati, il fascismo dimostrò di essere il solo soggetto politico in grado, in quel peculiare momento storico, di unificare tutte le fazioni della classe dominante e di mettere al servizio della conservazione sociale (non della conservazione del contingente quadro politico-istituzionale) le energie attinte in diversi ambiti della cosiddetta società civile: nella piccola e media borghesia (perdente e vincente, in quella parte di essa frustrata nelle sue ambizioni di promozione sociale e in quella parte allettata ed eccitata dalle nuove opportunità di promozione sociale offerte dal nuovo scenario politico e sociale), fra i cosiddetti sbandati di guerra che non riuscivano a integrarsi nel nuovo contesto postbellico, fra i disillusi della rivoluzione socialista che il Partito Socialista Italiano mostrava di non volere, e così via. La stessa vaghezza politica e ideologica esibita dal fascismo («Siamo degli antipregiudizialisti, degli antidogmatici, dei dinamici», aveva detto Mussolini nel marzo del ’19; oggi forse avrebbe detto: «Non siamo né di destra né di sinistra, categorie che appartengono al Novecento»); la sua vaghezza politica e ideologica (2), dicevo, consentì al fascismo di attirare a sé le simpatie sia di strati sociali diversi, aventi diversi e non di rado opposti interessi materiali da difendere, sia di individui che in precedenza non avevano avuto niente in comune sotto il profilo politico, ideologico, culturale. La “rivoluzione fascista” sembrava sorridere tanto al perdente che voleva vendicarsi ai danni di chi lo aveva tradito (perfino la vittoria del 1918 si rivelava una “vittoria mutilata”!), quanto al vincente che voleva mettere la Nazione al passo con i tempi. L’eclettismo politico e ideologico del fascismo si prestava dunque bene a far da cerniera e da collante, e questa funzione gli conferiva quell’aspetto di autonomia nei confronti delle classi dominanti che, di nuovo, ingannava solo la piccola borghesia e gli stessi militanti fascisti.

La violenza fascista completò insomma l’opera di distruzione delle posizioni conquistate dalla classe operaia italiana iniziata dallo Stato liberale attraverso una sapiente alternanza di politiche riformiste (contenere e stemperare) e repressive (attaccare e distruggere). Quando il manganello fascista sostituì la scheda elettorale, il proletariato italiano si trovava in una condizione di grande debolezza politica, morale e psicologica dovuta soprattutto alla politica praticata da tutte le componenti del Partito Socialista Italiano, il quale non solo non spinse l’avanguardia operaia su un terreno «di scontro di classe adeguato alla situazione, ma fece di tutto per scongiurare una sua radicalizzazione, nascondendo la sua paura dietro il solito mantra della “situazione immatura”: «Restate nelle vostre case, non rispondete alle provocazioni; anche il silenzio, anche la viltà sono talvolta eroici!». Questo scriveva il socialista Giacomo Matteotti nello stesso momento in cui la violenza “legale” e “illegale” si abbatteva su singoli militanti rivoluzionari e sulle organizzazioni del movimento operaio, nelle città e nelle campagne. Mentre le forze congiunte della reazione capitalistica distruggevano ogni strumento di iniziativa politica del proletariato, ogni suo spazio di manovra e di “agibilità politica”, i socialisti ammonivano i proletari a «non accettare le provocazioni del nemico»!

Solo i comunisti, costituitisi in partito nel piena dell’offensiva controrivoluzionaria (Livorno, 21 gennaio 1921), accettarono il terreno di scontro imposto dalle squadracce nere, perché spesso solo con le armi i lavoratori possono fermare il tallone di ferro che vuole schiacciarne lo spirito combattivo e difendere, semplicemente difendere, quel poco o tanto che essi sono riusciti a conquistare attraverso dure lotte; difendere soprattutto il bene più prezioso che le classi subalterne possono vantare: l’autonomia di classe, la coscienza di classe, ossia ciò che non le fa precipitare al rango di «gregge di pecore» (Mussolini). «Non sono affatto ostile alla massa. Soltanto nego che possa governarsi da sola» (3). Qui Mussolini aveva perfettamente ragione: fin tanto che la massa rimane allo stato di massa, di aggregato atomistico privo di coscienza di classe, di autonoma capacità d’iniziativa, essa è appunto assimilabile a un «gregge di pecore», e ciò è vero sotto tutti i regimi capitalistici. «La gente oggi non vuole governare: vuole essere governata, e starsene tranquilla» (Mussolini). Quantomeno si deve riconoscere che il fascismo non spacciava merce ideologica avariata del tipo: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Sto forse dicendo che al regime democratico, dotato di numerosi e sofisticati meccanismi idonei a imbrigliare, deviare e depotenziare le tensioni sociali, preferisco un regime apertamente autoritario, che non fa nulla per nascondere il pugno che minaccia i potenziali ribelli? Nemmeno per idea! Dopo tutto, non sono poi così ingenuo e poco dialettico come forse sembra. Come diceva quello, «Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo» (4).

Quando si riconosce l’impossibilità di controllare i processi sociali e di spiegare razionalmente molti e importanti fenomeni sociali, lo spirito di resistenza alle pressioni esterne capitola, e all’improvviso appare meno impegnativo e meno pericoloso abbandonarsi al potente flusso della corrente che tutto travolge. Dopo qualche resistenza, ci si sottomette con piacere e leggerezza a un Capo, a un Partito, allo Stato, a una tifoseria (politica o sportiva) sbarazzandosi di una – più o meno reale – libertà diventa un fardello troppo pesante da portare; ma al contempo si acquista il sadico piacere di schiacciare o di veder rovinati gli individui che stanno più in basso nella gerarchia sociale, o che sono stati “meno fortunati” nella vita, oppure quelli che i Capi hanno individuato e additato come i nemici del “bene comune”. Si sviluppa, insomma, quel carattere sado-masochista così diffuso nella società di massa fino ai nostri giorni; mi correggo: soprattutto ai nostri giorni.

Ma veniamo al libro di Giorgio Melis. Attraverso l’esame di una vasta documentazione, l’autore mostra la forte, profonda e ramificata continuità che venne a realizzarsi tra il vecchio Stato liberale e il nuovo (“rivoluzionario”) Stato fascista. Il maggior tasso di discontinuità con il passato liberale si registrò nella sfera economica, che vide il sorgere di quel capitalismo fortemente assistito e partecipato dallo Stato che sarà in larga parte ereditato dal regime post-fascista, il quale a sua volta si pose, per non pochi ed essenziali aspetti, in sostanziale continuità con il regime precedente (5). Quella discontinuità peraltro fu in larga misura imposta al fascismo dalla crisi mondiale che agli inizi degli anni Trenta devastò il capitalismo internazionale, e difatti forme di statalismo vennero introdotte in tutti i Paesi occidentali nel tentativo di salvare un rapporto sociale che mostrava tutta la sua carica disumana: negli Stati Uniti, ad esempio, si distruggevano interi raccolti (di qualsiasi genere) e si uccidevano capi di bestiame allo scopo di non fare crollare i prezzi delle materie prime alimentari sul mercato interno e internazionale, e questo mentre la gente moriva letteralmente di fame.

Nel 1932 lo storico tedesco Emil Ludwig intervistò Mussolini; ne venne fuori un libro abbastanza interessante e certamente famoso, Colloqui con Mussolini. «Lei costruisce, migliora, edifica come i Russi. Lei costringe le banche ad appoggiare le fabbriche, e le fabbriche a tenere gli operai. Non so se questo sia socialismo di Stato…». Mussolini: «Qui noi dobbiamo intendere bene. Lo Stato fascista dirige e controlla [molte attività industriali]. Lo Stato ha il compito dei trasporti, perché gli appartengono le ferrovie. Allo stato appartengono molti stabilimenti. Tuttavia non si tratta di socialismo di Stato, perché noi non desideriamo alcun monopolio, in cui lo Stato faccia tutto. Noi chiamiamo questa politica economica intervento dello Stato» (6). In ogni caso, quando lo Stato esercita in forma monopolistica la direzione dell’economia nazionale non siamo in presenza di un «socialismo di Stato», come pensava il tedesco Ferdinand Lassalle, anche per questo deriso e mazziato da Marx, e come pensano oggi i superstiti dello stalinismo italiano (oggi molto attivi nel fronte populista-sovranista, in concorrenza con i “fascisti del XXI secolo”), bensì di un compiuto capitalismo di Stato, esattamente quello che negli anni Trenta cercavano di edificare «i Russi» sotto la sferza dello stalinismo. Ancora Mussolini: «Se qualche cosa non funziona, interviene lo Stato». «E il capitale obbedirà sempre?» La virile risposta: «Il capitale obbedirà fino all’estremo. Non ha alcun mezzo per opporsi: il capitale non è una divinità, è uno strumento».  In realtà fu il fascismo a porsi al servizio del capitale, prima sul terreno del conflitto sociale, spezzando le reni all’avanguardia rivoluzionaria, e poi sul terreno della politica economica, supportandolo in tutti i modi affinché la baracca capitalistica non crollasse. In effetti «il capitale non è una divinità»: è un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che, per così dire, usò il fascismo come strumento di conservazione, come poi userà il regime post-fascista «nato dalla Resistenza» – in realtà dalle bombe sganciate dagli aerei dei futuri alleati (7).

È vero che il fascismo si espanse in ogni fibra del tessuto sociale, in qualche misura fascistizzandolo, ma è anche – e forse ancor più – vero che il regime fascista subì profondamente l’influenza della società civile, in termini soprattutto di interessi “materiali” da difendere ed espandere, magari ai danni dei concorrenti. In altri termini, il fascismo fu costretto a piegarsi ad istanze sociali che credeva di poter piegare e controllare attraverso una politica prettamente autoritaria, seguendo una linea politica “fascistissima” in ogni settore dell’attività amministrativa. La concezione totalitaria della politica doveva fare i conti con il brulicare di interessi sociali che non si lasciavano amalgamare tanto facilmente e pacificamente in un unico e indistinto “bene comune nazionale”; il totalitarismo sbandierato in mille modi e incarnato nella figura del Duce forniva solo la facciata ideologica a un edificio politico-istituzionale costruito attraverso una realistica ed estenuante prassi governativa fatta di compromessi e di continui “aggiustamenti”. Il fascismo ereditò tutte le magagne dello Stato liberale: compromessi, trasformismo, equilibrismo, rinvio sine die delle soluzioni da dare a problemi scottanti, e via di seguito. Ma esso ereditò anche una struttura burocratica di prim’ordine (basti pensare ai prefetti) alla quale il Duce non mancherà più volte di tessere pubblici elogi. Solo i quadri burocratici delle ferrovie e delle poste, settori pubblici che nei primi anni del dopoguerra avevano visto il consolidarsi di posizioni rivoluzionarie, vennero senz’altro liquidati e sostituiti con materiale umano più in armonia con il regime. Tanto più che ormai i treni arrivavano in orario! In ogni caso, Mussolini non si faceva illusioni, almeno agli inizi degli anni Trenta, prima dell’ubriacatura “imperiale”, sulle conquiste ottenute dal fascismo: «Abbiamo attuato in Italia quel che è realizzabile nella fase attuale. […] Ogni rivoluzionario diventa in un determinato momento conservatore» (8).

Un tasso particolarmente alto di continuità con la tradizione liberale (da Francesco Crispi, ma anche prima, a Giovanni Giolitti) si registrò nei ranghi del Regio Esercito, tutt’altro che frastornato o intimidito dalla Milizia fascista, la quale molto abbaiava, soprattutto in occasione dei suoi virili riti celebrativi in onore della Patria Fascista, ma pochissimo mordeva – se non i polpacci dei nemici del regime, si capisce. Tra «Fascio e stellette» furono queste ultime ad avere la meglio. Nelle parole del «fascista critico» Giuseppe Bottai, citate da Melis, si coglie il disappunto dei fascisti duri e puri per la situazione che si era creata: «Guardo questo irresponsabile (un ufficialetto sedentario al ministero della Guerra) fatto responsabile da questo meccanismo d’irresponsabilità in cui ci siamo cacciati». Era il 17 novembre 1940, in pieno marasma greco, quando Mussolini si vide costretto a subire l’intervento delle armate tedesche per evitare un completo disastro. «Spezzeremo le reni alla Grecia!». Come no!

Soppressa la vecchia “dialettica parlamentare” incardinata sui tradizionali partiti di massa, rimaneva la necessità di offrire una sponda politica agli interessi che si sviluppavano nel corpo sociale, e questa incombenza costringeva il regime ad allontanarsi dai rigidi schemi politici che scaturivano da un’interpretazione ortodossa dell’ideologia totalitaria. Suo malgrado, il fascismo doveva essere tutt’altro che monolitico. La stessa accettazione della Monarchia, che diede vita a una «diarchia» forse fin troppo sottovalutata dagli storici, e gli accordi stipulati con il Vaticano testimoniano l’esistenza di una sorta di “pluralismo” politico, istituzionale e ideologico; un “pluralismo” di fatto, e in qualche misura anche di diritto, che certamente si esercitava nei limiti tracciati dal regime. Non bisogna dimenticare che i Patti Lateranensi del 1929 rafforzarono non poco la posizione della Chiesa nella società italiana, minando di fatto quel monopolio ideologico sulle coscienze e sulle anime cui aspirava il fascismo ideologico, impegnato a costruire l’Uomo Fascista.

Com’è noto, sulla base di questa complessa realtà Hanna Arendt sostenne che il fascismo, almeno fino al 1938, «non fu un vero regime totalitario, bensì una comune dittatura nazionalistica, nata dalle difficoltà di una democrazia multipartitica» (9). Nazismo tedesco e «comunismo russo» (leggi stalinismo) ebbero invece, per la  Arendt, la natura di autentici regimi totalitari.

Il Partito fascista si impadronì dello Stato, o non fu piuttosto quest’ultimo a impadronirsi del primo per continuare a svolgere le proprie funzioni nelle mutate condizioni storiche? La risposta che La Macchina imperfetta dà ci costringe a chiederci, insieme al suo autore, se non sia più corretto parlare di «Stato nel fascismo», piuttosto che di «Stato fascista». Più che di un «fascismo eterno», per riprendere la nota tesi di Umberto Eco, dovremmo forse parlare di uno “Stato eterno”. La natura sociale (capitalistica) di questo Stato è qui data per scontata. Il fascismo insomma non riuscì a fascistizzare completamente lo Stato, lo Stato profondo, per usare un concetto oggi assai usato nell’analisi politica e geopolitica, ma piuttosto ne subì l’influenza.

Forse niente rende meglio il concetto di continuità dello Stato attraverso l’avvicendarsi dei regimi politico-istituzionali, dell’annotazione che si può leggere sul frontespizio di un fascicolo trovato, scrive Melis, fra le carte della Presidenza del Consiglio conservate in una busta intestata «Consiglio dei ministri» (recante la data 31 luglio 1943): «Non ha avuto luogo per mutamento del Ministero». Evidentemente la burocratica annotazione, vergata frettolosamente e senza alcuna particolare cura “estetica”, come ci informa Melis, si riferisce agli eventi che portarono alla drammatica quanto miserevole caduta del regime fascista, derubricata da un anonimo servitore dello Stato a mero avvicendamento governativo. Insomma, i regimi politici passano, lo Stato resta. «La macchina statale va avanti sempre, automaticamente, e nessun braccio può d’un tratto fermarla» (10); si tratta, infatti, non di arrestarla, ma, marxianamente (11), di annientarla senz’altro in quanto macchina al servizio della classe dominante al di là dei regimi che si susseguono nel tempo.

Scrive Melis: «Il decisore supremo decideva, certo. Ma decideva sulla base di un’articolazione di poteri più vasta di quanto talvolta non si sia ritenuto e ponderando interessi di gruppo, spinte politiche, soluzioni tecniche, opportunità del momento». Il passaggio dal concetto alla prassi, dall’idea alla sua applicazione nella gestione quotidiana del potere, dall’immagine alla realtà, per riprendere il sottotitolo del libro di Melis, si compì insomma lungo vie tutt’altro che lineari e coerenti con le indicazioni di marcia fissate a tavolino. In questo senso il regime fascista può essere definito, secondo lo storico sardo, nei termini di una macchina imperfetta, e questa imperfezione si mostrerà in tutta la sua reale dimensione nei momenti critici che porteranno alla catastrofica caduta del Regime, che solo qualche anno prima appariva solidissimo.  «Un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali confusamente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al compromesso tra vecchio e nuovo». Alla fine del Secondo macello mondiale, il tentativo di conciliare «vecchio e nuovo» passerà nelle mani della Repubblica postfascista.

Vecchio e nuovo ebbero dunque modo di convivere abbastanza pacificamente e proficuamente, dando corpo a quello che potremmo definire “fascismo reale”. Occorre anche dire, per concludere davvero, che il concetto di regime autoritario (o dittatoriale) imperfetto non è nuovo, ma risale a Emilio Gentile, che parlò di «totalitarismo monco», a Renzo De Felice (12) e a Giovanni Sabbatucci, che parlò di «totalitarismo imperfetto». Nel suo libro di grande successo (e di poca cura quanto a date e citazioni) M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018), Antonio Scurati sostiene la necessità di una rifondazione dell’antifascismo: «L’antifascismo non regge più ai tempi nuovi […], va ripensato su nuove basi». Ecco, anche con questa modesta e abborracciata riflessione ho cercato di dare il mio contributo alla rifondazione dell’antifascismo, che io concepisco in termini radicalmente anticapitalistici.

(1) B. Croce, Elementi di politica, 1924, pp. 19-20, RCS Quotidiani, 2011.
(2) «Per il fascismo le teorie sono ideologie piacevoli che bisogna improvvisare e subordinare alle occasioni. Le avventure riescono più seducenti che le idee, e queste perdendo la loro dignità e autonomia sono ridotte a funzioni servili» (P. Gobetti, La rivoluzione Liberale, 1924, p. 209, RCS Quotidiani, 2011).
(3) B. Mussolini, E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, 1932, p. 129Arnaldo Editori, 1965.
(4) K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, in Opere Marx-Engels, VI, p. 482, Editori Riuniti, p. 1973.
(5) «Per fare un esempio, il fascismo in Italia non è stata una parentesi, ha avuto complesse radici economiche e sociali, e ha lasciato un segno indelebile, ci ha lasciato comunque un’eredità che pesa ancora. Oggi ci stupiamo che negli anni ’20 e ’30 in Italia “tutti” fossero fascisti; come ci stupiamo che in Germania “nessuno” vedesse i delitti di Hitler e del nazismo. Sperando di non venire frainteso, direi che il fascismo ha cambiato l’Italia nel male e nel bene. Non è necessario che mi dilunghi sul male. Ma il fascismo anticipò quell’intervento dello Sato nell’economia che sarebbe poi diventato una caratteristica generale dello Sato moderno: per fare solo un esempio, l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) fu istituito nel 1933 per salvare le prime 3 banche italiane, due mesi dopo Roosevelt copiò l’idea, poi giocò un ruolo fondamentale nella ricostruzione postbellica, ed è stato sciolto solo nel 2002. Il fascismo creò il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). In ogni caso, non ci siamo mai veramente “liberati” dal fascismo, basti pensare che la burocrazia italiana è rimasta quella e ha continuato (e continua) a condizionare pesantemente il nostro Paese» (A. Baracca, Pressenza). Ho il sospetto che Baracca consideri un cambiamento «nel bene» l’interventismo statalista inaugurato dal fascismo. Come diceva quello, a pensar male si fa peccato ma a volte…
(6) B. Mussolini, E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, p. 154-155.
(7) «Quel fascismo lì in Italia venne travolto dalle bombe lanciate dagli americani sul Quartiere San Lorenzo, i cui 3000 morti costituiscono l’antefatto della riunione del Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio del 1943, quando la gran parte dei capi storici del fascismo decise di votare contro il Duce e contro la continuazione della guerra. Quella sera il fascismo italiano è morto. La Repubblica di Salò, che senza l’appoggio delle armate tedesche non sarebbe durata nemmeno un’ora, è tutt’altro fenomeno e tutt’altro comparto storico-politico» (G. Mughini, Dagospia). Qui Mughini polemizza con i suoi colleghi di sinistra che parlano di «ritorno del fascismo» e proclamano l’urgenza di una nuova (ennesima!) Resistenza. Se sostengo che il regime oggi all’ordine del giorno non ha niente a che vedere con il regime fascista storicamente considerato, sto forse dicendo che il regime in fieri di cui molti parlano è meno reazionario, dal punto di vista politico e sociale, di quello fascista? Ovviamente no; sto solo affermando un’assoluta ovvietà, e cioè che si tratta di regimi politico-istituzionali diversi, collocati in contesti storico-sociali diversi. Ciò che accomuna questi due regimi, come del resto accomuna tutti i regimi, del passato, del presente e del futuro, sorti sulla base della società capitalistica, è la loro natura storico-sociale, ossia il fatto di essere questi regimi al servizio delle classi dominanti, o delle fazioni più forti e vincenti di esse. Dal mio punto di vista l’asserita diversità dal fascismo non attesta affatto un giudizio meno severo e definitivo circa i regimi di diversa connotazione politico-ideologica. La ricerca di una caratterizzazione politico-istituzionale di un regime che sia quanto più corretta possibile, non risponde a un’esigenza astrattamente dottrinale, ma serve piuttosto a calibrare meglio la critica politica nei confronti di quel regime, a coglierne gli aspetti essenziali, senza arrestarsi alla sua fenomenologia politico-ideologica, che si tratta appunto di ricondurre ai dati sociali e politici essenziali, così che la critica possa essere quanto più credibile agli occhi delle classi subalterne, le quali sono spinte dalle loro stesse condizioni sociali a dar credito alla propaganda dei politici al servizio dello status quo sociale. Il problema non è il «ritorno del fascismo» ma la continuità del regime sociale capitalistico attraverso i diversi regimi politico-istituzionali.
(8) B. Mussolini, E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, p.87.
(9) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 358, Einaudi, 2009.
(10) B. Mussolini, E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, p.75.
(11) «La classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini» (K. Marx, La guerra civile in Francia, p. 109, Newton, 1973).
(12) «La politica di Mussolini, è il risultato di una politica che – volente o nolente – tende a fare del fatto fascismo solo la sovrastruttura di un potere personale, di una dittatura, di una linea politica che per molti aspetti diventa sempre più eredità di una tradizione» (R. De Felice, Intervista sul fascismo, p. 29, Laterza, 1976).

LA SEVERA LEZIONE DI ANTIFASCISMO DEL PROFESSOR ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Dalle pagine del Corriere della Sera della scorsa domenica il Professor Ernesto Galli della Loggia ha impartito ai suoi lettori una notevole e non banale lezione di storia dell’antifascismo e di scienza della politica. È vero, sostiene il noto intellettuale, che la nostra Repubblica (capitalistica: aggiunta settaria di chi scrive) è «nata dalla Resistenza», e «che la nostra Costituzione è antifascista», ma storicamente e politicamente parlando c’è antifascismo e antifascismo. C’è stato l’antifascismo dei sinceri democratici e quello di chi non predicava né praticava la democrazia ma un sistema di valori autoritari almeno quanto lo erano quelli che facevano capo al Fascismo e al Nazismo. Il riferimento è ovviamente al mondo “comunista” (Unione Sovietica) che si alleò con il mondo democratico (Stati Uniti e Inghilterra) per sconfiggere il nazifascismo. Inutile dire che il Professorone chiama “comunismo” quello che, come sanno i miei pochissimi lettori, io chiamo stalinismo, una mostruosa creatura politico-sociale che rappresentò la più feroce negazione del comunismo e di ogni aspirazione di emancipazione umana. Ma questo fa parte del mio modestissimo bagaglio politico-dottrinario che certo non può minimamente reggere il confronto con quello dell’intellettualone di cui si parla.

Ma diamogli pure la parola: «Sta bene. Non possiamo fare a meno di ricordare che l’Italia è una Repubblica fondata sull’antifascismo, che la nostra Costituzione è antifascista. Si dà il caso però che la storia – la storia ripeto e non già le nostre opinioni personali –  dovrebbe farci chiedere: antifascista sì, ma di quale antifascismo?». Alzo la manina e come uno scolaretto che crede di essere preparato rispondo: «Professore, si trattò di un antifascismo tutto interno alla lotta interborghese e interimperialistica».  «Intercosa? Qui non si parla di calcio! Faccia piuttosto silenzio e impari qualcosa ascoltando la mia Scienza!» Va bè, sto zitto e continuo la citazione: «Come infatti sa chi ha letto qualche libro, la storia registra molti avvenimenti che non possono non porre qualche problema di contenuto quando si adopera il termine antifascismo. Erano certamente antifascisti, ad esempio, quelli che in Spagna incendiavano le chiese e passavano per le armi preti, anarchici e trotzkisti. Erano antifascisti quelli che nel 1939 pensavano che l’Unione sovietica avesse fatto benissimo ad annettersi i Paesi baltici e mezza Polonia dopo essersi messa d’accordo con Hitler, così come lo erano quelli che sul nostro confine orientale dal ’43 al ’45 gettarono qualche migliaia di italiani nelle foibe. […] Ancora: antifascisti a diciotto carati erano pure quelli che negli anni ‘50 non esitavano a definire “nazisti” gli Stati Uniti mentre non riservavano una sola parola di solidarietà, neppure una, agli antifascisti cecoslovacchi o ungheresi, solo pochi anni prima loro compagni nella Resistenza e ora mandati sulla forca con le accuse più inverosimili e infamanti dai regimi comunisti stabilitisi nei loro Paesi. E non si sono sempre proclamati antifascisti – a loro dire anzi del più “coerente” antifascismo – i terroristi delle Brigate rosse e di altre organizzazioni consimili?». La ricostruzione storica mi sembra ineccepibile.

Chi simpatizzava per gli Stati Uniti stava dalla parte giusta (democratica) della barricata, chi simpatizzava per l’Unione Sovietica stava invece dalla parte sbagliata, perché sosteneva un regime dittatoriale liberticida, peraltro neanche in grado di competere sul terreno economico con l’odiato sistema capitalistico: è il succo del discorso di della Loggia. Solo la comparsa del Male Assoluto nazifascista rese possibile un’alleanza altrimenti nemmeno immaginabile tra un Paese antidemocratico come l’Unione Sovietica di Stalin e Paesi democratici come gli Stati Uniti di Roosevelt e la Gran Bretagna di Churchill, il quale fu il primo, a guerra finita, a lanciare l’allarme sui pericoli che l’Occidente correva se non si fosse sufficientemente armata per contenere l’«imperialismo comunista» di Mosca. A Occidente il Bene, a Oriente il Male. Fortunatamente, abbastanza presto ho conosciuto compagni che stavano su una ben diversa barricata: quella dell’anticapitalismo e dell’antistalinismo. A Occidente il Capitalismo, a Oriente il Capitalismo: il mondo intero vive sotto il tallone di ferro di un solo rapporto sociale. Il «socialismo reale» dell’Unione Sovietica come reale Capitalismo (più o meno “di Stato”) a forte vocazione imperialista: questo concetto per me è stato forse l’acquisto dottrinario (che parolona!) e politico (idem!) più importante alla fine degli anni Settanta.

Per quanto riguarda il riferimento alle Brigate Rosse, in effetti, e come ho ricordato altre volte, c’è da dire che la concezione politica della galassia dei gruppi e gruppuscoli che stavano alla “sinistra” del PCI (“terroristi rossi” compresi) trovava non poco alimento “dottrinale” proprio nel mito della «Resistenza tradita» (e poi della «Costituzione tradita») elaborato dai militanti “comunisti” che alla fine della Seconda guerra mondiale avevano sperato di prendere il potere con l’aiuto dell’Armata Russa – e magari anche con l’aiuto del “compagno” Tito, a proposito di foibe. Ora, e sempre per rimanere sul piano della ricostruzione storica tanto caro al nostro professore, un conto era voler «fare come in Russia» nel 1917, ai tempi di Lenin, un conto tutt’affatto diverso era voler «fare come in Russia» nel ’45, ai tempi di Stalin, una distinzione che i post  stalinisti, e lo stesso prestigioso editorialista del Corriere della Sera, non possono apprezzare nel suo autentico significato. Per me si tratta della distinzione che passa tra la Rivoluzione e la Controrivoluzione, né più, né meno.

Oggi non pochi antifascisti militanti duri e puri vorrebbero «fare come in Venezuela», dimostrando con ciò stesso quanto sia ancora forte lo stalinismo inteso come ideologia politica. Un solo esempio, tanto per farci quattro risate. Scrive Luciano Vasapollo, sostenitore di Potere al Popolo e grande amico del «Venezuela rivoluzionario chavista» (ah, ah, ah, già rido!): «Molte forze in Potere al Popolo da anni si battono per difendere la democrazia in questo paese. Ma per democrazia intendiamo quella popolare e partecipata, non quella rappresentativa. E questo secondo me è già vivere rivoluzionario. Pensare che la rivoluzione sia solo atto violento è una follia. Chávez ha rivoluzionato tutta l’America Latina vincendo le elezioni e ancora oggi il chavismo è un modello per tutti gli ultimi della terra. Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador hanno vinto regolari elezioni e poi rivoluzionato Bolivia e Ecuador. Cuba va alle elezioni a marzo. La questione che fanno finta di non capire in molti è che da una parte il movimento dei lavoratori, le forze popolari, i comunisti e i paesi progressisti nell’Alba si danno forme di democrazia partecipativa; dall’altro lato, in questo mondo a capitalismo maturo si pensa che l’unica democrazia sia quella rappresentativa. Ma rappresentativa di chi?» Degli interessi che a diverso titolo fanno capo alle classi dominanti, o alle fazioni contingentemente più forti di esse, esattamente come accade nei Paesi che hanno la “fortuna” di sperimentare la «democrazia popolare e partecipativa».  Finisco la rivoluzionaria citazione: «È necessario quindi che non solo tutti coloro che si battono per il superamento del capitalismo e l’apertura di spazi di socialismo, ma anche ogni sincero democratico e progressista e chiunque ritenga un valore l’autodeterminazione dei popoli, mostri la propria tangibile solidarietà con il Venezuela rivoluzionario chavista. Atilio Boron ha definito la lotta del Venezuela come la Stalingrado dell’America Latina. Io credo sia la Stalingrado di tutti i popoli che ambiscono all’autodeterminazione, alla sovranità e alla giustizia sociale». Più che di Stalingrado, parlerei piuttosto di stalinismo, appunto. È proprio vero, Professor Ernesto galli della Loggia, c’è antifascismo e antifascismo! Ma non finisce qui: «Sono tornato in queste ore da un lungo viaggio a Cuba con cui ho avuto incontri con governo, partito, accademici, economisti anche di Venezuela, Bolivia e Stati Uniti. Concordiamo tutti su un punto: la finta democrazia occidentale serve solo a restringere gli spazi di democrazia». Mentre quella «popolare e partecipativa» invece… Forse nemmeno gli stalinisti italiani degli anni Cinquanta si permettevano simili comiche idiozie al ritorno dai loro viaggi “internazionalisti” nella “Patria del Socialismo”. Sul Venezuela, invece, c’è poco da ridere.

Sul regime venezuelano rimando ai miei diversi post pubblicati sul Blog; sulla crisi sociale sempre più devastante che sconvolge quel Paese e sulle condizioni sempre più difficili dei proletari venezuelani, soprattutto di quelli che sono fuori dal circuito clientelare (o “Stato Sociale”) creato dal chávismo con i proventi della rendita petrolifera, cercherò di scrivere qualcosa tra qualche giorno, giusto il tempo di ricevere le solite velenose veline anticháviste dai miei amici e finanziatori americani.

In passato molti mi hanno rimproverato il fatto di prendermela più con gli stalinisti che con i fascisti, e avevano pure ragione! Come si spiega un atteggiamento che a molti militanti della sinistra deve apparire inaccettabilmente settario? Ecco la mia difesa. In primo luogo sul piano storico è lo stalinismo che ha vinto (dopo aver cercato di allearsi con il nazismo e dopo essersi alleato con l’imperialismo angloamericano), ed è perciò con esso che milioni di proletari hanno dovuto fare i conti per decenni, anche in Italia, attraverso il PCI da Togliatti a Occhetto; in secondo luogo, e cosa più importante per un modestissimo epigono di Marx, lo stalinismo si faceva chiamare “comunismo”, sventolava bandiere rosse e diceva di fare gli interessi della classe operaia russa e mondiale, mentre il fascismo non ha mai nemmeno lontanamente toccato simili abissali profondità di menzogna. O mi sbaglio? Chiudo l’ennesima parentesi autobiografica, dedicata a chi conosce solo la storia ufficiale scritta e tramandata dagli intellettuali di regime (in gran parte di orientamento sinistrorso), e ritorno alla noiosa cronaca politica dei nostri giorni.

«Basta con questa storia del fascismo e dell’antifascismo, non se ne può più. È un dibattito di una inconcludenza totale, fondato sul nulla. Pensiamo piuttosto al fatto che i nostri ragazzi escono da scuola senza sapere bene chi era Hitler e Mussolini». Così si è espresso qualche giorno fa un altro pezzo grosso dell’italica intellighentia, Massimo Cacciari. Crisi di rigetto dopo aver ascoltato per decenni, come una litania sempre più stanca e noiosa, lo slogan «Ora e sempre Resistenza»? È probabile. Certo è che nella testa progressista di chi ha una certa età e non è abituato a lisciare sempre e comunque il pelo al Popolo della Sinistra, qualche dubbio intorno all’attualità, alla pregnanza politica e alla serietà dell’antifascismo gli sarà venuto. «”Suvvia – dice il filosofo operaista e senatore dem Mario Tronti, che sfila in corteo a dispetto dei suoi 86 anni – non esageriamo il fenomeno di qualche minoranza che si agita”. Osservazione saggia, se non fosse che fra sette giorni si vota» (Il Messaggero, 25/02/18). Sempre che l’antifascismo, militante (“dal basso”) o istituzionale (“dall’alto”) che sia, porti nuovi voti alla sinistra, di opposizione o governativa che sia, e non si risolva invece in un ennesimo regolamento di conti al suo interno. Un problema che ovviamente non mi sfiora nemmeno. «Nel corteo romano Veltroni, Zingaretti, Zanda e altri si mescolano al popolo che grida: “Antifascismo, Costituzione, questa è la nostra rivoluzione”». Che bella “rivoluzione”! Una “rivoluzione” che lascio molto volentieri al Popolo della Sinistra, la cui massima aspirazione è quella di vedere i Cari Leader dare il ben servito a Renzi, non a caso dipinto fino a qualche mese fa come l’incarnazione del neoliberismo, dei poteri forti, del «fascismo del XXI secolo» e, orribile a dirsi, del berlusconismo. Fascismo, antifascismo, berlusconismo, antiberlusconismo: l’eterno ritorno del sempre uguale! «Che palle!» direbbe un altro intellettuale di sicuro peso e di altrettanto certo spessore, Giuliano Ferrara, il quale peraltro ha denunciato la sciatta e pavida superficialità con cui i media nazionali hanno raccontato la mancata strage terroristica di Macerata: «Perché non abbiamo detto e scritto, come abbiamo fatto in analoghe circostanze, “Siamo tutti Gideon, Festus, Jennifer, Mahmadou, Wilson, Omar”?». Già, perché? Elezioni incombenti?

Essendo un intellettuale borghese liberale, Galli della Loggia quando tratta di antifascismo conosce solo una distinzione, tutta radicata sul terreno della difesa dello status quo sociale: quella tra antifascismo democratico e antifascismo antidemocratico. Non conosce né concepisce altre forme di antifascismo. E non è il solo, peraltro. Naturalmente egli appoggia con tutte le sue forze il primo e osteggia nel modo più risoluto e conseguente il secondo: «le democrazie si difendono dal fascismo non facendo la Resistenza – come pretenderebbero facendola a modo loro i teppisti di Torino, di Piacenza o di Palermo – bensì applicando la legge. Nelle democrazie il capo della Resistenza è il Ministro degli interni. Punto. Se non lo è – ma il ministro Minniti appare da ogni punto di vista perfettamente calato nel ruolo – va richiamato ai suoi doveri, non già surrogato da qualche violento capobanda dei centri sociali». Il monopolio della violenza va lasciato allo Stato anche quando si tratta di difendersi dal fascismo. Ma è appunto questo che contestano «i teppisti (copyright di Antonio Padellaro)» che praticano l’antifascismo militante, i quali sostengono che i “traditori” della Repubblica [capitalistica] nata dalla Resistenza e della Costituzione [capitalistica] più bella del mondo non solo non reprimono adeguatamente l’insorgenza fascista, ma addirittura la sostengono in qualche modo, anche attraverso il sistema dei media, il quale avrebbe scientemente “sdoganato” il neofascismo presentandolo agli occhi dell’opinione pubblica come il solo movimento politico che davvero ha a cuore le sorti degli ultimi, delle vittime della globalizzazione – o mondializzazione, per usare il lessico del sovranismo destrorso –, e del Paese. A proposito di sdoganamento: «Una signora sotto lo striscione dedicato a Giacomo Matteotti se la prende in pieno trip da retropia addirittura con il Migliore: “Fu Togliatti a sdoganare il fascismo con l’amnistia del ‘46”» (Il Messaggero). Anche questa in fondo è storia.

Si può individuare una differenza di principio, radicale in termini storici e sociali, tra antifascismo militante e antifascismo istituzionale? Io credo di no, e anzi possono entrambi venir considerati come interni a un antifascismo di regime, il regime nato appunto dalla Resistenza. Verrò dopo su questo decisivo punto.

Scrive della Loggia: «Nell’Italia della Costituzione, difendere la democrazia – dal fascismo come da ogni altra minaccia – è compito solo delle forze dell’ordine della Repubblica». E la Repubblica nata dalla Resistenza sa bene come difendersi, non ha bisogno di venir surrogata da un “antifascismo dal basso”. E qui mio malgrado mi tocca dare ragione al Professore. Vediamo subito in che senso attraverso la solita antipatica autocitazione: «Negli anni Settanta la distruzione dei movimenti sociali fu affidata soprattutto agli apparati repressivi dello Stato, con il pieno sostegno di tutti i partiti appartenenti a quello che allora si chiamava “arco costituzionale”, a cominciare dal PCI e dalla DC. […] In quegli anni il neofascismo ebbe uno scarsissimo ruolo nella repressione e nell’intimidazione dei movimenti antagonisti. Insomma, la democrazia capitalistica sa difendersi benissimo dai nemici dell’ordine costituito (e costituzionale) anche senza sguinzagliare le squadracce fasciste contro i “sovversivi”, e ciò in piena coerenza con la lettera e con lo spirito della Costituzione più bella del mondo» (Fascismo reale, fascismo immaginario…).

Fino a prova contraria non il fascismo, in una qualsiasi forma più adatta ai tempi, ha amministrato politicamente e ideologicamente questo Paese negli ultimi sette decenni, ma la democrazia capitalistica, la sola forma di democrazia possibile nel Capitalismo del XXI secolo. Marx e Lenin parlarono della «democrazia borghese» come del migliore involucro politico–ideologico-istituzionale della dittatura sistemica radicata nei rapporti sociali capitalistici. Migliore, beninteso, per le classi dominanti. Forse quei due personaggi preferivano i regimi borghesi autoritari a quelli democratici? Ovviamente no; semplicemente essi avevano capito che la forma democratica offre alle classi dominanti, almeno nei Paesi capitalisticamente avanzati dell’Occidente, più spazio di manovra nella gestione dei conflitti sociali, un più intelligente e funzionale uso della carota politico-ideologica e del bastone – bombe e picchiatori fascisti compresi, alla bisogna. Per non farsi schiacciare, per resistere alla pressione del processo sociale le classi subalterne devono contare solo sulla loro forza, sulla loro unità, sulla loro autonomia politica, ideale e psicologica nei confronti dello Stato e dei partiti di regime – di “destra” o di “sinistra” non ha alcuna importanza. Ecco perché è fondamentale cercare di fare luce sulla natura ipnotica della democrazia capitalistica, la cui sostanza sociale non è che la realtà del totalitarismo degli interessi economici.

Insomma, è sulla dittatura dei vigenti rapporti sociali che dovremmo concentrare tutta la nostra attenzione anche quando analizziamo il significato storico e sociale del fascismo e della democrazia. Non si tratta di sottovalutare i fenomeni neo-fascisti, tutt’altro! Si tratta piuttosto di collocarli nella giusta prospettiva, così da evitarci l’avvitamento in inconcludenti battaglie ideologiche che alla fine rafforzano solo lo status quo sociale.

E qui entra in scena un altro tipo di antifascismo, quello che prende di mira il fascismo non in quanto forma politica che si oppone alla democrazia (capitalistica), alla Repubblica nata dalla Resistenza e alla Costituzione che, com’è noto, tutto il mondo ci invidia (salvo che in Venezuela, dove è in atto un meraviglioso tentativo di “democrazia partecipativa” e di “socialismo dal volto umano”), ma il fascismo (o come altrimenti si voglia chiamarlo) come strumento di repressione e di intimidazione nei confronti delle avanguardie di classe (dove e quando queste ci sono), delle lotte operaie, dei proletari più radicalizzati in senso anticapitalista (speriamo!), di quanti esprimono solidarietà nei confronti degli immigrati, degli ebrei, dei “diversi” d’ogni genere, delle idee di emancipazione d’ogni tipo, incluse quelle che toccano il ruolo della donna in questa società violenta e abbastanza escrementizia. Per questo è assolutamente sbagliato contrapporre la forma democratica dell’esercizio del potere a quella fascista, per il semplice fatto che entrambe concorrono a mantenere intatto e anzi più forte lo status quo sociale. Ho scritto status quo sociale perché la forma politico-istituzionale che amministra un Paese può anche mutare purché sopravviva il dominio delle classi dominanti: è questo, ad esempio, il significato autentico dell’alternanza Fascismo-Antifascismo che si verificò in Italia come conseguenza della sua rovinosa sconfitta militare ad opera delle Potenze Alleate. Non mi stancherò mai di ricordare a me stesso che la Resistenza altro non fu che la continuazione della guerra imperialista sotto altre condizioni storiche determinate dalle bombe angloamericane sganciate con generoso slancio democratico e antifascista sulle città italiane. Lo so che quando leggono simili affermazioni i fascisti si leccano i baffi: ma chi se ne importa di quella gentaglia! A me interessa denunciare il carattere imperialista della Seconda guerra mondiale da tutte le parti in conflitto, e lascio ai miserabili simpatizzanti del Duce la gioia di sentirsi accomunati con altra gentaglia di diverso orientamento politico. Contenti loro!* La precisazione di cui sopra non ha affatto un carattere passatista, perché intende colpire la mitologia resistenzialista nella sua essenza storico-sociale; una mitologia ultrareazionaria che ancora oggi pesa sulla coscienza di non pochi giovani che desiderano “fare la rivoluzione”.

«Il fascismo è fuori dalla Costituzione», ha detto qualche giorno fa il Premier Gentiloni. È fuori dalla Costituzione, mi permetto di precisare, ma dentro (eccome!) il regime sociale che quella Costituzione esprime. Io sostengo un antifascismo che vuole essere fuori dalla Costituzione e contro quel regime. Ebbene giovani compagni, non c’è Rivoluzione se non fuori dalla Costituzione e contro la Costituzione.

 

* Qualche anno fa un amico mi informò che su un sito rigorosamente nazifascista era comparso un mio scritto sulla democrazia e la Costituzione Italiana. La cosa che mi fece più ridere fu vedere che quel pezzo stava accanto a un articolo di Amadeo Bordiga, il noto fondatore del PC d’Italia nel 1921, sempre di tenore antidemocratico e anticostituzionale. Quale onore! Poveri nazifascisti, cosa sono costretti a fare per non essere considerati dei miserabili reietti dai loro nemici sinistrorsi!

FASCISMO REALE, FASCISMO IMMAGINARIO, ANTIFASCISMO DI REGIME E ALTRO ANCORA

1. Antifascismo archeologico e violenza capitalistica

Al contrario di Pier Paolo Pasolini, non so dire con assoluta certezza se non si possa individuare in questo Paese agitato da una sguaiatissima competizione elettorale «nulla di peggio del fascismo degli antifascisti»; certo è che negli ultimi giorni il fascismo (o stalinismo: per me pari sono!) degli antifascisti ha risollevato la testa, complici non pochi episodi di odioso razzismo “fascio-leghista” che come non ultimo deleterio effetto hanno avuto appunto quello di riscaldare la rancida minestra dell’antifascismo di regime.

 Leggiamo per mera curiosità cosa scriveva Pasolini nel 1974, nei sui Scritti Corsari, a proposito degli antifascisti di professione: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. […] Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo». Il fascismo è «un fenomeno morto e sepolto»? Pur con qualche cautela, perché non bisogna sottovalutare ciò che il regime postfascista ha ereditato dal regime fascista (soprattutto per quanto riguarda la sfera giuridica e quella relativa al rapporto tra lo Stato e l’economia), tendo a condividere la tesi pasoliniana, almeno se per fascismo intendiamo l’esperienza storica che prese corpo in Italia negli anni Venti e che si esaurì negli anni Quaranta del secolo scorso come epilogo della Seconda macelleria mondiale definita dai vincitori Guerra di Liberazione. Se però riflettiamo sulla genesi sociale del fascismo, occorre dire che le cose cambiano, mentre corretto rimane a mio avviso il giudizio di Pasolini sull’archeologia antifascista.

Il fascismo nacque, infatti, come manganello politico che le classi dominanti usarono per schiacciare un movimento sociale radicalizzato che rischiava di trasformarsi in una vera e propria rivoluzione sociale di “stampo sovietico”. Almeno questa era l’intenzione dei “Rossi” («Fare come in Russia!») e la paura dei “Bianchi”, i quali con piacere videro entrare in scena i “Neri” guidati da un ex socialista, un tal Benito Mussolini. Insomma, il fascismo delle origini come “classico” strumento controrivoluzionario; strumento, occorre ricordarlo, che all’inizio, nella fase più acuta del conflitto sociale (nel cosiddetto Biennio Rosso ‘19-20) la classe dirigente del Paese usò non in alternativa alla democrazia liberale, ma in un mix molto intelligente di manganello e scheda elettorale. E qui non si può non ricordare la figura politica di Giolitti. Si può anzi dire che il manganello fascista si abbatté sulla testa di un proletariato già sfiancato e deluso dai riti della democrazia parlamentare e industriale. «In Italia», scriveva Otto Bauer nel 1936, «Giolitti ritenne di potersi servire del fascismo per intimorire, frenare, pacificare la classe operaia ribelle. Il fascismo si giustificava volentieri di fronte alla borghesia affermando di averla salvata dalla rivoluzione proletaria, dal “bolscevismo”. […] Ma in realtà esso non riportò la vittoria in un momento in cui la borghesia era minacciata dalla rivoluzione proletaria: il fascismo trionfò nel momento in cui il proletariato ormai era da tempo indebolito e ridotto sulla difensiva, nel momento in cui l’ondata rivoluzionaria era già defluita» (*). Il manganello fascista poi si autonomizzò per diventare regime, e questo fenomeno sorprese non pochi politici e intellettuali liberali che avevano creduto di poter mettere da parte Mussolini una volta che egli avesse completato il lavoro sporco per conto della Nazione. Ma non tutte le controrivoluzioni liberali riescono col buco!

Ho ricordato la genesi sociale del fascismo semplicemente per dire che mentre esso come esperienza storica peculiare e, ovviamente, come regime politico-istituzionale può effettivamente venir considerato alla stregua di un «fenomeno morto e sepolto», la funzione repressiva dei movimenti sociali che allora lo produsse è rimasta intonsa e vitale, e non importa la coloritura politico-ideologica che tale funzione viene ad assumere di volta in volta. Negli anni Settanta la distruzione dei movimenti sociali fu affidata soprattutto agli apparati repressivi dello Stato, con il pieno sostegno di tutti i partiti appartenenti a quello che allora si chiamava “arco costituzionale”, a cominciare dal PCI e dalla DC. Ricordo che nel 1977, anno di esordio politico di chi scrive, nei cortei gridavamo lo slogan “Fuori, fuori la nuova polizia!” tutte le volte che individuavamo tra le nostre fila i militanti del PCI e della CGIL. Alcuni compagni parlavano di democrazia fascista; molti altri denunciavano il «tradimento della Costituzione antifascista», mostrando in tal modo, come imparai qualche anno dopo, di non aver compreso il vero significato storico della Resistenza, che a tutti gli affetti, e al di là di episodi pur significativi ma del tutto marginali, venne a caratterizzarsi come continuazione della guerra imperialista sotto altre condizioni, quelle determinatisi con la caduta del Regime Fascista nell’estate del 1943, a seguito dei bombardamenti aerei angloamericani delle città italiane e dell’esito disastroso della guerra per l’esercito italiano. Negli anni Settanta il neofascismo ebbe uno scarsissimo ruolo nella repressione e nell’intimidazione dei movimenti antagonisti. Insomma, la democrazia capitalistica sa difendersi benissimo dai nemici dell’ordine costituito (e costituzionale) anche senza sguinzagliare le squadracce fasciste contro i “sovversivi”, e ciò in piena coerenza con la lettera e con lo spirito della Costituzione più bella del mondo.

2. Il fascismo degli antifascisti e il piagnisteo dei liberali

Spesso l’autoritarismo dell’antifascismo istituzionale non è meno reazionario e repressivo dell’autoritarismo del neofascismo conclamato e fiero di esserlo. Una prova? Eccola!

Due giorni fa Rocco Todero lanciava dalle pagine del Foglio un forte grido di dolore liberal democratico: «Come valutare l’ordinanza del Tar di Brescia che ha ritenuto legittimo il provvedimento del Comune di Brescia, che non si limita a vietare atti e comportamenti che possono ledere libertà e diritti altrui ma che prevede che “ai soggetti richiedenti la concessione di uno spazio pubblico per lo svolgimento della propria attività” sia richiesto di dichiarare di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo? Intendiamoci: non si tratta di essere lassisti nei confronti di coloro che si ispirano a un pensiero radicalmente antitetico al liberalismo e alla democrazia. Si tratta, piuttosto, di vietarne le azioni e le condotte che concretamente sconfessano i presupposti del nostro vivere civile. Si tratta, al limite, di vietare le manifestazioni concrete del pensiero fascista e nazista (e siamo già ai confini dell’accettabile, ma passi pure). Ma ci si può spingere sino al punto di pretendere che lo stato possa imporre con la forza non già un’azione legittima (come è suo dovere) bensì un pensiero conforme a un’idea prestabilita e ritenuta l’unica passibile di dignità morale e che quel pensiero venga obtorto collo esternato, pena la limitazione di una libertà fondamentale? È legittima l’azione con la quale lo stato impone l’abiura ed entra nella coscienza individuale di ciascun essere umano per violentarla senza alcun riguardo? Esiste ancora la libertà, per esempio, di essere antifascista e di dichiarare di non volere moralmente aderire a tutte le norme della Costituzione, pur continuando a rispettarle con azioni e condotte concrete?».

Insomma, al netto dei piagnistei liberal democratici del giornalista che difende lo status quo sociale, alla luce dei passi citati possiamo senz’altro dire che si annunciano tempi duri (ancora più duri!) per gli anticapitalisti che non solo non si prostrano dinanzi alla Sacra Costituzione Capitalistica di questo Paese, ma che ne denunciano anzi la natura di classe, la sua ultrareazionaria funzione ideologica, il suo essere al servizio del vigente dominio sociale. E non so se scrivendo queste blasfeme parole, sono già passibile dell’occhiuta attenzione del compagno Ministro degli Interni Marco Minniti, degno erede dell’arco costituzionale di Pecchioli e Cossiga.

3. L’antifascismo di regime come «nuovo oppio dei popoli»?

In un articolo di qualche mese fa pubblicato sull’Independent, Slavoj Žižek caratterizzava l’antifascismo dei nostri tempi come un nuovo oppio dei popoli: «La formula di Marx di religione come l’oppio dei popoli ha bisogno oggi di un serio ripensamento. […] Trump negli Stati Uniti, Le Pen in Francia, Orban in Ungheria sono tutti demonizzati come il nuovo male verso il quale dovremmo unire tutta la nostra forza. Ogni minimo dubbio e riserva è immediatamente visto come un segno di segreta collaborazione con il fascismo. […] Quando ho richiamato l’attenzione su come parti dell’estrema destra sono in grado di mobilitare le questioni della classe lavoratrice trascurate dalla sinistra liberale, sono stato, come previsto, immediatamente accusato di invocare una coalizione tra sinistra radicale e destra fascista, che è esattamente quello che non ho proposto». Nel suo infinitamente piccolo, anche chi scrive è stato accusato dai “sinistri” (soprattutto dagli stalinisti) di fare “oggettivamente” il gioco, di volta in volta, dei fascisti, dei craxisti, dei leghisti, dei berlusconiani e quant’altro ha suscitato e suscita la loro facile indignazione tutte le volte che ha cercato di ricondurre alla loro radice “strutturale” i fenomeni politico-ideologici che agitano la schiuma sociale. Evidentemente si tratta di un’operazione critica che irrita maledettamente chi pensa di militare nella parte giusta del mondo solo perché fa parte dell’intellighentia progressista del Paese. Venir accomunati con i politici che tanto disprezzano, deve suonare come una sanguinosa offesa alle orecchie del progressista medio: «Io non sono come Berlusconi!», «Io sono antropologicamente diverso da Salvini!». E invece… Invece dalla prospettiva autenticamente anticapitalista si osserva il progressista sinistrorso calcare lo stesso terreno escrementizio che calpesta il suo odiato Nemico. Certo, l’uno occupa il lato “sinistro” del terreno, l’altro quello “destro”, ma è il terreno (“di classe”) la sostanza della cosa, ciò che definisce la natura di un soggetto politico, non la posizione contingentemente occupata da chi lo pratica. L’antifascismo praticato dall’anticapitalista si muove su un terreno completamente diverso, quello dell’autonomia di classe. Ecco perché io non mi colloco né più a “destra” né più a “sinistra” di Tizio o di Caio, ma piuttosto altrove.

Ma riprendiamo la citazione di Žižek: «L’immagine demonizzata di una minaccia fascista serve chiaramente come un nuovo feticcio politico, feticcio nel semplice senso freudiano di un’immagine affascinante la cui funzione è di offuscare il vero antagonismo. […] Il fascismo stesso è immanentemente feticista: ha bisogno di una figura come quella di un ebreo, elevata nella causa esterna dei nostri problemi: una tale figura ci permette di offuscare i veri antagonismi che attraversano le nostre società. Esattamente lo stesso vale per la figura di “fascista” nell’odierna immaginazione liberale: consente alle persone di offuscare le situazioni di stallo che stanno alla base della nostra crisi. […] L’oscenità della situazione è da far perdere il fiato: il capitalismo globale ora si presenta come l’ultima protezione contro il fascismo, e se cerchi di farlo notare sei accusato di complicità con il fascismo». Secondo l’intellettuale sloveno la sinistra può battere i populisti solo tagliando i ponti con le assurdità politicamente corrette e ricominciando a occuparsi davvero dei lavoratori, dei problemi causati dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario senza regole. Nella sua prospettiva, la caccia al fascista è solo una scorciatoia per evitare di affrontare la realtà che porta acqua al mulino del populismo semplicemente perché esso non ha paura di misurarsi con la disperazione delle vittime della globalizzazione e con le contraddizioni create dal «capitalismo globale». Bisogna fare i conti con la paura e con le angosce della gente, non stigmatizzarle con atteggiamenti illuministici che lasciano il tempo che trovano.

Ora, se penso che la “sinistra anticapitalista” cui fa riferimento Žižek ha la faccia di Varoufakis, di Sanders e di Corbyn, e di Toni Negri, non posso che prendere le distanze – e la solita metaforica pistola critica – dal suo consiglio su come battere la «destra alternativa». A mio avviso il problema non è quello di rompere i ponti con le assurdità politicamente corrette della “sinistra”, che come ho già detto politicamente parlando si muove sullo stesso terreno di classe della “destra”, del “centro” e del “populismo”; né si tratta di lottare genericamente contro gli effetti del «capitalismo globalizzato», magari in vista di un Capitalismo meno aggressivo e “selvaggio”. Per come la vedo io, e anche qui non faccio che ripetere cose già scritte mille volte, si tratta in ogni occasione, per ogni problema, per ogni evento, di non concedere nulla alla logica del male minore (in attesa di mutamenti nei rapporti di forza tra le classi che ovviamente non si verificheranno mai fin quando a vincere sarà quella cattiva logica) e di attaccare in radice l’ideologia dominante, dovunque e comunque essa si esprima. Sotto questo aspetto, davvero “fascismo” e “antifascismo” mi appaiono due facce della stessa medaglia. Non dico che l’obiettivo individuato sia di facile acquisizione, tutt’altro; ma non vedo alternative possibili per chi intende quantomeno provare a dire qualcosa di serio sull’«oscenità della situazione», fregandosene allegramente delle critiche che certamente i tristi sacerdoti del politicamente ed eticamente corretto non faranno mancare: e chi se ne frega!

4. Bruciare i libri maledetti! Chiudere i covi dei fascisti! O no?

Qualche settimana fa Furio Colombo si sperticava in lodi nei confronti della casa editrice francese Gallimard per la sua «saggia decisione» di sospendere la pubblicazione dei pamphlet antisemiti di Lois Ferdinand Céline, i quali potrebbero «alimentare ancora di più i rigurgiti dell’antisemitismo». Trovo esemplare, sostiene Colombo, che una casa editrice si ponga il problema di come possano impattare certe pubblicazioni su «una massa di cittadini allo sbando, disorientati da un sistema dei media orientato alla falsità. Non possiamo negare di vivere in tempi eccezionali, di montante antisemitismo e razzismo. In tempi eccezionali vanno adottate misure eccezionali» (intervista rilasciata a Radio Radicale). L’illusione della proibizione evidentemente è dura a morire. Inutile dire che le copie dei libri “maledetti” di Céline andranno a ruba, esattamente come il Mein Kampf di Hitler, perché come sa chiunque abbaia un briciolo di intelligenza ciò che è proibito o comunque stigmatizzato e criminalizzato come il male assoluto, assume subito il volto affascinante di una sfida all’autorità che per molti, soprattutto se giovani e “irrequieti”, diventa irresistibile. Più proibisci qualcosa, qualsiasi cosa, e più la rendi meritevole di attenzione.

A proposito di «massa alla sbando»! Kierkegaard una volta disse che «la massa è la non verità»; ma chi riduce gli individui a impotenti atomi sociali tenuti insieme come massa, più o meno «allo sbando», dalle strapotenti forze sociali? Lo so, la domanda è fin troppo suggestiva. In ogni caso, falso non è solo «il sistema dei media», quanto soprattutto il sistema sociale tout court. Falso, beninteso, dal punto di vista dei veri bisogni espressi da «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), da «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer), cosa che presuppone il superamento della divisione classista degli individui. Come diceva Adorno, «Non si dà vera vita nella falsa», e quindi è quantomeno ingenuo strillare contro la falsità del sistema dei media, il quale esprime al meglio la vigente condizione disumana. Che l’ingenuità possa approdare a ideologie e a prassi ultrareazionarie è cosa che non sorprende affatto il pensiero che aspira alla radicalità più conseguente sul piano concettuale e politico. Come diceva qualcuno, sovente la strada che porta all’inferno è lastricate di eccellenti intenzioni progressiste.

Su Il Post del 5 febbraio si poteva leggere la seguente inquietante notizia: «Nelle ultime ore le vendite di una particolare edizione del Mein Kampf – il libro di Adolf Hitler che espone i fondamenti dell’ideologia nazista – sono cresciute del 1.037 per cento su Amazon.it e il libro è arrivato ad essere 24esimo nella classifica dei libri più venduti, recuperando più di 200 posizioni. La classifica dei libri più venduti delle ultime 24 ore, per esempio, si aggiorna di ora in ora: il picco di vendite di oggi è probabilmente da collegare al fatto che in casa di Luca Traini, il 28enne neofascista responsabile dell’attentato di sabato 3 febbraio a Macerata, è stata trovata una copia del Mein Kampf, una notizia a cui i giornali hanno dato molto spazio tra ieri e oggi» (Il post del 5 febbraio).

Ora, anziché proibire la pubblicazione del Mein Kampf, non dovremmo piuttosto chiederci come mai questo libro continua ad avere così tanti lettori ed estimatori? A mio avviso tirare in ballo come risposta l’ignoranza, l’incultura, la memoria corta e i soliti “imprenditori della paura” spiega assai poco, e comunque niente di essenziale. Chi soffia sul fuoco può farlo solo perché un fuoco effettivamente esiste ed è alimentato da fatti reali che non hanno niente a che vedere con la cattiveria dei mestatori di turno. La nevrosi sociale è sempre attiva, e per scaricarsi in forma collettiva su qualche oggetto ha bisogno solo di un pretesto occasionale, non di rado creato ad hoc dal demagogo/populista di turno, appunto. La causa scatenante immediata non è dunque la pista che deve battere chi desidera accedere alla verità intorno alla natura della nevrosi sociale, e la distinzione che sempre più spesso i sociologi e i politici fanno tra un’incertezza percepita e un’incertezza reale è, sotto questo aspetto, assai significativa. Come sanno i filosofi, la percezione è molto spesso fonte di idee false, ma per il “popolino” essa conta di più, molto di più, delle fredde cifre scritte su un foglio a corredo di una serissima inchiesta sociologica, ad esempio sui crimini di sangue o sui furti nelle case commessi nel Paese negli ultimi anni: i numeri si riduco, la percezione di insicurezza cresce! Come si spiega la psicosi sociale?

La domanda che dobbiamo porci per comprendere alcuni fenomeni che allarmano i “sinceri democratici” e gli antirazzisti è, a mio avviso, la seguente: come mai a molti decenni di distanza dallo sterminio scientificamente pianificato degli ebrei non poche persone sono ancora attratte dall’antisemitismo, soprattutto quelle persone che nella loro vita non hanno mai visto e conosciuto un solo ebreo in carne ed ossa e non hanno mai letto nulla sul conto della «infida razza giudaica»? Sappiamo d’altra parte che in Europa l’ostilità contro gli stranieri di pelle nera è forte soprattutto in quei Paesi (Ungheria, Polonia, Austria, Repubblica Ceca) che in questi anni non sono stati investiti, se non del tutto marginalmente, dall’ondata migratoria che parte dall’Africa: come mai? Come mai in Gran Bretagna i sostenitori più agguerriti della Brexit si contavano soprattutto nei centri urbani che pur non registrando alcuna presenza dei famigerati “idraulici polacchi” pronti a rubare il lavoro agli idraulici di Sua Maestà La Regina, in compenso vantavano un altissimo livello di “sindrome dell’idraulico polacco”? Come mai il razzismo e la xenofobia sono diffusi in Germania soprattutto nelle sue regioni orientali, dove gli stranieri, soprattutto quelli di pelle nera, sono praticamente una rarità? Noi proletari sappiamo bene che i “negri” non ci rubano il lavoro, semplicemente perché il prezzo delle loro prestazioni lavorative e le condizioni di lavoro che sono costretti ad accettare non entrano in una reale concorrenza con la nostra condizione sociale: a quel prezzo e a quelle condizioni preferiamo senz’altro accedere alla carità sociale, finanziata dalla fiscalità generale, che ci passa lo Stato. E d’altra parte, le aziende che sfruttano i lavoratori africani non rimarrebbero sul mercato, almeno in larghissima misura, senza quella preziosa e poco, assai poco costosa manodopera. Eppure, non facciamo altro che ripetere la filastrocca cara ai “fascio-leghisti”: «Questi negri della malora ci rubano il lavoro!». Il nostro disagio sociale ha cioè bisogno di oggettivarsi in qualche nemico in carne ed ossa.

Tutto ciò non ci dice forse che la paura, l’angoscia, il disagio, la precarietà esistenziale possono spesso prendere le strade più imprevedibili e mostrarsi con le sembianze più diverse e fantasiose? Cosa ci dice questa semplice verità, sperimentata più volte e ovunque in questo capitalistico mondo, sulla nostra esistenza di individui sottoposti a dinamiche sociali che siamo ben lungi dal controllare e che anzi ci controllano e spesso ci scuotono in malo modo? Il processo sociale ci picchia in testa, metaforicamente parlando, e noi qualche volta sentiamo l’urgenza di picchiare qualcuno, e non solo metaforicamente parlando. Non si può vivere solo di metafore! Come dice lo psicanalista, anche l’atto vuole la sua parte.

Gli illuminati intellettuali che si ergono a censori del Male in difesa della massa dei cittadini ignoranti e socialmente disagiati, e proprio per questo facili preda di demagoghi e populisti d’ogni genere, ovviamente non si pongono il problema di come eliminare alla radice l’antisemitismo, il razzismo, l’ignoranza e il disagio sociale basato su condizioni materiali e psicologiche di vita che, come già sappiamo, creano sempre di nuovo paura, angoscia, rabbia, frustrazione, invidia sociale, odio cieco e incondizionato nei confronti di chi viene percepito, per un qualsivoglia motivo, come “diverso” e dunque meritevole di qualche antipatica attenzione: un insulto,uno sputo, una virile bastonatura. Basta tenere lontana la «massa di cittadini allo sbando» dai libri sbagliati, dalle idee sbagliate e dai movimenti politici sbagliati, e il gioco è fatto! E così la “casta” degli intellettuali progressisti può legittimamente rivendicare a sé, sulla scia della Repubblica di Platone, la funzione di controllo e di tutela nei confronti di chi inclina a “ragionare con la pancia”, mentre a imitazione degli intellettuali di cui sopra dovremmo tutti ragionare con la testa: sì, la testa appunto dei servitori delle classi dominanti autoproclamatisi progressisti e «amici dell’umanità tutta», a prescindere dal colore della pelle degli individui, dal loro sesso, dalla loro religione e da qualsiasi altra loro caratteristica. «Dobbiamo restare umani!». Questo slogan modaiolo proprio non lo reggo! Restare umani? Ma non scherziamo! Semmai dovremmo diventare umani, umani non solo a parole o come specie animale. «Dobbiamo restare umani!». Sic! Evidentemente c’è gente che ha bisogno di coltivare illusioni, su se stessa e sul mondo. Auguri!

«Non bisogna usare il comprensibile disagio della gente ferita e indurita da anni di crisi economica e di sacrifici per scatenare la guerra tra i poveri e lucrare qualche voto in più, e chi lo fa è un irresponsabile che soffia sul fuoco delle tensioni sociali»: quante volte al giorno, negli ultimi giorni, abbiamo sentito o letto simili buone riflessioni e intenzioni? Ma poi, “buone” per cosa? Semplicemente per denunciare il mercato dei demagoghi, dei populisti, dei razzisti e dei fascisti, e così meglio occultare ciò che rende possibile quel mercato, ossia la crescente miseria sociale, qui considerata non solo sotto l’aspetto economico. Si puntano i riflettori dell’indignazione e della “responsabilità sociale” sull’epifenomeno solo per creare il buio intorno alle cause del fenomeno. Cose mille volte viste ma dai più non comprese nel loro vero significato.

Gli antifascisti di vecchio e di nuovo conio rivendicano la chiusura dei «covi fascisti e razzisti» manu militari: «Lo Stato democratico nato dalla Resistenza non può tollerare il fascismo e il razzismo!». Chi pratica il terreno dell’anticapitalismo radicale (non conosco altro anticapitalismo che non sia radicale) sa bene che lo Stato democratico nato dalla Resistenza si pone in perfetta continuità sociale con lo Stato fascista che lo ha preceduto, e sa altrettanto bene che qualsiasi tipo di Stato capitalistico (vedi regimi politico-istituzionali con caratteristiche europee, statunitensi, russe, turche, venezuelane, cinesi, ecc.) è posto a difesa di quei rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che sono alla base di ogni sorta di fenomeno sociale e di qualsiasi contraddizione sociale. In altri termini, chiedere allo Stato di reprimere i fenomeni sociali (compresi quelli sanzionati dal codice penale e passibili di galera: certo, sto parlando anche dei ladri e dei “rei” di ogni tipo) generati dalla società di cui esso è il più feroce cane da guardia, è tipico di un pensiero confinato nella disumana dimensione dello status quo sociale.

Come ho scritto altrove, il razzismo, l’antisemitismo e ogni forma di ideologia autoritaria (non importa se di “destra” o di “sinistra”) non si combattono invocando l’intervento repressivo dello Stato, il quale non aspetta altro per rafforzarsi e legittimarsi presso l’opinione pubblica, ma impegnandosi, dove si può e come si può, nella difficilissima opera intesa a realizzare nelle classi subalterne, e nei “disagiati” e negli offesi d’ogni estrazione e condizione sociale, un “sentimento” di crescente autonomia (politica, ideale e psicologica) nei confronti del vigente regime politico e sociale. Non si tratta di lottare i fascisti e i razzisti “dal basso”, invocazione “populista” che non significa niente (niente di buono per le classi subalterne, intendo dire), ma sul terreno dell’autentico anticapitalismo. Bisogna sapere che su questo impervio terreno i militanti anticapitalisti dovranno fare i conti non solo con i fascisti e i razzisti conclamati, ma anche e soprattutto con i difensori della democrazia capitalistica e della Costituzione più bella del mondo.

* O. Bauer, Tra due guerre mondiali? pp. 116, 117, Einaudi, 1979.

LA CITTADINA ROBERTA E I SACERDOTI DELL’ANTIFASCISMO

M5S-Blog-di-Roberta-LombardiIeri il Soviet (o Conclave) dei cittadini grillini eletti al Parlamento italiano ha scelto Roberta Lombardi come prossima capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera. L’epocale evento ha subito rianimato i sinistrorsi italici in debito d’ossigeno dopo la recente e cocente catastrofe elettorale: «La Lombardi? Ma non è quella che ha difeso Casapound e tessuto gli elogi al fascismo? Ecco in che mani si sono messi tanti compagni in buona fede!»

Incuriosito dalla scabrosa faccenda sono andato a esaminare il corpo del reato depositato sul Blog di Roberta Lombardi. In effetti, che scandalo! Per me? No, per i sinistrorsi e per tutti i «sinceri democratici».

Vediamo qualche passo che gronda “revisionismo storico” da tutte le parti: «L’ideologia del fascismo, prima che degenerasse, aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia». In effetti, qui la cittadina Roberta sembra esternare un pensiero assai omogeneo a quello espresso dal cittadino Silvio alla vigilia delle ultime elezioni («Il fascismo qualcosa di buono l’ha pure fatto»), e già solo per questo per la tifoseria antiberlusconiana la neo-statista meriterebbe quantomeno la fucilazione mediatica. I proiettili veri sono da taluni riservati in esclusiva al Cavaliere Nero di Arcore, ancora in sella nonostante tutto, a dimostrazione di quanto la «corruzione politica e morale» sia ancora ben radicata nel ventre molle del Bel Paese. Naturalmente faccio della facile, e mi rendo conto assai irritante ironia ai danni degli eticamente corretti, nonché dei zelanti salvatori della Patria. Adesso mi si consenta una breve divagazione storica.

La tesi secondo la quale il fascismo ebbe «una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo» è tutt’altro che nuova, ed è ridicolo rubricarla come «revisionista» solo perché disturba i sacerdoti dell’antifascismo di professione. È invece importante comprendere la radice storica di quella tesi, la quale si basa su una lettura del socialismo quale venne a consolidarsi in Europa, soprattutto in Germania, alla fine del XIX secolo (Engels ancora in vita) in netta opposizione alla concezione comunista marxiana.

In estrema sintesi, una parte sempre più cospicua del socialismo europeo aderì, se non “di diritto” certamente “di fatto”, alle concezioni stataliste di F. Lassalle e a quelle comunitariste di F. Tönnies. Può forse essere utile ricordare la distinzione teorizzata da Tönnies tra comunità e società (Ge­meinschaft und Gesellschaft, 1887), l’una intesa come «forza e simpatia sociale che tiene insieme gli uomini come membri di un tutto», l’altra concepita come un artificiale agglomerato di «individui che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati»: «La comunità è antica, mentre la società è nuova […] La comunità è la convivenza durevole e genuina, la so­cietà è soltanto una convivenza passeggera e apparente. È quindi coerente che la comunità debba essere intesa come un organismo vivente, e la società, invece, come un aggregato e prodotto meccanico» (Comunità e società). Come scriveranno Horkheimer e Adorno, «Questo schema pericolosamente semplice, benché in senso del tutto diverso da quello cui mirava il Tönnies, ritorna nel Terzo Reich come contrapposizione propagandistica di “comunità di stirpe ariano-germanica” e “società atomizzata giudeo-occidentale”» (Lezioni di sociologia). L’angoscia indotta da potenze sociali sempre più forti e sfuggenti, e la paura nei confronti di una società sempre più massificata e atomizzata, due facce della stessa medaglia capitalistica, già alla fine del XIX secolo generarono quel dibattito centrato sulla falsa contrapposizione di Cultura (Kultur) e Civilizzazione (Zivilisation) che, mutatis mutandis, riempie ancora oggi numerose riviste specializzate e corposi libri.

L’adesione della parte maggioritaria della socialdemocrazia occidentale alla Grande Guerra, anche sotto forma di «neutralità attiva e operante», va inscritta nel quadro di una progressiva “deriva” teorica e politica che  svuotò il progetto socialista di ogni autentico contenuto classista e rivoluzionario. Non c’è dubbio che lo sviluppo nel seno del movimento operaio europeo di concezioni “comunitariste” di stampo precapitalistico (ma sul piano della prassi molto funzionali allo sviluppo capitalistico) e di concezioni stataliste («la fede del suddito verso lo Stato», per dirla con l’ubriacone di Treviri) ebbe una parte non marginale in quella “degenerazione” che fece del socialismo «responsabile» (per usare un termine oggi molto di moda) di fine Ottocento inizio Novecento una potente forza controrivoluzionaria.

8Che un “socialista massimalista” come Mussolini, assai indigente sul piano dottrinario (d’altra parte, già Antonio Labriola aveva capito che, salvo rare eccezioni, il socialismo all’italiana non era una cosa seria) ma molto versato sul terreno della propaganda e dell’organizzazione, potesse concepire il Fascismo, almeno fino alla Marcia su Roma, come un coerente sviluppo del Socialismo, ossia del “socialismo” comunitarista e statalista che negava in pieno la concezione marxiana della storia e della lotta di classe, ebbene ciò non appare come qualcosa di incomprensibile. Tutt’altro! Ma ritorniamo, brevemente, all’oggi.

Agli indignati antigrillini ricordo che Il Manifesto stigmatizzò la scelta di Fini di dar vita ad Alleanza Nazionale proprio perché la nuova formazione politica «svendeva l’anima sociale» del Movimento Sociale Italiano, la quale evidentemente mal si conciliava con lo spirito liberista del Gran Puttaniere di Arcore. Dopo il Partito che fu di Berlinguer, e prim’ancora di Togliatti, anche il Partito che fu di Almirante si era convertito alla nuova «religione neoliberista» e alla nuova moda post-ideologica: che tempi! In fin dei conti, la cittadina Roberta si è limitata a rivendicare l’«anima sociale» del fascismo, sorto come strumento di controrivoluzione sociale e sviluppatosi anche come strumento di modernizzazione capitalistica: di qui, i “disdicevoli” elogi di Silvio.

D’altra parte, si può forse negare che il fascismo avesse «un altissimo senso dello Stato»? Per dirla con Grillo, quello fascista fu uno Stato «con le palle». Ma anche quello attuale non scherza, credetemi! Ed è proprio nelle sue parti basse che vorrei tanto colpirlo. E qui veniamo a un’altra “chicca”, presa sempre dal Blog della cittadina Roberta.

Eccola: «Se parliamo dei sindacati chiedendone l’abolizione, ti tacciano di voler tornare indietro alla rivoluzione industriale. Anche qui, i sindacati hanno esaurito una missione nel momento in cui si sono trasformati in grumi di potere che mercanteggiano soldi, cariche, proprietà con quelli che dovrebbero essere i loro interlocutori dall’altra parte della barricata ma che sono diventati i loro complici di inciuci alle spalle dei lavoratori. Non si tratta di negare la fondamentale funzione che storicamente hanno avuto, ma oggi non è più così e quindi meglio pensare a qualcosa di nuovo che tuteli i diritti dei lavoratori». È chiaro che alle orecchie di uno che, come il sottoscritto, ha sempre lottato contro il collaborazionismo della Trimurti Sindacale quelle parole non suonano affatto male, sebbene concepite nel contesto di una musica tutta inscritta nel Pentagramma del Dominio. Esse sollecitano piuttosto un maligno sorriso di approvazione, come dire, rivolto ai sacerdoti della tradizione sinistrorsa: mazziati persino dai grillini!

Distruggere il Pentagramma del Dominio. Scrivere un’altra musica. La musica della liberazione. Nota dopo nota.

Distruggere il Pentagramma del Dominio. Scrivere un’altra musica. La musica della liberazione. Nota dopo nota.

«Seconda questione, e questo per me è il punto fondamentale, sono 30 anni che fascismo e comunismo in Italia non esistono più». Qui mi dispiace correggerti, cittadina Roberta: detto che la democrazia nata dalla Resistenza è la continuazione del fascismo con altri mezzi, mi preme avvertirti che ciò che tu chiami “comunismo” non aveva nulla a che fare con il Comunismo. Ma se fior di intellettualoni “marxisti”  sono pronti a sbugiardarmi, nonostante i muri – di Berlino e di Pechino – presi sulla capa, si può forse mettere la croce addosso alla cittadina Roberta? Cittadini, io non me la sento!

Vedi anche L’eterno fascismo.

LA MARCIA DEL DEMOFASCISMO SULL’ACROPOLI

grelezLa Disordinata riflessione su Antifascismo e anticapitalismo di qualche giorno fa ha suscitato presso qualche lettore questo tipo di perplessità: «Bene l’anticapitalismo. Ma perché essere indifferenti nei confronti del fascismo? Perché non combatterlo, magari sul terreno che esso predilige, ossia la violenza?». La perplessità è benvenuta perché mi permette di chiarire un punto importante riguardante la scottante faccenda.

Lungi dal condividere qualsiasi forma di indifferentismo per ciò che riguarda i fenomeni sociali in generale, e il fenomeno fascista in particolare, sono piuttosto fra i cultori della materia, se così posso esprimermi, nel senso che da sempre cerco di studiare la genesi storico-sociale del fascismo, per capirne le cause lontane e immediate, materiali e ideologiche, politiche e psicologiche.

Ad esempio, la psicologia di massa del fascismo (come peraltro quella della democrazia e dello stalinismo) mi intriga assai, soprattutto in quanto sintomatologia delle contraddizioni sociali e, cosa che a me interessa particolarmente, dell’impotenza delle classi dominate, ridotte appunto alla condizione di masse manipolate sotto ogni rispetto: da quello organico a quello spirituale, da quello somatico a quello psicologico.

Trovo molto istruttivo leggere Mein Kampf di Hitler, non per cercarvi le patologiche perversioni del noto vegetariano assetato di sangue giudaico, ma per capire il momento storico che l’ha trasformato nel «tamburino» della potente tendenza sociale che gli stava dietro: «l’irresistibile supremazia del potenziale industriale» (W. Adorno, Minima moralia). Sotto quest’aspetto, consiglio di leggere I due volti della Germania, un interessantissimo libro scritto nel 1932, alla vigilia dei noti eventi, dal giornalista americano H. R. Knickerbocker.

Quando la crisi capitalistica si acuisce, il conflitto sociale, sempre latente in questa società piena di antagonismi d’ogni sorta, si radicalizza, e alla fine trova la sua espressione politico-ideologica, magari attraverso un sindacato, come accadde in Polonia nei primi anni Ottanta con Solidarność, oppure in guisa di movimento politico-ideologico neonazista, come sta accadendo oggi in Grecia e in altri Paesi del Vecchio Continente. In ogni caso la materialità del processo sociale trova sempre la sua fenomenologia politico-ideologica, e il pensiero critico-radicale, per mantenersi all’altezza della complessità sociale, non deve mai perdere i nessi che legano la fenomenologia alla sua essenza.

Ad esempio, e così ci avviciniamo al focus della questione, quel pensiero non può farsi distrarre dal folcloristico razzismo della Lega Nord al punto da perdere la strada che conduce alla sua radice materiale, al suo momento genetico: il peculiare sviluppo capitalistico italiano, dal 1861 in poi, naturalmente nel suo necessario rapporto con i processi storico-sociali mondiali – vedi la geopolitica del Vecchio Continente post-muro di Berlino e l’ulteriore accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica. Oggi è facile cogliere il rapporto che insiste fra il gap sistemico Nord-Sud del Paese e le “istanze” leghiste, ma vent’anni fa si correva il rischio di passare per filo-leghisti se si metteva in primo piano nell’analisi del fenomeno in questione, non gli sguaiati slogan antimeridionali di Umberto Bossi e dei suoi verdi accoliti, ma lo sviluppo ineguale del Capitalismo dentro e fuori i confini nazionali, con tutte le conseguenze, anche d’ordine psicologico (“sentirsi” più tedeschi o più tunisini a ragione della ricchezza prodotta e consumata), a esso necessariamente correlate. Chi non voleva correre il rischio di passare per un “legista oggettivo”, nei primi anni Novanta doveva fare un solenne giuramento antileghista, che postulava di individuare nei rozzi Lumbard il nemico numero uno dell’umanità. Poi venne Berlusconi… E poi arrivò anche Monti…

anazzSostenere che il fascismo non è che una delle forme politico-ideologiche del Dominio sociale capitalistico, non significa rimanere disarmati dal punto di vista politico nei confronti dei movimenti fascisti – parlo di quelli veri, non di quelli immaginari. Significa piuttosto contrastarli, con tutti i mezzi necessari, non nel nome della democrazia, o per “ripristinare” la democrazia, ossia l’altra faccia della cattiva medaglia, ma in quanto espressione degli interessi delle classi dominanti, o di una parte di essi. Questo significa respingere alla radice l’idea, ultrareazionaria, secondo la quale dinanzi al fascismo la lotta di classe “pura” deve fare un passo indietro: si tratta invece di spingerla due passi in avanti, proprio perché quel fenomeno ci testimonia la radicalizzazione del conflitto sociale, con tutto ciò che la cosa presuppone e pone. Non si abbandona, di fatto, il terreno classista proprio quando il processo sociale ci sfida apertamente confermando la tesi secondo la quale al peggio non può esservi fine, nel Capitalismo.

L’antifascismo interclassista, alla partigiana, tanto per intenderci, per un verso non estirpa le radici sociali del fascismo, e per altro verso consegna le classi subalterne nelle mani delle fazioni capitalistiche vincenti, che magari sono le stesse che prima hanno aizzato il cane fascista contro i lavoratori, i disoccupati, gli immigrati e via di seguito. Proprio l’antifascismo interclassista del PSI rafforzò politicamente e ideologicamente il movimento fascista nella sua fase genetica, mentre indebolì fortemente la capacità di resistenza del proletariato agli attacchi demofascisti  della
borghesia liberale ed ex liberale del Bel Paese.

Il problema non è, in primo luogo, il cane, ma la mano che lo tiene saldamente al guinzaglio, e che lo usa quando c’è bisogno di “lavorare sporco”. E del cane, che ne facciamo? Occorre difendersi dai suoi morsi, è ovvio, ma senza dimenticare la potenza sociale che la malabestia serve. Solo in questo modo la difesa diventa un attacco, per dirla con il maestro di Wing Chun Ip Man.

arAltro che Insieme in Europa per la democrazia, come recita l’appello dei politici e degli intellettuali antifascisti radunati oggi ad Atene! Piuttosto insieme in Europa e nel mondo contro il Capitalismo, contro la sua crisi e contro il Leviatano posto a sua difesa, qualunque sia la sua contingente coloritura politica: democratica, fascista, neostalinista – in Grecia i nipotini di Stalin sono ancora molto forti, e la crisi rischia di irrobustirli ulteriormente. È su questa base che, a mio avviso, occorre lavorare per la costruzione di un associazionismo di classe “a 360 gradi”: politico, “economico”, culturale e quant’altro; il solo in grado di togliere dall’attuale stato di impotenza gli strati sociali subalterni e di rispondere adeguatamente all’associazionismo antiproletario del tipo di quello promosso ad esempio in Grecia da Alba Dorata.

Ovviamente su questo terreno ci si scontrerà anche con i fascisti. Ma su questo terreno, non su quello della democrazia o della «difesa dei diritti dell’uomo» (oscena ideologia che cela la reale disumanità della Civiltà capitalistica: vedi, come Eccezione che rivela la Regola, l’ennesima “strage degli innocenti” di ieri a Newtown), ossia sul terreno delle classi dominanti.

Proprio l’antifascismo interclassista può diventare un eccellente cemento ideologico per tenere insieme gli strati sociali più azzannati dalla crisi (occhio soprattutto ai ceti medi in via di rapida proletarizzazione), i quali, in mancanza di un’alternativa autenticamente anticapitalistica, rischiano di venir reclutati, tragica coazione a ripetere, dagli opposti ma socialmente convergenti eserciti: di qua i fascisti, di là gli antifascisti. In mezzo, schiacciata come sempre, la possibilità dell’emancipazione di tutti e di ciascuno.

QUALCHE – DISORDINATA – RIFLESSIONE SU ANTIFASCISMO E ANTICAPITALISMO

Mutuando la teologia di Santa Romana Chiesa,
non è poi così blasfemo, sul piano dottrinale,
dire che il Dominio scrive diritto per linee storte.

Ritorno brevemente sul cosiddetto antifascismo militante un po’ perché sollecitato dal gran parlare di un «ritorno del fascismo» in diversi Paesi del Vecchio Continente, sempre più lacerato dai morsi della crisi sistemica. I casi della Grecia e dell’Ungheria sono solo quelli più eclatanti. Il Capocomico di Geneva ha detto che senza il suo movimento «la Casta» del Bel Paese oggi dovrebbe fare i conti non con gli onesti, ancorché “antipolitici”, grillini, ma con i ben più pericolosi e rabbiosi neofascisti. Forse è un’esagerazione, ma vale a segnalare lo spirito dei tempi, per dir così. Intanto è nata la sezione italiana di Alba Dorata: la Lega Nord è avvertita. Ma vi ritorno soprattutto per offrire il mio modesto contributo alla definizione di una corretta linea politica anticapitalistica.

Chi legge i miei post ha certamente capito che non sono tra quelli che, pur impegnati in una lotta anticapitalistica «senza se e senza ma», mettono la lotta al fascismo «di ieri, di oggi e di domani» al primo posto nella loro iniziativa politica, finendo il più delle volte per far prevalere di gran lunga l’antifascismo sull’anticapitalismo. Se la cosa non trova quasi mai una sua puntuale teorizzazione, certamente essa finisce per caratterizzare la prassi di molti militanti che professano un anticapitalismo che alla prova dei fatti paga un prezzo assai salato in termini di codismo democratico e di assenza di autonomia di classe. Di fatto essi concepiscono il fascismo come il Male Assoluto, rispetto al quale ogni altra questione connessa alla natura contraddittoria della società capitalistica diventa secondaria, passa in secondo piano, venendo di fatto collocata in una prospettiva millenaristica. Per questa via la stringente e feconda dialettica tra tattica e strategia, presente e futuro sfuma nell’irrilevanza di un attivismo “anticapitalista” inconcludente, almeno ai fini della rivoluzione sociale. L’«antifascismo militante» diventa una patetica caricatura della lotta di classe e della rivoluzione.

C’è poi l’anticapitalista che finisce per identificare senz’altro il fascismo con il Capitalismo, o, più spesso, con una sua versione particolarmente “selvaggia”: quella cosiddetta neoliberista. L’identificazione di Fascismo del XXI secolo o Fascismo 2.0 con l’ideologia neoliberista, espressione del «nuovo Capitalismo finanziarizzato», è più che un’illazione.

L’antifascismo come «momento tattico di una strategia politica di più lungo respiro» suona ormai alle mie orecchie come un vecchio e pessimo ritornello, come il mantra di chi fissa la Rivoluzione Sociale “dura e pura” al trentadue del mese successivo. Mese dopo mese, anno dopo anno: «intanto facciamo i conti col «fascismo che avanza». Per molti anticapitalisti il fascismo «avanza» praticamente dalla fine del Ventennio in poi, rendendo necessaria una permanente allerta democratica, «perché come insegnano Marx, Engels e Lenin è nella democrazia che la lotta di classe può dispiegarsi con maggiore forza, fino alla vittoria finale». Siamo proprio sicuri di questo? Anche sulla scorta dell’ultimo secolo di prasi sociale mondiale (ma potrei spingermi ancora più indietro, fino ai successi elettorali e sindacali della socialdemocrazia europea negli anni Novanta del XIX secolo) mi permetto di dissentire con il luogo comune “marxista” appena riportato.

Inutile dire che sulla concezione ideologica “anticapitalista” mainstream in Italia pesa ancora il retaggio dell’antifascismo interclassista di matrice resistenziale, che ebbe nel PCI stalinizzato di Togliatti la sua punta di diamante. Si capisce, al netto degli appelli ai fratelli in camicia nera: correva l’anno 1936 quando Mario Montagna sostenne – «suscitando riserve ma non scandalo», come scrive Paolo Spriano nella sua Storia del PCI – che «il partito deve avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo» ma di democratizzarlo e migliorarlo, almeno “tatticamente”; Di Vittorio disse che «democrazia non è un termine ben accetto alle masse», e il compagno Ciufoli si batté affinché il PCI facesse «suo il programma fascista del 1919 per colmare il vuoto che esiste ancora tra noi e le masse» (P. Spriano, Storia del PCI, p. 96, L’Unità-Einaudi, 1990). Essere sempre in sintonia con «le larghe masse» è uno dei cardini della politica interclassista.  Poi vi fu l’adesione al Patto nazi-stalinista alla vigilia del secondo macello imperialistico, ma questa è tutta roba stravecchia. Ricordarla di tanto in tanto però non può certo far male, considerato il discreto seguito di cui gode ancora ai nostri giorni la tradizione del “comunismo” italiano.

Per come la vedo io, il Male Assoluto è il Capitalismo tout court, concepito essenzialmente come la struttura di dominio basata sui rapporti sociali di questa epoca storica – borghese. Rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, che hanno nella forma merce e nella forma denaro la loro più generica e al contempo radicale estrinsecazione. Sintetizzando al massimo, democrazia e fascismo, e tutte le forme politico-istituzionali intermedie, non sono che l’espressione “sovrastrutturale” del dominio sociale fondato sullo sfruttamento scientifico e sempre più intensivo, capillare e mondiale di uomini e cose. Nella sintesi qualche momento dialettico ci scapita, è chiaro, ma credo che il nucleo di verità che essa contiene faccia premio, come si dice, sui suoi acclarati limiti.

Decisivo è, dal mio punto di vista, il concetto di dominio totalitario delle esigenze economiche, il quale postula la fenomenologia politica, istituzionale, ideologica e psicologica più adeguata alle condizioni sociali che si danno in peculiari momenti storici, naturalmente sulla base del concreto retaggio storico e sociale di ogni Paese. Il totalitarismo sociale radicato nella prassi che crea e distribuisce la ricchezza sociale nella sua vigente forma capitalistica è a fondamento tanto della forma democratica quanto della forma politica dittatoriale del potere sociale borghese.

La prassi sociale vista dalla prospettiva storica mostra, almeno in riferimento al cosiddetto Occidente, come il regime democratico sia la forma politica, istituzionale e ideologica di gran lunga più efficace (più “economica”, più “razionale”, più “pulita”) dal punto di vista degli interessi capitalistici, anche perché esso presuppone una situazione sociale gestibile con gli ordinari strumenti di consenso e di coazione. Il mix di “politica del consenso” e di repressione violenta dei movimenti sociali più minacciosi nei confronti degli interessi generali della società segna la normalità nella gestione della prassi sociale, sempre caratterizzata da un notevole tasso di conflittualità sociale dovuta alla natura estremamente violenta e contraddittoria del Capitalismo. Sotto questo aspetto, la vicenda italiana degli anni Settanta del secolo scorso parla chiaro.

La violenza dispiegata che sospende momentaneamente la “pacifica” ricerca del consenso nella tradizionale forma democratica si dà solo nei momenti di più acuta crisi sociale, mentre in epoca di “pace sociale” si assiste a un’intelligente alternanza di carota e bastone, il quale ovviamente non è tolto nemmeno per un istante dalla vista dei dominati, come monito di ultima istanza, come estrema ma sempre incombente minaccia.

La dialettica del processo sociale associa la violenza dispiegata delle classi dominanti, attraverso lo Stato che ne rappresenta e tutela gli interessi generali (non di rado anche contro fazioni borghesi particolari), con una loro attuale o potenziale condizione di debolezza politica, dovuta a crisi sociali particolarmente acute. Ma lo stato d’eccezione, per dirla con Carl Schmitt, lungi dal sospendere lo Stato di diritto, come credono gli apologeti del Patto sociale ratificato da una Costituzione, piuttosto riafferma, espande e radicalizza il Diritto, producendo le nuove forme e le nuove modalità attraverso le quali esso può estrinsecarsi adeguatamente, in sintonia con i nuovi tempi. L’eccezione non solo non nega la regola ma ne illumina anzi la profonda e maligna radice.

Chi dice Diritto dice forza, potenza, violenza, divisione classista della società. Per questo non c’è Stato che non sia di Diritto, nell’accezione più radicale del concetto elaborata attraverso la critica del punto di vista pattizio (contrattualistico) hobbesiano e post-hobbesiano.

Mutuando la teologia di Santa Romana Chiesa, non è poi così blasfemo, sul piano dottrinale, dire che il Dominio scrive diritto per linee storte.

Ecco perché pongo la lotta contro il cosiddetto fascismo2.0 sullo stesso piano della lotta contro la democrazia, e combatto tutte le posizioni antifasciste che in un modo o nell’altro tendono a puntellare la democrazia e lo Stato, che è sempre e necessariamente di Diritto – almeno nell’accezione critico-radicale sopra accennata, la sola che non rimane impigliata nell’ideologia borghese del Patto sociale.

So di sostenere tesi che ai più appaiono assurde, necessariamente, anche perché l’ideologia dominante è entrata così in profondità nel corpo sociale, da non lasciare all’immaginazione altra possibilità se non quella di cavalcare ben dentro i confini tracciati dagli attuali rapporti sociali. D’altra parte, come diceva l’avvinazzato di Germania, «Ogni [co]scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero» (Il Capitale). Maledetta dialettica delle cose!

L’esistenza di un Parlamento liberamente eletto prova la forza delle classi dominanti, le quali mostrano di non aver bisogno della coazione politica diretta sugli individui per imporre loro il proprio punto di vista, la propria visione del mondo, i propri valori. In tempi ordinari l’ideologia dominante è l’ideologia delle classi dominanti, come aveva capito sempre il comunista di Treviri.

Cosa significa, oggi, essere in sintonia con i bisogni e le idee della gente? Credete davvero che se la gente, colta nella sua odierna consistenza empirica, se così posso esprimermi, avesse davvero la possibilità di decidere sulle sorti del mondo, quest’ultimo muterebbe radicalmente il suo disumano volto? Infatti, qual è, oggi, la massima aspirazione politico-ideale coltivata dalla stragrande maggioranza delle persone, soprattutto da quelle socialmente più disagiate? Un onesto lavoro, magari garantito a vita – dalla culla alla bara – dal Leviatano, una casa, le ferie comandate, una vita complessivamente «più dignitosa», politici onesti e capaci, la pace nel mondo. (E chi vorrebbe la guerra nel mondo?)

D’altra parte, l’abolizione dei rapporti sociali capitalistici non è questione che si possa affidare a una tornata elettorale, né a un referendum popolare: credetemi sulla parola. Oppure andate sul Blog di Grillo…

Già mi pare di sentire il rimprovero del realista, di quello che è sempre in sintonia con i bisogni e le idee delle larghe masse (come non lo invidio!): «E ti sembra poco, soprattutto in tempi di crisi economica, l’elenco che con tanto sprezzante sarcasmo ci hai voluto fare?» Non è che mi sembra poco o molto: mi sembra piuttosto la conferma della schiavitù capitalistica. Tutto qui.

Nelle più acute crisi sociali, che sempre hanno un fondamento economico, si dà la possibilità concreta che anche l’ideologia dominante entri in crisi almeno nella testa di chi si accorge all’improvviso e con orrore di non avere più nulla da perdere (e forse nemmeno una condizione migliore da conquistare nell’immediato), ma anche nelle teste dei più umanamente sensibili, qualunque sia la loro provenienza sociale. È a questo punto che lo spettro della Rivoluzione sociale inizia a prendere sostanziosa consistenza, se mi è concesso scriverlo, sotto gli occhi delle classi dominanti, le quali getteranno senz’altro via la carota democratico-parlamentare per afferrare meglio il bastone, e poi le manette, e poi…, e poi tutto quello che serve alla bisogna. Tutto. Per le “autocritiche” e il piagnisteo organizzato sugli “eccessi di difesa” dello Stato c’è sempre tempo. D’altra parte la Controrivoluzione non è un pranzo di gala!

Questo accade puntualmente quando la riserva di stabilità garantita dalla gestione democratica dei conflitti sociali si esaurisce in grazia di un moto sociale particolarmente tempestoso, tale da mettere in questione l’intero assetto della metaforica nave. Inutile dire che è in questo mare periglioso ma pregno di futuro che ama nuotare il soggetto della rivoluzione sociale, la cui comparsa è forse il segno più tangibile del carattere eccezionale di una situazione storica.

ORGASMI FISCALI E «FASCISMO DEL XXI SECOLO»

BOT ALLA PATRIA! CARCERE AL TRADITORE FISCALE!

Dopo il blitz della Guardia di Finanza a Cortina l’Italia fiscalmente onesta e patriottica si è lasciata andare in un orgasmo degno di altre più piacevoli incombenze. D’altra parte, i gusti degli altri non si discutono. Purtroppo si subiscono. Mio zio, non vedendomi partecipare al godimento degli onesti, e nutrendo ancora qualche pia illusione sul mio conto, ha sbottato contro la mia tetragona irresponsabilità: «Ma come, ogni tanto lo Stato fa il suo dovere, e mette in croce quei porci in Ferrari che dichiarano all’erario una miseria, e tu, tu che non puoi permetterti neanche una Panda, non gongoli?» Non ho nemmeno provato a spiegare al poveruomo che un anticapitalista non può essere contento quando lo Stato festeggia i suoi successi. Né ho cercato di dimostrargli che lo Stato, in quanto massima espressione politica del Dominio Sociale, fa sempre il suo dovere, e con Diritto. E così ho preferito rimanere in silenzio, lasciandolo cuocere nel suo onesto brodo di pensionato socialmente invidioso e desideroso di forca. Una cosa però, alla fine, gli ho detto, giusto per testimoniargli il mio dissenso. Questo minimo sindacale critico: «Ogni chiodo che lo Stato pianta sulla mano del ricco, equivale a cento chiodi piantati sul corpo dei poveri cristi, perché il rigore del Leviatano si abbatte soprattutto sulle condizioni di vita delle classi dominate. Il povero che invoca lo Stato contro il ricco che evade le tasse legittima il bastone del Sovrano che non perde occasione per ricordargli di rigar dritto». Oltre a cadere nella trappola del ragno demagogo, aggiungo adesso.

Come ho scritto altrove, lungo tutti questi decenni lo Stato Italiano ha dovuto fare, come si dice, buon viso a cattivo gioco con l’evasione fiscale, con il “lavoro nero”, con i falsi invalidi, persino con la mafia, e con altre antiche ma sempre vitali magagne, per cercare di gestire al meglio un Paese altamente contraddittorio, assai complesso sul piano della stratificazione sociale e della prassi economica. Il compromesso tra le classi dominanti (pensiamo agli agrari del Sud e ai capitalisti industriali del Nord nel periodo post risorgimentale, al settore economico privato confrontato con quello statale e parastatale, ecc.) e la paura di radicali trasformazioni sociali, anche nel segno di una più accentuata e dinamica modernizzazione capitalistica (foriera dei temuti conflitti sociali), hanno dato il tono allo sviluppo economico-sociale di questo Paese. La politica e lo stesso «carattere» della Nazione hanno espresso questo dato di fatto storico-sociale, i cui numerosissimi nodi vengono al pettine nei momenti di acuta crisi economica. È in questi momenti che il Bel Paese sente il bisogno di un bel giro di vite nel segno dell’Autorità.

Cos’è il «Fascismo del XXI secolo»? Per rispondere a questa domanda bisogna comprendere cosa fu il Fascismo del XX secolo. Esso fu, a mio avviso, diverse cose: l’espressione della violenza sistemica messa in luce – non “inventata” – dalla Grande Guerra, la fenomenologia politico-sociale della grave crisi post bellica, il tentativo, riuscito, di assestare il colpo decisivo a un movimento operaio già fiaccato dal riformismo socialista e giolittiano, nonché l’espressione di un compito storico: mettere un Paese capitalisticamente ritardatario nelle condizioni  di superare i limiti che lo trattenevano al di qua dell’agone delle grandi potenze. Certo, il Fascismo anche come via italiana alla modernizzazione capitalistica, dopo la crisi del vecchio Stato liberale e l’emergere di una epocale crisi economica mondiale. Ma l’ambizione “rivoluzionaria” del Duce non si limitava alle strutture economiche e istituzionali del Paese; essa toccava, per così dire, la stessa biografia antropologica della Nazione. Egli voleva fare degli italiani un popolo capace di reggere il confronto con i più blasonati popoli europei, e per questo quando nel Bel Paese faceva freddo e nevicava, il suo umore migliorava: «Questo è il clima adatto per temprare uomini virili!» Poi tornava il bel tempo, e si lasciva andare alle note considerazioni intorno all’inutilità di governare gli italiani, troppo viziati dal sole e dalla materna pasta asciutta. «Noi fascisti non amiamo le comodità», soleva dire Mussolini, contraddetto puntualmente dagli italiani. Anche l’ex «fascista di Arcore», prima di scivolare sullo spread, si è lasciato andare a simili sconsolate considerazioni intorno all’italico carattere, col solito strascico di indignate riprovazioni: «Uno come lui non può dare lezioni di etica!» E uno come Lui?

Adesso tocca a Mario Monti, il più tedesco degli italiani (forse dopo Mario Draghi), provare a cambiare il carattere «lassista e menefreghista» degli italiani, almeno per farne degli onesti contribuenti. E qui veniamo al cosiddetto «Fascismo del XXI» secolo. Alcuni esempi, legati all’attualità dell’orgasmo fiscale, forse possono aiutarci a districare la matassa.

Il democratico Dario Franceschini ha dichiarato che se «l’evasione fiscale è sempre un grave reato penale, in tempo di crisi è anche un delitto morale». Delitto morale! È il caso di tenere pronta la valigia? Giusto per non dimenticare il nécessaire. Il Fascio Quotidiano straripa di elogi alle gloriose Fiamme Gialle, e il forcaiolo Travaglio ha facile gioco contro l’onorevole Cicchitto, reo di volere una lotta all’evasione fiscale «non poliziesca e non indiscriminata». «Ma la polizia per forza adotta metodi polizieschi, e la lotta all’evasione dev’essere parziale o totale?» L’apologeta delle manette si trova sempre a suo agio quando il gioco si fa duro. Non è più tempo di «garantismo»: aspettiamoci molti giri di vite da parte del Leviatano. Francesco Pizzetti, presidente dell’Autorità garante per la privacy, sempre sul Fascio Quotidiano, l’ha detto chiaramente: «Una compressione della libertà è legittima in tempi eccezionali. Ricordate gli anni di piombo?» Prima rispristiniamo la legalità fiscale, e poi ritorniamo alla normalità: «L’emergenza relativa ai mancati introiti del fisco è un rischio che può essere equiparato a quello che fu il terrorismo o la criminalità organizzata quando diventò necessario rendere noti i nomi degli ospiti nelle nostre case o le nostre generalità alla Polizia in caso di una permanenza di una sola notte in albergo» (FQ, 4 gennaio 2012). Mettere la cosiddetta «privacy» nelle mani di uno come Pizzetti è come affidare a Dracula l’Autorità per la tutela del sangue. Ma vediamo come chiosano i fattisti: «Dunque il Garante per la protezione dei dati personali suggerisce di sconfiggere ansie di intrusione nella privacy dei cittadini per l’obiettivo comune di far pagare il dovuto ai più furbi che nascondono le proprie ricchezze e vivono in Suv e brindano a Cortina in alberghi a 5 stelle». Il Partito della Legge e dell’Ordine getta benzina sul fuoco dell’invidia sociale, assai acuita dalla crisi economica, e invita il bravo e onesto cittadino a non temere le scorribande del Leviatano nella sua vita: solo chi ha qualcosa da nascondere deve trattenere il respiro e sperare che il Mostro non si accorga di lui. Ma tutti, sotto sotto, abbiamo qualcosa da nascondere, almeno nell’occhiuta considerazione del Leviatano, cane da guardia di questa società altamente disumana, e dunque potenzialmente sempre sul punto di saltare in aria. Il sospetto del Mostro è forse l’unica buona notizia che possiamo permetterci.

Anche Piero Ostellino non vuole partecipare all’orgia fiscalista e, al contrario di chi scrive, piange sulla crisi «della democrazia liberale, dello Stato di diritto e del mercato». Pur sapendo di attirarsi «l’indignazione dei benpensanti – che frastornati dal gran polverone, donano entusiasti l’oro alla Patria e rinnegano le libertà di cui ancora godono e che stanno perdendo – e dei miei colleghi “laici, democratici, antifascisti”», il Cittadino liberale si chiede sconsolato:  «Perché – a 66 anni dalla caduta del fascismo – molti italiani sono ancora, culturalmente, in camicia nera e vedono nel potere politico un Duce in nome del quale “credere, obbedire, combattere”»? E conclude la sua perorazione liberale con questa significativa considerazione: «Un lettore mi ha chiesto se le libertà del liberalismo consistano nel rapinare le banche. Un idiota? No, il figlio della cultura dominante». Non c’è dubbio. Il braccialetto elettronico per i delinquenti è l’equivalente della rintracciabilità fiscale degli onesti.

Relativizzare sul piano storico-sociale il Fascismo del XX secolo fa comprendere meglio il passato, liberandolo da quelle eccezioni costruite strumentalmente a uso e consumo della battaglia politica (persino Gianfranco Fini definì il fascismo «un Male Assoluto»!); e soprattutto illumina meglio il presente, immerso in una contingenza che fa dell’autoritarismo non solo un potente richiamo ideologico, ma anche e soprattutto uno strumento al servizio della sempre più necessaria e stringente ristrutturazione del Sistema Capitalistico Italiano. Solo su questa base concettuale credo abbia un senso parlare del «Fascismo del XXI secolo».

ORGIE FISCALI, DERIVE DEMAGOGICHE E OPPIO SOCIALE

Commentando su Facebook l’indignata rivolta fiscale antivaticana che impazza sul Web, mi permettevo i seguenti commenti in appoggio alle tesi sostenute da mrz nel suo articolo Le tasse della Chiesa e gli atei dispettosi su The Pensive Image:

“Peraltro non si attacca il Vaticano in quanto potente Agenzia politico-ideologica al servizio del Dominio, come ne esistono tante altre (a cominciare dalla Suprema Agenzia, lo Stato, ovviamente), ma nella sua veste di «Casta Simoniaca». Fino a che cura «i poveri e gli infermi», ossia nella misura in cui legittima e radica sempre di nuovo la sua funzione sociale ultrareazionaria, la Chiesa può anche andare bene, soprattutto considerando la sua non esigua «base progressista»; ma come soggetto economico, come impresa capitalistica, le si contesta un’inammissibile furberia fiscale. All’Indignato fiscale non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che mentre offre al governo manovre economiche “alternative”, in quel preciso momento egli sancisce la sua impotenza politica, sociale, etica. Pensare di saperla più lunga di chi ci domina, è da sempre un’illusione esiziale.”

“D’altra parte, criticare l’Indignato Fiscale è come sparare a un cieco che crede di avere tra le mani un fucile, mentre prende la mira armato di un… mestolo. A quel punto che fai, t’incazzi? O corrobori il tuo discorso critico con puntuali, quanto inutili, dettagli tecnici? No, ti scappa da ridere. Semplicemente. E ridi a crepapelle anche quando vedi l’anticlericale alla Radicale che grida alla «casta simoniaca»: nel nome del Fisco ti espello! Che sia vera l’idea secondo la quale una risata li seppellirà? A occhio mi sembra un’ipotesi un po’ troppo ottimistica. Ma, come dice il Pastore Tedesco (Indignato, hai visto quanto oro esibisce l’abito del Supremo Mediatore: e la Patria muore di fame!), «bisogna non smettere mai di aver fede».”

Savonarola

“Mi sembra di averlo già detto: quando l’Indignato Fiscale entra nel merito della manovra economica, pensando di saperla più lunga «di quegli incompetenti e disonesti che ci governano», solo per questo egli si espone col sorriso sulle labbra a prenderlo lì dove sempre più spesso batte il sole. L’Incazzato Sociale, invece, avanza rivendicazioni d’ogni genere, senza suggerire al Padrone soluzioni di sorta. D’altra parte egli non discrimina tra Agenzie politico-ideologiche religiose e analoghe Agenzie laiche (comprese quelle «progressiste» tipo ARCI, e quelle scientifiche). Dal suo punto di vista irresponsabile e disfattista non si tratta di esigere sacrifici universali «per il Bene Comune», a partire dai «ricchi» e dagli appartenenti alla «casta» politico-religiosa, ovviamente; quanto piuttosto di mettere in discussione, sul piano teorico e politico, gli stessi concetti di Sacrificio e di Bene Comune. L’Incazzato Sociale lascia volentieri all’Indignato Fiscale la risibile illusione della manovra economica “alternativa”, magari «dal basso e anticasta». Meglio se «equosolidale» e «ecosostenibile».”

San Sebastiano, Antonello da Messina

A quanto pare a un amico marxista di FB questi commenti sono sembrati «oggettivamente» proni, non tanto – meglio: non solo – alla Casta Vaticana, quanto alla stessa ideologia religiosa. Ecco cosa mi scrive il marxista indignato: «Ma la lotta contro la religione non è parte integrante del progetto anticapitalista? Non ha forse detto Marx che la religione è l’oppio dei popoli? Come fai a non vedere che il movimento antivaticano, pur con i suoi limiti piccolo-borghesi, rappresenta un oggettivo passo in avanti in direzione di una ripresa della coscienza di classe?» In altri termini, mi si rimprovera una scarsa capacità dialettica. L’accusa è sanguinosa!

Dall’indignazione fiscale all’indignazione ideologica: la faccenda si fa interessante. Vediamo di rispondere alla dura requisitoria dell’amico.

Nella misura in cui la religione si dà come un insieme di credenze, di valori e di comportamenti che, per un verso, deprimono l’autonoma capacità di iniziativa politico-sociale delle classi subalterne, mentre per altro verso concorrono al mantenimento e al rafforzamento del Dominio sociale vigente, è ovvio che il minimo sindacale del pensiero critico va nel senso della battaglia antireligiosa. Ma, e questo è per me un punto dirimente, quella battaglia antiideologica non assume per il sottoscritto una connotazione particolare, una peculiare urgenza rispetto alla più complessiva critica dell’ideologia borghese tout court, qualsiasi ne sia la fenomenologia contingente (religiosa, laica, atea, scientifica, persino «marxista»!)

Se vuole essere davvero radicale, il pensiero critico (non so se esso corrisponda a ciò che l’amico chiama «marxismo»: di primo acchito tendo a escluderlo) non deve mai dimenticare che prima di dare corpo a un’ideologia, con tanto di Sistema dottrinario e di apparato istituzionale, il bisogno religioso è innanzitutto un bisogno sociale, la cui genesi ancora oggi va ricercata nell’intima struttura della società che sempre di nuovo promuove prassi ostili all’umano, ossia a tutto ciò che odora di umanità. Per questo Il Pastore Tedesco, nonché teologo di prima grandezza, mostra di saperla assai più lunga sulle cose del Mondo del suo critico ateo e anticlericale, il quale ancora oggi fa della religione un fatto di beata ignoranza: proprio la sua Scienza, la sua Tecnica e il suo Progresso alimentano come nessun’altra cosa il bisogno sociale dell’irrazionale, il quale appare assai più conforme a razionalizzare una prassi che trasuda disumana irrazionalità da tutti i pori del corpo sociale. Chi consiglia di tassare il Vaticano per finanziare la ricerca scientifica commette il più odioso dei peccati sull’altare dell’apologia capitalistica.

Opium

E qui veniamo al marxiano «oppio dei popoli», un concetto indegnamente volgarizzato e svilito soprattutto dagli epigoni. Leggiamo (come si dice nella Santa Messa): «La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1843-44). Perle ai marxisti, pardon: ai porci, non c’è che dire.

La lancia critica di Marx è dunque rivolta innanzitutto contro la miseria sociale (in un’accezione tutt’altro che economicistica) che crea sempre di nuovo il bisogno di oppio, ossia di una sostanza che lenisce il dolore e che promette la Liberazione dal Male. Notate l’abisso concettuale che separa il pensiero critico-radicale dall’ateismo?

Sul piano strettamente politico, ribadisco che dare consigli al Padrone (allo Stato, al governo, alla Confindustria, ai partiti, ai sindacati, alla Chiesa), o credere di poterlo usare per colpire questa o quell’altra «Casta» («la crisi la paghino i politici, ma anche il Vaticano, ma anche i Super Ricchi, ma anche i calciatori, gli evasori, i corrotti, i…») equivale a sottoscrivere la propria impotenza politica, sociale, etica. Concordo con l’Incazzato Sociale, il quale suggerisce all’Indignato Fiscale di tenersi ben lontano dai tavoli governativi dove si entra nel merito delle cose da fare per superare la crisi: una volta assunto il punto di vista del «Bene Comune» egli corre il rischio di diventare persino più realista del re.

Los indignados

TUTTI IN VACANZA A MISERABILANDIA

La cosiddetta Destra che difende la «democrazia dei cittadini»; la cosiddetta Sinistra che invece esalta la «democrazia dei mercati». I destri che si pongono a baluardo del «governo eletto liberamente dal popolo», i sinistri che invocano il responso inappellabile dei «Poteri Forti»: Mercati, Magistrati, Marchionne, e tutto ciò che può venire in loro soccorso per farla finita con lo Statista di Arcore.

La «Destra» che si oppone alla «macelleria sociale» richiesta dai «mercatisti», la «Sinistra» che reclama con rinnovata insistenza un governo di «Unità Nazionale» in vista delle «necessarie dolorose misure» idonee a mettere il Paese al riparo dall’imminente catastrofe economica, politica e morale.

Che cosa avrebbe pensato Gaber, che cantava «Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?», dinanzi a questo falso paradosso? Intanto i media progressisti hanno creato ad arte un clima da fine del mondo, in modo da legittimare l’auspicato golpe democratico a suo tempo teorizzato dal fasciostalinista Asor Rosa. Nell’operazione si è distinto Enrico Mentana, ieri Mitraglia e oggi Pistola: dal crollo del capitalismo all’invasione delle cavallette; dalla miseria generalizzata per tutti, ricchi compresi, al Diluvio Universale prossimo venturo: ecco servito il terrorismo mediatico teso a creare nel pubblico ansia a attesa. Attesa dell’Evento Catartico: la fine di Berlusconi. Nientemeno! Ma la fine del mondo non cade nel dicembre del 2012?

Dopo aver ascoltato il discorso di Bersani alla Camera Valentino Parlato ha dichiarato che «la sinistra non esiste», soprattutto nel momento in cui il Cavaliere Nero ha potuto accreditarsi come il campione della democrazia politica in lotta con «il potere irresponsabile e non democratico dei mercati». Nient’affatto: la «Sinistra», Parlato compreso, è quella che abbiamo visto ieri in Parlamento, e che, mutatis mutandis, vediamo all’opera da mezzo secolo a questa parte. Più o meno statalista, più o meno forcaiola, più o meno innamorata di miserabili miti: da Stalin a Madre Teresa di Calcutta. Quella «Sinistra» che su molti versanti dell’iniziativa politica (borghese, è il caso di dirlo?) si colloca alla destra della «Destra»: un rebus solo per chi, come dice il filosofo, non coglie la reale essenza delle cose.

Mentre scrivo pare che la Borsa di Milano ha votato contro il Governo Berlusconi: questa sì che è democrazia decisionista! Altro che Carl Schmitt!

Post Scriptum: Ho visto al telegiornale Mubarak ridotto al miserabile rango di vecchio «terminale» rinchiuso in gabbia, in attesa che la Giustizia lo consegni al boia, come capro espiatorio. Fuori dal Tribunale, simpatizzanti e antipatizzanti dell’ex Rais se le davano di santa ragione. Non ho pensato, banalmente, «chi la fa, l’aspetti!», o «finalmente Giustizia è fatta», ovvero: «è la rivoluzione – sic! – bellezza!» No. Ho pensato quanto astuto e potente è il Dominio Sociale quando agli individui è precluso il contatto con la verità.

IMPIGLIATI NELLA RETE. IL TOTALITARISMO 2.0

Già il 7 giugno scorso Luca Ricolfi invitava i politici del Bel Paese a non «seguire il gregge referendario», per non compromettere il futuro della Nazione assecondando demagogicamente umori dettati più dall’istinto e dall’ignoranza, che dalla conoscenza dei fatti.

«È abbastanza mortificante lo spettacolo cui dobbiamo assistere in questi giorni, gli ultimi prima dell’appuntamento dei referendum. In un Paese serio si discuterebbe del merito dei quattro quesiti, e cercheremmo tutti di farci un’idea dei pro e dei contro, dei benefici e dei costi, delle opportunità e dei rischi… E i politici di sinistra, gli stessi che ora ci chiedono di votare contro la «privatizzazione dell’acqua», appena avranno cacciato Berlusconi e riconquistato il governo del Paese torneranno a intonare l’inno delle liberalizzazioni, delle «lenzuolate» che dovrebbero far ripartire l’Italia… chi non perde occasione per difendere la democrazia, la laicità, la qualità della discussione pubblica, non dovrebbe prestarsi a questo gioco» (Se i politici seguono il gregge, pubblicato su La Stampa di Torino del 7 giugno 2011).

Oggi il bravo sociologo italiano ritorna alla carica (sempre su La Stampa): ma che democrazia è mai quella che ci consegna il risultato bulgaro uscito dalle urne domenica e lunedì scorsi? I sì hanno riportato un inquietante 95 per cento: cose viste solo nei regimi totalitari! Ricolfi non dimentica nemmeno di ricordare il ruolo che Internet ha avuto nella diffusione dell’irrazionalità e della demagogia in tutta la campagna referendaria.

Approfitto delle democratiche e libertarie riflessioni dello Scienziato Sociale – che certo non possono commuovere un disfattista patentato come me – per declinare in un’accezione squisitamente sociale, e non meramente politica, il concetto di totalitarismo. In effetti, quello che abbiamo visto il 12 e 13 giugno è un esempio di Totalitarismo 2.0, quello cioè reso anche possibile dallo sviluppo delle moderne tecnologie «intelligenti». Lo stesso a cui altri Scienziati Sociali tessono apologetiche lodi parlandoci di «nuova democrazia partecipativa», della «democrazia dal basso» che correrebbe lungo la Grande Rete Intelligente.

Come sempre il Male non alligna nella tecnologia, ma nell’uso che se ne fa, anche se non bisogna mai trascurare il fatto che nemmeno la tecnologia «in sé» è del tutto neutra sul piano dei rapporti sociali. Dico questo per mettere le mani avanti e parare la banale obiezione modernista: ovviamente non trascuro di valutare il «risvolto dialettico» immanente nella Big Net, ossia la possibilità che in essa possano circolare più rapidamente e diffusamente idee veramente rivoluzionarie. Ma, appunto, questa è solo una possibilità, né bisogna dare per scontato che ci sia effettivamente un «risvolto dialettico nella cosa stessa»: tutt’altro! Di scontato, oggi, c’è solo il dominio sempre più capillare e intelligente del Capitale.

Chi vuole capire la realtà del Totalitarismo 2.0, chi non vuole farsi calpestare il cervello dalla mandria elettronica, invece di ubriacarsi con «risvolti emancipativi» più o meno di là da venire, farebbe bene a concentrasi sulla sua fenomenologia politica, istituzionale, culturale, psicologica, in una sola parola: sociale.

«Io – scriveva Montesquieu nei suoi Pensieri – paragonerei piuttosto le buone leggi a quelle grandi reti in cui i pesci sono prigionieri, ma si credono liberi, e le cattive a quelle reti in cui stanno tanto stretti, che immediatamente comprendono di essere prigionieri».

Personalmente già sento odor di frittura!

NON C’È PROPRIO NULLA DA FESTEGGIARE

Oggi è il 25 Aprile. «Bella scoperta!», direte a ragione. Ma non è sul calendario che voglio brevemente intrattenervi, quanto sul significato politico di questa data. Infatti, oggi lo Stato (nel significato più vasto del concetto, che ingloba i partiti, i sindacati, l’associazionismo riconosciuto e promosso dalle leggi, ecc.) ci prescrive la cosiddetta Festa della Liberazione. Ebbene, uno dei miei più “classici” cavalli di battaglia corre selvaggiamente – o, se volete, polemicamente – intorno al significato politico e sociale di questa Sacra data.

Per farla breve, anche perché le incombenze festaiole reclamano i loro giusti diritti, la mia tesi è questa: la cosiddetta Resistenza è stata, per l’Italia, la prosecuzione della guerra Imperialista con altri mezzi e nelle mutate circostanze generate dalla caduta del regime fascista nel fatale luglio del ’43 (e dire che Mussolini aveva definito Grandi «un ottimo governante»!). Grazie alla Resistenza l’Italia poté giocare sulla scena internazionale la sua tradizionale partita tesa a lucrare il massimo possibile anche nelle peggiori circostanze. Maestria politica che postula improvvisi tradimenti (la ricerca del capro espiatorio è un classico nel repertorio politico italiano: l’amatissimo Duce appeso come un maiale scannato a Milano la dice lunga, a tal proposito), spregiudicati «giri di valzer» con questa e/o quella Potenza, e via di seguito. La Germania e il Giappone, che non seppero saltare immediatamente sul carro dei vincitori, pagarono un prezzo assai più alto, sotto ogni rispetto.

Va perciò a onore della Resistenza la difesa degli interessi nazionali del Paese quando le Potenze vittoriose disegnarono i nuovi assetti geopolitici e geoeconomici mondiali. Naturalmente chi “vive” questi patriottici interessi come qualcosa di radicalmente ostile all’uomo (a prescindere dalle forme politico-istituzionali che essi assumono nella contingenza: totalitarie, democratiche, ecc.) non ha nulla da festeggiare, almeno sul piano della politica e delle idee.

Buon lunedì di Pasqua a tutti!