A BERLINO CHE GIORNO È?

Ci si può forse stupire della dimensione assunta dal capitombolo socialdemocratico o, all’opposto, per le dimensioni del successo ottenuto dall’estrema destra tedesca; ci si può forse meravigliare del declino elettorale fatto registrare dal partito della Cancelliera di ferro, e tuttavia nel suo insieme il voto delle legislative del 24 marzo non ci consegna un quadro politico del tutto imprevisto, a cominciare ovviamente dall’ennesima “medaglia d’oro” agguantata con una certa facilità da Angela Merkel. Scriveva Der Spiegel il 22 settembre: «L’AfD supererà, con una percentuale a due cifre, la soglia necessaria per entrare in parlamento, mentre la Merkel dovrà fare i conti con la colpa a lei imputata di aver favorito con le sue politiche migratorie l’ascesa del populismo di destra. Un’altra delle colpe ascritte alla Merkel è quella di aver provocato con la sua politica di austerity nei confronti dell’Europa meridionale la divisione dell’Europa». Forse solo gli acritici lettori dei sostenitori della Cancelliera («È l’ultima custode dell’occidente liberale: solo lei può salvarci da Putin, Trump ed Erdogan») e dei sostenitori del suo “competitor” socialdemocratico («Martin Schulz non è affatto scialbo e insignificante come sembra») sono rimasti scioccati e delusi dai risultati elettorali.

L’analisi del voto tedesco ha confermato ciò che anche la scienza sociale “ufficiale” ha sempre saputo: il disagio sociale vota. Come spiegare altrimenti il paradosso per cui Alternative für Deutschland, che pure ha incentrato la sua campagna elettorale praticamente solo sull’avversione alla politica d’immigrazione adottata dal governo tedesco nel 2015, ha raccolto più consensi proprio nelle zone del Paese dove più bassa è la presenza dei migranti? La risposta è abbastanza semplice: perché la paura dello straniero che viene dall’Africa (altra cultura, altra religione, altra concezione del rapporto uomo-donna, altra sensibilità nei confronti della “polisessualità”, ecc. ) ha fatto tracimare paure e frustrazioni che niente a che fare hanno con il razzismo, con la xenofobia e altro ancora. È come se chi in Germania occupa i gradini più bassi della scala sociale avesse detto a Mamma Angela: «Ma come, invece di pensare ai nostri bassi salari, alle nostre povere pensioni, a un welfare tutt’altro che irreprensibile; insomma invece di prenderti cura dei nostri problemi tu pensi agli stranieri? Vogliamo il pane e tu ci dai da mangiare la solidarietà con il diverso, che peraltro viene a rubarci quel poco che abbiamo e a minacciare la nostra sicurezza: hai dimenticato il terrorismo Jihadista? Prima la Germania, prima i tedeschi, non gli stranieri!». Il Presidente Donald Trump ha dunque fatto scuola? Diciamo che il nostro sa come gira il pessimo mondo.

Anche i sinistri della Linke hanno più volte cercato di fare l’occhiolino al razzismo e alla xenofobia del proletariato più disagiato dell’Est, per intercettarne il voto, ma i loro concorrenti di destra sono stati evidentemente più credibili su questo escrementizio terreno, e infatti l’AfD ha rubato un po’ di elettorato anche al partito degli ultra sinistrati, che adesso è costretto a fare “autocritica”.

Circa un mese fa la Merkel dichiarò nel corso di un comizio che «non va bene che alcuni paesi non accolgano rifugiati. Contraddicono lo spirito europeo. Ma supereremo questa impasse. Ci vorrà tempo e pazienza, ma ce la faremo. La diversità ci rende più forti contro le tempeste che ci vengono addosso»; si tratta di vedere fino a che punto questo afflato “umanitario” ed europeista reggerà alla pressione dei “populisti” di estrema destra. «Nel suo sobrio commento dopo l’esito elettorale Angela Merkel ha detto che occorre un controllo più severo degli immigrati privi di requisiti per restare e ha parlato della necessità che “ritornino nella Cdu” gli elettori che se ne sono andati. È una autocritica implicita. […] La posta in gioco dei prossimi mesi e anni sarà la rincorsa a difendere una forte identità nazionale tedesca, attraverso il semplice, ma estremamente evocativo, concetto di Volk/popolo. Un tema che ha potenti capacità suggestive per l’anima tedesca» (G. E. Rusconi, La Stampa). Ma non solo per «l’anima tedesca», come dimostra il dilagare del “populismo” in tutta Europa negli ultimi dieci anni. Certo, «l’anima tedesca» si esprime in un linguaggio che ancora oggi evoca mostri, e anche per questo la leadership tedesca è sempre stata cauta nel maneggiare argomenti di facile impatto popolare. Ma i tempi cambiano, come i giorni e le stagioni. A proposito: a Berlino che giorno è? Ah, saperlo!

A ogni modo il noto germanista Angelo Bolaffi continua a confidare nelle superiori qualità politiche e umane della Cancelliera: «La Cancelliera è la paladina dei diritti umani. O meglio ha difeso più che i diritti umani, i valori occidentali, storicamente difesi dall’“anglo-sfera”, ossia dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti d’America. Paesi, osserviamo, che oggi si sono incamminati su una tradizione politica che non è quella che inaugurarono nella lotta al fascismo» (Left). Senza contare, aggiungo guardando la cosa dal punto di vista degli amici dei valori occidentali (io mi chiamo fuori!), che l’attivismo politico-militare della Russia putiniana punta in modo sempre più sfacciato a dividere il campo occidentale. In Germania si vocifera che Alternative für Deutschland abbia ricevuto consistenti appoggi mediatici e finanziari da Putin, il leader politico più amato dai sovranisti d’Europa.

A proposito di “populisti” di estrema destra! Oggi i quotidiani di “destra” del Belpaese hanno facile gioco nel rinfacciare agli amici dei “populisti” alla Travaglio il loro antico giudizio su Bossi e Berlusconi, trattati dai partiti tradizionali della cosiddetta Prima Repubblica alla stregua di reietti della politica, gente incapace e inadatta a manovrare le sofisticate e delicate leve della politica. Oggi i teorici dell’antiberlusconismo scoprono che «anche chi vota per i partiti di estrema destra va rispettato e capito», e che comunque «gli elettori hanno sempre ragione, anche quando il loro voto non ci piace». In ogni caso è certo che “le destre” di casa nostra hanno di che leccarsi i baffi pensando alla prossima tornata elettorale, mentre “le sinistre”… ma perché ostinarsi a sparare sulla Croce Rotta! Per un “astensionista strategico” come chi scrive tutti questi discorsi sul Volk che ha sempre ragione, come il cliente, provocano solo disgusto e hanno il solo significato di una conferma: viviamo tempi oltremodo sgradevoli, diciamo così, e sotto tutti i punto di vista.

«Dai dati preliminari che avranno bisogno di essere elaborati e raffinati nei prossimi giorni, emerge un ritratto abbastanza chiaro dell’elettore di AfD: sono soprattutto maschi operai, intorno ai 40 anni, residenti nella Germania orientale, con un livello di istruzione medio-basso. Quasi un terzo di loro ha votato AfD per la prima volta, dopo essersi astenuti alle scorse elezioni, mentre un quinto di loro, circa un milione di persone, quattro anni fa aveva votato per Angela Merkel. La gran parte degli elettori ha scelto di votare AfD non perché attirata da programmi estremisti o addirittura neonazisti, ma sopratutto come forma di protesta verso i partiti tradizionali» (Il post). Una specie di grillismo Made in Germany?

Certo, con la Cancelliera «il surplus negli scambi con l’estero ha sfiorato i 300 miliardi, il maggiore al mondo, ma sono raddoppiate a due milioni anche le persone che fanno un doppio lavoro pur di far quadrare i conti. Sotto la cancelliera la crescita è stata costante – benché in media per abitante sia da anni molto sotto all’ 1% – mentre i pensionati in povertà sono aumentati del 30%. Questo Paese mantiene un welfare esemplare, eppure presenta un livello di concentrazione di patrimoni nelle mani dei ricchi inferiore solo a quello dell’America di Trump» (F. Fubini, Il Corriere della Sera). Sappiamo come l’Agenda 2010 varata dal governo Schröder ha dato eccellenti risultati quanto a incremento di produttività, precarizzazione del lavoro e stratificazione nel sistema dei salari. I sindacati di regime (IGM in testa) difendono soprattutto la loro posizione politica contrattuale nei confronti di governo e padronato, garantendo una “responsabile” gestione del “capitale umano” soprattutto nelle grandi imprese, quelle più esposte alla competizione capitalistica mondiale. Il modello tedesco di gestione delle relazioni industriali pare reggere ancora bene all’urto della globalizzazione. Ai lavoratori tedeschi che hanno minori tutele sindacali e che percepiscono salari sempre più bassi, non rimane che orientarsi politicamente verso il “populismo” di destra, ma più per rabbia che per convinzione.

Per il sociologo Luca Ricolfi non ha poi molto senso liquidare l’AfD tirando in ballo l’estremismo di destra: «Più che semplicistico, è sbagliato. Il populismo attuale non può essere confuso con l’estrema destra: se ne differenzia su troppi punti fondamentali. Nazismo e fascismo erano espansionisti, il populismo di destra è isolazionista. Nazismo e fascismo teorizzavano la superiorità razziale, i populisti si limitano a difendere il diritto di ogni popolo a preservare l’identità. Nazismo e fascismo disprezzavano la democrazia, i partiti populisti sono semmai iperdemocratici: non pensano vi sia troppa democrazia, ma che ve ne sia troppo poca. Nazisti e comunisti [leggi: stalinisti] perseguitavano gli omosessuali, diversi partiti populisti di destra difendono coppie di fatto e diritti dei gay, in alcuni casi sono addirittura guidati da leader omosessuali. L’Afd da Alice Weidel, dichiaratamente lesbica. In passato abbiamo avuto la lista di Pim Fortuyn, politico olandese omosessuale assassinato nel 2002, la cui eredità è oggi raccolta dal populista Geert Wilders» (Il Messaggero). Insomma, con le analisi superficiali che si arrestano alla superficie ideologica dei fenomeni sociali non è possibile cogliere la natura strutturale di quei fenomeni, un’elementare lezione “materialistica” che spesso molti sedicenti materialisti mostrano di non aver compreso neanche un poco.

Scrive Riccardo Rinaldi: «Un’analisi di classe deve dunque affrontare seriamente il seguente dilemma: la rottura della UE significherebbe davvero, come alcuni ancora temono, un “arretramento delle posizioni internazionaliste”, o al contrario – dato che la struttura che garantisce lo sfruttamento dei paesi del centro su quelli della periferia è esattamente la stessa che garantisce lo sfruttamento di una classe sull’altra – la lotta contro l’Unione, condotta anche in ogni singolo paese, se proprio non si riesce a farla in modo coordinato, non sia in realtà la lotta di e per tutta la classe lavoratrice europea». Applicando «un’analisi di classe» ai passi appena riportati, se ne ricava a mio avviso quanto segue: trattasi di una riedizione della vecchia tesi ultrareazionaria (di matrice maoista e terzomondista) che auspicava l’alleanza tra il proletariato delle metropoli capitalistiche (il cosiddetto Nord del mondo) e i Paesi arretrati che subivano lo sfruttamento da parte dell’imperialismo occidentale. Se non si rigetta il punto di vista nazionale, sebbene declinato a partire dai Paesi «della Periferia» (Grecia, Spagna e Italia), si rimane intrappolati nel grande gioco della competizione capitalistica internazionale, illudendosi di usare le contraddizioni che dilaniano il “nemico di classe” – peraltro tutto da definire.

Soprattutto oggi, nell’epoca del dominio totale e totalitario del Capitale sugli uomini e sulla natura, è ridicolo pensare alla dialettica centro-periferia negli stessi termini in cui essa si dispiegava quando non pochi paesi della periferia capitalistica dovevano ancora conoscere la rivoluzione borghese-nazionale. Oggi alla scala mondiale (figuriamoci in Europa!) esiste una sola compatta e contraddittoria/conflittuale (com’è nella natura del Capitale) struttura capitalistica, e sperare di poter giocare le inevitabili e sempre crescenti divisioni intercapitalistiche e interimperialistiche in chiave “anticapitalista” è davvero sintomo di una “creatività rivoluzionaria” che ha molto a che fare con la pure e semplice cretineria politica, la quale sovente appare invece come  concretezza politica agli occhi degli analisti che non hanno alcuna dimestichezza con il concetto e con la prassi dell’autonomia di classe.

L’”internazionalismo europeista” alla Toni Negri, Yanis Varoufakis e Slavoj Žižek e l’”internazionalismo antieuropeista” di chi teorizza alleanze “spurie”  (una volta si diceva interclassiste) in vista della “rivoluzione sociale” appaiono ai miei occhi come due facce della stessa medaglia. Il polo imperialista europeo va combattuto ricostruendo l’autonomia di classe sul terreno nazionale e internazionale, e nessun espediente “tattico” può rendere più facile e veloce questo fondamentale, quanto difficilissimo, compito. Tutto il resto è il solito velleitarismo da mosca cocchiera, soprattutto se la mosca cocchiera parla di “anticapitalismo” avendo in testa la costruzione del Capitalismo di Stato.

I mesi che verranno ci diranno fino a che punto la politica incarnata dalla Cancelliera di ferro (o di teflon, come dicono alcuni socialdemocratici tedeschi: «Ogni cosa le scivola addosso. Non fa sbagli. È frustrante!») è uscita indebolita e ridimensionata dalla recente tornata elettorale, incertezza che ha subito messo in agitazione le capitali europee, le quali non sanno se gioire o deprimersi per il nuovo corso politico che si annuncia in Germania. A Berlino che giorno è? Ah, saperlo! Intanto il Presidente francese ha fatto la prima mossa puntando su un indebolimento relativo della Merkel, rilanciando con il discorso tenuto martedì alla Sorbona il tradizionale asse franco-tedesco, ma in una prospettiva marcatamente “europeista”. «Un lungo e magnifico discorso», ha commentato sul Foglio Giuliano Ferrara, il quale vede in Macron e in Trump due opposti politici e antropologici; «Ci vuole energia, ci vuole volontarismo, ci vuole sfacciataggine per dire certe cose». Ma poi dal dire bisogna passare al fare. Fino a quando la Francia non scioglierà i nodi strutturali che ne azzoppano la capacità sistemica (economica, scientifica, tecnologica) la sua credibilità agli occhi della Germania rimarrà appiccicata con lo sputo, nonostante l’Inno alla gioia suonato dal giovane Presidente francese, il quale da tempo studia l’Agenda 2010 di Schröder – peraltro già compulsata con una certa invidia da Hollande e dagli altri Premier europei alle prese con l’«ingessatura del mercato del lavoro e la bassa produttività». Se son sacrifici sociali si vedranno! Già quest’autunno.

ES IST DER KAPITALISMUS, SCHÖNHEIT!

merkel-profughi-706734Chiunque abbia avuto a che fare per motivi di lavoro con gli organismi americani preposti ai controlli degli standard sanitari, ambientali e di sicurezza sa bene quanto stringenti e pignoli (a volte fino al parossismo!) siano questi controlli. Ricordo che nel porto di Los Angeles, forse correva l’anno 2002, la nave nella quale lavoravo beccò una lunghissima sequela di salatissime multe che sanzionavano magagne d’ogni genere: troppo caldo in sala macchine, troppo fumo in cucina, troppo freddo in coperta, troppo sporco negli alloggi e via di seguito. Ebbene, la nave venne multata anche perché un recipiente posto appena fuori dalla cucina adibito alla raccolta dell’immondizia (beninteso previa oculatissima differenziazione da parte del personale di bordo) non si trovava al posto giusto: distava infatti di un metro (dicasi un metro!) rispetto al punto previsto dai controllori americani – non mi si chieda in base a quale sofisticato criterio. Cose dell’altro mondo, puro terrorismo psicologico, soprattutto per uno abituato ai più rilassati, diciamo così, standard capitalistici della Magna Grecia.

Naturalmente l’ossessivo perfezionismo americano risponde a precise esigenze economiche (e sociali in genere): si tratta di un’ormai ben consolidata e continuamente aggiornata politica industriale che coinvolge tutta l’economia che si dipana sotto il cielo degli Stati Uniti, e che vede mobilita militarmente e capillarmente l’intera piramide del sistema americano preposto al controllo delle attività, delle persone e dei prodotti. Va da sé che la cosa non ha mai impedito “illegalità” e furbizie economiche d’ogni genere, come sappiamo anche dalla “scandalosa” vicenda dei titoli spazzatura scoppiata nel 2007*; la politica particolarmente stringente e assai severa dal lato penale in materia di “correttezza” nelle prassi economiche serve piuttosto ad innalzare lo standard di qualità complessivo della società americana (il cosiddetto orgware), che non a caso si colloca ancora al vertice del sistema capitalistico mondiale. «È un paradosso che dirigenti, azionisti e lavoratori non devono mai dimenticare: il capitalismo Usa adora il libero mercato, ma punisce severamente deviazioni dalle norme etiche, professionali e legali. Il patto non implicito tra il governo Usa e le società è: vi lasciamo in pace, anzi, vi aiutiamo con sgravi fiscali, regole leggere e poca interferenza, ma quando fate un errore vi schiacciamo come un insetto. D’altra parte, la sinistra dice che le punizioni non sono dure abbastanza. La grande critica del governo Obama tra i benpensanti democratici è di non aver messo nessuno dei capi di Wall Street in prigione dopo la crisi del 2008-2009» (F. Guerrera, La Stampa, 24 settembre 2015). Si sa, i benpensanti sinistrorsi si distinguono dappertutto quanto a giustizialismo populista: il loro modello penale è la Cina.

Com’è noto, la sicurezza sul posto di lavoro (secondo lo standard internazionale del Safety First) e il rispetto ambientale delle «attività antropiche» (secondo lo standard internazionale Anti-pollution) sono già da tempo entrate a pieno titolo nelle aggressive strategie concorrenziali delle grandi imprese multinazionali tecnologicamente più avanzate del pianeta: infatti, attraverso le politiche aziendali “rispettose” della sicurezza e dell’ambiente il grande Capitale mette fuori mercato la media e la piccola impresa, ma anche la stessa grande impresa che non riesce a tenere il passo con quelle aggressive e costose politiche “eticamente corrette”. Standard qualitativi e concentrazione capitalistica sono due facce della stessa medaglia**. Sul terreno della competizione capitalistica globale anche le benemerite Organizzazioni Non Governative dedite alla salvezza del pianeta stanno dando un notevole contributo.

«Nonostante gli sforzi la Volkswagen negli Usa continua a faticare rispetto alla concorrenza. Da gennaio ad agosto ha immatricolato 238 mila veicoli, il 2.7% in meno di un anno fa. L’apertura dello stabilimento di Chattanooga con un investimento di un miliardo di dollari non ha prodotto gli effetti sperati: l’obiettivo di un milione di automobili l’anno entro il 2018 appare lontano» (Il Sole 24 Ore). Evidentemente il management della casa automobilistica tedesca oggi nell’occhio del ciclone ha cercato di dare un “aiutino” alla capacità concorrenziale del suo prodotto, «anche per salvare posti di lavoro» (non solo in Germania): «Es ist der Kapitalismus, Schönheit!». Il Capitale statunitense ha risposto per le rime: «Exactly!».

In attesa di ritornare sulla scottante questione, rinvio a un interessante articolo pubblicato sul Sole 24 Ore.

Post Scriptum: Il lettore forse si aspettava che scrivessi qualcosa sull’orgoglio ferito della Cancelliera di Ferro («oggi di plastica!») e sulla spocchia/ipocrisia dei tedeschi che si rivelano essere «poco affidabili esattamente come gli italiani e i greci». Per il livore antitedesco rimando agli specialisti della materia, che in Italia abbondano a “destra” come a “sinistra”. Piuttosto sarà interessante vedere come reagiranno i politici tedeschi e il “popolo” tedesco a questa battaglia persa in modo così rovinoso e umiliante. La guerra sistemica comunque continua, e pare che a Berlino si stanno studiando contromisure e ritorsioni “a 360 gradi”. Non solo contro gli Stati Uniti. Es ist der Kapitalismus, Schönheit!

2015-09-22T175023Z_133044446_LR2EB9M1DJP6B_RTRMADP_3_USA-VOLKSWAGEN-keOE-U43120121429624CH-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443* «Nella drammatica vicenda che ha coinvolto Volkswagen e rischia di trascinare nello scandalo altri marchi, c’è paradossalmente un lato positivo. Una speranza perlomeno. Per andare oltre le inevitabili e incalcolabili ripercussioni economiche e industriali dell’intero comparto automobilistico (è prevedibile che crolleranno le vendite dei motori diesel messi così grossolanamente sotto accusa), i maggiori governi europei dovrebbero oggi più che mai fare un sforzo definitivo, serio e soprattutto comune, per dare una spinta alla diffusione delle auto ibride ed elettriche. Quasi tutte le case automobilistiche hanno nella loro gamma vetture a batterie. Le ibride, supportate dal motore termico, hanno vita più facile e si stanno conquistando una loro nicchia di mercato (Toyota docet). Le elettriche pure, quelle veramente a emissioni zero allo scarico, restano praticamente invendute. Mancano le infrastrutture e sufficienti incentivi economici all’acquisto (se si fa eccezione per alcuni Paesi del Nord Europa, la Norvegia prima tra tutti). Ma l’industria è tecnologicamente pronta per dare una svolta concreta alla mobilità nel giro di tre-cinque anni. Ed è pronta anche Volkswagen, come aveva annunciato l’ex CEO Martin Winterkorn prima del terremoto. Non basta? In occasione del recente salone di Francoforte, il grande capo di Mercedes, Dieter Zetsche, ha dichiarato : «Sono disponibile a creare un’alleanza con Audi e Bmw per le batterie delle auto elettriche». Che possa essere davvero questa la via di fuga dell’industria automobilistica europea messa all’indice dagli americani? Come sempre la risposta è nelle mani, speriamo non inquinate, della politica» (M. Donelli, Il Corriere della Sera, 24 settembre 2015 ). Su questi temi rimando a Industria automobilistica e competizione capitalistica totale.

** Per Federico Fubini «Le somiglianze tra la crisi dei subprime del 2007-2008 e Lehman Brothers e lo scandalo Volkswagen sono impressionanti. Volkswagen realizza vendite per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo, assicura in Germania 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indiretti). Il settore auto pesa per 300 miliardi di euro di esportazioni, la prima voce del made in Germany. Anche Volkswagen è “too big to fail”, dunque il governo tedesco interverrà per salvarla: ma lo farà violando e forse demolendo le regole europee sugli aiuti di Stato, quelle che avevano rimesso un minimo d’ordine nel rapporto fra politica e imprese in Italia» (Il Corriere della Sera, 24 settembre 2015).

CRISI GRECA. PIÙ CHE PATHOS, PETHOS…

tsipras-merkel-schaeuble-688232Più che di Pathos, come titola oggi Il Manifesto a proposito della crisi greca, forse si dovrebbe parlare di Pethos, con rispetto parlando. Pare infatti che il piano fatto ingoiare stanotte dal Premier compagno Alexis Tsipras al Parlamento greco sia ancora più duro e “austerico” di quello rifiutato a fine giugno e allora giudicato inaccettabile dal «popolo greco». Secondo molti economisti liberisti-selvaggi il piano-Tsipras è talmente pesante sul versante fiscale, che qualora fosse accettato dai “poteri forti” europei e poi effettivamente implementato dal governo greco esso assicurerebbe alla Grecia anni di depressione economica. Mai prestare orecchio ai liberisti-selvaggi!

Come sempre il premio per la comicità involontaria tocca ai tifosi dell’attuale regime greco che militano nel noto “giornale comunista”: «Tsipras serra i ranghi di Syriza e nella notte chiede il sì del parlamento greco alla sua proposta prima dell’Eurogruppo di oggi. Atene resta con il fiato sospeso, la palla ora torna nel campo europeo, dove la mediazione di Hollande costringerà la Germania e i falchi a calare le carte sul debito». Già immagino Frau Merkel e il Kattiven Wolfgang Schäuble tremare al tavolo verde della trattativa. Molti sottovalutano la teutonica ironia del Super Ministro tedesco: Il ministro delle finanze tedesco, il falco Wolfgang Schäuble, non apprezza le ingerenze statunitensi e i consigli a stelle e strisce su come ristrutturare il debito greco. In una conferenza a cui prendeva parte anche il ministro francese delle finanze Michel Sapin, il tedesco ha gelato la platea con un intervento fra il serio e il faceto: “Ho detto al ministro delle finanze statunitense che noi accoglieremo nell’euro Portorico se loro accetteranno la Grecia nel sistema dollaro. Lui ha creduto che stessi scherzando”» (Euronews, 9 luglio 2015). Perché, non stava scherzando?

Riassumiamo: il «popolo greco» domenica ha votato No per produrre, con la sapiente mediazione del compagno Tsipras, gli effetti del Sì. Un successone per il «popolo greco» e per la sinistra mondiale – alla quale chi scrive è sempre stato estraneo, sia oltremodo chiaro! Insomma, per dirla con molti analisti politici, «tanto referendum per nulla». Per Federico Fubini l’orizzonte strategico (si fa per dire) del Premier greco è davvero striminzito: «Se non altro il suo obiettivo ormai è chiaro: quando arriva lunedì, essere ancora nell’euro. A che prezzo, e per quanto tempo, si vedrà» (Corriere della Sera). Martedì è un altro giorno, per mutuare la celebre battuta di un film-icona.

A proposito di «calare le carte»! Per Giuliano Ferrara si tratta di una “calata” di ben altro genere. «Non Podemos», gongola l’Elefantino dal Foglio; «no we can’t»: «Exit baby pensioni, exit iva speciale, exit mostruosa presenza dello stato nell’economia. L’esito forse fausto del negoziato sulla linea Grexit si chiama calata di brache per Tsipras. Cercasi uscita dignitosa per la brigata Kalimera». Sarà vero? sarà falso? Non saprei dire. D’altra parte Il Foglio ragiona, esattamente come Il Manifesto e gran parte della pubblicistica di estrema sinistra, con la logica delle opposte tifoserie, e chi ha la ventura di non parteggiare per una delle squadre capitalistiche che si contendono la vittoria (la Grexit? più Europa? l’euro? la dracma?, le statalizzazioni? le liberalizzazioni? l’alleanza con la Russia e la Cina? una più stretta collaborazione con gli Stati Uniti?) passa per un elitario che non vuole sporcarsi le mani con la «politica concreta» e che, «oggettivamente», fa il gioco della squadra avversaria.

Per mandare giù il rospo, Dimitri Deliolanes  fa oggi professione di moroteismo democristiano: «È giunta per Ale­xis Tsi­pras l’ora della poli­tica di governo, delle mano­vre non lineari allo scopo di por­tare la Gre­cia fuori dalla camera a gas a cui l’hanno con­dan­nata, per due set­ti­mane almeno, Schäu­ble e Dijs­sel­bloem. Il pre­mier mano­vra avendo il  soste­gno di un paese vivace e orgo­glioso, consapevole della sua forza ma anche dei suoi limiti. Per risol­vere il pro­blema subito, da lunedì» (Il Manifesto). Le «manovre non lineari» di Deliolanes suonano un po’ come le «convergenze parallele» di Aldo Moro. Vedremo fino a che punto resisterà la dottrina delle «manovre non lineari»; d’altra parte, la sinistra europea solo dopo decenni capisce (se lo capisce!) di aver detto e scritto assolute castronerie politiche su diverse e non secondarie questioni.

Detto per inciso, anche la sinistra di Syriza per adesso mostra di accettare, sebbene obtorto collo, la dottrina delle «manovre non lineari»; vedremo se martedì la fronda interna cavalcherà una nuova dottrina. «Abbiamo detto ad Alexis», dice  Stathis Kouvelakis, uno dei leader della Piattaforma di Sinistra, «che non possiamo accettare quello che di fatto è un terzo memorandum della Troika. Non siamo i socialisti e neppure Samaras. Non è giusto rinunciare ai punti fermi dell’accordo che firmammo a Salonicco prima delle elezioni» (Corriere della Sera). Certo, dopo tutto quel parlare di insuperabili «linee rosse»…  Le linee rosse si sono alla fine rotte o si sono fatte semplicemente «non lineari»? Mistero della Dea Dialettica!

Scrive Matteo Faini: «Quale che sia la nostra opinione sulla bontà delle proposte politiche del premier greco, in quanto a capacità negoziale questi si è rivelato un dilettante allo sbaraglio. Il primo ministro greco ha sbagliato tutto. Indire il referendum senza prima minacciare di farlo gli ha precluso la possibilità di ottenere un’offerta migliore dai creditori internazionali. A meno che non si trovi una soluzione all’ultimo minuto, a pagare le conseguenze della sua insipienza sarà in prima misura il popolo greco, in seconda battuta il resto d’Europa» (Limes, 9 luglio 2015). Dilettante allo sbaraglio o cinico genio della realpolitik («Tra una solu­zione brutta e una catastro­fica, biso­gna sce­gliere la prima»: ma va?), Yanis Varoufakis o Euclide Tsakalotos, “marxista irregolare” e cool o “marxista realista” che «porta le giacche di velluto stazzonate e i jeans tipici della sinistra» (ho sempre odiato il look ricercatamente scialbo della sinistra!), governo di “sinistra” o governo di “destra”: in ogni caso il «popolo greco» è chiamato dalle classi dominanti nazionali e internazionali a versare lacrime e sangue sull’altare della necessaria modernizzazione capitalistica del Paese.

L’ho sostenuto fino alla nausea: occorre uscire dallo schema borghese della scelta democratica dell’albero a cui impiccarsi. Come? Rifiutando l’orizzonte del cosiddetto bene comune nazionale (o sovranazionale: la Patria Europea di Jürgen Habermas e compagni, tanto per capirci), svegliandoci dall’ipnosi patriottica e democratica, passando dalle illusioni e dalle frustrazioni (nonché da un certo vittimismo meridionalista che personalmente, in quanto cittadino della Magna Grecia, conosco benissimo) a una più adeguata interpretazione dei fatti, con quel che ne segue, o potrebbe sperabilmente seguirne, sul piano politico. Ovviamente si tratta solo di un difficile inizio; ma se non iniziamo mai…

Gli “anticapitalisti” del genere di quelli che augurano alla Grecia un futuro chavista (sic!) o comunque socialsovranista (risic!) da decenni non fanno che portare acqua al mulino di questa o quella fazione borghese nazionale e mondiale. Per molti “rivoluzionari” sviluppare una mentalità da mosca cocchiera è un’assoluta priorità esistenziale, prima ancora che politica. Contenti loro! D’altra parte, chi sono io per, ecc., ecc., ecc.

Scrive Jacques Sapir: «Diciamo subito, c’è una cosa che terrorizza totalmente i leader europei: che la Grecia possa dimostrare che c’è vita fuori dell’Euro». Non c’è dubbio: fuori dell’Euro e dell’Unione Europea c’è vita, vita capitalistica. Per trovare vita umana bisogna invece uscire dal capitalismo. Vasto programma, come no!

Per adesso metto un punto. Domani è un altro giorno, si vedrà!

QUEL CHE RESTA DEL REFERENDUM

alexangela Il pezzo che segue è stato scritto ieri. Oggi aggiungo solo che, come scrivono il Wall Street Journal e il Financial Times, la crisi borsistica cinese, sintomo di sofferenze strutturali che probabilmente non tarderanno a manifestarsi in modi socialmente più devastanti («Ora che la bolla è lì lì per scoppiare, i piccoli investitori cinesi rischiano di perdere tutto, e il governo teme le conseguenze» (Il Foglio, 8 luglio 2015); il collasso borsistico di questi giorni a Shanghai e Shenzhen, dicevo, rischia di far apparire una ben misera cosa la crisi greca, una magagna che ha come suo centro motore «un Paese la cui economia vale quanto quella del Bangladesh». D’altra parte è anche vero che il peso geopolitico della Grecia è tutt’altro che irrilevante, ed è esattamente questa scottante materia prima politica che Tsipras sta cercando di valorizzare al massimo nelle trattative con i “poteri forti”, come peraltro non ha mancato di rimproverargli ieri all’Europarlamento il Presidente del Consiglio UE Donald Tusk. Come agirà (se agirà) lo sgonfiamento della bolla speculativa cinese sulla crisi greca: da classico deus ex machina in grado di risolvere una vicenda che appare altrimenti senza via di uscita, o come goccia che fa traboccare l’altrettanto classico vaso (di Pandora, certo)? Forse questa domanda sarà balenata ieri nella testa di più di un leader europeo. Ma forse anche l’immagine della tempesta perfetta si è fatta strada in alcuni ambienti della leadership mondiale. Non lo sapremo mai. Comunque sia, Mario Draghi aveva visto giusto quando un mese fa ci mise in guardia: rischiamo di addentrarci in una terra incognita. Rischiamo?

Crisi greca e Questione Tedesca
«Non sono tra coloro che danno la colpa agli stranieri: per tantissimi anni i governi greci hanno creato uno Stato clientelare, hanno alimentato la corruzione tra politica e imprenditoria e arricchito solo una certa fetta del popolo. Ci sono distorsioni del passato che devono essere superate, come la questione delle pensioni. Vogliamo abolire le pensioni baby in un Paese che si trova in una situazione disastrosa. Servono le riforme, ma vogliamo tenerci il criterio di scelta su come suddividere il peso. […] Se avessi voluto trascinare la Grecia fuori dall’euro non avrei fatto le dichiarazioni dopo il referendum, io non ho un piano segreto per l’uscita dall’euro». Così parlò Alexis Tsipras all’Europarlamento, deludendo non poco gli europarlamentari sovranisti (lepenisti, grillini, leghisti, ecc.) che volevano usarlo come Cavallo di Troia per espugnare l’euro e mettere nell’angolo il Quarto Reich Tedesco di Angela Merkel.

La crisi greca, ha detto il Premier greco, «è un problema europeo e non solamente di Atene, quindi la soluzione [deve essere trovata] a livello europeo». A ben vedere, la crisi greca come si configura oggi non è che un capitolo della Questione Tedesca, la quale è a sua volta parte integrante e fondamentale della Questione Europea, ossia della necessità/possibilità di fare del Vecchio Continente un polo imperialistico in grado di confrontarsi alla pari con gli altri poli imperialistici globali: ieri USA e URSS, oggi USA, Cina e Russia.

Sulla Pravda del 28 luglio 1984 si poteva leggere, dopo un duro attacco contro l’attivismo economico-politico della RFT in direzione della DDR, quanto segue: «Il problema tedesco rappresenta un capitolo chiuso e in proposito la storia ha detto una parola definitiva». Come sappiamo, «definitiva» solo fino a un certo punto… Radomir Bogdanov, esperto sovietico in cose americane, dichiarò nel settembre dello stesso anno sul Time che «C’è solo un modo per modificare i risultati della seconda guerra mondiale, ed è la terza guerra mondiale». Bogdanov sottovalutava il peso dell’economia nella geopolitica: «Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dall’Economico e si avvicina al puro e astrattamente ideologico, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zigzag. Ma se Lei traccia l’asse mediana della curva troverà che quanto più lungo è il periodo in esame, quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse corre parallelo all’asse dell’evoluzione economica» (Lettera di Engels a W. Borgius, 25 gennaio 1894). Con ciò il vecchio Engels intendeva dire che mentre sarebbe oltremodo sbagliato mettere in un deterministico rapporto di causa-effetto ogni singola azione politica (interna ed estera) con l’economia (globalmente considerata), occorre tuttavia prendere atto che la totalità, il complesso delle azioni politiche di un Paese si comprende nella sua reale essenza (nella sua razionalità) solo alla luce dei grandi interessi economici nazionali e internazionali. Proprio la Questione Europea dimostra quanto corretto sia questo approccio “materialistico-dialettico” alla geopolitica.

Scrive Oscar Giannini commentando le misure adottate da Mario Draghi dopo il referendum (o plebiscito, come sostengono i “puristi” della democrazia tipo Emma Bonino?): «In tali condizioni la BCE non ha potuto far altro che avanzare le lancette del conto alla rovescia, verso il default bancario greco. È un messaggio lanciato a Tsipras, perché non rifaccia il furbo menando il can per l’aia. Ma è altresì un messaggio per l’intera euroarea. Di tempo ne rimane pochissimo. Bisogna avere idee chiare e non perdersi in fumisterie. Altrimenti, fuori dal sistema internazionale dei pagamenti e impossibilitata a usare quello domestico, la Grecia avvamperà in un’ulteriore ondata di furore nazionalista, che però non la salverà da amarissime conseguenze. Altro che no all’austerità, i greci se la ritroverebbero moltiplicata nell’immediato. E l’euroarea “irreversibile” diverrebbe un ricordo nel museo della politica inconsapevole di che cosa implichino i suoi impegni: misure straordinarie volte a risolvere anche l’impensabile, se si crede a un obiettivo comune» (Istituto Bruno Leoni, 7 luglio 2015). Ma il punto è sempre il solito: qual è il comune obiettivo? Creare un’Europa in grado di competere con i giganti dell’imperialismo globale? Controllare strettamente e imbrigliare la potenza sistemica tedesca? Usare la Germania, «gigante economico e nano politico», per tirare acqua economica e politica al proprio mulino nazionale? Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi il cosiddetto «sogno europeo» ha dovuto fare i conti con quella complessa trama di interessi contingenti e strategici, ed è per questo che personalmente trovo spassosissimi quei sinistrorsi che oggi scoprono il progetto europeista dei «padri fondatori»: «Ci vorrebbero i Monnet, gli Schuman, gli Adenauer, i De Gasperi, e invece abbiamo la Merkel, Hollande, Cameron, Renzi!», scriveva Barbara Spinelli giusto un anno fa.

«La galoppante deriva europea nasce da un equivoco», scrive Lucio Caracciolo: «Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie. Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. […] Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo – la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare. […] La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica. Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea» (Limes, 7 luglio 2015). Che dire? Auguri! Lo so, proferiti da un disfattista anticapitalista nonché antisovranista (sia che si tratti della sovranità europea che della sovranità nazionale) quegli auguri non sono molto credibili; è come se in realtà avessi scritto: condoglianze!

Ho l’impressione che i sostenitori della «responsabilità nazionale ed europea» dovranno ancora per diverso tempo (almeno fin che dura il successo del “modello tedesco”) fare i conti con la riluttanza tedesca di passare dall’egemonia “soft” sull’Europa fondata economicamente a un’egemonia politicamente più impegnativa, finanziariamente più dispendiosa e, soprattutto, più gravida di rischi geopolitici. Sotto quest’ultimo aspetto occorre dire che le due guerre imperialistiche del Novecento sono, sul piano storico, ancora “freschissime”. Rimproverare alla Germania (e al Giappone) il suo attuale «nazionalismo economico» è ridicolo, come gran parte dei rimproveri che oggi gli europeisti rivolgono alla Germania «potenza riluttante»: «Per favore», sembrano dire i tedeschi ai cugini europei (i quali non perdono mai l’occasione di ricordare ai teutonici quanto brutti e cattivi essi sono stati nel secolo scorso), «non svegliate il nazionalismo politico che c’è in noi. Lasciateci lavorare in santa pace!». («Che poi veniamo a trascorrere le ferie e a spendere i nostri soldini  in Grecia e in Magna Grecia!»).

Il “riformismo” possibile
«”Io accetto le vostre proposte con qualche modifica per venderle al Parlamento e all’opinione pubblica, però in pubblico diremo che voi avete accettato il mio piano con qualche limatura. Ho esaurito il tempo, tra due giorni le banche collassano e andiamo in default quindi sono politicamente debole, più di così non posso accettare ma se c’è qualcuno che ci vuole spingere fuori dall’euro non dipende più da me”. Sono circa le sette del pomeriggio. Quando Alexis Tsipras finisce di parlare nello stanzone del Consiglio europeo [di ieri] cala il silenzio». Non so se questa ricostruzione fatta da Alberto D’Argento per Repubblica è veritiera; di certo essa appare verosimile, e tutt’altro che smentita dal succo del discorso odierno di Tsipras all’Europarlamento.

Secondo Giorgio Arfaras, che su Limes non smette di ricordarci le magagne strutturali del malandato e vetusto Capitalismo ellenico, «Sul bilancio pubblico e sul debito il governo di Tsipras e i creditori internazionali erano più vicini di quanto sembrasse anche prima del referendum» (Limes, 6 luglio 2015). Anch’io sono di questa idea. Ma allora, come si spiega l’improvviso “voltafaccia” di Tsipras? Probabilmente il Premier greco aveva paura di spaccare il suo partito, che ha cercato di ricompattare attraverso la drammatizzazione dello scontro. «Uno degli uomini più fidati di Alexis Tsipras riassume, sorseggiando un caffè in un bar di Monastiraki: “Abbiamo vinto il referendum, ricompattato Syriza e messo a tacere l’opposizione, che ci appoggia in tutto» (Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 8 luglio 2015). Il clima da ultima spiaggia che si è creato in Grecia potrebbe anche far ingoiare al Paese il rospo dell’«inaccettabile diktat» rifiutato solo ieri, magari in cambio di un riconoscimento politico delle ragioni del “popolo greco”, cosa che peraltro anche il Super Falco Wolfgang Schäuble non ha mancato di fare con la consueta teutonica schiettezza: «Rispettiamo l’esito del referendum ma, nel quadro delle regole dell’Eurozona, senza un programma non è possibile aiutare la Grecia. È chiaro però che la Ue ha anche una certa responsabilità verso la Grecia. Tutto dipende dal governo greco». Anche la Cancelliera ha dichiarato che la Germania non ha da chiedere nulla alla Grecia, e che tocca al governo di Atene avanzare nuove, sperabilmente chiare e definitive proposte. Per i tedeschi la palla dei “compiti a casa” è sempre nella metà campo degli altri: inutile chiamare in soccorso americani, russi e cinesi!

«La Süddeutsche Zeitung, di centrosinistra, aveva un commento sul «perché la Grecia deve abbandonare l’euro» (perché è sì una scelta costosa ma è quella più pulita). L’idea che la Grexit possa fare bene sia alla Grecia sia all’Europa – perché la prima sarebbe libera di fare le sue scelte e l’area euro avrebbe chiaro che deve rivedere alla radice la sua architettura – in Germania è ormai piuttosto diffusa» (Danilo Taino, Corriere della Sera, 8 luglio 2015).

Grecia e Magna Grecia
La Germania vorrebbe ripetere con la Grecia (e con il Portogallo e la Spagna) il successo dell’unificazione tedesca, mentre ha in orrore, giustamente dal suo punto di vista, l’insuccesso nazionale italiano: insomma, non vuole fare del Mezzogiorno europeo una replica su scala continentale del Mezzogiorno italiano, in larga parte sussidiato attraverso la spesa pubblica, con relativi alto parassitismo sociale e alta tassazione. E questo non per un breve tempo, ma per decenni, per oltre un secolo nel caso di specie, al punto da trasformare la Questione Meridionale in una sorta di fenomeno naturale: a Sud fa caldo e c’è la depressione economica!

Gli stessi leader leghisti, che pure hanno tifato per il Tsipras referendario, appena un secondo dopo il trionfo “epocale” e “rivoluzionario” (scusate, ma qui il sic! è d’obbligo) del NO, si sono affrettati a precisare che la Lega è contraria a continuare a finanziare a fondo perduto la Grecia spendacciona, così come non vorrebbe più far galleggiare una Magna Grecia (leggi Sicilia) strafallita sul liquido prodotto al Nord. Per i leghisti (ma anche per i grillini e per i sovranisti d’ogni tendenza politico-ideologica) il Paese di Tsipras e Varoufakis dovrebbe prendere con coraggio e sollecitudine la strada del Grexit, così da implementare il seguente programma “rivoluzionario”: rifiutare definitivamente di pagare un debito peraltro impagabile, ritornare al vecchio conio nazionale, implementare svalutazioni competitive a raffica, versare patriottiche lacrime e sangue sull’altare del bene comune nazionale, e poi, ricostruito un più sostenibile assetto economico-sociale, riaffacciarsi con dignità sulla scena europea. Soffrire, certo, ma sovranamente e in vista della luce in fondo al tunnel: un programmino che personalmente respingo al mittente.

Dosi massicce di austerità e in tempi ristretti: è questa austerità concentrata che debbono attendersi i greci in caso di Grexit? Già sento il sovranista di turno: «Anche tu a fare del terrorismo psicologico!». No: terroristica è la realtà sociale del Pianeta, Grexit o non Grexit.

Come si può capire anche dal libro di Alessandro Albanese e Giampaolo Conte L’odissea del debito. Le crisi finanziarie in Grecia dal 1821 a oggi (In Edibus, 2015), la storia della Grecia moderna è la storia del suo costantemente obeso debito pubblico contratto dallo Stato ellenico, il più delle volte non allo scopo di finanziare la modernizzazione del Paese, come è accaduto nel XIX secolo in diversi Paesi europei capitalisticamente “ritardatari”, ma soprattutto per puntellare interessi sociali costituiti e comprare con la leva dell’assistenzialismo statale la pace sociale e il consenso politico.

«Abbiamo scoperto – scrivono i due autori – che la Grecia non solo era già fallita altre volte, ma che l’indebitamento di fine Ottocento, analogamente a quello di fine Novecento e primi anni Duemila, aveva condotto all’istituzione di una commissione internazionale per controllare le finanze elleniche».

Sotto questo aspetto istruttivo può anche essere un articolo di Luciano Commenta, dal significativo titolo La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale, dal quale cito i lunghi passi che seguono:

«La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece. L’intellettuale descrive la storia della Grecia moderna come un susseguirsi di ambiziosi progetti quasi raggiunti, seguiti da clamorosi tracolli. Alle grandi spinte a uscire da uno stato di minorità in cui i greci non si sentivano di dover stare per storia e rango, hanno corrisposto altrettanti schianti per la discrepanza tra ambizioni e realtà. La presenza di un apparato pubblico molto più grande di quello che il paese potesse permettersi era evidente già nel 1907, quando la Grecia aveva un impiegato pubblico per ogni 10 mila abitanti, sette volte di più dell’Impero britannico. Ma nella ricostruzione di Kalyvas le criticità presenti sin dall’inizio della complicata storia della Grecia moderna emergono e degenerano negli anni 80, con la salita al potere del Pasok, il Partito socialista di Andreas Papandreou. Il Pasok è modellato dal suo leader per essere una macchina del consenso alimentata con risorse pubbliche, occupa lo stato e domina, tranne qualche parentesi di centrodestra, la politica greca fino ai giorni nostri. Il socialismo panellenico di Papandreou è caratterizzato da un’elevata dose di demagogia e da una politica economica non riconducibile al “tax and spend” degli altri partiti socialisti occidentali, ma al “spend and don’t tax” dei movimenti populisti: elevata spesa pubblica, bassa pressione fiscale e la differenza tra entrate e uscite la si copre facendo debito e stampando moneta. Il tutto viene condito con retorica marxista, terzomondista e anti occidentale. Concretamente l’azione politica si manifesta con la continua espansione dello stato: assunzioni pubbliche, nazionalizzazioni di imprese private fallite, protezionismo, aumento di salari e pensioni. Dal 1981 al 1990, dopo due mandati a guida Papandreou, la spesa pubblica sale dal 35 al 50 per cento del pil, i dipendenti pubblici aumentano del 40 per cento, il debito pubblico passa dal 28 per cento del pil del 1979 al 120 per cento del 1990, le continue svalutazioni della dracma portano inflazione a doppia cifra e affossano la competitività del settore privato. Si diffondono corruzione, clientelismo (l’89 per cento dei tesserati del Pasok lavora per lo stato), calano gli investimenti privati e quelli esteri, la produttività stagna, l’export si riduce. Anche Nuova democrazia, il partito di centrodestra fondato su basi di maggiore responsabilità fiscale, diventa una brutta copia del Pasok e governando allo stesso modo porterà la Grecia al default. George Papandreou, figlio di Andreas, vince anche le elezioni del 2009 con un programma keynesiano, promettendo – in piena crisi e con un deficit al 15 per cento – aumenti di salari e pensioni e blocco delle privatizzazioni. Pochi anni dopo a vincere è la sinistra radicale di Alexis Tsipras con un mix di populismo e keynesismo di Papandreou padre e figlio, “more of the same”. […] I greci hanno pensato di votare No all’austerity, il rischio sempre più concreto è che siano costretti a farla fuori dall’Euro». È la “democratica e sovrana” scelta dell’albero a cui impiccarsi di cui ho scritto in diversi post dedicati all’odissea greca.

saved_tjeerd_royaardsStallo! Stallo!
L’aereo europeo rischia dunque di precipitare, con quel che ne segue in termini di morti e feriti (per il momento ancora metaforici) come prevede la sceneggiatura di ogni disastro che si rispetti. «La Grecia», scriveva Larry Elliott sul Guardian del 6 luglio, «ha messo in evidenza le debolezze strutturali dell’euro, un approccio uniforme che non conviene a paesi tanto diversi. Una soluzione potrebbe essere la creazione di un’unione fiscale accanto all’unione monetaria. […] Ma questo richiederebbe proprio quel tipo di solidarietà che è stata drammaticamente assente queste ultime settimane. Il progetto europeo è in stallo». Come far uscire dallo stallo il malmesso aeroplano della linea UE? È la domanda che in queste ore tormenta gli autentici europeisti, già da sette anni alle prese con una grave crisi depressiva.

Mi si consenta una breve riflessione: l’unione fiscale di cui parla Elliott presuppone un salto di qualità politico nella dimensione del “progetto europeo” che è esattamente quello che soprattutto i Paesi del Mezzogiorno europeo non vogliono compiere, perché ciò li costringerebbe a una politica di riforme strutturali ancora più severa di quella fin qui adottata. L’aereo europeo, per così dire, si morde la coda: per superare lo stallo ci vuole «più Europa», ma «più Europa» significa, al netto del politicamente corretto europeista (vedi Barbara Spinelli e “compagni”, ad esempio), convergere più rapidamente possibile verso lo standard dell’area tedesca, cosa che postula nei Paesi disallineati del Mezzogiorno quelle “riforme strutturali” difficili da implementare senza scuotere il loro tessuto sociale, con le implicazioni elettorali e di tenuta sociale che tutti possono immaginare. È un vero e proprio circolo vizioso sistemico, per uscire dal quale la leadership europea deve abbandonare rapidamente la vecchia strategia, fatta di accomodamenti, rinvii, compromessi, lenti progressi. La crisi economica ha drammaticamente diminuito la portanza sulle ali dell’aeroplano, e in assenza di spinte contrarie alla forza di gravità la catastrofe è pressoché assicurata.

In un saggio dell’anno scorso il Ministro Padoan sosteneva che la crisi dell’euro non è solo una «crisi di modelli nazionali di crescita, diventati insostenibili», ma anche «una crisi di sistema, che mette in evidenza le gravi lacune istituzionali della moneta unica. […] Che fare? Rinunciare a salvare l’euro, dando così ragione a chi negava che ci fosse spazio per la sua nascita, non essendo ritenuta l’Europa un’area valutaria ottimale, o cercare faticosamente di guidarlo, lasciando il tempestoso mare aperto, verso porti sicuri? Nei quali non sarà però facile trovare approdo se non si comprende appieno che la sua salvezza, indispensabile per il rafforzamento dell’unità europea, richiede soprattutto maggiore integrazione e nuove istituzioni, cosa che a sua volta presuppone cessioni di sovranità» (Diversità e uguaglianze: le due anime dell’unione, cit. tratta da Economia italiana, 2014/3). Vallo a dire ai leader di Francia, Italia e Spagna terrorizzati dalla concorrenza sovranista-populista!

Scrive Thomas Piketty: ««In effetti in Germania quelli che pensano di rifondare l’Europa in senso democratico sono in numero maggiore rispetto ai francesi in prevalenza legati all’idea di sovranità. Inoltre il nostro presidente continua a sentirsi prigioniero del referendum fallito del 2005 sulla costituzione europea. Hollande non capisce che la crisi finanziaria ha cambiato molte cose. Dobbiamo superare gli egoismi nazionali. […] Quelli che oggi vogliono cacciare la Grecia dall’eurozona finiranno nella pattumiera della storia. Se la cancelliera vuole garantirsi il suo posto nella storia, così come fece Kohl con la riunificazione, deve impegnarsi a trovare una posizione comune che risolva la questione greca e dare vita a una conferenza sul debito che ci permetta di ricominciare da zero. Ovviamente con una disciplina di bilancio assai più severa che in passato» (Intervista rilasciata a Die Zeit, 6 luglio 2015). Ma è proprio questo il punto di caduta (la posta in gioco) nella crisi greca: come sanno tutti gli analisti geopolitici ben’informati, il fumo del debito greco nasconde l’arrosto delle regole che la Germania vuole imporre agli altri Paesi dell’eurozona, senza le quali ogni discorso europeista è una pia illusione. O si converge verso la Germania, o l’aeroplano europeo continuerà a volare basso rischiando continuamente di precipitare, ovvero di schiantarsi contro la prima seria montagna che gli si parerà dinanzi.

Oggi sul Foglio Claudio Cerasa ridicolizza gli italici «cuginetti di Tsipras» che, a differenza del coerente «compagno Krugman» che invita la Grecia a prendere con urgenza e senza prestare il cuore a inutili nostalgie europeiste la strada della Grexit, pensano che un’altra euro sia possibile. Nichi Narrazione Vendola, ad esempio, si è detto favorevole non solo all’immediata convocazione di una conferenza europea sul debito e sui trattati, secondo un’indicazione ormai diffusa nell’establishment economico e politico del pianeta (dal compagno Obama al compagno Xi Jinping, oggi peraltro impelagato nelle magagne borsistiche del Celeste Capitalismo), ma anche alla trasformazione della BCE in «prestatore di ultima istanza». Ovviamente al narratore pugliese sfuggono le implicazioni sociali (leggi più sacrifici per i salariati, i pensionati e la piccola borghesia del Vecchio Continente), politiche e geopolitiche (leggi egemonia tedesca) di una simile trasformazione. Secondo l’ex rifondatore dello statalismo, «Bisogna passare dai debiti pubblici nazionali al debito pubblico europeo»: roba da far scoppiare la Terza Guerra Mondiale! Gli europeisti sinistrorsi vogliono la moglie ubriaca e la botte piena, ossia il Capitalismo ma non le sue necessarie disumanità e contraddizioni – che essi interpretano come il frutto di errori politici e di cattiva volontà. A una «solidarietà europeista» che prescinda dai reali rapporti di forza fra i Paesi dell’eurozona può credere solo l’intellighentia progressista che partecipa alla competizione sistemica intercapitalistica credendo di partecipare alla “lotta di classe”, se non alla “rivoluzione”. Questo per dire quale concetto di “lotta di classe” e di “rivoluzione” hanno in testa certi personaggi che, ad esempio, criticano le mie analisi sulla crisi greca perché mancherebbero di concretezza politica (cosa che è certamente vera), mentre si tratta di “declinare” sul piano teorico e politico questa concretezza: si tratta di una concretezza interamente spesa sul terreno dello scontro interborghese e interimperialistico, o di una concretezza da ricercarsi sul terreno della lotta di classe anticapitalista e, quindi, antisovranista?

Scrive Raffaele Sciortino a proposito del referendum di domenica: «Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente [costituente: una parola magica nel sofisticato gergo sinistrorso dei nostri tempi]: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. […] Bisogna farci i conti [con il populismo sovranista], e non solo: imparare a sporcarsi le mani con i fenomeni di territorializzazione ambivalente delle resistenze. Più tempo perderemo ad arricciare il naso, e più saremo tagliati fuori dalle dinamiche reali. […] Il “populismo” può essere curvato nel senso di classe, con tutti i rischi del caso, se guardiamo alle esperienze, mai pulite anzi costitutivamente spurie, dell’America Latina, a evitare così derive lepeniste o peggio». Come se il populismo di “sinistra” alla Chávez fosse preferibile al populismo di “destra” alla Le Pen! Tra l’altro, anche nella posizione appena considerata troviamo lo status quo definito in termini puramente borghesi, ossia riferito agli Stati e alle Potenze. Checché ne pensi Sciortino, l’ordine (capitalistico) regna ad Atene.

Norma Rangeri si era fatta delle illusioni perfino sul compagno (ormai qui tutti sono diventati compagni: da Tsipras a Papa Francesco!) Mario Draghi, dal quale la direttora del Manifesto si aspettava un’apertura di credito nei confronti dell’eroe di Atene. Invece, contro le pie/ridicole illusioni di certi amici del “popolo greco” il Presidente della BCE ha mantenuto la rotta fissata da tempo: «La Banca centrale europea di Mario Draghi ha deciso di non nascondersi dietro ai governi che oggi si riuniranno a Bruxelles. Ieri, ha mandato un messaggio chiarissimo al governo e al sistema finanziario greco: o la situazione si sblocca per qualche magia, e Atene avanza proposte serie per affrontare la sua drammatica crisi, oppure non ci saranno più spazi per tenere in piedi le sue banche: evento che farebbe scattare l’inizio della sostituzione dell’euro con qualcosa di diverso in Grecia» (Danilo Taino, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2015). Cosa aveva detto Draghi nel 2012, all’apice della crisi degli spread? «La Bce farà tutto quanto è necessario [per salvare l’euro]». Appunto! Naturalmente Draghi ha voluto mandare un chiaro segnale anche all’asse Parigi-Berlino (ma soprattutto a Berlino), sollecitato a prendere atto della natura politica (e geopolitica) della crisi in corso.

Finisco citando un brano di un mio post scritto nel maggio del 2012 perché lo trovo di una qualche attualità, soprattutto dal punto di vista dell’odierna “psicologia di massa” dei tedeschi.

Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se…
Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partner? «Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!»

Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo i conti con la dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni (a partire dalla sfera economica) rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni.

GRECIA. LA POSTA IN GIOCO

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Scritto oggi

La situazione è talmente confusa che la stessa tenuta del referendum previsto per il 5 luglio non è data per scontata nemmeno in Grecia, anche se a questo punto la frittata appare ormai fatta, cotta e servita. Si tratta di capire per chi essa si rivelerà più indigesta o persino avvelenata. In un’intervista rilasciata alla BBC, il Super Ministro Yanis Varoufakis ha dichiarato che «un accordo con i creditori della Grecia è sicuro al cento per cento», a prescindere dall’esito del referendum di domenica. Anche se, ha aggiunto il sofisticatissimo Varoufakis, la vittoria del No darebbe al governo di Atene più forza contrattuale mentre la vittoria del Si lo indebolirebbe e comunque sancirebbe la sua personale sconfitta politica, cosa che ne determinerebbe le immediate dimissioni. Anche Tsipras aveva detto qualche giorno fa di non essere un uomo per tutte le stagioni. Staremo a vedere. Nel frattempo, i convocati al referendum “epocale”, bombardati da tutte le parti da ogni sorta di informazione, più o meno credibile e/o verificabile, appaiono sempre più confusi e frastornati, vittime di una  propaganda interna e internazionale sempre più gridata e minacciosa. La verità è che informazione e disinformazione si rincorrono, si accavallano, si intrecciano, si fondono in una sola ciclopica menzogna messa in piedi contro i dominati, chiamati a schierarsi in uno dei due fronti che si fronteggiano. All’ombra di questa menzogna leggo l’ennesimo sondaggio, di qualche ora fa: «Il 74% dei greci vuole che il paese resti nell’eurozona: lo evidenzia il sondaggio della Alco per il quotidiano Ethnos, che ha invece mostrato una sostanziale spaccatura a metà degli elettori ellenici su cosa votare al referendum di domenica. Secondo l’indagine statistica, il 15% vorrebbe tornare ad una moneta nazionale, mentre l’11% non sa o non risponde» (ANSA).

«In Grecia non c’è un referendum tra euro e dracma», ha detto Nichi Narrazione Vendola, «ma un referendum tra l’austerità che ha impoverito milioni di europei e una Europa solidale». È la menzogna declinata da “sinistra”, dai sostenitori del Capitalismo dal volto umano, tutti schierati per il NO. L’austerità sotto l’euro e sotto il controllo dei vecchi creditori e dei vecchi “poteri forti” (con al centro la Germania); l’austerità sotto la dracma e sotto il controllo di nuovi creditori e di nuovi “poteri forti” (con al centro la Russia e/o la Cina?): lo spazio di “agibilità democratica” del popolo greco in realtà sembra estendersi nei limiti di queste due poco rincuoranti opzioni. Padella o brace: fate la vostra scelta! Il Partito dei sacrifici è unico, o “trasversale”, per usare il gergo politichese. Salvare la baracca capitalistica greca costerà carissimo alle classi subalterne greche, in ogni caso, e non a caso il “compagno” Tsipras ha usato il mese scorso parole che ricordano la Seconda guerra mondiale: «Amiamo la pace, ma quando ci dichiarano guerra siamo capaci di combattere e vincere». Lacrime e sangue, per la Patria! Chi mi conosce sa cosa penso della Patria, comunque e ovunque “declinata”.

«Per adesso la Grecia è mantenuta in vita artificialmente dall’azione decisa di Mario Draghi e la sua Banca centrale europea, grazie all’erogazione di liquidità che continua a pompare soldi nelle banche greche. Ma il deflusso di capitali dalle banche greche è sempre più veloce e il panico si è diffuso nel Paese. Le code agli sportelli bancari sono state lunghissime nell’ultima settimana e il governo ha deciso di porre per i prelievi dai bancomat un limite giornaliero di 60 euro. Anche il bancomat del Parlamento greco è andato in sofferenza e gli stessi parlamentari di Syriza hanno dovuto subire una lunga attesa nel ritiro del denaro contante. La borsa rimarrà chiusa fino a dopo il referendum e in Grecia il clima è diventato irrespirabile» (Panorama, 8 luglio 2015). Una situazione da tempi di guerra che molti non credevano possibile nell’Europa del XXI secolo. Mai dire mai! D’altronde lo stesso Mario Draghi, normalmente assai parco di immagini suggestive, aveva detto che la questione greca (che è a tutti gli effetti una questione europea) rischia di farci entrare in una «terra incognita». «Ad Atene e Salonicco è come in tempo di guerra, mentre nelle zone rurali si vive meglio. Quasi tutti hanno un orto, è più facile trovare latte e formaggio. La fame e la miseria si sentono nelle grandi città» (Viki Markakis, Linkiesta). Una volta si diceva: «anello debole della catena capitalistica». Molti guardano solo l’anello debole, e dimenticano o non vedono la catena, che si estende da Atene a Berlino, da Roma a Parigi, da Mosca a Washington, da Pechino a ovunque nel capitalistico pianeta. E difatti il peripatetico di Treviri diceva: Proletari di tutto il mondo, unitevi! «La parola dignità torna spesso [nella comunità greca che vive a Roma]. I greci sono un popolo orgoglioso della propria identità, non fanno nulla per nasconderlo. “Siamo un paese patriottico” spiega Trianda. “Da noi sui confini della nazione non si discute”» (Linkiesta). Ecco! Lo ammetto, il mio “internazionalismo” è patetico.

Intanto un altro teutonico, il Super Ministro Wolfgang Schäuble, vola nei sondaggi di popolarità: oltre il 70% dei tedeschi intervistati dagli istituti di sondaggio appoggiano la sua linea intransigente, cosa che inquieta la stessa Angelona Merkel, la quale vuole ancora usare la carota, insieme al bastone, per riportare a casa la pecorella greca.

Riprendendo le posizioni di Paul Krugman sulla Grexit («La Grecia dovrebbe votare No e il governo ellenico dovrebbe tenersi pronto, se necessario, a lasciare l’euro»), Federico Fubini ha evidenziato un dubbio che serpeggia fra i socialisti europei (nel senso del PSE): «Per la verità Krugman non è il solo premio Nobel newyorkese e liberal, nel senso del progressismo cosmopolita americano, a offrire il suo sostegno incondizionato a questo governo greco. […] Ieri l’ex ministro delle Finanze greco George Papaconstantinou ha preso carta e penna e ha scritto al New York Times: “Non è esagerato dire che la Grecia oggi sta scivolando verso un nuovo totalitarismo e un No al referendum sarebbe un passo in quella direzione. I progressisti non dovrebbero dargli sostegno”, ha scritto. E lo spagnolo Angel Ubide, consigliere speciale del candidato premier socialista Pedro Sanchez, ha notato qualcosa di simile in un articolo per il Peterson Institute di Washington, criticando l’infatuazione dei liberal americani per Varoufakis e il premier Alexis Tsipras: per Ubide, il loro appoggio fa parte di una “Proxy war”, combattuta sulla pelle dei più poveri fra i greci, per affermare una certa idea molto americana sull’insostenibilità di fondo dell’euro» (Il Corriere della Sera, 3 luglio 2015). Syriza e Podemos come (oggettivi) “amici del Giaguaro”? come (oggettivi) utili idioti al servizio dell’imperialismo americano, da sempre ostili al progetto di una Grande Europa a egemonia tedesca? Il sospetto è lanciato (dai socialisti europei, non dal sottoscritto)!

Se di «lotta di classe» si deve parlare a proposito del referendum di domenica, ebbene si tratta della lotta che il Capitale (la cui dimensione internazionale è sempre più evidente) fa ai nullatenenti e agli strati sociali della piccola e media borghesia risucchiati in un processo di rapida e violenta proletarizzazione.

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Scritto ieri

Dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per Renato Brunetta, Matteo Salvini e Beppe Grillo: vasto, composito e frastagliato appare il partito italiano che tifa per Tsipras, l’ultimo eroe della dignità nazionale prodotto dal Mezzogiorno d’Europa, in vista dell’epocale referendum del 5 luglio – nei riguardi del quale qualche politologo non particolarmente amante della popolarità fa osservare con qualche malignità che non raramente democrazia fa rima con demagogia (1). (E questo, aggiungo io, soprattutto in tempi di acuta crisi sociale). «Tutto, davvero tutto mi divide da Tsipras», ha dichiarato ieri in Parlamento Brunetta, «ma egli oggi rappresenta la risposta di libertà al dominio tedesco e alla burocrazia europea, e per questo io sto dalla sua parte». Detto en passant, l’altro giorno il politico di notevole statura internazionale aveva parlato della necessità di contrastare a ogni costo «l’imperialismo tedesco e la burocrazia di Bruxelles», cosa che pare abbia fatto sussultare non poco le anime dannate di Lenin e Trotsky, ancora in attesa di credibili eredi.

Democrazia e libertà versus dominio e burocrazia: di questo si tratta nella sempre più ingarbugliata, e per molti versi davvero tragicomica, vicenda greca? Democrazia o dispotismo economico-burocratico: è questa la posta in gioco nel Vecchio Continente? Certamente è questo che cercano di venderci i tifosi di «Atene la rossa» (strasic!).

Riferendosi al partito che tifa per Tsipras molti analisti politici hanno parlato nei giorni scorsi di contraddizioni e paradossi; la mia lettura è diversa. Quell’accozzaglia politica che si è coagulata intorno al governo greco dimostra che il mondo del conflitto sociale non si divide, in radice, tra destri e sinistri, ma piuttosto tra anticapitalisti e sostenitori a vario titolo dello status quo sociale – appartenenti alle più disparate, e non raramente disperate, correnti politico-ideologiche: si va dai “comunisti” più o meno vetero/post, ai fascisti più o meno vetero/post, dai sovranisti, agli europeisti, dai liberisti più o meno “selvaggi”, ai benicomunisti di stampo francescano piuttosto che negriano, e via di seguito. Non a caso il virile Putin fa stragi di cuori tanto nell’estrema destra quanto nell’estrema sinistra. E ciò non a dimostrazione del fatto che, in fondo, fascisti e comunisti sono ugualmente attratti da modelli politici e personali autoritari (senza contare la loro comune adorazione feticistica per lo Stato come imprenditore unico), né che oggi le “grandi ideologie” sono ormai tramontate; ma a conferma che i cosiddetti “comunisti” non sono mai stati davvero tali, bensì non più che zelanti servitori del dominio sociale capitalistico. Ma non divaghiamo!

L’illustre economista nonché premio Nobel Joseph Stiglitz si schiera risolutamente (ma no c’era da dubitarne) con il No al prossimo referendum greco: «Un sì alla nuova austerity vorrebbe dire depressione quasi senza fine», mentre «un no aprirebbe invece per lo meno la possibilità che la Grecia, con la sua tradizione democratica, possa essere padrona del suo destino». A parte la balla colossale, in questi giorni ripetuta ossessivamente a destra e a manca, sulla «tradizione democratica» della Grecia, sulla Grecia come «culla della democrazia e della civiltà occidentale»: come se il tempo che ci separa da Pericle, da Socrate e da Aristotele fosse passato invano!; a parte questa demagogia pro-greca d’accatto, come si può credere davvero che un Paese come la Grecia «possa essere padrona del suo destino» nel Capitalismo globalizzato del XXI secolo? (2) Ma davvero si vuol vendere all’opinione pubblica greca e internazionale questa mastodontica menzogna? Pare di sì.

Naturalmente i primi a non crederci, in questa balla speculativa, sono Tsipras e Varoufakis, i leader «dell’esperimento politico bolscefighetto» di Atene (la definizione purtroppo non è mia, ma di Fabio Scacciavillani) (3), i quali infatti stanno cercando di far pesare sul tavolo delle trattative con i “poteri forti” internazionali la delicata posizione geopolitica del Paese, strizzando l’occhio ora alla Russia, ora alla Cina, vedendo l’effetto che la cosa fa a Berlino, a Washington e ad Ankara. La posta in gioco geopolitica, più che economica, è stata messa nel cono di luce con il consueto realismo da Robert Kagan sul Wall Street Journal Europe di ieri. Come la moglie Victoria Nuland (vicesegretario di Stato per l’Europa, particolarmente ostile alla Russia e contrariata da certi atteggiamenti ambigui esibiti dai partner europei sulla questione ucraina), Kagan ha preso molto sul serio l’accordo di cooperazione e finanziamento firmato dal governo greco con la Russia il 18 giugno.

Anche Silvio Berlusconi, a suo tempo vittima del «colpo di Stato» ordito dall’asse franco-tedesco (i sorrisini complici della Merkel e di Sarkozy lo tormentano ancora: altro che Ruby rubacuori!) con la complicità del Presidente Napolitano (Brunetta docet!), oggi fa interessanti considerazioni geopolitiche sulla crisi dell’Unione Europea, anche nel tentativo di agganciare la posizione centrista di Renzi e per questa via smarcarsi dal populismo antieuropeo di Salvini e Meloni. Dopo tutto egli si considera ancora uno stimato leader del Partito Popolare Europeo.

Ma ritorniamo a Stiglitz: «Atene ha la chance di avere un futuro che, anche se non sarà prospero come il suo passato, sarà più ricco di speranza rispetto alla tortura senza scrupoli del presente». Capito classi subalterne greche? Dovrete comunque affrontare duri sacrifici, ma in compenso vi si offre l’occasione di essere più ricchi non in termini di euro (che trivialità, nevvero Santo Padre?) ma di speranza: quasi mi commuovo! Però subito mi riprendo: scusatemi la trivialità, please. La «tortura senza scrupoli del presente» si chiama Capitalismo, e questo ad Atene, a Berlino, a Roma, a Washington, a Mosca, a Pechino e altrove nel mondo. Ed è precisamente questa tortura, questo dominio sociale che ha ormai le dimensioni del pianeta, che ha generato la crisi economica internazionale esplosa nel 2007, la quale ha impattato duramente soprattutto in quei Paesi del Mezzogiorno d’Europa travagliati da decenni da gravi magagne strutturali, gestite soprattutto con la leva della spesa pubblica. D’altra parte nessun politico “meridionale” era – ed è – così elettoralmente masochista da intaccare interessi consolidati, rendite di posizione e parassitismi sociali di varia natura. «Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis sono passati da rivoluzionari a difensori di sprechi e privilegi» (Panorama, 1 luglio 2015). Ora non esageriamo: quando mai la strana coppia di Atene è stata rivoluzionaria?

Ma, prima o poi, i nodi vengono al pettine, soprattutto quando le “formiche” si rifiutano di essere generose con le “cicale”, per riprendere uno stilema polemico interborghese molto in voga qualche anno fa. Detto di passaggio, le “formiche” nordiche votano esattamente come le “cicale” meridionali, come ha fatto rilevare ieri con teutonica malignità la Cancelliera di Ferro parlando al Bundestag. È la democrazia (borghese, e nella «fase imperialista» del Capitalismo!), bellezza! (4).

Chi oggi sostiene che i creditori della Grecia sono moralmente colpevoli per aver consentito a quel Paese di vivere per molti anni al disopra, molto al disopra dei propri mezzi (organizzando persino un’olimpiade nel 2004 e vincendo addirittura un Campionato europeo di calcio nello stesso anno: che bei tempi!) o è in malafede oppure non capisce assolutamente nulla di come funziona il capitalistico mondo. In ogni caso quel personaggio politicamente corretto, sicuramente devoto a Francesco, dice e scrive moralistiche balle.

A proposito dell’evocato compagno Papa! «Se fossi greca? Al referendum di domenica voterei No». È quanto dichiara al Fatto Quotidiano Naomi Klein, «giornalista e scrittrice canadese icona dell’anti-capitalismo del XXI secolo». Anche qui devo dire di non aver nutrito dubbi di sorta, lo giuro. Tutta l’intellighentia che piace vota No. Ora, per capire la natura dell’anticapitalismo (sic!) venduto dalla Signora No Logo in giro per il mondo è sufficiente leggere la sua risposta alla domanda, abbastanza scontata, di Andrea Valdambrini («Papa Francesco come leader del movimento anti-capitalista?»): «Sì, lo è. È una voce importante che ricorda al mondo come non può esistere economia senza la morale. Le persone e il bene del pianeta vengono prima dei profitti». Non c’è dubbio: di questi tempi basta pochissimo per accreditarsi presso l’intellighentia progressista occidentale come «leader del movimento-anticapitalista». E questo certamente non testimonia a favore delle mie capacità! Nella mia più che modesta critica all’Enciclica francescana avevo comunque citato anche Naomi Klein fra i punti di riferimento “dottrinari” del Santo Ecologismo elaborato dal Papa.

Non c’è dubbio che ultimamente il Vaticano, una delle più antiche e potenti agenzie politico-ideologiche al servizio dello status quo sociale planetario, si è di molto rafforzato.

Il populismo di Syriza pare essersi ficcato dentro un cul-de-sac; qualunque sia l’esito del referendum, usato dai capi di quel partito come strumento di pressione politica da far valere nelle trattative  dei prossimi giorni e come comodo alibi per pagare il minor prezzo politico possibile in caso di capitolazione (ad esempio, nel caso vincessero i Sì), appare chiaro che rischiano di venir risucchiati nel vortice della disillusione e della disperazione quella consapevolezza politica e quella combattività che in qualche modo, scontando i limiti di una situazione sociale che depone a sfavore delle classi subalterne in tutto il mondo, si sono fatte strada negli ultimi anni in certi strati del proletariato e della stessa piccola borghesia azzannata dai morsi della crisi.  L’«esperimento politico bolscefighetto» di Tsipras e company può costare molto caro a chi in buona fede si è fidato della loro proposta politica tutta interna alla dialettica interborghese – la quale, com’è noto, può arrivare fino al bagno di sangue (5). Il 30 giugno il quotidiano greco I Kathimerini, schierato per il Sì e molto critico nei confronti del Premier greco («Tsipras sta sfruttando la disperazione della popolazione, ritenendo che una buona parte di essa sia disposta ad accettare qualsiasi cosa, perfino un ritorno alla dracma), paventava la possibilità che «la gente [possa cadere] preda di forze distruttive». Quando la catastrofe incombe e la “coscienza di classe” latita, le «forze distruttive» sono sempre in agguato, pronte a vendicare le offese degli ultimi: non è la vichiana storia che si ripete, si tratta piuttosto della coazione a ripetere del Dominio sociale capitalistico. Del resto, dal mio punto di vista anche Syriza è, nella sua qualità di partito borghese, parte organica delle «forze distruttive», e distruttive nel peculiare significato che tali forze non solo saccheggiano le condizioni di esistenza dei nullatenenti, ma ne annichiliscono anche la capacità di reazione, anche attraverso l’illusionismo democratico. Sotto questo aspetto, sbaglia di grosso chi individua solo in Alba Dorata il nemico da combattere, secondo la vecchia e falsa alternativa tra fascismo e democrazia.

Certo, per una volta potrei affettare un po’ di ottimismo (tanto non costa nulla e si fa sempre bella figura) e dire di sperare che la disillusione possa convertirsi presto in crescita politica. Certamente se fossi in Grecia lavorerei in quel senso. Nel mio infinitamente piccolo, si capisce. E soprattutto senza coltivare, per me e per gli altri, false speranze. Finisco ricordando la mia posizione sul referendum del 5 luglio: si tratta a mio avviso di rifiutare tutte le opzioni vendute alle classi subalterne come le sole ricette in grado di salvarle da una miseria ancora più nera di quella che stanno sperimentando oggi, ossia per legarle più strettamente al carro dei sacrifici («avete scelto voi!»), che comunque esse dovranno fare, non importa se nel nome del “sogno europeista” o in quello, altrettanto reazionario e disumano, del “sogno” sovranista.

(1) «La paura aiuta i demagoghi populisti che la coltivano di mestiere, se non lo si fosse ancora capito. Che Tsipras sia stato un demagogo a ricorrere al referendum chiedendo la fiducia dei greci a lui, non dovevamo scoprirlo certo all’ultimo momento. I populisti demagoghi fanno così, e chi non lo è e non sa mettere in conto le loro mosse perderà» (Oscar Giannino). Ma anche il fronte del Sì, a quanto pare, sa ben giocare con le paure: «Com’è possibile convincere anche queste persone a votare una cosa contro il proprio interesse? Facile, si crea un clima di terrore, paventando l’uscita dall’euro, dall’Europa, il fallimento e il disastro economico e sociale del paese, la perdita di tutti i propri soldi ecc. in caso di vittoria del “no”. In questo sporco lavoro aiutano molto le tv private greche che a ciclo continuo trasmettono servizi che hanno lo scopo di terrorizzare il popolo greco, molte volte riciclando in maniera forviante fotografie ed immagini del passato e magari provenienti da altri paesi. […] L’esempio del primo ministro Matteo Renzi è eclatante, ha dichiarato: “Sarà un referendum tra la Dracma e l’Euro”. In questo carosello di dichiarazioni non è solo, ma ben inserito in un fronte che fa di tutto per terrorizzare il popolo greco. In tanti hanno fatto dichiarazioni in cui la vittoria del “no” coincide con l’uscita dall’euro e dall’Europa. Cosa, che non è vera ed è proprio il più accanito nemico del governo greco a dichiaralo pubblicamente, infatti proprio il ministro delle finanze tedesco W. Schäuble ha dichiarato ieri che anche con la vittoria del “no” la Grecia resterà nell’’uro e si continuerà a trattare» (http://sopravvivereingrecia.blogspot.it/). Il Blog qui citato coltiva un’alta opinione della democrazia diretta referendaria che personalmente non condivido. Come non condivido il suo giudizio sulla dichiarazione di guerra referendaria firmata da Tsipras il 26 giugno: «è di una fierezza rara».

(2) Scrive Paolo Guerrieri: «L’eurozona non è una piccola economia aperta, ma il secondo spazio a livello mondiale per dimensioni di reddito, prodotto e di ricchezza accumulata. […] Per vincere la crisi economica è necessaria più Europa. Non sarà facile in un’era di euroscetticismo crescente. Ma è un dato di fatto che gli Stati nazione europei non hanno più gli strumenti adeguati per governare le loro economie, perché troppo piccole nella nuova economia-mondo. E se vogliamo un rilancio del modello europeo di economia sociale di mercato questo sarà possibile solo in un’ottica europea. Ma bisogna fare presto, prima di vedere definitivamente compromesse le prospettive future dell’intero progetto di integrazione europea» (È fondamentale un cambio di passo in Italia e in Europa, in  Economia italiana, 2014/3). Rimane inteso che questo progetto non può che avere la Germania, ossia lo spazio capitalistico sistemicamente più forte, più strutturato e più dinamico d’Europa, come proprio centro-motore. Hic Rhodus, hic salta!

(3) «Il plebiscito farsa, ultimo rifugio dei demagoghi, rappresenta il capolinea dell’esperimento politico bolscefighetto quale che sia il risultato. […] Quelli che lamentano una moneta senza basi politiche vivono fuori dalla realtà e ignorano la Storia: è sempre l’economia a determinare la politica. Senza la zavorra greca l’euro è economicamente e dunque politicamente più forte» (F. Scacciavillani, Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2015).

(4) Cito da un mio post del 5 giugno: Com’è noto, anche il Ministro tedesco Schäuble si è pronunciato in termini positivi circa la possibilità di sottoporre il piano di riforme che sarà concordato tra Atene e l’ex Troika a un referendum popolare: «Se il governo greco pensa di dover tenere un referendum, allora lasciamogli tenere un referendum – ha dichiarato Schäuble –. Potrebbe essere una misura perfino utile per il popolo greco per decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario o se vuole qualcosa di diverso» (Corriere della Sera, 12 maggio 2015). Elettori greci, preparate la corda: da tutte le parti vi si vuol… consultare. Della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti.

(5) E qui viene sempre utile ricordare Schopenhauer: «Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri, pp. 31-32, RCS, 2010). Ecco la merce nazionalista venduta il 26 giugno da Alexis Tsipras al “popolo greco”: «Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci. Per la sovranità e la dignità del nostro popolo». Segue ovazione e orgasmo da parte dei sovranisti, non importa se di “destra” o di “sinistra”, di tutto il mondo. E magari qualche socialsovranista ha in passato urlato (evidentemente a pappagallo) lo slogan: Il proletariato non ha patria! «Se gli levi anche quella…». Mi rendo conto. E allora, più Patria per tutti! Così va bene? Sono stato abbastanza “amico del popolo”?

LA CADUTA DI QUALE MURO

murosQuando cadde il Muro di Berlino Angela Merkel faceva la sauna: «Io il giovedì andavo sempre con una mia amica a fare la sauna. E quindi sono andata a fare la sauna». Impeccabile. Quando cadde il famigerato Muro io invece scrissi un articolo per una più che modesta rivista locale dal titolo fin troppo ottimista: Il peggio è passato*. Un mio carissimo amico mi corresse: «Guarda che il peggio deve ancora venire». Naturalmente aveva ragione lui.

C’è dunque festa grande a Berlino! «Per il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro che l’ha divisa in due dal 1961 al 1989, Berlino prepara tre giorni di festa. Le celebrazioni arriveranno al loro culmine la sera del 9 novembre, quando sulle note della Nona sinfonia di Beethoven diretta dal maestro Daniel Barenboim ottomila palloncini bianchi saranno rilasciati nel cielo reso famoso da un film di Wim Wenders. Madrina della festa sarà naturalmente Angela Merkel, la tre volte cancelliera nata ad Amburgo ma portata ancora in fasce all’Est dal padre Horst Kasner, un pastore di anime al quale la Chiesa luterana aveva assegnato la parrocchia di Quitzow, in Brandeburgo» (Il giornale, 1 novembre 2014).

Ma cosa si festeggia in realtà nella capitale della Germania riunificata: la caduta del simbolo stesso del “comunismo di stampo sovietico”, oppure la vittoria della Germania nella lunga Guerra Fredda? Alcuni diranno: entrambe le cose. Scrive ad esempio Glauco Benigni su un interessante articolo dedicato all’impatto che la rivoluzione tecnologica dei primi anni Novanta ha avuto sul cosiddetto “marxismo”: «Con la caduta del Muro di Berlino, l’Arbitro invisibile registrava sulla lavagna della Storia la fine della partita “Guerra Fredda Classica” e la vittoria ai punti dell’Impero USA e dei suoi Alleati. A seguito dello storico evento la “Sinistra mondiale classica”, quella che aveva letto Marx e Lenin e che aveva usato Mosca (talvolta) quale bussola del sogno evolutivo, si ritrovò a navigare a vista» (Dagospia, 4 novembre 2014). In questa breve nota intendo occuparmi, molto brevemente, solo del filo nero che lega il celebre Muro al “comunismo di stampo sovietico” e alla “Sinistra mondiale classica”. Per altri aspetti della questione rimando a L’Anschluss di Vladimiro Giacché.

Scriveva Viktor Suvorov, storico** e romanziere russo, nell’Ombra della vittoria: «L’obiettivo del muro: evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo normale. Il muro fu costantemente perfezionato e rinforzato. […] Ma più lavoro, ingegnosità, denaro e acciaio i comunisti mettevano per migliorare il muro, più chiaro diventava un concetto: gli esseri umani possono essere mantenuti in una società comunista solo con costruzioni impenetrabili, filo spinato, cani e sparandogli alle spalle. Il muro significava che il sistema che i comunisti avevano costruito non attraeva ma repelleva». Ebbene, quel «concetto» basta da solo a giustificare lo sforzo di demistificazione dello stalinismo che mi conquistò alla fine degli anni Settanta, mentre ancora marciavo dentro un Movimento Studentesco devoto in gran parte a Stalin e a Mao. Si trattò di una Grazia ricevuta dall’Alto? Certo che no! Semplicemente incominciai a conoscere la storia del “comunismo sovietico” scritta dai vinti, ossia dai comunisti occidentali (peraltro gli stessi che Lenin ebbe sciaguratamente a definire «estremisti infantili») che già agli inizi degli anni Venti denunciarono l’isolamento sociale e internazionale del Potere Sovietico e la sua agonia, che poi prenderà appunto la forma della controrivoluzione stalinista.

Elezioni Germania 2013«Il 9 novembre del 1989 cade il muro di Berlino. La caduta del muro sancisce ufficialmente il crollo del comunismo e determina un nuovo equilibrio politico mondiale. Con la riunificazione, la svolta verso la ricca e moderna società capitalista ha creato per molti cittadini della Germania Est scontento e nostalgia, l’abbandono del proprio passato e delle certezze sul futuro. Che cosa si propone oggi a Berlino e nel mondo in alternativa al socialismo reale? Un sentimento struggente: l’ostalghia, la nostalgia dell’Est, per l’appunto» (Cultura cattolica.it). Della serie: se il “comunismo” è stato un inferno, il capitalismo non è certo un paradiso; se il “comunismo” è morto, il capitalismo non gode di ottima salute. Ricordo che quando Papa Wojtyla, che pure ha molto tramato contro il “comunismo”, ripeteva questo concetto, il “comunista” Bertinotti andava letteralmente in solluchero.

Leggo sempre nel sito Cultura cattolica.it: «La DDR, con il suo sistema dittatoriale e di controllo, portava maggior solidarietà, amicizia e amore fra la gente mentre la concorrenza e la competitività recano con sé un maggior isolamento e una maggiore solitudine». Della serie: si stava meglio quando si stava peggio, meglio un capitalismo arretrato che un capitalismo avanzato, meglio un solo capitalista al comando (lo Stato) che molti capitalisti, meglio andare indietro, verso una miserabile certezza, che avanzare verso l’ignoto. Nella posizione appena riportata echeggia l’anticapitalismo reazionario (passatista, nostalgico dell’ancien regime) della Chiesa del XVIII e del XIX secolo.

Ovviamente alla classe dominante occidentale ha fatto molto comodo reggere il gioco dello stalinismo, accreditandolo come comunismo o «socialismo reale»: «Proletari, il capitalismo è pieno di difetti, chi può negarlo; ma vedete voi stessi cosa vi aspetta nel socialismo». Schiacciata fra «socialismo reale» e «democrazia reale», la stessa speranza di emancipazione universale è evaporata, inverando quella fine della storia tanto cara agli apologeti della società borghese.

Ancora oggi appare (diciamo che è) un’impresa titanica, quasi impossibile, far capire alle persone politicamente e umanamente più sensibili che si pongono il problema di una comunità degna del concetto di uomo in quanto uomo che la caduta del Muro di Berlino non sancisce affatto il crollo ufficiale del cosiddetto comunismo, per la semplice ragione che né nella DDR, né nella Russia stalinista, né nella Cina maoista né in qualche altro luogo del mondo c’è mai stato un solo atomo di comunismo o di socialismo, ancorché “reale”. Ancora oggi chi cerca di articolare un discorso intorno alla possibilità di una Comunità (chiamatela come vi pare!) autenticamente umana deve fare i conti con la solita obiezione: «Però, come la mettiamo con l’Unione Sovietica, con la Cina, con Cuba?». Senza dimenticare la Corea del Nord, il faro che illumina le intelligenze di Antonio Razzi e di Matteo Salvini…

«Il comunismo muore di comunismo, i 1989 mattoni cadono da soli. Il muro si accartoccia su se stesso come una tavola di pergamena. E sulla sua tomba di fantasia una mano berlinese scrive: “1961-1989, nacque, si bagnò di sangue, morì » (Il Sole 24 Ore). Il muro di Berlino è caduto sulla testa degli stalinisti, predicatori di una ideologia ultrareazionaria la cui genesi storica, come alludevo sopra, è da ricercarsi nella sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (ai tempi di Stalin, non di Gorbaciov!) e nel “riflusso” del movimento operaio internazionale che avrebbe dovuto togliere il proletariato rivoluzionario russo dal mortale isolamento che alla fine gli fu fatale. Ma che lo scrivo a fare!

Dedicata ai nostalgici.

Dedicata ai nostalgici.

* Ecco qualche passo: «Quando un grande edificio crolla, dalle sue macerie si alza immediatamente un’enorme e densa nuvola di polvere grigia, scura, la quale per un certo tempo nasconde l’orizzonte alla vista. Tutti i presenti al disastro si allontanano precipitosamente, per non rimanere accecati dalla polvere e per paura che qualche parete dell’edificio, indecisa sul da farsi, possa adagiarsi, per così dire, sulle loro teste. Ma col passare dei minuti la polverosa nuvola, attraversata dal vento e dominata dalla gravità, inizia a degradare, a “sciogliersi” e infine a dissolversi, regalando agli occhi lo stupore di un orizzonte mai visto prima. […] È ciò che sta accadendo in un certo ambiente politico dopo il fragoroso e poco dignitoso crollo del cosiddetto “socialismo reale”. Oggi ci troviamo, per l’appunto, nella fase in cui le macerie dello stalinismo liberano nell’aria grigie e pesanti nuvole di confusione che intossicano chi, legato anche affettivamente a un mito ultrareazionario, si attarda nel luogo del disastro, e rovista fra le macerie, magari nel tentativo disperato e suicida di trovarvi qualcosa che valga la pena di trarre in salvo, a futura memoria» (Filo Rosso, novembre 1989).

** Come storico dello stalinismo Suvorov, ex ufficiale del controspionaggio militare sovietico il cui vero nome è Vladimir Rezun, lascia alquanto a desiderare. Concordo con lui quando scrive: «Curioso davvero: la Germania ha aggredito la Polonia, quindi la Germania ha iniziato e partecipato alla guerra europea e, di conseguenza, mondiale. L’Unione Sovietica ha fatto lo stesso, e nello stesso mese, però di lei non si dice che ha iniziato la guerra. E la sua partecipazione alla guerra mondiale viene calcolata soltanto a partire dal 22 giugno 1941. Perché?» (V. Suvorov, Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano 2000). Già chissà perché. Azzardo una capziosa risposta sotto forma di domanda (retorica): non sarà perché la storia è scritta dai vincitori? Il fatto è che Suvorov svolge una critica allo stalinismo dal punto di vista della propaganda stalinista, ossia presentando la Seconda guerra mondiale come un tentativo dell’Unione Sovietica di esportare il “comunismo” in Europa e nel mondo. Stalin, e non Trotsky (anche perché adeguatamente ridotto al silenzio via piccozza, aggiungo io), fu allora il vero marxista internazionalista. La Seconda macelleria imperialista mondiale: da “guerra patriottica” a rivoluzione mondiale! Come dire, più realista del Re, più stalinista di Stalin.

NEL PACIFICO MONDO DEL QUARTO REICH

merkel-dollari-139122Per Carlo Jean l’esito della Guerra Fredda, con l’unificazione tedesca, «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (Manuale di geopolitica, p. 153, Laterza, 2003). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile, e certamente non auspicabile.

Scrive uno sconsolato e patriotticamente risentito Vittorio Feltri: «Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea, esso riappare all’orizzonte. Quell’egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata “pacificamente” conseguita con l’arma economica» (Il Giornale, 5 settembre 2014). In effetti, dopo il catastrofico esito delle due guerre mondiali, la competizione puramente economica si è rivelata essere il terreno ideale per la rinascita della potenza tedesca; la Germania (ma lo stesso discorso vale per il Giappone e, in parte, per l’Italia) è riuscita addirittura a trarre molti benefici dalla sua condizione di nazione militarmente impotente: basti pensare al risparmio che ne è derivato in termini di spesa militare, cosa che, fra l’altro, ha consentito ai governi tedeschi di supportare una generosa politica di Welfare, e al suo basso profilo politico messo al servizio di una eccellente strategia di penetrazione economica praticamente ovunque nel mondo.  Il “pacifismo”, insomma, come aggressivo strumento di espansione imperialistica.

Qui è solo il caso di accennare alla mia concezione del fenomeno Imperialismo: esso è nella sua essenza, in radice, un fenomeno sociale di natura economica. E siccome “in natura” non esistono fenomeni e processi sociali puramente economici, l’Imperialismo genera necessariamente “sovrastrutture” politico-istituzionali e ideologie idonee a supportarne l’esistenza e l’espansione – d’altra parte non è concepibile l’esistenza del Capitalismo, soprattutto nella sua «fase imperialistica», senza la sua continua espansione. A mio avviso sbaglia gravemente chi pensa di individuare una contraddizione tra l’asserita natura “pacifica” della politica estera tedesca nel Secondo dopoguerra e la natura imperialista della sua prassi sistemica. Lo straordinario successo della Germania attesta la maligna vitalità dell’Imperialismo (colto nella sua dimensione planetaria), che i più associano, sbagliando appunto, quasi esclusivamente alla prassi militare delle grandi potenze.

merk mondAncora Carlo Jean: «Come aveva intuito Montesquieu e confermato Clausewitz, la supremazia economica e la volontà di conquista comportano necessariamente una politica di pace. I conquistatori sono sempre pacifici: vorrebbero occupare spazio senza sparare un colpo. Chi inizia la guerra è il difensore, che non accetta di essere conquistato. Il ricorso alla violenza rivela di per se stesso una condizione d’inferiorità economica, che si cerca di modificare ricorrendo alla rischiosa opzione bellica. Le due guerre mondiali sono frutto del tentativo della Germania di imporre alla Gran Bretagna il riconoscimento di un’effettiva situazione di parità economica, nella considerazione – nient’affatto irrazionale – che, in mancanza di parità, la stessa Germania avrebbe cessato di esistere come soggetto politico unitario e sovrano. Analoghe furono le ragioni dell’aggressione giapponese contro gli Stati Uniti» (p. 152). Non c’è dubbio che allora si scontrarono due potenti, contrapposti e legittimi (sul terreno del diritto borghese nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico) interessi: da una parte l’interesse di Francia, Inghilterra e Stati Uniti di mantenere il vecchio assetto geopolitico e geoeconomico del pianeta, e dall’altra l’interesse di Germania, Giappone e Italia, le nazioni capitalisticamente “ritardatarie”, di mettere in discussione questo stesso assetto, che evidentemente entrava in conflitto con le loro sacrosante ambizioni di potenza. Anche l’Unione Sovietica di Stalin va rubricata nel secondo gruppo, quello delle potenze che rivendicano un “posto al sole”, che cercano di uscire dal cono d’ombra generato dalle vecchie metropoli del Capitalismo mondiale.

Oggi il quadro mondiale della bilancia del Potere mondiale e delle relazioni internazionali fra le nazioni è mutato così profondamente, che è la Germania che può concedersi il lusso strategico di una politica “pacifista” focalizzata sulla competizione economica. «L’unificazione dell’Europa e l’allargamento a Est hanno rafforzato ulteriormente la posizione della Germania e le hanno consentito di imporre agli altri partner le sue regole, fondate sulla rigida stabilità monetaria e sulla lotta all’inflazione, tanto più che con il Trattato di Maastricht la Francia ha subordinato ogni altro programma a quello di agganciare il più strettamente possibile la Germania all’Europa. […] Dopo il crollo del Muro, l’Est europeo non solo non intende più essere protetto contro una minaccia tedesca, ma aspira a unirsi quanto più possibile alla Germania, per riceverne aiuti economici e stabilità politica. È casomai la Germania che resiste oggi a tale assorbimento, per il quale teme di pagare un prezzo eccessivo. Non è escluso che tale politica di basso profilo sia volta proprio a superare ogni residua preoccupazione nei riguardi di un ritorno tedesco a sogni di potenza. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia efficace» (p. 301). Questo Jean lo scriveva nel 2003. Nel frattempo i fatti (basti pensare alla crisi ucraina) hanno confermato pienamente questa «strategia efficace».

Il ruolo della Francia come “marcatore stretto” della Germania nel processo di unificazione europea è universalmente riconosciuto. Scrive ad esempio Robert Gilpin: «Al di là dei vantaggi economici del mercato unico, alla Francia interessa mantenere un certo margine di controllo sulla potente Germania riunificata» (Le insidie del capitalismo globale, p.190, Bocconi, 2001). Anche il “falco” Robert Kagan la pensa allo stesso modo: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). Soprattutto Paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Italia (insomma, il fronte meridionale dell’Unione europea, quello che trova scandaloso il fatto che i tedeschi non intendono pagare i debiti fatti dagli altri, magari per acquistare il made in Germany) stanno facendo i conti con questa «grande conquista europea». Soprattutto per le classi subalterne del Mezzogiorno d’Europa il «sogno europeo» è diventato presto un vero incubo.

In realtà, la stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado, anche se solo fino a un certo punto, la camicia di forza “europeista”, e le ragioni si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi di “proporzioni bibliche” nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e, soprattutto, del suo invidiato (soprattutto dai cugini francesi) corpo sociale. Credo che la «strategia efficace» di cui parla Jean si sia data in gran parte oggettivamente, in forza della pressione sistemica generata dalla potente caldaia capitalistica tedesca, la cui efficienza balza agli occhi tanto più sorprendentemente non appena la si confronta con la malridotta caldaia francese. Lo scialbo Hollande non potrebbe incarnare meglio la crisi sistemica che da anni travaglia la società francese.

draghi-merkel-renzi-hollande-583845«L’Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l’Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una “guerra civile europea”» (V. Feltri). Nella realtà delle cose, ossia prescindendo dalla fumosa ideologia europeista (come quella che non smette di vendere Barbara Spinelli, tanto per intenderci), l’Unione europea è il frutto di diversi e a volte fra loro contrastanti interessi facenti capo ai Paesi coinvolti nel “miracoloso” progetto. Sull’esigenza di tenere in stretta osservazione la Germania abbiamo già detto. Rimane da menzionare l’esigenza, sentita a diverso grado da tutti i Paesi dell’Unione, di creare un polo imperialistico (economico, politico, militare) alternativo a quelli già esistenti. Fare “massa critica” soprattutto sul terreno della competizione economico-finanziaria con gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina: è, questo, un vitale interesse che tocca tutti i Paesi dell’Unione. Il problema posto dalla dinamica sociale colta nella sua dimensione continentale è il seguente: questo polo europeo, nella misura in cui non può prescindere dalla potenza sistemica della Germania, può non essere egemonizzato da questo Paese?  La risposta giusta è sulla bocca di tutti (tranne che su quella della Spinelli e degli altri europeisti “utopisti”).

Quando a Paesi come la Francia e l’Italia Mario Draghi promette maggiore flessibilità sul terreno delle politiche di austerity in cambio di «vere e credibili riforme strutturali», di fatto egli porta acqua al mulino di Berlino, perché quelle «riforme» non possono non convergere, almeno tendenzialmente, verso il modello sociale offerto dalla Germania. In un articolo del Financial Times (31 agosto 2014) il teutonico Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha proposto, in risposta al Presidente della BCE, la creazione di un commissario europeo con diritto di veto sulle finanziarie dei 18 paesi della zona euro. Un gioco di squadra fra “poliziotto buono” e “poliziotto cattivo”?

Intanto questa estate Cristofaro Sola dava «il benvenuto al Quarto Reich»: «Una Gran Bretagna, trascinata per la collottola al tavolo europeo, che mostra crescente distacco per ciò che si decide sul continente, e la Francia di Hollande, il piccolo Pétain, supina, se possibile più di quella di Sarkozy, alla volontà dell’oltre Reno. In questo clima surreale appare chiaro che Berlino intenda occupare lo spazio che altri hanno deciso di lasciare libero. E lo fa con la supponenza del più forte. Giambattista Vico parla di “corsi e ricorsi” storici. Sarebbe molto sgradevole se, domani, ci svegliassimo tutti, senza averlo deciso e senza neppure averlo saputo prima, in un nuovo Reich, diversissimo dai precedenti, ma pur sempre Reich. Il Quarto» (L’opinione, 15 luglio 2014). Hollande come «piccolo Pétain» non è male, anche perché l’immagine rimanda a una pagina particolarmente imbarazzante della storia francese («il regime del disonore» di Vichy) che illustra bene l’ambivalente rapporto che da sempre lega Francia e Germania. Più che di vichiani «corsi e ricorsi» della storia, parlerei piuttosto del “naturale” corso della competizione capitalistica mondiale, con le sue necessarie ricadute nel cuore del Vecchio Continente.

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DRAGHI E VISCO UNITI NELLA LOTTA

mario-draghi-568063Mentre i politici e i giornalisti del Bel Paese continuano ad alimentare il sempre più risibile e stucchevole dibattito intorno alla «flessibilità che deve coniugarsi con il rigore», Mario Draghi e Ignazio Visco hanno nuovamente posto sul tappeto, e questa volta con una chiarezza davvero disarmante, i corretti termini della questione: senza un’autorità sovranazionale centrale che detti e coordini le politiche economiche dei Paese che aderiscono alla moneta unica, il progetto europeista non farà molta strada.

Per progetto europeista intendo lo sforzo ormai ultradecennale di una parte consistente della classe dominante dei maggiori Paesi europei volto a fare dell’Unione Europea un polo capitalistico-imperialistico unitario in grado di competere su tutti i fronti (economico, tecnologico, politico, militare) con gli altri poli: Stati Uniti, Cina e Giappone, in primis.

Se i Paesi deboli dell’UE non realizzeranno le famose «riforme strutturali», così da colmare il forte gap che divide l’area più forte dell’Unione (l’area del virtuale marco tedesco) da quella più debole (l’area “meridionale”, Francia compresa), l’eurozona non diventerà mai un’area monetaria ottimale, per dirla con gli economisti seri, confermando con ciò le previsioni (leggi: gli interessi) degli americani e degli inglesi, da sempre contrari all’unificazione del Capitalismo europeo sotto l’egemonia della Germania, la sola potenza del Vecchio Continente in grado di portare a compimento questa oggettiva tendenza storica*.

Ma per il Presidente della BCE non si può lasciare al potere discrezionale dei singoli Stati la scottante questione dei “compiti a casa”: insomma, c’è bisogno di una «governance sulle riforme strutturali», perché «le riforme strutturali svolgono un ruolo cruciale nell’eurozona e i loro risultati non sono solo nell’interesse di un Paese, ma in quello dell’Unione nel suo complesso». E ancora (e più significativamente): «Le riforme hanno bisogno di una forte titolarità nazionale e di accordi sociali profondi, ma devono prevedere pure un organismo sovranazionale che renda più facile inquadrare i dibattiti nazionali. La persistenza delle differenze crea il rischio di squilibri permanenti, così da giustificare il fatto che le riforme siano disciplinate a livello comunitario». Musica per le teutoniche orecchie.

Quando Draghi parla di «accordi sociali profondi», intende dire che le famigerate quanto necessarie (per il Capitale) politiche lacrime e sangue vanno portate in porto con coerenza, senza concedere troppo all’arte del compromesso. Naturalmente in quest’opera “riformista” tesa a incidere a fondo sulla carne viva del corpo sociale i sindacati sono chiamati a svolgere un ruolo molto importante. Beninteso, un ruolo interamente speso sul terreno della conservazione sociale.

Richiamando il forte europeismo che sempre animò Tommaso Padoa-Schioppa, il Presidente della BCE non ha mancato di ripetere il mantra secondo cui «il nostro futuro è in una maggiore integrazione, non nella ri-nazionalizzazione delle nostre economie». Un pugno in pieno viso ai sovranisti d’ogni tendenza politica.

Dopo aver ricordato che l’euro «ha garantito la stabilità dei prezzi e protetto contro variazioni impreviste e forti del potere d’acquisto», e che dall’euro comunque «non si esce», il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha confessato l’altro ieri che la moneta unica europea sconta un solo limite: essere «una moneta senza Stato». Un limite non da poco, diciamo. Ma mentre i sovranisti deducono da questo limite la necessità di ritornare precipitosamente indietro, a pochi passi dall’abisso, Draghi e Visco fanno la deduzione opposta: andare rapidamente avanti, per non lasciarsi risucchiare dall’abisso nazionalistico.

semifinale-germania-brasile-gol-kloseIntanto, la Commissione Europea fa sapere che l’Italia non sta facendo i “compiti a casa”: a Roma si parla tanto di «riforme strutturali» ma si fa pochino, quasi niente. Ma Mister 40 per cento non aveva battuto la Cancelliera tedesca 7 a 1 a inizio luglio? O era un’altra partita?

* «La visione legata al metodo funzionalista dei padri fondatori ha portato come logica conseguenza alla creazione dell’euro (anche se la moneta unica avrebbe potuto essere dotata di strumenti di governo diversi o migliori). Il percorso funzionalista era in realtà un progetto fortemente poli­tico, con lo scopo principale di affrontare la sfida interna della grande Ger­mania al cuore del continente: l’integrazione come metodo per diluire il peso tedesco in modo benigno e costruttivo» (Marta Dassù, Aspenia, n.65/2014).

Per Robert Gilpin, «Al di là dei vantaggi economici del mercato unico, alla Francia interessa mantenere un certo margine di controllo sulla potente Germania riunificata» (Le insidie del capitalismo globale, p.190, Bocconi, 2001.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica.

Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere l’Europa nelle condizioni di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

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BERLINO 1 WASHINGTON 0

«Dopo che lo scorso 4 luglio in Germania è stata arrestata una spia di 31 anni al soldo del Pentagono, la seconda in pochi giorni e comunque con ancora vivo lo scandalo del Datagate, il governo tedesco ha preso la decisione di espellere il capo della Cia in Germania. Il premier Angela Merkel ha dichiarato sarcastica che “spiare gli alleati è uno spreco di energie” e che con gli Stati Uniti “vedo una differenza di principi molto grande rispetto ai compiti dei servizi segreti dopo la guerra fredda”. Poco dopo il comunicato riportato da Seibert è arrivata la nota degli Usa attraverso l’ambasciata a Berlino: “E’ essenziale – si legge – proseguire con la cooperazione con le autorità tedesche sul fronte dell’intelligence e della sicurezza”. E Berlino ha replicato rispondendo che “Tuttavia la fiducia deve essere reciproca“» (Notizie Geopolitiche).

Dopo l’apertura della grave crisi diplomatica fra Berlino e Washington pare che la leadership antiamericana del pianeta si sia spaccata. Infatti, una sua parte sembra si stia orientando a tifare “tatticamente” la Germania nella finale di domenica allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro. Il derby papale pare pendere sempre più dalla parte dell’ex Pastore Tedesco, grande tifoso del Bayern di Monaco.

German Chancellor Angela Merkel on China visitGERMANIA 7 STATI UNITI 1

E Imperialismo al centro! Pardon, palla al centro…

«È il suo settimo viaggio in Cina da quando ricopre la carica di cancelliere. Un viaggio segnato dalla firma di importanti accordi commerciali tra i due Paesi. In particolare, tra le intese raggiunte, quelle per l’apertura di due nuovi stabilimenti Volkswagen e per la vendita di 123 elicotteri Airbus» (Chinanewsitaly).

«La missione cinese di Angela Merkel ha carattere fortemente commerciale. Tra i maggiori risultati della visita c’è l’accordo per la vendita di cento elicotteri Airbus alla Cina firmato alla Grande Sala del Popolo alla presenza della cancelliera tedesca e del primo ministro cinese, Li Keqiang. Le esportazioni tedesche in Cina hanno raggiunto i 67 miliardi di euro lo scorso anno, e Berlino rappresenta il secondo più importante mercato di esportazioni verso Pechino dopo gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Le importazioni cinesi in Germania hanno invece toccato quota 73 miliardi di euro» (Agichina).

Tra le aree di maggiore interesse economico, la Cancelliera ha elencato quella dell’efficienza energetica per le nuove città cinesi. Una pietanza davvero invitante. «La Germania vorrebbe aiutare la Cina, incluso il Sichuan, a realizzare la propria strategia di sviluppo dell’urbanizzazione», ha detto la Merkel. Quando vuole, il Capitale sa essere altruista…

Per Sergio Romano l’ennesima visita di Angela Merkel nel Celeste Capitalismo ha avuto anche un forte significato politico: «È come se la Cancelliera avesse detto agli americani (che non nascondano una certa apprensione per l’attivismo della fräulein): “Non siamo disposti a piegarci alla volontà degli altri. In primo luogo noi badiamo ai nostri interessi». Per l’editorialista del Corriere della Sera, la stessa vicenda dell’espulsione del capo della Cia in Germania ha dimostrato che in Europa c’è almeno un Paese che non è disposto ad accettare in silenzio tutto quello che fanno gli “alleati” americani.

In effetti, la potenza economica tedesca non è un’opinione. E la competizione capitalistica a tutto campo non è mai stata un pranzo di gala.

mario-draghi-cappello2-215200KAISER DRAGHI E LA MINACCIA ESISTENZIALE

Proprio in coincidenza con la diffusione da parte dell’Eurostat (14 luglio) dei pessimi dati sulla produzione industriale nell’eurozona (un calo dell’1,1 per cento rispetto al mese precedente), il Presidente della BCE Mario Draghi ha ribadito il fondamentale concetto espresso a Londra qualche giorno fa: «bisogna approfittare dell’opportunità di un nuovo parlamento e di una nuova commissione per riflettere sull’architettura della zona euro. In particolare credo vi sia spazio per un governo comune delle riforme strutturali».

Forse per la prima volta Kaiser Draghi si è lasciato andare a questa pessimistica considerazione, un po’ per fare pressione sul partito della flessibilità (vedi Renzi e Hollande), un po’ per lanciare un monito sulla base di dati incontrovertibili: «La disoccupazione troppo alta può diventare una minaccia esistenziale per l’eurozona».

A proposito del velleitario e parolaio partito della flessibilità, il Presidentissimo ha dichiarato con apprezzabile (da chi scrive!) ironia ««Non mi è chiara, ma forse perché non sono un uomo politico, la chimica di flessibilità che garantisca alle regole l’essenziale credibilità».

ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI SUL (PRESUNTO) PRIMATO DELLA POLITICA

capitalismo_autoCut_664x230Non bisogna certo essere degli incalliti “marxisti ortodossi” per capire che «a Bruxelles e altrove è la forza dell’economia che determina», in ultima analisi (ma sempre più spesso anche in “prima”), «il peso politico di un Paese», come ha scritto ad esempio Ferdinando Giugliano sul Financial Times del 4 luglio a proposito della partita Germania-Italia (o Merkel-Renzi). Partita che, beninteso, si gioca su un campo che non ha nulla a che vedere con i «valori europeisti» di cui ciancia il noto “rottamatore” in chiave politico-propagandistica. Ben altri valori sono in gioco, e quasi tutti si declinano in termini rigorosamente economici e sistemici – qui alludo all’organizzazione sociale capitalistica di un Paese colta nella sua totalità.

Detto di passata, è bastato che l’italico Premier dicesse qualcosa di “sovranista” agli odiati crucchi (le solite banalità sulla crescita che deve andare insieme alla stabilità, sullo sviluppo che deve «coniugarsi» con il rigore dei conti pubblici), che dal Paese si levasse un esilarante «Contrordine compagni e camerati: Renzi ha due palle così!» Da cameriere e lecchino della Cancelliera dal cospicuo fondoschiena (la quale con qualche maliziosa allusione chiama il leader toscano Mister 40 per cento), a grande statista capace di difendere i sacri interessi nazionali: il tutto nello spazio di alcuni nanosecondi – che non è l’unità di misura del tempo che scorre a casa Brunetta. Ovviamente il prossimo Contrordine! è dietro l’angolo, è sufficiente aspettare un paio d’ore, non di più.

Federico Fubini si chiede perché nessun leader europeo ha il coraggio politico di rinfacciare alla rigorista Germania il suo surplus commerciale che la mette fuori dal «six pack», che proibisce un «rosso» delle partite correnti (scambi con l’estero) di oltre il 3% del Pil per più di tre anni di fila, ma anche un surplus di oltre il 6% per lo stesso periodo.  «È davvero così nocivo che la Germania viaggi con un surplus esterno da 280 miliardi, il più grande al mondo, doppio di quello cinese, circa il 7% del Pil tedesco? Sarebbe ingiusto sostenere che questo saldo record è stato raggiunto riducendo l’import dall’Italia o dalla Spagna. Nel 2009 l’economia tedesca ha comprato made in Italy per 37 miliardi di euro, nel 2013 per 47 miliardi. E sarebbe autolesionista chiedere una riduzione dell’export tedesco: ogni Bmw spedita da Stoccarda a Shanghai contiene freni fatti a Bergamo e pellame dei sedili conciato ad Arzignano, Vicenza.  Ma il surplus tedesco nel 2013 è stato accumulato in gran parte verso Paesi fuori da Eurolandia, per 188 miliardi, e ciò aumenta un forte afflusso di denaro verso l’euro dal resto del mondo. Ciò a sua volta rafforza l’euro, ostacola l’export degli altri Paesi, deprime l’inflazione e dunque spinge i debiti al rialzo rispetto al Pil. Basterebbe che la Germania incentivasse di più i consumi e gli investimenti, rispettando le regole comuni europee come chiede sempre agli altri di fare. Lo strano è forse solo che nessuno lo ricorda, nemmeno Matteo Renzi» (La Repubblica, 5 luglio 2014).

La cosa non è affatto strana, anzi è perfettamente razionale e comprensibile, dal momento che un difetto di forza non è certo assimilabile, neanche alla lontana, a un “eccesso” di forza. «In fondo», conclude Fubini, «chiedere eccezioni per sé ai vincoli che danno noia, più che esigere dal prossimo il rispetto della legge, è sempre stata una specialità italiana. Non tedesca». Qui l’ingenuità cerca di nascondersi dietro l’italica furbizia, che crede di poter surrogare con artifici retorici la mancanza di una reale forza. Non credo che i teutonici possano abboccare a questo pseudo machiavellismo d’accatto.

angela-merkel-downgrade-231643La campagna sostenuta nel 2012 da Angela Merkel e dal Presidente Joachim Gauck contro gli «euroscettici» tedeschi aveva come titolo  Ich will Europa (Io voglio l’Europa). L’evidente ambiguità del titolo svela la reale dialettica sociale che informa il progetto volto a fare dell’Europa un polo imperialistico autonomo, anche secondo gli auspici di Barbara Spinelli: «Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che è finito il tempo in cui la pace in Europa viene decisa negli Stati Uniti, con l’Europa che s’accoda e tace come nell’epoca della guerra fredda. Ai nostri con­fini con la Rus­sia, e nel Medi­ter­ra­neo, è di una pax euro­pea che abbiamo biso­gno». Ho citato dal suo intervento al Parlamento europeo del 2 luglio. Peccato che la tanto agognata «pax europea» presupponga il ruolo egemone della Germania nella futura Federazione Europea. Come sempre, se vuoi il “lato buono” della cosa devi portare a casa anche il suo “lato negativo”.

Ancora la Spinelli: «Key­nes diceva, nel ‘36, poco dopo l’inizio del New Deal, che “le idee degli economisti, dei filo­sofi e dei poli­tici, giu­ste o sba­gliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pra­tici, che si riten­gono completamente liberi da ogni influenza intel­let­tuale, sono gene­ral­mente schiavi di qual­che economista defunto». Naturalmente la progressista dell’Altra Europa (a me basta e avanza questa Europa, figuriamoci l’Altra!) non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che «gli uomini pratici» (compreso chi scrive) possano essere «generalmente schiavi» del Capitale, e non delle idee «di qualche economista defunto».  Non posso negarlo: «qualche economista defunto» pesa come un macigno anche sulla mia piccola testa, e almeno in questo la figlia di cotanto padre ha ragione.

Qualche settimana fa ho scritto le brevi considerazioni che seguono sul fantomatico primato della politica, tesi che soprattutto in Italia ha sempre goduto di largo seguito presso intellettuali e politici d’ogni tendenza e colore.

Machiavelli_AF1. Naturalmente per i politici di professione, o “politicanti” che dir si voglia, il primato della politica è un dogma che non ammette alcuna obiezione, e quando i “duri fatti” hanno l’ardire di revocare in discussione quel dogma, cosa che peraltro accade sempre più spesso, per lor signori si tratta semplicemente di ripristinare la naturale armonia delle cose, che postula appunto la primazia del politico sull’economico. Il politicante vive per intero nella dimensione della più ottusa delle ideologie, e se così non fosse egli non potrebbe svolgere adeguatamente il proprio ufficio al servizio della conservazione sociale.

2. La tesi del primato della politica, nella sfera nazionale come in quella delle relazioni internazionali, ha trovato nella scuola storica idealistica italiana di fine Ottocento inizio Novecento forse la sua elaborazione più compiuta e coerente.

Non è certo un caso se il concetto di egemonia, che con quella tesi ha evidentemente molto a che fare, venne tematizzato in modo originale proprio da quella scuola, e lo stesso Gramsci, che quel concetto com’è noto porrà al centro di tutta la sua riflessione storica, politica e filosofica, non mancò di sottolineare i meriti dello storicismo italiano proprio in rifermento alla primazia del politico.

In realtà, la tesi qui criticata esprimeva la relativa arretratezza sociale dell’Italia e la sua debolezza sul piano della contesa internazionale fra le potenze. Soprattutto sul piano della politica estera si cercava di surrogare la mancanza di una effettiva potenza sistemica, la quale non può che avere come base materiale l’economia (e quindi la scienza e la tecnologia), con velleitarie pose politiche che si rifacevano a un machiavellismo ridotto a farsa. Paesi strutturalmente forti, come la Germania, non avevano alcun bisogno di mettere in piedi teorie che negavano un’evidenza (la potenza economica come base della potenza politica) che dava ragione alle loro ambizioni.

Tutte le volte che la leadership politica del Bel Paese ha creduto di saperla più lunga di chi al tavolo delle schermaglie diplomatiche non si mostrasse avvezzo a certe machiavelliche letture, sono stati dolori e tragedie.

enjoycapitalismlarge3. Il Capitalismo del XXI secolo è un Capitalismo mondiale a tutti gli effetti, proprio come aveva prefigurato Marx già negli anni Cinquanta del XIX secolo, non sulla scorta di poteri divinatori che naturalmente era ben lungi dal possedere, ma sulla base di una concezione (di una teoria, di un metodo) che gli permise di penetrare l’intima essenza del modo di produzione che ha come suo motore la ricerca del massimo profitto. È con questa dimensione mondiale del Capitalismo che la politica è chiamata a confrontarsi, e molti che si autoproclamano “marxisti” mostrano di non aver compreso il vero significato di questa realtà quando pensano di poter mettere insieme impunemente, senza il rischio di cadere nel ridicolo, internazionalismo e sovranismo.

Parlare di primato della politica e di sovranità (economica, politica, culturale) nell’epoca della sussunzione totalitaria dell’intero pianeta al Capitale è francamente risibile, oltre che ultrareazionario sul piano politico.

4. L’epoca dei vertici economici internazionali con la presenza dei capi di Stato e di governo, inaugurata negli anni Settanta anche come risposta alla crisi economica che allora investì le metropoli del Capitalismo mondiale, rafforzò nella testa degli analisti superficiali l’idea, cara soprattutto agli statalisti di “destra” (fascisti) e di “sinistra” (postkeynesiani e stalinisti) del primato della politica sull’economia. In realtà si trattava del fenomeno opposto: gli interessi economici erano diventati così potenti da coinvolgere direttamente gli Stati nazionali nella competizione capitalistica internazionale per la spartizione del plusvalore, dei mercati, della forza lavoro e delle materie prime. D’altra parte, il significato essenziale del moderno Imperialismo è proprio questo: la politica è chiamata a supportare con tutti i mezzi necessari le sempre più fameliche esigenze di espansione del Capitale, sia di quello industriale come di quello finanziario – una differenza, questa, che col tempo è andata attenuandosi fino a diventare puramente formale, talmente inestricabilmente intrecciate sono diventate le due “tipologie” di capitale.

5. Lo Stato nazionale non fa che adattarsi sempre di nuovo alle leggi della competizione capitalistica mondiale, anche per supportare al meglio il cosiddetto interesse nazionale – che è sempre e necessariamente l’interesse delle classi dominanti o delle fazioni più forti di esse. Il sovranismo politico-ideologico, insomma, non è solo ultrareazionario, in quanto espressione dei rapporti sociali capitalistici e strumento della conservazione sociale, ma è anche chimerico, metafisico nell’accezione più negativa del termine, e questo proprio quando affetta pose di ultraconcretezza. In effetti, anche sul terreno della politica nazionale non vi è nulla di più concreto della competizione sistemica internazionale, la quale impatta sulla peculiare struttura sociale di un Paese con una violenza che i sovranisti neanche sospettano. Per questo è sbagliato analizzare i movimenti della politica nazionale (ad esempio, la lotta tra i diversi partiti) solo, o prevalentemente, dalla prospettiva nazionale.

Scrive Carlo Jean (contro i teorici della fine dello Stato nell’epoca della globalizzazione capitalistica): «Lo Stato non è morto, ma deve trasformarsi, adeguando regole e organizzazione alle esigenze della competizione geoeconomica. […] Lo Stato resta il luogo essenziale di definizione – anche impositiva – degli interessi e delle politiche. Lo Stato diviene il presidio locale dell’economia globalizzata» (Manuale di geopolitica, p. 174, Laterza, 2003). Lo Stato-nazione come cane da guardia territoriale di un dominio sociale che ha ormai una dimensione planetaria. A sua volta, il capitale nazionale non è che un nodo della complessa rete capitalistica mondiale, esso è, per dirla in termini “filosofici”, una fenomenologia del Capitale diventato nella sua essenza mondiale.

6. La stessa tanto sbandierata (dai sovranisti, c’è bisogno di dirlo?) sovranità del dollaro è, in  larga e sempre crescente misura, un mito, perché anche la divisa americana, benché riserva valutaria internazionale di prima grandezza, ha sempre dovuto fare i conti con il processo capitalistico mondiale colto nel suo complesso, ossia con la concorrenza commerciale internazionale, con la divisione del lavoro internazionale, con il costo delle materie prime, con il costo del lavoro nei diversi Paesi del mondo, con la politica monetaria dei Paesi concorrenti e così via. La politica monetaria degli Stati Uniti ha cercato di difendere gli interessi del Capitale a stelle e strisce, e la funzione del dollaro in quanto strumento fondamentale dell’egemonia imperialistica del Paese, non in astratto, non con arbitrarie decisioni dettate dall’inclinazione ideologica delle diverse amministrazioni, ma sempre a partire dal processo sociale capitalistico mondiale cui facevo cenno sopra.

Scrive Richard Jones: «Asserire che la Cina presta i soldi agli Usa affinché questi le possano comprare le merci è da puri e semplici decerebrati. Intanto i capitali non vengono prestati “agli Usa” (locuzione senza senso) ma al governo americano, il quale si serve di tali denari per far fronte alle sue spese (per es. il finanziamento dell’aumento delle spese militari dopo il 2001) che non prevedono alcun acquisto presso il mercato cinese. Second, and more important, il governo americano deve a sua volta restituire i denari prestati e per soprammercato aggiungerci un interesse: ed è qui che l’ignorante vuotaggine imperante interviene a compiere il proprio trionfo: gli Usa godono del privilegio di stamparli i propri soldi cioè di crearli dal nulla! Ergo le merci cinesi (ed anche tutte le altre comprate sul mercato mondiale) sono dagli Usa pagate con il nulla. Ma se gli Usa sono dotati di questo magico potere di creare denaro dal niente perché dunque farsi prestare i soldi da altri? Perché indebitarsi così tanto, come hanno fatto negli ultimi anni? Il governo non ha il potere di creare proprio un bel niente, e di fronte a un crescente debito può solo o indebitarsi ancora di più presso chi abbia dei soldi liquidi da impiegare oppure aumentare le proprie entrate sotto forma di imposte. […] In definitiva, nonostante le diffuse credenze, la funzione svolta del dollaro (o da qualsiasi altra divisa) di standard internazionale dei prezzi e/o riserva internazionale non assicura nessun particolare vantaggio, come essere un produttore d’oro o una banca non assicura di per sé nessun particolare guadagno in più rispetto agli altri attori del teatro del business» (Richard Jones, Le parole sono più forti delle parole? Nel mondo dove vive la sinistra, sicuramente sì, PDF, 2007).

capitalismo7. Thomas Piketty, celebre autore del Capitale nel XXI secolo ed esponente del partito keynesiano che vuol salvare il Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, sostiene ovviamente il primato della politica sull’economia: «Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza. La politica però può intervenire in maniera intelligente o distruttrice. Da questo dipende il nostro futuro». Ma nemmeno per idea: oggi come ieri il nostro futuro dipende dalla bronzea legge del profitto, il quale regola, in ultima analisi, i movimenti dei capitali, ossia la loro allocazione nella cosiddetta “economia reale” piuttosto che nella sfera della finanza, attività speculative incluse, le quali considerate dall’esclusivo punto di vista della redditività dell’investimento (qui genericamente inteso) non hanno nulla di patologico, ma al contrario si armonizzano perfettamente con la fisiologia di questo regime sociale. Viceversa, se considerate dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica, le attività speculative sono il sintomo più evidente della sofferenza cui periodicamente va incontro appunto il processo capitalistico di accumulazione, la cui salute (misurata dal saggio di crescita dell’accumulazione) dipende in ultima analisi dal livello del saggio del profitto. E su questo fondamentale punto qui occorre fermarsi, per non andare troppo fuori tema.

8. L’interventismo statale di vecchia concezione, che prese corpo nei paesi capitalisticamente avanzati per rispondere alla Grande Crisi degli anni Trenta e che in alcuni momenti fu spinto fino alle soglie del “puro” Capitalismo di Stato, ebbe il significato di un maggior controllo esercitato dal Capitale sul suo Stato, usato per conservare o ripristinare le condizione della redditività degli investimenti e, com’è ovvio, per difendere ed espandere il dominio del rapporto sociale capitalistico.

9. Sbaglierebbe di grosso chi da quanto detto sopra deducesse la tesi di un’assoluta negazione di qualsivoglia grado di autonomia della politica rispetto all’economia, che invece esiste e che si dà nelle forme e nei modi che dipendono da circostanze d’ordine nazionale e internazionale che bisogna sempre evitare di sottovalutare. Sono lungi dal negare tutto questo.

È indubbio, ad esempio, che in tempi di grave crisi economica o di alta tensione interimperialistica quel grado di autonomia tende ad espandersi, toccando il picco nei periodi bellici, quando lo Stato è chiamato ad esercitare la più ferrea dittatura su ogni aspetto della prassi sociale. Ma anche in questo caso la potenza del Capitale appare alla fine il momento di gran lunga dominante, perché il successo bellico di una nazione è sempre più dipendente dalla forza della sua organizzazione economica, come è stato ampiamente dimostrato nelle due guerre mondiali “convenzionali” del XX secolo e dalla guerra “non convenzionale” passata alla storia come Guerra Fredda.

Detto in altri termini, la relativa autonomia del politico, che si apprezza soprattutto nella sfera delle relazioni internazionali fra gli Stati, si dà sempre all’interno di una prassi sociale sempre più dominata dagli interessi economici. Trovare, servendosi di una concezione non economicista e non determinista del processo sociale, i complessi nessi che legano gli interessi economici di classi e strati sociali alla prassi politico-istituzionale di un Paese: questo è il difficile compito che sta dinanzi a chi si sforza di comprende la società-mondo nella sua totalità, nella sua dinamicità e nella complessa dialettica delle sue parti.

POVERA PATRIA EUROPEA…

Eurozone Debt Crisis - General ImageryNon c’è editoriale dedicato all’odierna tornata elettorale europea che non punti i riflettori sul seguente (apparente) paradosso: l’Europa è, «nonostante tutto», la prima potenza economica mondiale (in termini di produzione industriale, di espansione commerciale, di Pil, di capacità tecno-scientifiche, di reddito pro capite, ecc.), ma il suo peso geopolitico è pressoché irrilevante. E questa contraddizione appare tanto più evidente e grave oggi, quando 1) l’attivismo russo a Est rischia di far precipitare il mondo in una nuova “guerra fredda”, 2) la relazione strategica sempre più stretta tra Russia e Cina sposta la bilancia del potere mondiale verso l’Oriente «autoritario», 3) gli Stati Uniti sembrano invischiati in un isolazionismo che pretende dai partner europei una partecipazione all’Alleanza Atlantica «più adulta e attiva».

Il paradosso è solo apparente perché, come sanno benissimo gli editorialisti che oggi versano molte lacrime sull’«identità perduta del sogno europeista», non esiste l’Europa come coerente e unitario spazio geopolitico (non esistono, tanto per intenderci, gli Stati Uniti d’Europa oggi evocati da Roberto Napoletano sul Sole 24 Ore). . Giustamente Adriana Cerretelli (Il Sole 24 Ore) fa notare che oggi la contesa sistemica fra gli Stati si dà come confronto fra «colossi regionali», e che in questo contesto, per la verità non nuovo, la dimensione degli Stati nazionali europei è troppo piccola per reggere il confronto con i protagonisti della politica mondiale: solo unendosi essi possono realizzare quella massa critica idonea a togliere il Vecchio Continente dall’attuale condizione di irrilevanza geopolitica. Ma questa necessità deve fare i conti ancora una volta con la maledetta Questione Tedesca.

Come ho altre volte scritto, la genesi dell’Unione europea ha due fondamentali, e alla lunga contraddittori, centri propulsori: uno fa capo alla necessità di mettere sotto stretto controllo la potenza sistemica tedesca, progetto che ha trovato il suo maggiore sostegno nella Francia, nell’Inghilterra e negli Stati Uniti; l’altro va individuato appunto nella necessità avvertita soprattutto dai Paesi europei di maggior peso politico-militare (Francia e Inghilterra) di non scivolare definitivamente nella più completa inconsistenza geopolitica, almeno là dove residua il loro retaggio coloniale. Soprattutto la Francia ha cercato di usare la potenza economica della Germania in questa chiave, che ben si armonizza con la famigerata, e sempre più insipida e annacquata, grandeur cucinata a Parigi.

L’atteggiamento dei francesi nei confronti dei “cugini” tedeschi è sempre stato (almeno dal 1870 in poi) piuttosto ambivalente, e per certi versi si può persino parlare di una sorta di amore-odio, di un’attrazione fatale respinta con tanta più sdegnata retorica nazionalista quanto più essa si è fatta forte e a volte irresistibile.

Nel 1946 George Orwell notava con la consueta cruda ironia: «In questo momento, con la Francia nuovamente liberata e con la caccia alle streghe verso i collaborazionisti in pieno corso, siamo inclini a dimenticare che, nel 1940, vari osservatori sul posto stimarono che circa il quaranta per cento della popolazione francese era o attivamente a favore dei tedeschi o completamente apatica» (Arthur Koestler).

Scrivevo su un post del 2013 (Francia e Germania ai ferri corti): Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy (Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore), l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: Travail, Famille, Patrie.

Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale salvatore della patria i conti non tornavano.

Questo solo per ribadire quanto stucchevole e ingannevole sia l’attuale piagnisteo intorno all’Europa «gigante economico e nano politico». Una credibile e sostenibile Unione europea non può non avere la Germania come suo asse centrale portante: è intorno a questo dato di fatto, che i critici europeisti dell’egemonia tedesca fanno finta di non vedere, che si gioca la guerra sistemica in corso in Europa.

Come sempre il processo storico non dipende dal “gioco democratico” che oggi celebra il suo momento più significativo (e ideologico, nell’accezione più pregnante del concetto), ma dai rapporti di forza e dagli interessi in gioco. Il rito elettorale è funzionale a un processo sociale di respiro nazionale e internazionale che annulla gli elettori come soggetti politici e, soprattutto, come uomini.

imagesDa Facebook (26 maggio)

La natura economica della supremazia tedesca nel Vecchio Continente

Scrive Hans Kundnani (Esporto, dunque sono. Il ritorno del nazionalismo tedesco, Limes, 26 maggio 2014):

I quotidiani greci hanno paragonato più volte il cancelliere Angela Merkel ad Adolf Hitler; quando Merkel ha visitato Atene, nell’ottobre 2012, manifestanti hanno bruciato bandiere tedesche con sopra la svastica, hanno indossato uniformi naziste e mostrato striscioni con lo slogan «Hitler, Merkel – stessa merda».

Sempre nel 2012 il Corriere della Sera ha dichiarato che «l’Italia non è più in Europa, ora fa parte del Quarto Reich». Nel 2013 anche un editoriale dello spagnolo El País ha equiparato Merkel al Führer. Molti studiosi parlano del riemergere della «questione tedesca»: vi è un intenso dibattito circa il vero o presunto esercizio da parte di Berlino di un’egemonia sul Vecchio Continente e alcuni, come George Soros o Martin Wolf, intravedono addirittura l’emergere di una sorta di «impero» tedesco dentro l’Europa. Persino Anthony Giddens scrive che «la Germania sembra aver raggiunto con mezzi pacifici quanto non era riuscita a ottenere mediante la conquista militare: il dominio dell’Europa».

***

Tra l’altro, a mio parare, ciò avvalora la tesi secondo la quale l’Imperialismo moderno è innanzitutto un fenomeno la cui genesi è radicata profondamente e “strutturalmente” nell’economia capitalistica. La potenza economica degli Stati Uniti fu alla base del loro successo nelle due guerre mondiali del XX secolo e nella cosiddetta “guerra fredda”. La potenza economica tedesca ha permesso alla Germania di ricomporre il suo spazio nazionale, spezzato violentemente nel 1945, senza sparare un solo colpo di cannone. “Sparare” merci, invenzioni e tecnologie è alla base di quel successo tedesco che tanta invidia procura soprattutto ai “cugini” francesi.

La “pacifica” prassi economica attesta insomma la straordinaria forza dell’Imperialismo del XXI secolo – ovviamente sto parlando anche della Cina e della Russia.

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IL PUNTO SULLA “QUESTIONE UCRAINA”

Scontri a Kiev2014. Morire per l’Europa: è il sobrio, ma nient’affatto beneaugurante, titolo dell’articolo di Oxana Pachlovska pubblicato nell’interessante numero di Limes (20/2014) dedicato alla cosiddetta «Crisi Ucraina». Perché cosiddetta? Lo spiega la stessa Pachlovska: «Ciò che designiamo con l’espressione “crisi ucraina” non costituisce un conflitto locale, bensì uno scenario di proporzioni mondiali. Non si tratta di un conflitto tra Kiev e Sinferopoli, bensì uno scontro frontale e ormai senza infingimenti tra Russia ed Europa e tra Mosca e Washington, “nuova Cartagine” da distruggere nell’ottica euroasiatica. […] Nell’ottica russa un’Ucraina indipendente protesa verso l’Europa non può e non deve esistere». Quale sia l’interesse strategico della potenza russa è chiaro a tutti, anche se le potenze concorrenti sorvolano sul punto per evidenti ragioni di marketing geopolitico. Meno chiari e certamente più contraddittori appaiono invece gli interessi occidentali, per il semplice motivo che 1. non esiste una Europa in quanto organico e coerente spazio geopolitico, bensì una serie di Paesi europei i cui specifici interessi nazionali non sempre consentono una efficace “sintesi unitaria” , e 2. non sempre gli interessi delle due sponde dell’Occidente separate/unite dall’Atlantico collimano, e anzi dalla fine della cosiddetta Guerra Fredda le occasioni di una divaricazioni di interessi strategici tra almeno una parte dei Paesi europei (pensiamo a ciò che accadde durante l’invasione americana dell’Irak) e gli Stati Uniti si sono moltiplicate.

«La crisi ucraina e i conseguenti rapporti più o meno autenticamente burrascosi dell’Unione europea con la Russia stanno gettando le tracce di una nuova geopolitica del gas: per quanto sia difficile che realmente quanto sta accadendo nel paese di Kiev possa incrinare in modo duraturo i rapporti fra i due blocchi specialmente in tema di energia, certo è che la strategia delle minacce fa intravvedere nuovi e possibili scenari interessanti. E se c’è qualcuno che si preoccupa, qualcun altro si sfrega le mani» (Notizie Geopolitiche, 17 aprile 2014). Fra chi si «sfrega le mani» poteva mancare la Germania? Certo che no: «In soccorso di Kiev è arrivata la tedesca RWE: il colosso dell’energia elettrica con sede ad Essen, nella Renania Settentrionale (Vestfalia), ha infatti iniziato a vendere il proprio metano a Kiev, unica tra tutte le società europee a farlo dall’inizio delle ostilità con la Russia, tramite un gasdotto che attraversa la Polonia. Si tratta di un contratto firmato con l’ucraina Naftogaz per una fornitura annuale a pieno regime di 10mld di m3, al prezzo, com’è stato spiegato, “d’ingrosso europeo»”. Forse a qualche vecchio polacco l’attraversamento del gasdotto germanico lungo il suolo patrio fa balenare vecchi e brutti ricordi.

Scrive giustamente Lucio Caracciolo (in realtà è una sorta di intelligente mantra che egli ripete crisi geopolitica dopo crisi geopolitica): «Nelle crisi ci svegliamo per quel che siamo e non per quel che vorremmo essere. Vale anche per gli attori geopolitici» (Lo specchio ucraino, Limes 4/14). Il mio mantra dice: «È l’eccezione che svela la vera natura della regola *». L’eccezione è la crisi (economica, geopolitica, sociale, esistenziale); la regola è il Capitalismo/Imperialismo.

1397464947232_fotocolore_8_500Ma ritorniamo a Caracciolo: «Il test dell’Ucraina, al quale si sono sottoposti russi, americani ed europei, ha prodotto un esito negativo per Mosca, positivo per Washington, catastrofico per l’unione Europea. Bilancio molto provvisorio, da riverificare nel futuro prossimo. Eppure ineludibile, se vogliamo intendere il senso di una partita la cui prima posta è la ridefinizione della sempre mobile frontiera fra impero russo e spazio euroatlantico». Detto che all’anacronistico concetto di «impero russo» preferisco quello più storicamente adeguato (almeno dai tempi di Stalin in poi) di Imperialismo russo, almeno in parte condivido l’analisi di Caracciolo. In effetti, l’attivismo politico-militare di Mosca non riesce a nascondere un dato di fatto: l’Ucraina colta nella sua precedente configurazione nazionale ha opposto una inaspettata resistenza a una sua organica integrazione nello spazio egemonico russo. La Russia ha investito tantissimo, in termini economici (alcune stime parlano di 200 miliardi di euro spesi negli ultimi venti anni) e politici, su Kiev per scongiurare l’esito a cui stiamo assistendo, e certamente farà di tutto per non trovarsi la NATO alle sue frontiere. Sulla debolezza strutturale dell’Imperialismo energetico russo rimando qui.

Già che ci sono formulo la solita retorica e provocatoria (ma solo alle orecchie delle tante mosche cocchiere del Bel Paese che svolazzano allegramente sulla cacca della competizione interimperialistica) domanda: possono gli antimperialisti occidentali che lottano contro la NATO allearsi “tatticamente” con l’Imperialismo russo? La risposta mi sembra già contenuta nella suggestiva domanda. A ogni buon conto, rimando il lettore ai miei precedenti post “geopolitici”.

Anche Caracciolo mostra di prendere sul serio l’unione Europea, sebbene per mostrarne le magagne: le divisioni, le contraddizioni, gli “egoismi nazionali”. I maggiori analisti geopolitici del pianeta sanno bene che solo la Germania potrebbe conferire peso sistemico e direzione strategica a un’Unione Europea di nuovo conio (un Quarto Reich?), ma naturalmente cosa ciò significhi in termini di competizione tra le Potenze è a loro altrettanto evidente.

«La Germania», lamenta Ian Bremmer, «ha una visione economica e non geopolitica» (La Stampa, 15 aprile 2014). Diciamo piuttosto che la Germania “ha fatto” geopolitica attraverso l’economia, come ben dimostra la Riunificazione del Paese e la creazione di un’area del Marco che coincide con l’area capitalisticamente più forte e dinamica del Vecchio Continente. D’altra parte, Berlino sa bene che Parigi, Londra, Mosca, Washington ecc. amano così tanto la Germania, che ne vorrebbero almeno tre (visto che due non sono bastate…). Da questo punto di vista è vero che la potenza sistemica del capitalismo tedesco è fonte di inquietudine per la stessa classe dirigente tedesca, la quale ha paura di assecondare anche geopoliticamente la natura capacità espansiva del Made in Germany. Gestire una macchina potente non sempre è facile.

Secondo Gregor Gysi, capogruppo parlamentare della Linke, «Molti russi si sentono umiliati dal crollo dell’impero sovietico. Quello che Putin ha fatto in Georgia, in Siria e ora in Ucraina dà ai russi la sensazione di essere ancora importanti». Non c’è dubbio, e chi lotta contro l’Imperialismo mondiale (russo, americano, europeo, cinese, italiano, ecc.) deve mostrare alle classi dominate il contenuto ultrareazionario del sentimento patriottico alimentato sempre di nuovo dalla propaganda nazionalista. La tesi marxiana secondo la quale l’ideologia dominante è quella delle classi dominanti, ossia quella che sorge spontaneamente sulla base dei vigenti rapporti sociali, nell’epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale è più vera che mai. Non solo non bisogna “cavalcare”, alimentare e carezzare i “sentimenti popolari”, come fanno coloro che lavorano per la difesa dello status quo sociale (e magari “tirare su” tanti bei voti), ma bisogna piuttosto bastonarli con la più intransigente e puntuale delle critiche *.

«Dall’altra parte», continua Gysi, «Putin è prigioniero di un vecchio modo di pensare. Cerca – come gli Stati Uniti, del resto – di mantenere e consolidare la sua sfera d’influenza. Questo bisogna saperlo se si vuole convincere il governo di Mosca a non procedere verso l’escalation» (Intervista del Tagesspiegel, 8 aprile 2008). Peccato che quel «vecchio modo di pensare» sia radicato profondamente e necessariamente nella vigente dimensione del Dominio. Sono piuttosto le categorie di “vecchio” e di “nuovo”, declinate in modo ideologico, ossia tale da non consentire di afferrare la reale dinamica dei processi sociali, che bisogna dismettere una volta per sempre. Questo bisogna saperlo se non vogliamo farci arruolare anche solo “spiritualmente” in uno dei campi imperialistici in reciproca competizione.

images* «La trincea non è il non-luogo nel quale è sospesa la Legge della Civiltà, come suggerisce anche De Roberto, ma piuttosto l’eccezione che illumina a giorno la normalità (la Regola) di una dimensione esistenziale dominata da rapporti sociali che negano con tetragona necessità ogni autentica umanità» (1914-2014. La grande paura).

** «Per la popolarità Marx nutriva un sovrano disprezzo. […] La  folla era per lui il gregge senza idee, che riceveva pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Finchè il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, per Marx il plauso della folla non può che andare a gente che si oppone al socialismo» (W. Liebknecht, Colloqui con Marx, p. 177, Einaudi, 1977).

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LA SORPRENDENTE SCOPERTA DI PATRICIA SZARVAS: IN GERMANIA IL CAPITALISMO FUNZIONA A PIENO REGIME!

angela_merkelPatricia Szarvas, giornalista economico-finanziaria di grande esperienza e di sicuro avvenire, crede di aver scoperto in Germania «il lato oscuro del benessere», e della sua “scoperta” ha fatto un libro pieno di riflessioni e – soprattutto – di dati interessanti: Ricca Germania. Poveri tedeschi (Università Bocconi Editore, 2014). Nel suo viaggio tra le contraddizioni della potente Germania di Angela Merkel, l’autrice ha “scoperto” che le misure approntate nelle linee essenziali dal socialista Schröder nel 2003 e applicate con la tradizionale serietà teutonica dalla Merkel, hanno certamente portato un boom dell’occupazione e fatto crescere il Pil, ma questo interamente sulle spalle dei “working poor”, gente con un lavoro ma economicamente povera. Oggi la Germania conta almeno 900 centri di distribuzione viveri, rispetto ai 35 del 1995, e il numero di tedeschi che hanno bisogno di un pasto caldo al giorno è raddoppiato in cinque anni, arrivando a 1,5 milioni. È vero: con le riforme strutturali contenute nella famigerata Agenda 2010 varata dal governo Schröder il Pil tedesco è cresciuto ed è pure aumentato il salario medio, senza peraltro tener testa all’incremento di produttività per unità di prodotto; e tuttavia «uno dei principali impatti dell’Agenda è stato l’ampliamento senza precedenti del settore occupazionale a bassa retribuzione e di conseguenza l’incremento dei working poor». Quando si elogia la politica economica praticata dalla virtuosa Germania, osserva la signora Szarvas, «gli effetti collaterali e la parte oscura non vanno ignorati», tanto più che «Se non si pone mano alla situazione è difficile che la stessa Germania possa mantenere a lungo la sua posizione di locomotiva europea». E conclude con una considerazione che può suonare come un consiglio offerto allo scialbo Hollande e al “decisionista” Renzi: «Riforme che danno vita a condizioni precarie non possono essere un valido cammino. Anzi sono una bomba ad orologeria».

CE LO CHIEDE IL CAPITALE!

CE LO CHIEDE IL CAPITALE!

Ora, perché definire «effetti collaterali» e «parte oscura» ciò che in realtà si dà piuttosto come un prodotto necessario della ristrutturazione capitalistica? Come insegna anche l’esperienza americana, nell’epoca del Capitalismo globale, quando tutti i sistemi capitalistici del pianeta sono posti in un confronto diretto (dal mercato del lavoro all’istruzione scolastica, dal livello salariale alla produttività del lavoro, dal sistema politico-istituzionale alle capacità tecno-scientifiche, ecc.) una sempre più larga “precarizzazione” e svalutazione del lavoro è un dato strutturale di lungo periodo. Prova ne sia che anche in Francia e in Italia la classe dirigente ha “scoperto” con circa un decennio di ritardo la necessità di «riforme strutturali» con caratteristiche tedesche, per così dire. Più che «ce lo chiede l’Europa», o la Kattiva Germania, si dovrebbe piuttosto dire: ce lo impone la competizione capitalistica globale, cioè a dire mondiale e sistemica. Sistemica? Oserei dire esistenziale, per alludere al risvolto necessariamente disumano di questa competizione che stressa anche la struttura psicologico-emotiva degli individui ridotti al rango di lavoratori-consumatori-clienti-utenti-contribuenti fiscali. Sotto questo aspetto la precarietà è un fatto universale.

Insieme alla ricchezza sociale nella sua forma capitalistica crescono anche le diseguaglianze sociali, la povertà di strati proletari sempre più ampi e la precarizzazione del lavoro: non vedo cosa ci sia di sorprendente e ancor meno di originale in tutto questo. È il Capitalismo, signora Szarvas! Per decenni i politici e gli intellettuali del Vecchio Continente hanno venduto ai lavoratori europei la colossale balla speculativa circa la superiorità etico-morale del modello capitalistico europeo-continentale (la cosiddetta «economia sociale di mercato», leccornia ideologica per il palato dei cattocomunisti) rispetto a quello «liberale-selvaggio» americano, salvo poi “scoprire” magagne che non sfigurano al confronto con quelle a stelle e strisce.

merkelD’altra parte, l’economia tedesca potrà funzionare da effettiva «locomotiva europea» solo nella misura in cui l’Europa accetterà di aprirsi sempre più all’egemonia sistemica (economica, politica, culturale) della Germania, seguendo il destino dei Paesi nordici “virtuosi” che già ruotano intorno alla sua orbita. Il caso greco dovrà pur insegnarci qualcosa. La Questione Tedesca rimane «il lato oscuro» del «sogno europeo».

Se si vuole il Capitalismo, signora Szarvas, bisogna portarsi a casa l’intera maligna confezione, e non versare lacrime politicamente corrette sui suoi «effetti collaterali» e sulla sua «parte oscura», magari perché si ha paura del conflitto sociale. Oscuro è il Capitalismo tout court. Di qui, la necessità della lotta di classe anticapitalistica, oggi tragicamente assente ovunque nel mondo. Ci fu un tempo, assai remoto, in cui la Germania funzionò in Europa da locomotiva proletaria: è la sola locomotiva su cui vorrei salire.

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