Pubblico alcune pagine di un mio studio dedicato ai temi che si pongono all’attenzione della geopolitica genericamente intesa. Il testo completo si trova qui.
Presentazione
Non meravigliamoci se l’Europa trascina in
catene l’Africa, come non lo siamo vedendo
un macellaio accoppare il bue che serve a
nutrirti; è ovunque la ragione del più forte;
ne conosci una più eloquente?
D. A. F. de Sade
Su un post dedicato all’intervento francese in Mali scrivevo: «Il contegno “pacifista” (per adesso!) della Cina per un verso rende evidente la natura eminentemente economica del moderno imperialismo, e per altro verso attesta l’ascesa della potenza capitalistica cinese sulla scena mondiale mentre relativamente le altre potenze declinano. Ripeto: relativamente, ossia non in termini assoluti né in modo deterministicamente irreversibile, almeno per ciò che riguarda gli Stati Uniti. Francia e Inghilterra sono già delle stelle spente, sebbene ancora sufficientemente calde, come dimostra il loro attivismo in Africa, in quello che fu il loro “spazio vitale”. Discorso ancora diverso deve farsi per Germania e Giappone, ma non è il caso di farlo adesso».
Nelle pagine che seguono, più che riprendere e sviluppare il filo analitico di quelle affermazioni, cercherò piuttosto di rendere più evidente possibile il fondamento teorico che le sorregge. Abbastanza temerariamente pongo dunque all’attenzione dei lettori delle pagine che altro non sono che appunti di studio intorno a ciò che John Mearsheimer ha definito Logica di potenza [1]. Si tratta, come vedrà il lettore che avrà la cortesia di seguirmi, di un abbozzo assai rozzo e disorganico, in cui i concetti chiave si ripetono molto spesso (spero non ossessivamente!), e la cui unica pretesa è di non essere eccessivamente confuso e, soprattutto, di essere in qualche modo utile all’elaborazione di un punto di vista critico-radicale sulla scienza del dominio chiamata geopolitica. Per una sistemazione più coerente e organica della scottante e importante materia c’è sempre tempo, e intanto alla gallina pasciuta di domani ho preferito il modesto uovo da consumare oggi.
«Secondo te quali sono le principali critiche (oltre ovviamente alla mancanza di una visione anticapitalista) da poter fare a Samuel Huntington in Lo scontro delle civiltà e a Paul Kennedy in Ascesa e declino delle grandi potenze. A parte il filo americanismo e un metodo non dialettico, su cosa ti concentreresti?» Così mi scriveva qualche tempo fa un cortese lettore. Spero che dall’insieme delle pagine che sottopongo all’attenzione dei lettori venga fuori anche la mia risposta o, quantomeno, un abbozzo di risposta a questa feconda sollecitazione.
Nel suo libro del 2009 I tre Imperi, Parag Khanna scrive che «La geopolitica concerne la relazione fra il potere e lo spazio»[2]. Si tratta di capire come, in che termini, nel XXI secolo, nell’epoca del cyberspace e del web 2.0, dobbiamo “declinare” il concetto di spazio.
Il Times e il Wall Street Journal, posti negli ultimi anni dinanzi al «terrorismo elettronico» degli hackers cinesi teso a colpire i media anglosassoni che conducono una campagna «in difesa dei diritti umani in Cina» (o, come suona l’altra campana, «contro la legittima sovranità cinese»), non smettono di ricordarci che «la cyber-guerra è una guerra vera, altrettanto sanguinosa quanto quella fisica». In effetti, e al netto d’ogni altra considerazione intorno al regime cinese e ai regimi che ne temono il crescente potere (e non certo per ragioni umanitarie), non è difficile immaginare una rapida transizione dal mouse al fucile, soprattutto in tempi di crisi economico-sociale.
Come vedremo, il concetto chiave che informa queste pagine è quello di spazio sociale, la dimensione esistenziale creata dalla prassi sociale sussunta sotto le sempre più imperiose e totalitarie esigenze dell’economia capitalistica. Seguendo questo filo conduttore arriveremo infatti a definire il concetto di Potenza (potere sistemico dispiegato), che sta al centro della riflessione geopolitica, nei termini, radicali, di un peculiare rapporto sociale di dominio e sfruttamento.
La geopolitica come scienza del Dominio
La politica estera degli Stati in generale, e degli Stati-Potenza in particolare, mostra l’intimo legame tra geopolitica e Imperialismo, e non a caso la genesi della prima come pseudo scienza sociale obiettiva coincide con il pieno dispiegamento del secondo. Nonostante la diffusione planetaria del rapporto sociale capitalistico abbia messo in piena luce la natura radicalmente economico-sociale dell’Imperialismo; e nonostante lo sviluppo tecno-scientifico del Capitalismo abbia reso anacronistiche certe valutazioni geopolitiche fondate sul “materialismo ambientale” (abbondanti tracce di questo materialismo si trovano, ad esempio, ne La teoria del materialismo storico di Bucharin scritto nel 1922), non v’è dubbio che esso continui a reggersi anche su precisi e ben individuabili presupposti di natura geopolitica. È sufficiente gettare un occhio sulla carta geografica del Pacifico, o seguire la guerra sistemica in corso in Europa, l’area di elezione della geopolitica, per capire di cosa parliamo.
Ma quella carta e quella guerra restano mute, per ciò che concerne l’essenziale, se non si rendono evidenti, in sede di analisi delle relazioni interstatali, i processi sociali che prendono corpo in ogni singolo Paese, per poi assumere necessariamente una dimensione transnazionale, cosa che rende inefficace ogni analisi che separi nettamente i due momenti. D’altra parte, già nel tedesco Friedrich Ratzel e nello svedese Rudolf Kjellén, i padri della moderna geopolitica, essa va ben oltre la considerazione della mera geografia fisica, ma assume fin da subito come elementi fondamentali l’economia, la cultura, la tecnologia, la scienza e le istituzioni di un Paese. La concezione geopolitica dello spazio-mondo è fin da subito profondamente “sociologica”, e non poteva non esserlo, nonostante – ma forse sarebbe più corretto scrivere grazie – l’inclinazione fortemente darwinista dei suoi primi teorici.
Come giustamente nota Carlo Jean, proprio nel momento in cui la globalizzazione capitalistica, soprattutto nella sua versione «immateriale» e finanziaria, sembrava rendere del tutto obsoleto l’approccio geopolitico nell’analisi della politica estera degli Stati, perché poneva il problema di ripensare lo stesso concetto di spazio, si è avuta invece un’eccezionale impennata nella produzione di studi geopolitici. Nel volgere di qualche anno siamo passati dalla «fine della geografia» al «ritorno della geografia». D’altra parte, anche la storia ha subito un analogo trattamento, a dimostrazione del rapido processo di obsolescenza a cui sono sottoposte anche le mode dottrinarie nell’epoca della «vita liquida».
In effetti, la fine della «guerra fredda», che ha lasciato in piedi una sola Potenza Globale, il crollo dell’Unione Sovietica, che ha ridefinito il tradizionale «spazio russo», la riunificazione tedesca, che ha riproposto le classiche “problematiche” insite nel rapporto Germania-Europa, e l’ascesa della Cina al rango di potenza mondiale: questi e altri eventi dinamizzando e svecchiando le relazioni internazionali tra gli Stati (dal vecchio «ordine mondiale bipolare» al nuovo «disordine mondiale multipolare»), hanno pure “scongelato” una scienza che la relazione tra le due vecchie Super-Potenze aveva in larga parte ridotta a una dimensione pressoché residuale, e comunque confinata nei punti di contatto tra le sfere di pertinenza egemonica dei due Moloch imperialisti, come nel caso dell’Indocina – Corea, Vietnam, Cambogia.
Naturalmente l’occhio che era in grado di penetrare la dura crosta del ghiaccio bipolare facilmente vedeva il ribollire della contesa multipolare sotto la rigida e fredda superficie.
Lo “scongelamento” geopolitico si è fatto sentire anche in Italia, sia sul piano dottrinale, ad esempio con la nascita dell’importante «rivista italiana di geopolitica» Limes, sia sul terreno della politica internazionale del Paese, con una sua maggiore proiezione a Est, verso l’area dei Balcani; sia, infine, sul terreno politico-istituzionale, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica. Ciò, fra l’altro, a dimostrazione di quanto stretto sia il legame tra le diverse sfere della prassi sociale. Assai significativamente il primo numero di Limes mise al centro della riflessione la «ricerca dell’interesse nazionale italiano» nel nuovo mondo multipolare, caotico e conflittuale creato dalla fine della «guerra fredda» e dalla dissoluzione dell’«Impero comunista»: «Nei fortunati decenni del “semiprotettorato” americano l’Italia ha goduto di una condizione di privilegio geopolitico. Essa ha favorito la modernizzazione del paese. Ma la nostra rendita di posizione, garantita dal bipolarismo, ci ha anche emancipato dal dovere di pensare il nostro posto in Europa e nel mondo … Oggi i conflitti si moltiplicano e il concetto di nazione è controverso. Dobbiamo dunque ricominciare a pensare in termini di poste in gioco territoriali»[3]. Anche in Italia occorreva insomma ripensare il mondo in termini di aree di interesse geopolitico (vedi, nel caso italiano, il Nord’Africa e i Balcani) e di balance of power.
Le periodiche accelerazioni che hanno luogo nella struttura del processo sociale capitalistico rendono evidente, e al contempo irrobustiscono, ciò che è una caratteristica essenziale della società borghese fin dal suo sorgere, ossia il predominio degli interessi economici su ogni altro interesse. Le periodiche lamentele circa un mondo «sempre più dominato dall’economia», associate di solito alla nostalgia del bel tempo che fu (naturalmente più immaginario che reale), assai numerose e diffuse proprio nei momenti di accelerazione dei processi sociali, confermano in realtà il carattere di fondo della vigente società, che si rafforza sempre di nuovo.
L’aumentato ritardo che oggi il politico accusa nei confronti del sociale, con al centro la prassi che produce la ricchezza nella sua attuale forma capitalistica, conferma pienamente una tendenza storica immanente allo stesso concetto di Capitale, concepito come la potenza sociale dominante in epoca borghese (la nostra). È su questa potenza materiale che riposa il segreto dell’«ascesa e del declino delle grandi nazioni».
Tuttavia sbaglierebbe non poco chi da questa corretta considerazione approdasse a una concezione economicista e determinista della politica in generale e della politica estera in particolare, soprattutto perché la puntuale sussunzione della prassi sociale sotto il dominio degli interessi economici si dà attraverso mediazioni tutt’altro che lineari e spesse volte incomprensibili prima facie. D’altra parte, «Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero» (Karl Marx, Il Capitale, I). Questo approccio metodologico è di capitale importanza se, ad esempio, non si vuole correre il rischio di fare del materialismo storico una caricatura, e così venire incontro alle volgari aspettative dei suoi detrattori.
Quanto Marx fosse lontano dal sistema “marxista” che ha sequestrato il suo nome, basta leggere le sue Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVII secolo (1856), un testo censurato e nascosto dagli epigoni stalinisti (ma non solo da essi, per la verità) in grazia del forte sentimento di ostilità nei confronti della Russia zarista (e dell’Inghilterra che ne sosteneva la funzione controrivoluzionaria su tutto il Vecchio Continente) che traspare da ogni pagina dell’«imbarazzante» pamphlet.
«Marx capovolge l’opinione corrente della storiografia: affacciandosi, territorialmente e tecnologicamente, sull’Europa, la Russia non compie un processo di occidentalizzazione, ma al contrario compie un’opera di asiatizzazione dell’Europa … Lo scontro in atto in Europa è in realtà, per Marx, uno scontro tra la civiltà borghese (ed anche proletaria) e l’oscurantismo asiatico-medioevale, tra il telaio meccanico e l’Orda d’Oro. Molti aspetti del pensiero di Marx, visti a questa luce, si chiarificano: e quando verrà detto che il proletariato è l’erede della filosofia classica tedesca non sarà questa fin troppo celebre espressione una trovatina teoretica da citare nei manuali di filosofia e in quelli di partito, ma sarà una difesa dell’insostituibile primato borghese-europeo-occidentale»[4]. Beninteso, quel primato, che il comunista di Treviri pose sempre al centro nella sua valutazione critica della geopolitica europea del tempo (anche in questo egli si distinse dai suoi compagni “marxisti”, più propensi a mettere in rilievo altri fattori, come quelli connessi più direttamente alla formazione degli Stati-Nazione), ebbe un senso appunto negli anni in cui Marx attaccò la maligna alleanza russo-britannica, ossia quando la borghesia aveva una funzione storicamente rivoluzionaria da svolgere in molte parti del Vecchio Continente, Germania e Russia comprese.
Ma qui è meglio mettere un punto alla digressione, per non allargare troppo il campo d’indagine.
Per dirla in termini hegeliani, la sostanza del dominio sociale capitalistico deve darsi una forma, deve apparire: questa tensione dialettica tra forma e sostanza, che dà corpo alla reale struttura del dominio, rende inefficace sul piano dell’analisi del processo sociale – qui considerato nella sua dimensione mondiale – ogni genere di concezione deterministica e meccanicistica. Questa concezione, infatti, è incapace di afferrare in tutta la sua complessa dialettica il processo sociale come si esprime nella politica in generale e nella politica internazionale in particolare.
Occorre ricordare come spetti allo Stato dare coerenza e intelligenza alla potenza sistemica di una nazione, nonché assicurare la continuità della sua visione strategica. Il tutto anche attraverso uno sforzo di sintesi delle varie tendenze politico-ideologiche che convivono nel seno della classe dominante come espressioni di precisi interessi economici.
Quest’opera di sintesi si può apprezzare con particolare immediatezza negli Stati Uniti, da sempre sottoposti alla tensione geopolitica Nord-Sud ed Est-Ovest. Dalla fine del XIX secolo l’elaborazione della politica estera americana deve fare soprattutto i conti con le due direttrici oceaniche: guardare verso l’Atlantico e verso il Pacifico, al contempo. L’alternanza di politiche “isolazioniste” e politiche “internazionaliste” ha molto a che fare con questa tensione geopolitica, ossia col prevalere, mai però in termini assoluti, degli interessi atlantici (relazione America-Europa) piuttosto che di quelli legati alle relazioni economiche con l’area del Pacifico.
D’altra parte, se si dimentica di ricondurre tutti i fenomeni sociali, a partire da quelli economici, alle relazioni sociali tra gli uomini facilmente si cade nella falsa oggettività, ossia in una concezione feticistica in guisa di scienza radicata sui dati – cosiddetti – inoppugnabili offerti dalla contingenza empirica.
Per questo il vero elemento strutturale della realtà sociale non è la sua immediata consistenza materiale: l’economia di un Paese, il suo ambiente e la sua collocazione topica sul pianeta (dati molto importanti in sede di geopolitica), con quel che “dialetticamente” ne segue sul piano della corrispondente «sovrastruttura» politico-istituzionale, bensì il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento peculiare in una data epoca storica. Una critica della geopolitica del dominio anche solo abbozzata, come quella che cercherò di delineare in queste pagine, non può non avere questa fondamentale acquisizione teorico-politica come suo filo conduttore.
Se «la politica è il rapporto tra le classi» (Lenin), la politica estera è la continuazione della politica tout court, e non sempre né necessariamente con altri mezzi. In ogni caso, quando si osservano le relazioni tra gli Stati non bisogna mai dimenticare il loro punto di partenza “sociologico”, la loro ultima scaturigine: «il rapporto tra le classi», appunto. Ed è precisamente per questo che chi non coglie l’intimo e necessario legame tra politica interna e politica estera, o comunque ne sottovaluta la portata e le conseguenze (classico è il caso della socialdemocrazia tedesca, e non solo tedesca, alle prese con la Prima guerra mondiale), commette l’errore teorico e politico più grave e volgare. La politica estera di un paese è sempre dominata dagli interessi nazionali di classe, e modellata su di essi: è su questo elementare principio che si fonda la visione “geopolitica” degli anticapitalisti.
Manca in tutti i teorici borghesi della potenza degli Stati e in tutti gli studiosi di geopolitica il fondamentale concetto dello Stato come supremo strumento di organizzazione sistemica (economica, finanziaria, politica, ideologica, militare) degli interessi della classe dominante in una peculiare epoca storica. Lo Stato come il più efficace mezzo atto a difendere, legittimare ed espandere gli interessi generali della classe dominante, o solo di una fazione particolare di essa. Lo Stato moderno è tanto più forte ed efficace nella sua funzione essenziale (presidiare e difendere con tutti i mezzi necessari l’ordine sociale vigente) quanto più esprime l’interesse generale della classe dominante, non di rado contro gli interessi particolari facenti capo a sue singole fazioni. Questa “dialettica” interna alla classe dominante, la quale non è un compatto monolite sociale ma una complessa rete di interessi che si intrecciano e si scontrano (l’hobbesiana «società civile» di Hegel), trova puntuale espressione non solo a livello di politica interna ma anche sul terreno della politica estera di un Paese, perché le due dimensioni (interno-esterno) sono intimamente connesse, soprattutto nell’epoca del Capitalismo globalizzato.
Lo Stato ha assunto una dimensione storica così grande, soprattutto nel corso degli ultimi due secoli, da apparire anche agli occhi degli storici più avveduti come qualcosa di naturale, un’istituzione per così dire primordiale legata necessariamente alla stessa nuda vita dell’uomo. Dove c’è l’uomo, c’è lo Stato, necessariamente. E questa concezione non può non avere effetti deleteri sul terreno della stessa comparazione tra le civiltà e tra le potenze che si sono succedute nella storia, nella misura in cui l’analisi da essa informata tende a relegare nell’ombra i salti qualitativi (sociali) che si sono prodotti nel corso del tempo, e che hanno mutato profondamente la struttura e le funzioni dello Stato a ogni scatto in avanti del processo storico-sociale. Il continuum del dominio appare così indifferenziato, come le vacche nere di Hegel, e quindi privo di reale significato storico, di reale dinamica, mentre sul piano antropologico-culturale esso suggerisce al pensiero concetti non sempre fondati e fecondi. Questo per un verso. Per altro verso si perde invece il filo nero che rende possibile la comparazione di cui sopra: appunto la radice classista dello Stato.
Dal mio punto di vista la presenza dello Stato attesta piuttosto l’assenza dell’uomo in quanto uomo sul pianeta. Dove c’è lo Stato, non può esservi l’uomo, necessariamente. Stato e geopolitica appartengono alla dimensione storica che ha nelle classi sociali la sua struttura essenziale e nella negazione dell’uomo il suo necessario presupposto e prodotto.
È vero che la geopolitica studia l’influenza dei fattori geografici sulla genesi e lo sviluppo degli Sati («La politica degli Stati ha origine dalla loro geografia», disse una volta Napoleone ), ma è soprattutto vero che questo studio ha avuto sempre un preciso orientamento pratico in direzione degli interessi di dominio, espansione e difesa degli Stati. E siccome lo Stato non corrisponde, hegelianamente, a un’astratta comunità umana, ma è, marxianamente, lo strumento di potere par excellence di una classe sociale, ogni pretesa di obiettività scientifica accampata dai teorici della geopolitica si è sempre rivelata per quella che è: pura ideologia tesa a celare un punto di vista apologetico sul Capitalismo nella sua fase imperialistica. Nella misura in cui la geopolitica cerca di disegnare la dimensione strategica e dinamica degli interessi vitali di un Paese, essa è Scienza del Dominio allo stato puro, per così dire. Probabilmente riposa in questo fatto «la bellezza demoniaca della geopolitica» (Karl Haushofer).
Scriveva Marx polemizzando con Max Stirner, ironicamente chiamato san Sancio: «A partire da Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Bodinus, ecc., nei tempi moderni, per non parlare dei più antichi, si è presentato il potere come fondamento del diritto; con ciò la concezione teorica della politica era emancipata dalla morale e restava soltanto il postulato che la politica doveva essere oggetto di studio autonomo»[5]. Su questa concezione e su questo postulato si basa la cosiddetta scuola realista in materia di relazioni internazionali. Ma cosa si deve intendere per potere? Cos’è in realtà il potere? «Nella storia reale, quei teorici che consideravano il potere come fondamento del diritto formavano il contrasto più diretto con quelli che vedevano nella volontà la base del diritto: contrasto che san Sancio poteva anche intendere come quello fra realismo e idealismo. Se si prende il potere come base del diritto, come fanno Hobbes e altri, il diritto, la legge, ecc. non sono altro che sintomo, espressione di altri rapporti, sui quali riposa lo Stato. La vita materiale degli individui, che non dipende affatto dalla loro pura “volontà”, il loro modo di produzione e la forma di relazioni che si condizionano a vicenda, sono la base reale dello Stato … Questi rapporti reali non sono affatto creati dal potere dello Stato¸ essi sono piuttosto il potere che crea quello»[6].
Il potere sociale, o la «società civile», per dirla sempre con Hegel, riempie di sostanza il potere politico che ha nello Stato la sua massima espressione, soprattutto quando esso è considerato nei suoi rapporti con gli altri Stati. Per questo Hegel considerava la guerra come la suprema fenomenologia dello Stato giunto al suo più elevato grado di maturazione (autocoscienza del Leviatano). Cospicue tracce di questa concezione si trovano in Von Ranke e negli altri esponenti della scuola neorealista tedesca, la quale afferma il primato della politica estera su ogni scelta che lo Stato è chiamato a compiere.
«Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale … Con la concorrenza universale [la grande industria] costrinse tutti gli individui alla tensione più estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quando ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni»[7]. La “geopolitica” marxiana appare tanto più lungimirante se si considera il fatto che allora (1845-46) solo l’Inghilterra aveva le carte in regola sul piano dello sviluppo capitalistico. Vero è che, d’altra parte, che essa assai rapidamente sviluppò tutte le tendenze immanenti al concetto stesso di Capitale, la cui adeguata dimensione geosociale è il mondo.
Sin da subito, quindi, Marx (ed Engels) inserì la politica mondiale del suo tempo all’interno di questa griglia interpretativa, e le testimonianze più significative di ciò le troviamo nelle sue analisi sulla politica estera inglese, francese e russa. Nella sua visione geosociale il piano universale creato dal Capitale non annulla la dimensione particolare (le singole nazioni), ma piuttosto rende intellegibile la dialettica che si instaura appunto tra le due dimensioni. A dire il vero Marx non dimentica di collocare in questa dialettica anche l’individuo, il soggetto che diventa oggetto di potenze sociali che lo dominano interamente, come entità sovraumane indipendenti che sfuggono al suo razionale controllo. Molti critici di Marx sostengono che l’individuo ha nella sua concezione un ruolo residuale, del tutto marginale, e con ciò stesso dimostrano di conoscerlo solo di seconda mano, ossia attraverso i suoi epigoni. In realtà l’individuo sta al centro della riflessione anticapitalistica marxiana, ma come soggetto negato, alienato e reificato: la prassi capitalistica, non la teoria marxiana, nega sempre di nuovo l’individuo, oggi ridotto in una dimensione “atomica”. La diplomazia segreta, che tanta parte ha nella politica estera degli Stati, la dice lunga sulla reale condizione degli individui.
Il rapporto sociale capitalistico ha una dimensione mondiale e rende nulle le differenze culturali, ideologiche, religiose ecc. fra le nazioni, ma queste ultime, che storicamente hanno incubato il rapporto sociale capitalistico (transizione dal feudalesimo all’epoca borghese), persistono in quanto centri di interessi particolari (nazionali), e costantemente subiscono la tensione di universale e particolare. Concorrenza e interdipendenza sono i due poli di tensione che informano per l’essenziale la politica estera delle nazioni, e per avere un paradigma abbastanza credibile di quanto appena affermato è sufficiente guardare in casa nostra, ossia ai rapporti tra le nazioni europee nel quadro dei rapporti sistemici mondiali. Il capitale nazionale non è che un nodo della rete mondiale, ed è per questo che la politica sovranista appare massimamente e ridicolmente ideologica quando disconosce questo dato di fatto la cui comprensione è alla portata dei bambini. Persino chi scrivi non ha difficoltà a comprenderlo!
La politica mondiale, come si manifesta nelle relazioni internazionali, è insomma la dimensione più adeguata alla natura del Capitale, e ciò è tanto più vero alla luce della Società-Mondo del XXI secolo.
Il primato della politica è una pura e semplice fandonia nella dimensione nazionale, e lo è a maggior ragione in quella mondiale, ossia nella sfera delle relazioni internazionali, nel cui seno tutti i rapporti si sviluppano lungo le linee di forza generate dal potere sociale, che ha come centro motore il processo di produzione della ricchezza nella sua odierna configurazione storico-sociale (capitali, denaro, merci, tecnologia, scienza, capacità lavorativa, ecc.). L’egemonia politica, ideologica e culturale di una Nazione si spiega con la sua potenza sistemica, a partire appunto dalla sua capacità produttiva, che presuppone e pone un intero mondo fatto di prassi, di relazioni, di esperienze e di conoscenze. Se la potenza americana ha vinto la guerra sistemica con la potenza russa iniziata alla fine della Seconda guerra mondiale, ciò è stato possibile grazie alla superiorità capitalistica degli Stati Uniti rispetto alla Russia. Superiorità economica, finanziaria, tecnologica, scientifica e, dulcis in fundo, militare. Questa superiorità si manifestava anche attraverso la diversa struttura della relazione egemonica di Russia e Stati Uniti nei loro rispettivi “campi”: il «campo socialista» ha subito un processo di spoliazione economica che peraltro non è riuscito a mettere l’Unione Sovietica al riparo da un lento ma inarrestabile declino, fino al miserabile crollo finale, mentre il «campo democratico» si è sviluppato e ha innescato nel suo seno dinamiche concorrenziali molto spinte dal lato economico. Già nei primi anni Sessanta apparve chiaro come la Germania e il Giappone si stessero irrobustendo all’ombra della costosa protezione dell’alleato americano, e ai suoi danni. Cosa che ha avuto un preciso riscontro nella politica estera di tutti gli attori in campo, smentendo la tesi secondo la quale l’egemonia americana aveva livellato una volta per tutte la visione strategica dei sui “alleati”, ridotti al rango di «servi sciocchi».
La storia conosce pochi casi di «servi sciocchi», mentre attesta l’esistenza di servi che cercano di lucrare il più possibile dalla propria condizione di subalternità, e che non smettono di lavorare per ribaltare la situazione. Che poi ci riescano è un altro discorso.
Scrive Carlo Jean: «La realpolitik che aveva ispirato la geopolitica sin dal suo sorgere è sostituita o quantomeno affiancata dalla realeconomik»[8]. La globalizzazione dell’economia e della finanza degli ultimi trent’anni avrebbe reso possibile questa inversione. In realtà la realpolitik degli Stati ha sempre svolto, in epoca borghese, una funzione in ultima analisi ancillare nei confronti degli interessi economici che fanno capo alle classi dominanti o alle loro fazioni vincenti, e il pensiero critico-radicale ha sempre cercato di far luce sui movimenti della “struttura” per mettere allo scoperto gli intimi legami tra realpolitik e realeconomik.
Come dimostrano il crollo dell’Unione Sovietica e l’evaporazione del sistema imperialistico internazionale incardinato sui suoi interessi (Patto di Varsavia), una definizione in chiave puramente militare e politico-ideologica dell’egemonia alla lunga non può reggere il confronto con imperialismi capitalisticamente più produttivi, tecnologicamente più avanzati e, in generale, socialmente più dinamici. A differenza di quanto ha sostenuto Edward N. Luttwak, non è al fallimento del «Comunismo transnazionale» che occorre attribuire la causa del tramonto dell’«Impero Sovietico», ma al tracollo di una struttura sociale capitalistica incapace di sostenere il colossale impegno economico-finanziario necessario a mantenere insieme un grande spazio geopolitico (quello costruito dagli zar e da Stalin) fatto di tante nazionalità ed etnie, e ad alimentare una gigantesca macchina militare. Quando, negli anni Ottanta, gli americani alzarono l’asticella della competizione tecnologico-militare, implementando sistemi di attacco e di difesa molto sofisticati (scudo spaziale) e molto costosi (con Reagan la spesa militare USA incremento di un 7,5% annuo, pari a circa 6,7% del PNL), la macchina militare sovietica, nel tentativo di recuperare lo svantaggio, mise sotto pressione la debole struttura capitalistica russa, peraltro già da molti anni in crisi. Naturalmente la politica militare dell’ex attore ebbe forti effetti “keynesiani” su un’economia assai debilitata dalla lunga crisi economica iniziata alla fine degli anni Sessanta e resasi evidente nel decennio successivo. Né va sottovalutato il forte significato intimidatorio che l’iniziativa americana ebbe anche nei confronti degli alleati, soprattutto di Germania e Giappone, il cui dinamismo economico incominciò ad avere un preciso riscontro nella seconda metà degli anni Settanta.
[1] J. Mearsheimer, Logica di potenza, Università Bocconi Editori, 2003.
[2] P. Khanna, I tre Imperi. Nuovi equilibri globali del XXI secolo, p. 3, Fazi, 2009.
[3] Limes1-2 1993, La guerra in Europa, pp. 7-9.
[4] B. Bongiovanni, Introduzione a K. Marx, Rivelazioni…, pp.15-26, L’erba voglio ed., 1978.
[5] K. Marx, L’ideologia tedesca, p. 325, Editori Riuniti, 1972.
[6] Ivi, p. 333.
[7] Ivi, pp. 58-59.
[8] C. Jean, Geopolitica del mondo contemporaneo, p. 38, Laterza, 2012.
Indice del testo completo
Presentazione 4
La geopolitica come scienza del Dominio 8
La guerra sistemica permanente 29
I limiti del determinismo declinista 57
Breve digressione letteraria 71
Il Cigno Nero del Dominio 76
Parassitismo sociale e Imperialismo 88
Lo scontro non è tra le civiltà,
ma dentro la Civiltà capitalistica 95