SERGIO MARCHIONNE COME PERSONA E COME FUNZIONARIO DEL CAPITALE

Questo post è stato scritto ieri.

Solo in quanto è capitale personificato, il capitalista ha
valore storico e possiede quel diritto storico all’esistenza
che, come dice spiritosamente il Lichnowsky, non ha data.
Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del
capitale; in tale qualità condivide l’istinto assoluto per
l’arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che
in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista
è effetto del meccanismo sociale, all’interno del quale egli
non è altro che una ruota dell’ingranaggio.
K. Marx

Tra le tante interviste rilasciate sulla vicenda Marchionne dai personaggi che rappresentano l’establishment politico, economico, sindacale e culturale del nostro Paese si segnala per più motivi, a mio avviso, quella rilasciata oggi da Fausto Bertinotti a Repubblica. Intanto l’ex Presidente della Camera invita a distinguere il Marchionne come persona che lotta per la vita in una stanza d’ospedale, dal Marchionne come funzione sociale e come simbolo che rinvia a un sistema sociale, e questo in risposta al molto odio e disprezzo a cui  in queste ore è fatto segno l’ex Chief Executive Officer della Fiat Chrysler Automobiles (e molto altro ancora) anche da parte di non pochi lavoratori che hanno sperimentato sulla loro pelle la funzione sociale esercitata da Marchionne. È facile esercitarsi in simili distinzioni quando non si ha a che fare con la sopravvivenza quotidiana, quando ci si può concedere il lusso della riflessione distaccata. Come sempre occorre cercare le cause dei comportamenti che giudichiamo inappropriati sotto il profilo etico, anziché perdere tempo nel solito rituale esercizio dell’indignazione quotidiana che non manca di oggetti sempre nuovi su cui scaricarsi.

«Cara Collega, Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno. Si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta. È un mondo in cui ogni nuovo giorno e ogni nuova sfida regalano l’opportunità di creare un futuro migliore. Chi abita in quel luogo, non vive mai lo stesso giorno due volte, perché sa che è sempre possibile migliorare qualcosa. Le persone, là, sentono di appartenere a quel mondo eccezionale almeno quanto esso appartiene loro. Lo portano in vita con il loro lavoro, lo modellano con il loro talento. V’imprimono, in modo indelebile, i propri valori. Forse non sarò un mondo perfetto e di sicuro non è facile. Nessuno sta seduto in disparte e il ritmo può essere frenetico, perché questa gente è appassionata – intensamente appassionata – a quello che fa. Chi sceglie di abitare là è perché crede che assumersi delle responsabilità dia un significato più profondo al proprio lavoro e alla propria vita. Benvenuta in quel mondo. Benvenuta in Fiat Chrysler Automobiles». Ho riportato il testo di una lettera inviata da Marchionne nella sua qualità di Chief Executive Officer della Fca a una sua nuova dipendente. È possibile che non tutti si sentano a proprio agio nel competitivo mondo descritto così entusiasticamente da Marchionne. D’altra parte il lungo processo di ristrutturazione tecnologica e di risanamento finanziario guidato con successo dall’ex capo operativo della FCA ha lasciato sul terreno molti morti e molti feriti, né bisogna trascurare il malessere “esistenziale” che il forte incremento di produttività ha provocato nei lavoratori che hanno avuto e hanno la “fortuna” di abitare in «quel mondo eccezionale».

In ogni caso è certamente vero che il problema non sono le persone ma la loro funzione sociale; ma d’altra parte non ci si può certo scandalizzare se quella funzione genera presso non pochi individui un odio e un disprezzo tali da coinvolgere anche la sfera personale di un individuo che incarna una determinata funzione per conto della società. Il circolo è “oggettivamente” vizioso! Non si tratta di giustificare comportamenti più o meno “deplorevoli” posti in essere da chicchessia, ma di capirne le cause più significative, quelle che ci aiutano a capire in che razza di mondo siamo costretti a vivere. La società raccoglie ciò che i suoi rapporti sociali dominanti seminano sempre di nuovo.

D’altra parte la stessa maniacale cura con cui per giorni i massimi dirigenti della galassia Fiat-Agnelli hanno cercato di tenere nascosta la notizia del ricovero ospedaliero del Super Manager  e dell’inatteso aggravamento delle sue condizioni di salute, nell’evidente – e più che giustificato – timore di improvvisi sommovimenti borsistici, la dice lunga sulla distinzione tra funzione sociale e sfera personale. Certe infauste notizie si danno solo a mercati chiusi! Lo stesso finanziere dai maglioni neri quasi certamente avrebbe condiviso quell’”umanissimo” riserbo tenuto da persone dedite alla santa causa degli azionisti. Sembra però che non tutti gli investitori della Multinazionale basata a Detroit hanno apprezzato il depistaggio messo in atto dalla famiglia Agnelli-Elkann per non far scappare  precipitosamente i buoi con un po’ di malloppo in pancia. Il riserbo “umanissimo” va bene, purché non intacchi la borsa! Come sempre cinica è in primo luogo la realtà, quella che a diverso titolo e con diverse conseguenze tutti subiamo.

In ogni caso, e come si è capito, qui parliamo di Marchionne come funzionario del capitale, nell’accezione propria – direi marxiana – del concetto. Ma ritorniamo all’intervista di Fausto Bertinotti, un altro personaggio con la fissa dei maglioncini, questa volta di cachemire: la classe non è acqua…  «Quella del cachemire è una leggenda metropolitana», ha detto una volta Bertinotti; se è per questo anche il suo essere “comunista” è rubricabile come leggenda metropolitana, peraltro di pessima fattura.

Com’è noto Bertinotti è un nostalgico dei “bei” tempi che furono, quando ad esempio «Non si attaccava mai qualcuno sul piano personale. Si discuteva di ciò che le persone rappresentavano. Si discuteva del capitalista, dell’ imprenditore, del padrone. Ma non si attaccava mai la persona. Anche perché questo avrebbe significato mettere in secondo piano l’analisi sulla società, che poi era quella che ci interessava. Questo vale anche per lo slogan Agnelli, Pirelli ladri gemelli: in quel caso Agnelli e Pirelli erano dei simboli, non delle persone in carne e ossa». Come sappiamo «l’analisi sulla società» dei cosiddetti “comunisti” portava a conclusioni politiche che non avevano nulla a che vedere con una prassi autenticamente comunista, ossia anticapitalista, e lo confessa lo stesso Bertinotti, il quale mostra di apprezzare la “fase olivettiana” di Marchionne: «A mio parere Sergio Marchionne rappresenta la transizione dal capitalismo del Novecento italiano a quello della globalizzazione. Lui stesso ha avuto due diverse fasi. Ho in mente il discorso che fece all’ Unione industriale di Torino credo nel 2006. Un discorso importante, direi di impronta olivettiana». Piccola parentesi: è ormai da diversi anni che l’ex leader dei rifondatori del “comunismo italiano” consiglia ai suoi vecchi compagni di sventura di riscoprire le “culture umaniste” come il “comunitarismo” di Adriano Olivetti, e questo ovviamente alla luce del doppio fallimento del «comunismo novecentesco» (leggi: stalinismo nelle sue diverse traduzioni nazionali) e del «capitalismo finanziario globalizzato» che secondo il Nostro si sarebbe consumato soprattutto ai danni dei lavoratori.  Chiudo la parentesi e riprendo la citazione: «Marchionne spiegava che i lavoratori sono la vera ricchezza il vero valore aggiunto di un’azienda ». Fermi tutti! Ma questo lo aveva detto qualche annetto fa un tal Karl Marx, se la memoria non m’inganna. Nel suo Capitale si legge infatti che solo il lavoro vivo crea al Capitale ricchezza, cioè valore: il robot ha il disumano potere di rendere più produttiva la singola capacità lavorativa, come sanno i Marchionne di tutto il pianeta, ma non è in grado, “in sé e per sé”, di creare «valore aggiunto», ossia quel vitale plusvalore che costituisce la materia prima d’ogni specie di profitto, di rendita e così via. Sto forse alludendo alla marxiana distinzione tra «capitale costante» (robot) e «capitale variabile» (lavoratore)? Si capisce! A tal proposito rinvio a un mio vecchio post, credo buono per l’occasione: Marchionne e la bronzea legge del valore. Le ragioni del Capitale (della Fiat e di Marx).

«Marchionne ha cambiato atteggiamento», continua il simpatico Fausto, «quando ha accettato di portare l’azienda in una dimensione globale, in una dimensione post-novecentesca. Quando Fca è diventata globale è la finanza che ha finito per prevalere sul lavoro. Con quella operazione Marchionne ha fatto uscire l’azienda dalla civiltà del lavoro del secondo Novecento». Mi permetto a questo punto una piccola, quasi insignificante precisazione, giusto perché sono un inguaribile pignolo: trattasi della civiltà del lavoro salariato, ossia del lavoro dominato dal rapporto sociale capitalistico, che è appunto una relazione sociale di dominio e di sfruttamento di uomini e di risorse naturali. Solo chi non ha capito la dinamica interna del processo capitalistico del XXI secolo può poi porre in opposizione la «civiltà del lavoro» (salariato!) e le attività finanziarie d’ogni genere. Tra l’altro il processo di finanziarizzazione della Fiat rimonta assai indietro nel tempo, e già nel 1986 Cesare Romiti, allora amministratore delegato della Fiat, poteva parlare della finanza come del «nuovo vitello d’oro che pare far dimenticare tante buone, vecchie regole» (sic!), mentre solo più tardi Marchionne, dimentico di Adriano Olivetti e della «civiltà del lavoro» (salariato!), avrà la franchezza di ammettere che «l’unico misuratore di valore, stabilito dall’equilibrio tra chi compra e chi vende, è il mercato finanziario. Il resto sono cavolate». Esatto.

Cavolate politico-ideologiche come quelle che profferisce l’ex Presidente della Camera: «Capisco che il mio possa sembrare un ragionamento di altri tempi. Ma penso che la strada della globalizzazione, dell’azienda che diventa una comunità in lotta contro altre aziende-comunità, non sia ineluttabile». Bertinotti pensa dunque a un futuro fuori dalla disumana dimensione capitalistica? Ma nemmeno per idea! Stiamo parlando di Fausto Bertinotti, l’ex segretario di “Rifondazione Comunista, non di un rivoluzionario anticapitalista! Egli pensa piuttosto «a una politica in grado di pensare un diverso modello di sviluppo». E qui già sento puzza di Capitalismo di Stato, di dirigismo economico e delle altre “belle idee” tipiche del sinistrume di vecchio e di “nuovo” conio.

Bertinotti esprime al meglio (si fa per dire) il Capitalismo in salsa italiana entrato definitivamente in crisi negli anni Novanta; un Capitalismo fortemente sostenuto (“partecipato”, sovvenzionato, “consociativo”) dallo Stato e quindi intimamente intrecciato con il sistema politico italiano, sempre affamato di consensi elettorali ottenuti attraverso le più diverse forme di clientelismo (pubblico e privato), e con il sindacalismo collaborazionista, CGIL in primis. Il sindacalismo sinistrorso ce l’ha con Marchionne soprattutto perché quest’ultimo non gli ha confermato il vecchio status collaborativo, il quale confliggeva con le nuove esigenze competitive imposte dalla globalizzazione industriale e finanziaria. Mutatis mutandis, analogo discorso può farsi per il rapporto che legava Marchionne alla Confindustria, divenuta un intralcio per quel dinamismo manageriale che ha permesso al Gruppo Fiat di prendere una nuova boccata d’ossigeno a un passo dal fallimento, cosa che peraltro non l’ha messo del tutto al riparo da futuri scenari  catastrofici – e di fatti si parla già da tempo della necessità di nuove alleanze industriali e finanziarie per quel Gruppo.

Tuttavia per Bertinotti il sovranismo e il nazionalismo dei dazi e delle frontiere rappresentano «una deriva rischiosissima, una replica subalterna e nazionalistica alle difficoltà. E questo accade perché il modello del capitalismo globalizzato non è in grado di fornire le garanzie che aveva promesso. Come si esce da questo schema? Ridando al lavoro la sua centralità». Ridare centralità al lavoro (salariato!): che bella e originale pensata! Insomma, un altro modello di Capitalismo è possibile. «Per farlo occorre che la politica torni a dire la sua, non si arrenda di fronte alle ineluttabili leggi della finanza. Ma non ho molte speranze». Che dispiacere!

Purtroppo anche le speranze di chi scrive (le quali, sia detto chiaramente a scanso di antipatici equivoci, si oppongono nel modo più assoluto a quelle bertinottiane) sono ridotte al lumicino, tanto più che le «ineluttabili leggi» del Capitale (come esso si dà necessariamente nella Società-Mondo del XXI secolo) sembrano diventare più forti e stringenti ogni giorno che passa. Il problema, per quanto mi riguarda, non è che le classi subalterne «dimenticano i propri sogni nel cassetto»: il problema è che i subalterni sembrano non avere più sogni di emancipazione da «stringere in pugno».

 

FAUSTO BERTINOTTI TRA PAPA FRANCESCO E ROSA LUXEMBURG…

IL-TRIO-PERFETTO-FAUSTO-E-LELLA-BERTINOTTI-MARIO-DURSO_resize«Lella e Fausto Bertinotti sono stati avvistati alla festa dell’Unità tedesca in occasione del 25esimo anno dalla caduta del muro di Berlino, organizzata nella residenza dell’ambasciatore di Germania a Roma» (Formiche). L’ex rifondatore del “comunismo” non può recarsi a una festa senza subire un trattamento speciale da parte dei paparazzi. Non mi sembra giusto! Certo è che i brindisi del compagno Fausto sulla caduta del Muro non devono aver suscitato pensieri pieni d’affetto in Paolo Guzzanti, fustigatori dei “comunisti” che osano festeggiare la fine del “comunismo”. Si veda il mio post di ieri. Ma veniamo a cose assai più serie.

Domanda quanto mai suggestiva, e certamente sintomatica, di Lettera 43 (7 novembre) a Fausto Bertinotti, ascoltato nella sua qualità di ex rifondatore del “comunismo” intorno all’eredità politica della Rivoluzione d’Ottobre (e già uno informato dei fatti potrebbe chiedersi cosa abbia a che fare il simpatico Fausto con Lenin e compagni): «Nel mondo resta solo la Corea del Nord come stato puramente comunista?». Risposta del compagno Fausto: «Non scherziamo. Il comunismo è una cosa seria. La Corea del Nord non è comunista». Bravo. Certo, la domanda non era di quelle che fanno tremare, come si dice, le vene ai polsi, che mettono sotto sforzo l’intelligenza dell’interrogato (al netto dell’onorevole Razzi, si capisce), e tuttavia non bisogna mai dare nulla per scontato.

E difatti il compagno che tentò di rifondare il “comunismo” con caratteristiche italiane completa la sua risposta: «Se vogliamo parlare di qualcosa di serio parliamo della Cina». Ecco! E perché, l’esperienza cubana è forse da buttare via? Ma nemmeno per idea! «L’esperienza cubana è di grandissimo interesse, per cui continuo a sentirne il fascino. Per fortuna, in America Latina Cuba non è più da sola e si può parlare di una rinascita della sinistra sud americana che rifiuta le politiche liberiste di austerity a cui invece ha ceduto l’Europa». Per fortuna!

«Io – continua il Nostro – sono per distinguere nettamente il terreno della pratica politica e sociale da quello della costruzione teorica. Questo cortocircuito ha già fatto troppi danni». Ma non è affatto vero! Ad esempio, Fausto pratica esattamente come teorizza, e questo da sempre. Infatti, l’idea di “comunismo” che egli aveva e ha in testa è un impasto di capitalismo di Stato, di egualitarismo piccolo-borghese e di cattocomunismo. Tanto è vero che il «socialismo dal volto umano» è da Bertinotti associato alla riforma del sistema stalinista tentata negli anni Sessanta da Alexander Dubcek, e poi ripresa da Gorbaciov come estremo tentativo di salvare l’Unione Sovietica.

È per questo che non condivido la critica che gli viene rivolta “da sinistra”, ossia che l’ex rifondatore si sarebbe spostato “a destra”: a destra, ammettiamolo pure, ma rispetto a cosa? Non certo rispetto a un autentico punto di vista critico-radicale, nei confronti del quale tutta la galassia “comunista” che in qualche modo faceva riferimento al PCI è stata estranea, da sempre, da quando quel partito si convertì allo stalinismo, teoria e prassi della controrivoluzione (già alla fine degli anni Venti del secolo breve, Faustino, non negli anni Cinquanta o Sessanta o nel famigerato ’89!) e della costruzione del Capitalismo in Russia a tappe accelerate, come si conviene a un Paese di grandi ambizioni imperiali (nel passato) e imperialistiche (in un futuro quanto più ravvicinato).

Se non si comprende bene la maligna dialettica dello stalinismo appena evocata (controrivoluzione antiproletaria/rivoluzione capitalistica)), difficilmente si capisce perché «purtroppo quella scalata al cielo è naufragata in un fallimento storico dell’esperienza», per dirla sempre con Bertinotti, il quale a mio modesto avviso fa male a dichiarasi «fallito» (benché «non pentito»), almeno rispetto a un progetto (il superamento rivoluzionario del Capitalismo, anche nella sua forma di Capitalismo di Stato) che, ripeto, gli è sempre stato estraneo, al di là di qualche fumisteria fraseologica che fa fare bella figura nei convegni “de sinistra” e nei salotti cosiddetti radical-chic .

Ad Avvenire (8 novembre) Bertinotti ha confessato, oltre la sua scontata simpatia nei confronti del «Papa rivoluzionario», quanto segue: «Politicamente mi definisco comunista perché non mi piacciono le damnatio memoriae e le abiure, ma il mio filone culturale è quello del socialismo utopistico e soprattutto di Rosa Luxemburg». E così abbiamo sistemato pure l’anima della grande Spartachista massacrata per ordine della socialdemocrazia tedesca! Un brindisi, compagni!

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FOLGORATO SULLA VIA DI FERRARA E PANNELLA

FOLGORATO SULLA VIA DI FERRARA E PANNELLA

bertinotti1-620x350Solo chi in passato ha preso sul serio il “comunismo” di Fausto Bertinotti può inorridire dinanzi a quanto segue: «Chiede una rifondazione delle grandi visioni del mondo. La sinistra che io ho conosciuto, quella della lotta per l’eguaglianza degli uomini, quella che chiedeva ai proletari di tutto il mondo di unirsi, è finita con una sconfitta. Io appartenevo a questo mondo. Questo mondo è stato sconfitto dalla falsificazione della sua tesi: l’Unione sovietica. […] L’intellettualità europea fra il 1945 e il 1950 è stata tutta comunista. Jean Paul Sartre, Andrè Gide, Albert Camus per parlare dei francesi. In Italia tutti, proprio tutti: i registi del neorealismo, i principali cattedratici italiani, i grandi scrittori, le case editrici. Erano tutti comunisti. E adesso non mi dite per favore che non si sapeva niente di cosa accadeva in Unione Sovietica, e che bisognava attendere il 1956 o Praga! […] Oggi i salari italiani sono fra i più bassi di Europa. Qualcosa evidentemente non ha funzionato, e il sindacato è parte di questo qualcosa. Ha scelto sempre il male minore. Ma soprattutto ha scambiato la difesa dei lavoratori con un riconoscimento crescente del suo ruolo istituzionale. Hanno fatto meno contratti e sono andati più volte a palazzo Chigi» (Libero). Così parlò il compagno Fausto.

Deluderò forse qualche mio lettore, ma parlare male della recente “conversione liberale” di Bertinotti non mi dà alcun piacere particolare: è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Troppo facile. Purtroppo non sono abbastanza cinico per queste incombenze. D’altra parte, aderendo al pensiero liberale l’ex rifondatore dello stalinismo con caratteristiche italiane è rimasto sullo stesso terreno di classe di sempre: quello borghese. Che avevate capito? L’uomo che sussurra al cachemire si è spostato un po’ più a “destra”? E che sarà mai! Insomma, invoco indulgenza per il simpatico Fausto, il quale con qualche decennio di ritardo (un classico per i sinistrati più intelligenti) è finalmente approdato sul terreno liberale. Almeno con una gamba. Ad attenderlo c’erano, legittimamente orgogliosi, Giuliano Ferrara e Marco Pannella.

Contro i suoi vecchi compagni stalinisti e sindacalisti (collaborazionisti) Bertinotti ha ragione su (quasi) tutta la linea. Quasi perché come ogni intellettuale liberale che si rispetti, Bertinotti assume oggi la società borghese liberale come il migliore dei mondi possibili. I «diritti dell’individuo» che stanno al centro di quella cultura liberale che oggi gli appare così affascinante e promettente, sono in realtà un’ideologia dietro la quale si cela il reale annichilimento di ogni vera libertà e di ogni autentica umanità. «I diritti umani appaiono come una falsa universalità ideologica che maschera e legittima la politica concreta dell’imperialismo e del dominio occidentale, gli interventi militari e il neocolonialismo» (S. Žižek, La violenza invisibile, 2007, Rizzoli). Su questi temi rinvio a L’Angelo Nero sfida il Dominio e a Eutanasia del Dominio.

D’altra parte, quando il prigioniero in guisa rossa esce dal Gulag o dal Campo di Rieducazione Cinese (insomma, dal “comunismo”), ogni cosa Made in Occidente gli appare straordinariamente bella e progressista.

Scriveva nel 2004 un Tizio che la sapeva assai lunga anche a proposito del cosiddetto “comunismo italiano” (parlo di Francesco Cossiga): «Caro Bertinotti, penso che questa “sinistra europea alternativa” sia e voglia essere una sinistra comunista, di un comunismo che certo tenga conto degli epocali mutamenti storici. Ma perché voi possiate credibilmente fare questo, non potete condannare o “rinnegare” il “comunismo storico”: e quindi non potete condannare e rinnegare né Stalin né lo stalinismo» (Corriere della Sera, 15 maggio 2014). Senza Stalin, sostenne allora Kossiga, il compagno Fausto critico dello stalinismo non sarebbe nemmeno concepibile. Ecco la risposta, un po’ imbarazzata e certo abbastanza significativa alla luce dei suoi recenti sviluppi “dottrinali”, dell’allora capo del “comunismo” rifondato: «Il mio dissenso dalla tua posizione, dalla giustificazione storica e politica dello stalinismo che ne costituisce il fulcro, non potrebbe essere più radicale. E tuttavia raramente, in questi anni, mi sono imbattuto in una difesa dello stalinismo così accurata, intelligente e perfino appassionata». Dopo dieci anni il lavorio interno ha dato dunque i suoi frutti.

Per il resto colgo l’occasione per ripetere una mia vecchia convinzione: lungi dall’essere stato una forma realizzata, e perciò stesso imperfetta, di socialismo, lo stalinismo ne fu piuttosto la più netta e odiosa (proprio perché si presentava come la forma realizzata dell’emancipazione proletaria) negazione. Il cosiddetto Libro nero del comunismo è un capitolo particolarmente ignobile del Libro nero del capitalismo*.

2222Questa, in estrema sintesi, è la tesi antistalinista che da sempre sostengo contro il partito del “socialismo reale” e contro il partito del Libro nero del comunismo. Inutile dire che per me quei due partiti non sono che le due facce della stessa escrementizia medaglia. Bertinotti non ha fatto altro che cambiare partito. E che sarà mai! Ecco perché sghignazzo quando qualcuno contrappone il “pentimento” dell’ex rifondatore del togliattismo alla coerenza “comunista” di Lucio Magri.

* Naturalmente faccio riferimento allo stalinismo nella sua qualità di tendenza storica oggettiva, non certo in quanto espressione di una volontà attribuibile a una singola persona particolarmente carismatica e perversa.
Lo stalinismo come espressione-strumento 1) della controrivoluzione interna e internazionale dopo l’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra, 2) dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati in Russia e 3) della continuità imperialistica della Russia (di qui anche la scelta di promuovere innanzitutto l’industria pesante, a detrimento dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura). Sulla mia interpretazione della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre rimando a Lo scoglio e il mare.

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201362191440_nell%20ufficio%20di%20pepponeAggiunta da Facebook, 5 settembre 2014

BERTINOTTI IL COMULIBERALE O MELILLA IL NORDCOREANO?

Due notizie. Una buona, questa:

«Resto comunista», ha dichiarato oggi a Repubblica Fausto Bertinotti. Tiro un grosso sospiro di sollievo. Il compagno Fausto non farà dunque mancare il suo impareggiabile contributo alla lotta di emancipazione del proletariato mondiale. Anche se rimane critico con la storia del “comunismo”: «Vedo la nostra sconfitta storica. Il pensiero liberale riesce a fare dell’individuo l’alfa e l’omega della misura del carattere democratico della società. Serve individuare ciò che è rimasto vivo nelle culture. Nel marxismo l’eguaglianza e nel pensiero liberale il valore dei diritti individuali. La Chiesa è meno malconcia rispetto agli altri pensieri. Ha una leadership all’altezza della sfida e il pontefice pronuncia parole profetiche su guerra, capitalismo e immigrazione» (La Repubblica, 5 settembre 2014).

Bertinotti che rimane “comunista”, il Papa che è un ottimo compagno di strada: sì, decisamente queste sono eccellenti notizie.

Veniamo adesso alla cattiva notizia, questa:

«L’onorevole Gianni Melilla è un deputato di Sinistra Ecologia e Libertà. Abruzzese, come Antonio Razzi. E come lui e Salvini è appena tornato dalla spedizione parlamentare italiana nelle terre di Kim Jong-Un*. Onorevole, lei perché è andato in Corea del Nord?

“Per curiosità. Sono un comunista, e ho scoperto ad esempio con rammarico che la Corea del Nord ha tolto dalla costituzione ogni riferimento al marxismo, affermando che il socialismo nel paese sarebbe continuato “alla coreana”» (L’Espresso, 3 settembre 2014).

Che rammarico! Non ci sono più i Paesi marxisti duri e puri di una volta!

E poi dice che uno diventa liberale!

* Va’ dove ti porta il profitto!

«A rendere possibile quest’insolita relazione con quella parte di mondo sconosciuto è stato, come lo ha definito la stampa, “l’apriporta” Giacomo Bezzi, Consigliere regionale del Trentino Alto Adige, già deputato e cofondatore del Movimento Associativo Italiani estero.

– Consigliere Bezzi, la Corea del Nord è una nazione totalitaria di stampo stalinista, per di più retta da un regime militare con a capo Kim Jong-un, figlio del predecessore Kim Jong-il e nipote del primo presidente, Kim Il-sung. Come si può pensare ad un approccio dell’impresa privata con uno dei pochi paesi dove non esiste la proprietà privata?

“Non è vero che la proprietà privata non esiste. L’impresa è possibile per una serie di fattori, basti pensare all’area industriale di Kaesong, al confine fra le due Coree, dove vi sono impianti in cui lavorano complessivamente 50mila operai nordcoreani con la dirigenza e gli investimenti sudcoreani: si tratta di una zona franca, appetibile per investimenti privati. Sul piano politico esistono tre partiti (Fronte Democratico per la Riunificazione della Patria, Partito Socialista Democratico Coreano e Partito Chondoist Chongu, ndr.), di cui quello che detiene una larga maggioranza è quello comunista. Sul piano politico sono d’accordo con Salvini, il quale dice che ‘io non baratterei la mia libertà’, ma un imprenditore valuta i rischi e vede se è il caso di fare impresa. In passato imprenditori nostrani hanno impiantato nel paese tre milioni e mezzo di piantine di mele”» (Notizie Geopolitiche, 4 settembre 2014). Da mela nasce mela…

SUL CONCETTO DI “CONTRORIVOLUZIONE NEOLIBERISTA”

MetalmeccaniciI cosiddetti economisti eterodossi, ossia di scuola keynesiana e di scuola “marxista” (ma non sempre questa distinzione ha un senso), quando parlano degli anni Ottanta, i “famigerati” anni della Thatcher e di Reagan, fanno un uso davvero abbondante del termine controrivoluzione, declinato in diversi modi: controrivoluzione neoliberista, controrivoluzione monetarista, controrivoluzione salariale e così via. Ora, a rigor di logica, la controrivoluzione presuppone una rivoluzione, o quantomeno un tentativo rivoluzionario, che per quanto è a mia conoscenza non c’è stato, almeno negli ultimi settant’anni e sicuramente non nelle metropoli del Capitalismo avanzato. Ma forse, distratto come sono, mi sono perso qualcosa d’importante.

Salvo che chi usa il termine in questione non intenda riferirsi allo strepitoso sviluppo capitalistico innescato dalla Seconda guerra mondiale (un vero e proprio toccasana per un capitalismo a lungo rantolante), che tra alti e bassi si è concluso alla fine degli anni Sessanta, lasciando il posto nel decennio successivo a una crisi economica internazionale che in Occidente e in Giappone ha inaugurato la nuova epoca dell’accumulazione che dura tuttora, sempre tra alti e bassi – e a volte, in non pochi Paesi (vedi ad esempio il Giappone degli ultimi 25 anni), tra bassi e bassissimi.

I progressisti (compresi quelli che un tempo si autodefinivano “comunisti”) hanno mitizzato la forza della classe operaia nei «trent’anni gloriosi» seguiti al Secondo macello imperialistico chiamato «guerra di liberazione» dai vincitori. E ciò è dimostrato dal fatto che essa non è stata “classe” nell’accezione marxiana del concetto, cioè a dire soggettività politico-sociale, soggetto provvisto di autonomia politica e organizzativa, essendo i lavoratori anche allora sotto l’influenza della politica e dell’ideologia dominante attraverso la mediazione dei partiti cosiddetti operai (in Italia il Pci)   e dei sindacati. La forza politica e ideologica di quei partiti e di quei sindacati attestava l’impotenza del proletariato e la potenza delle classi domanti.

In realtà, un dominio capitalistico forte come non mai, finchè ha potuto ha cercato di gestire le contraddizioni sociali soprattutto attraverso la concessione di briciole sia sul terreno salariale, sia su quello del welfare. Perché beninteso di briciole comunque si è trattato, soprattutto in termini relativi, ossia di rapporto salario/produttività, salario/profitto, salario/ricchezza sociale. Come scriveva Marx, «Se con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. Dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitale significa soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accresce la ricchezza altrui, tanto più grosse sono le briciole che gli sono riservate» (Lavoro salariato e capitale). È vero che oggi i lavoratori e i disoccupati guardano con nostalgia alle grasse briciole di un tempo (peraltro cadute soprattutto sulle grandi imprese pubbliche, parapubbliche e private, feudo incontrastato della «triplice sindacale»). Ma questo attesta solo la natura disumana, e sempre più disumana, della vigente società, e non legittima in alcun modo la miserabile apologia dei progressisti per i presunti «trent’anni gloriosi», che peraltro hanno posto le condizioni per la successiva “controrivoluzione”.

12%20FiatMirafioriCatenaMontaggio_1Quegli anni furono gloriosi non certo per le classi subalterne, ma per il Capitale e per il suo personale politico e sindacale, soprattutto per quello in guisa “riformista”, che allora poté giocare un ruolo centrale nella società occidentale, soprattutto in quella italiana, relativamente arretrata in confronto alle altre e quindi bisognosa di “riforme modernizzatrici” su diversi fronti: mercato del lavoro, legislazione sul lavoro, diritto di famiglia, “diritti civili”, sistema pensionistico, ecc.

Quando la coperta dell’accumulazione si è fatta corta a causa di saggi del profitto sempre più anemici; quando la competizione capitalistica mondiale si è fatta più dura e stringente (soprattutto con l’ingresso nell’agone degli ex Paesi sottosviluppati: Cina, India, ecc.); quando il boom economico postbellico esaurì definitivamente la sua “spinta propulsiva”, mettendo in tensione il vecchio modello di “Stato sociale” (come diceva Olof Palme, la pecora borghese va ingrassata e poi tosata), allora lo spazio della “mediazione” e del “compromesso” si è improvvisamente ristretto, e “autunno caldo” dopo “autunno caldo”, corteo operaio dopo corteo operaio, i lavoratori hanno iniziato a percorrere quella sorta di viale del tramonto che sappiamo.

In realtà, i lavoratori non hanno mai visto sorgere il metaforico sole, tanto meno quello dell’Avvenir…*

Ecco perché sorrido malignamente quando il raffinato Fausto Bertinotti continua malinconicamente a riproporre il modello conflittuale-contrattuale degli anni Settanta (vedi la Fiat di Mirafiori), contrapponendolo alla Mitbestimmung (codecisione) tedesca oggi caldeggiata per l’Italia anche dal suo amico Enrico Grazzini, teorico della “Banca Etica” (sic!) e autore del Manifesto per la democrazia economica (Castelvecchi, 2014). Il buon Fausto non smette di ricordarci che quando in Italia e nel mondo la classe operaia era forte, e forte era il «conflitto di classe», le cose andavano bene anche per il Capitale, almeno per quello “reale” basato sul lavoro produttivo delle fabbriche. Poi i rapporti di forza si sono rovesciati, «il Capitale ha vinto» (ecco arrivata, dulcis in fundo, la «controrivoluzione») e l’economia è stata gettata nel baratro della speculazione finanziaria. Non fanno tenerezza tutti questi amici della classe operaia che vogliono salvare il Capitalismo da se stesso?

chimera%201-11-68* «Tra l’altro, a onore del vero e a scorno della mitologia operaista e pansindacalista, c’è da dire che tutto il movimento rivendicativo degli anni Sessanta comportò lo spostamento di ricchezza sociale a favore dei salariati quantificabile nell’ordine dell’uno per cento. Quando Berlinguer teorizzò la politica della moderazione sindacale, praticata dalla trimurti sindacale già da anni, i salari operai languivano sotto la sferza dell’inflazione, balsamo su profitti andati in sofferenza. «Il problema della dinamica del costo del lavoro deve essere considerato e affrontato, ma in un quadro di valutazioni più vasto e rispondente alla realtà» (E. Berlinguer, Austerità. Occasione per trasformare l’Italia). Egli non negò – anzi! – l’imperativo categorico dei sacrifici, ma disse che a farli non dovevano essere solo i lavoratori: e anche questa è musica dei nostri pessimi giorni» (da Berlinguer, il tristo profeta dei sacrifici).

Come mostrò Francesco Farina ne L’accumulazione in Italia 1959-1972 (De Donato, 1976), un «aspetto rilevante dell’accumulazione capitalistica in Italia [nel secondo dopoguerra] è la mancanza di un processo continuo ed autonomo  di innovazioni tecnologiche, dal momento che la maggior parte dei beni capitali viene importata o imitata dall’estero. Il progresso tecnico è perciò introdotto in prevalenza attraverso riorganizzazioni produttive dirette ad aumentare la creazione di plusvalore mediante la pura intensificazione del lavoro, e solo limitatamente si presenta incorporato in nuovi impianti tecnologicamente più avanzati, in grado di accrescere la produttività sociale del lavoro» (p. 12). Questo “modello” di accumulazione estensiva (espansione territoriale della base tecnica data) e non intensiva (introduzione di tecnologia labour saving), che aveva la sua ragion d’essere nella struttura capitalistica del Paese e nella sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro postbellica, e che entrerà in crisi già nella seconda metà degli anni Sessanta, realizzò quella relativa forza contrattuale della forza-lavoro che il capitale italiano cercherà di intaccare in tutti i modi all’indomani dell’autunno caldo del ’69.