In diversi post dedicati al Giappone, ho messo in rilievo i problemi economico-sociali derivanti a quel Paese dalla grave crisi demografica che da molti anni lo investe (1). Pare che proprio per far fronte a quei problemi nelle ultime settimane il governo giapponese stia imprimendo un’accelerazione nel processo di revisione delle politiche immigratorie del Sol Levante, un Paese tradizionalmente ostile all’ingresso di lavoratori stranieri, e anche per questo particolarmente interessato a favorire continue rivoluzioni tecnoscientifiche orientate allo sviluppo della cosiddetta Intelligenza Artificiale e della robotica. La pressione che la società giapponese esercita su ogni singolo individuo è a dir poco schiacciante, e la fenomenologia di questa cattiva condizione è assai variegata, spesso fantasiosa, per così dire (2).
Quando il massiccio ingresso delle donne giapponesi nel mercato del lavoro non è stato più in grado di soddisfare soprattutto la domanda di manodopera poco qualificata da parte di aziende manifatturiere e dei servizi (3), il Primo Ministro Shinzo Abe, che sulle donne in età da lavoro aveva puntato negli ultimi anni per far fronte ai bisogni di aziende e famiglie, si è dovuto arrendere, e ha presentato alla Camera dei rappresentanti una legge sull’immigrazione che molti analisti geopolitici occidentali hanno definito senz’altro storica, tale da introdurre il Giappone in una terza fase della sua storia moderna, dopo il primo lungo periodo 1868-1945 e il secondo iniziato dopo la disfatta nel Secondo macello mondiale. Forse c’è dell’esagerazione in questi giudizi, ma il cambiamento a cui – forse – assistiamo è certamente importante, come d’altra parte dimostrano le resistenze che arrivano dalla cosiddetta società civile, spaventata dai cambiamenti sociali che potranno derivare da una politica più inclusiva nei confronti degli stranieri, bene accetti solo come turisti o come eccezione che deve confermare la regola (4). Le imprese del Made in Japan sono invece molto contente, soprattutto perché esse confidano in una pressione che possa contrarre i salari dei lavoratori giapponesi. «Shinzo Abe ha escluso tuttavia che i lavoratori stranieri saranno sfruttati come forza lavoro a basso costo e ha promesso salari adeguati ai colleghi giapponesi» (Il Mattino). Insomma, i lavoratori stranieri saranno sfruttati alle stesse condizioni dei loro colleghi Made in Japan. Vedremo.
In ogni caso si parla di non più di 350/400 mila lavoratori stranieri nei prossimi cinque anni, da integrare nel mercato del lavoro e nella società giapponese in modi diversi secondo l’età e la professione; alcuni (i meno qualificati) potranno rimanere nel Paese solo per 5 anni e senza la possibilità di ricongiungimento familiare, per altre tipologie professionali si parla invece di un tempo più lungo (10 anni), con la possibilità di ricongiungimento familiare. Un sistema a punti (uno squallore assoluto, segno di questi pessimi tempi) regolerà le modalità e i tempi di permanenza di chi andrà a vendere in Giappone le proprie capacità lavorative manuali e intellettuali.
«“È necessario creare un ambiente che permetta agli stranieri di vivere confortevolmente in Giappone” ha dichiarato la ministra della Giustizia, Yoko Kamikawa. Iniziare dalla tutela dei diritti dei più deboli potrebbe essere un buon punto di partenza» (Il Manifesto). Il realismo riformista dei “comunisti” del Manifesto è sempre commovente.
(1) «Ogni anni in Giappone ci sono 400 mila morti in più rispetto al numero dei nuovi nati, l’aspettativa di vita è di 84 anni, la più alta del mondo, e più del 28% della popolazione ha un’età superiore ai 65 anni. Tutto questo incide profondamente sulle finanze del governo. Il Giappone affronta una situazione senza precedenti con un tasso di disoccupazione, appena sopra il 2%, che è il più basso mai registrato dagli anni Novanta, e con una enorme richiesta di lavoratori in tutte le prefetture dell’arcipelago» (Il Mattino).
(2) «Il picco di pessimismo tecnoscientifico si registra in Giappone, ovviamente tra la gente “comune”, non certo tra i funzionari del Capitale, da sempre all’avanguardia quanto a uso e a creazione di “Intelligenza Artificiale”. Di certo non è nel Web che la stressata popolazione giapponese sta cercando un rimedio efficace alla sindrome di karoshi: “In Giappone, a causa di come è organizzato il mondo del lavoro, e della mole di compiti che ricadono sulle persone, lo stress è alle stelle. E molte persone, purtroppo, decidono di togliersi la vita. Il Giappone è – non a caso uno degli Stati con il tasso di suicidio più alto a causa della vita professionale. Il fenomeno è così diffuso che è stata addirittura coniata una parola per descrivere queste morti: karoshi. [Karoshi è l’invalidità permanente o la morte causate da un aggravamento dell’ipertensione o da arteriosclerosi che si manifestano in disturbi a carico dei vasi sanguigni del cervello, quali emorragia cerebrale o subaracnoidea, infarto cerebrale o miocardico e scompenso cardiaco acuto indotto da ischemia cardiovascolare]. Ed è quindi dal Giappone che viene il metodo innovativo per gestire lo stress. Sono sempre di più le aziende e le scuole che, all’interno del paese, stanno spingendo studenti e lavoratori a buttare fuori l’ansia. Come? Piangendo. Secondo il parere degli esperti, infatti, esprimere le emozioni sotto forma di lacrime fa rilassare il sistema nervoso. Pioniere di questo metodo per rilassarsi è Hidefumi Yoshida, un ex professore liceale che da cinque anni insegna alle persone a piangere per liberarsi delle sensazioni negative. Non è uno scherzo: Yoshida è stato ingaggiato da più di cento società che hanno chiesto il suo aiuto. Il suo metodo sembra funzionare, tanto che adesso si sta parlando di esportarlo anche in Europa”. Ma sì, facciamoci un bel pianto liberatorio! Abbandoniamo le soluzioni chimiche e rivolgiamoci con fiducia e speranza a rimedi più salutari! Più fazzoletti, di seta (cinese, mi raccomando!) o di carta, e meno pillole! “Ma non sarebbe più razionale eliminare la causa del problema?” Chi è il pazzo che ha formulato questa folle (quanto ingenua e banale) domanda?» (Riflessioni orwelliane).
(3) Uno studio dell’università di Oxford ha mostrato che nel 2013, in Giappone, lavorava o cercava lavoro il 55 per cento delle donne giapponesi tra i 55 e i 64 anni. Nel 2017 la percentuale era salita al 63 per cento.
(4) Il governo di Tokyo ha consentito l’ingresso ai lavoratori non qualificati sin dal 1993, ma solo come tirocinanti o apprendisti, per un periodo massimo di tre anni e con un contratto stipulato con un solo datore di lavoro. «Il Giappone aveva anche provato a rendere particolarmente difficili le cose per gli stranieri che dopo qualche anno nel paese provavano ad avere un visto. Fu introdotta per esempio una tassa che rendeva le cose complicate per chi pensava di stare nel paese per più di dieci anni. Un’altra legge permetteva ai padroni di casa di non affittare appartamenti per motivi etnici o religiosi» (Il Post). «Originariamente pensati come un mezzo di sviluppo in favore dei Paesi poveri, i visti si sono spesso trasformati in posti di lavoro altamente precari, mal pagati e in pessime condizioni di sicurezza, senza nessun tipo di attività formativa» (Il Manifesto).
Leggi anche:
AUTOMAZIONE E BASE DI VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE. IL CASO GIAPPONESE
DAL SECOLO GIAPPONESE AL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE. In attesa di una nuova Alba?