IL GIAPPONE SI APRE AI LAVORATORI STRANIERI?

In diversi post dedicati al Giappone, ho messo in rilievo i problemi economico-sociali derivanti a quel Paese dalla grave crisi demografica che da molti anni lo investe (1). Pare che proprio per far fronte a quei problemi nelle ultime settimane il governo giapponese stia imprimendo un’accelerazione nel processo di revisione delle politiche immigratorie del Sol Levante, un Paese tradizionalmente ostile all’ingresso di lavoratori stranieri, e anche per questo particolarmente interessato a favorire continue rivoluzioni tecnoscientifiche orientate allo sviluppo della cosiddetta Intelligenza Artificiale e della robotica. La pressione che la società giapponese esercita su ogni singolo individuo è a dir poco schiacciante, e la fenomenologia di questa cattiva condizione è assai variegata, spesso fantasiosa, per così dire (2).

Quando il massiccio ingresso delle donne giapponesi nel mercato del lavoro non è stato più in grado di soddisfare soprattutto la domanda di manodopera poco qualificata da parte di aziende manifatturiere e dei servizi (3), il Primo Ministro Shinzo Abe, che sulle donne in età da lavoro aveva puntato negli ultimi anni per far fronte ai bisogni di aziende e famiglie, si è dovuto arrendere, e ha presentato alla Camera dei rappresentanti una legge sull’immigrazione che molti analisti geopolitici occidentali hanno definito senz’altro storica, tale da introdurre il Giappone in una terza fase della sua storia moderna, dopo il primo lungo periodo 1868-1945 e il secondo iniziato dopo la disfatta nel Secondo macello mondiale. Forse c’è dell’esagerazione in questi giudizi, ma il cambiamento a cui – forse – assistiamo è certamente importante, come d’altra parte dimostrano le resistenze che arrivano dalla cosiddetta società civile, spaventata dai cambiamenti sociali che potranno derivare da una politica più inclusiva nei confronti degli stranieri, bene accetti solo come turisti o come eccezione che deve confermare la regola (4). Le imprese del Made in Japan sono invece molto contente, soprattutto perché esse confidano in una pressione che possa contrarre i salari dei lavoratori giapponesi. «Shinzo Abe ha escluso tuttavia che i lavoratori stranieri saranno sfruttati come forza lavoro a basso costo e ha promesso salari adeguati ai colleghi giapponesi» (Il Mattino). Insomma, i lavoratori stranieri saranno sfruttati alle stesse condizioni dei loro colleghi Made in Japan. Vedremo.

In ogni caso si parla di non più di 350/400 mila lavoratori stranieri nei prossimi cinque anni, da integrare nel mercato del lavoro e nella società giapponese in modi diversi secondo l’età e la professione; alcuni (i meno qualificati) potranno rimanere nel Paese solo per 5 anni e senza la possibilità di ricongiungimento familiare, per altre tipologie professionali si parla invece di un tempo più lungo (10 anni), con la possibilità di ricongiungimento familiare. Un sistema a punti (uno squallore assoluto, segno di questi pessimi tempi) regolerà le modalità e i tempi di permanenza di chi andrà a vendere in Giappone le proprie capacità lavorative manuali e intellettuali.

«“È necessario creare un ambiente che permetta agli stranieri di vivere confortevolmente in Giappone” ha dichiarato la ministra della Giustizia, Yoko Kamikawa. Iniziare dalla tutela dei diritti dei più deboli potrebbe essere un buon punto di partenza» (Il Manifesto). Il realismo riformista dei “comunisti” del Manifesto è sempre commovente.

(1) «Ogni anni in Giappone ci sono 400 mila morti in più rispetto al numero dei nuovi nati, l’aspettativa di vita è di 84 anni, la più alta del mondo, e più del 28% della popolazione ha un’età superiore ai 65 anni. Tutto questo incide profondamente sulle finanze del governo. Il Giappone affronta una situazione senza precedenti con un tasso di disoccupazione, appena sopra il 2%, che è il più basso mai registrato dagli anni Novanta, e con una enorme richiesta di lavoratori in tutte le prefetture dell’arcipelago» (Il Mattino).
(2) «Il picco di pessimismo tecnoscientifico si registra in Giappone, ovviamente tra la gente “comune”, non certo tra i funzionari del Capitale, da sempre all’avanguardia quanto a uso e a creazione di “Intelligenza Artificiale”. Di certo non è nel Web che la stressata popolazione giapponese sta cercando un rimedio efficace alla sindrome di karoshi: “In Giappone, a causa di come è organizzato il mondo del lavoro, e della mole di compiti che ricadono sulle persone, lo stress è alle stelle. E molte persone, purtroppo, decidono di togliersi la vita. Il Giappone è – non a caso uno degli Stati con il tasso di suicidio più alto a causa della vita professionale. Il fenomeno è così diffuso che è stata addirittura coniata una parola per descrivere queste morti: karoshi. [Karoshi è l’invalidità permanente o la morte causate da un aggrava­mento dell’ipertensione o da arteriosclerosi che si manifestano in disturbi a carico dei vasi sanguigni del cervello, quali emorragia cerebrale o subaracnoidea, infarto cerebrale o miocardico e scompenso cardiaco acuto indotto da ischemia cardiovascolare]. Ed è quindi dal Giappone che viene il metodo innovativo per gestire lo stress. Sono sempre di più le aziende e le scuole che, all’interno del paese, stanno spingendo studenti e lavoratori a buttare fuori l’ansia. Come? Piangendo. Secondo il parere degli esperti, infatti, esprimere le emozioni sotto forma di lacrime fa rilassare il sistema nervoso. Pioniere di questo metodo per rilassarsi è Hidefumi Yoshida, un ex professore liceale che da cinque anni insegna alle persone a piangere per liberarsi delle sensazioni negative. Non è uno scherzo: Yoshida è stato ingaggiato da più di cento società che hanno chiesto il suo aiuto. Il suo metodo sembra funzionare, tanto che adesso si sta parlando di esportarlo anche in Europa”. Ma sì, facciamoci un bel pianto liberatorio! Abbandoniamo le soluzioni chimiche e rivolgiamoci con fiducia e speranza a rimedi più salutari! Più fazzoletti, di seta (cinese, mi raccomando!) o di carta, e meno pillole! “Ma non sarebbe più razionale eliminare la causa del problema?” Chi è il pazzo che ha formulato questa folle (quanto ingenua e banale) domanda?» (Riflessioni orwelliane).
(3) Uno studio dell’università di Oxford ha mostrato che nel 2013, in Giappone, lavorava o cercava lavoro il 55 per cento delle donne giapponesi tra i 55 e i 64 anni. Nel 2017 la percentuale era salita al 63 per cento.
(4) Il governo di Tokyo ha consentito l’ingresso ai lavoratori non qualificati sin dal 1993, ma solo come tirocinanti o apprendisti, per un periodo massimo di tre anni e con un contratto stipulato con un solo datore di lavoro. «Il Giappone aveva anche provato a rendere particolarmente difficili le cose per gli stranieri che dopo qualche anno nel paese provavano ad avere un visto. Fu introdotta per esempio una tassa che rendeva le cose complicate per chi pensava di stare nel paese per più di dieci anni. Un’altra legge permetteva ai padroni di casa di non affittare appartamenti per motivi etnici o religiosi» (Il Post). «Originariamente pensati come un mezzo di sviluppo in favore dei Paesi poveri, i visti si sono spesso trasformati in posti di lavoro altamente precari, mal pagati e in pessime condizioni di sicurezza, senza nessun tipo di attività formativa» (Il Manifesto).

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AUTOMAZIONE E BASE DI VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE. IL CASO GIAPPONESE

DAL SECOLO GIAPPONESE AL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE. In attesa di una nuova Alba?

AUTOMAZIONE E BASE DI VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE. IL CASO GIAPPONESE

La notizia è questa: «Per via del costante calo di manodopera, le aziende giapponesi hanno preso a reclutare personale meccanico», cioè robot. Si dirà: «e la novità dove sta?». Da nessuna parte, ed io stesso da anni scrivo sull’impatto che la nuova tecnologia cosiddetta intelligente ha non solo sul mondo del lavoro (1), che, è bene ricordarlo, è sostanzialmente un mondo di sfruttamento e di alienazione, ma sulla società nel suo insieme. Tuttavia oggi mi è venuto in testa proprio il Giappone mentre rileggevo quanto scriveva Henrik Grossmann, sulla scia di Marx, a proposito della base di valorizzazione del capitale, ossia della materia prima vivente che genera valore e plusvalore. Provo a spiegarmi.

Grossmann tratta questo oggetto nel suo celebre testo del 1928 Il crollo del capitalismo, e in particolare in  un capitolo intitolato Accumulazione di capitale e problema della popolazione. A pagina 351 si legge: «La popolazione costituisce un limite all’accumulazione; non però un limite nel senso di Rosa Luxemburg, cioè nel senso che il numero dei consumatori, dei compratori, limita l’accumulazione, ma per il fatto che con la popolazione è dato anche il limite di valorizzazione» (2). Ciò che sostanzia la base di valorizzazione non è la popolazione in generale, genericamente intesa, ma quella che Marx chiamava «popolazione operaia»: «Data la durata della giornata lavorativa […] la massa del plusvalore può essere aumentata soltanto aumentando il numero degli operai, cioè aumentando la popolazione operaia» (3). Alludendo polemicamente agli economisti di “scuola marxista” Grossmann scrive: «Si dimentica che tuttavia il valore e conseguentemente anche il plusvalore, può essere creato soltanto nella produzione di beni» (p. 355). Nella produzione di merci si ha la valorizzazione del capitale investito in mezzi di produzione e salari, ossia la generazione di un plus di valore che va a sommarsi al capitale iniziale; nella vendita di quelle merci si ha la realizzazione del valore (valore vecchio più plusvalore) in esse corporato, ossia quella trasformazione del valore in denaro che rappresenta il punto d’arrivo della «metamorfosi della merce».

Ora, non è nella sfera della realizzazione, come inclinano a pensare i teorici del sottoconsumo della popolazione come fondamento delle crisi economiche (4), ma piuttosto in quella della valorizzazione che bisogna individuare i limiti cui periodicamente va incontro il processo di accumulazione. Uno dei limiti più significativi riguarda appunto la base di valorizzazione, ossia la massa di capacità lavorativa a disposizione del capitale. La valorizzazione del capitale deve fare i conti con una contraddittoria e ineliminabile dialettica: per un verso essa ha bisogno di una base di valorizzazione sempre più ampia, ossia di un numero crescente di lavoratori da “mettere a valore” (leggi da sfruttare); per altro verso la ricerca del profitto, che mette i capitali in reciproca concorrenza su un campo di battaglia che oggi abbraccia l’intero pianeta, spinge il capitale ad elevare quella che Marx chiamava composizione tecnica di ogni singola impresa, ossia il suo livello tecnologico ed organizzativo, e ciò se consente di aumentare la produttività del lavoro, elevando il saggio del plusvalore, fa aumentare al contempo la composizione organica del capitale, definita dal rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione (che non creano valore) e il capitale investito in capacità lavorativa, la sola risorsa in grado di conservare valore vecchio mentre ne crea uno nuovo di zecca. La base di valorizzazione tende cioè a restringersi, non in assoluto, ma in rapporto al capitale investito in mezzi di produzione. «È unicamente nel modo capitalistico di produzione che si riscontra questo bisogno di un aumento assoluto del numero dei salariati nonostante la loro relativa diminuzione» (5).

Occorre dire che la fenomenologia monetaria del processo di valorizzazione (non a caso Marx parla di capitale costante e capitale variabile: il primo investito in mezzi di produzione e il secondo in forza-lavoro) occulta la sostanza del processo di valorizzazione, ossia il suo essere fondamentalmente un processo di sfruttamento di lavoro vivente, di uomini in carne ed ossa, attuato servendosi di mezzi tecnologici sempre più sofisticati. È qui che trova alimento la concezione feticistica dell’economia mercantile, la quale appare come «una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici» (6).

Per accrescere la base di valorizzazione e reggere il confronto con la concorrenza internazionale, il capitale italiano investito nell’agricoltura ha messo le mani sulla materia prima vivente arrivata soprattutto dall’Africa, e qualcosa di simile, sebbene su una scala più ridotta, è avvenuto nel comparto manifatturiero. Bassissimi salari, ritmi di lavoro sostenuti e una lunga giornata di lavoro: che pacchia per il Made in Italy! Ne ricavo quanto segue: quando le anime candide ci dicono che gli africani fanno il lavoro che gli italiani non vogliono più fare, e che così ci pagano pure le pensioni messe in crisi dal calo demografico, occorre subito impugnare la metaforica rivoltella. «Metaforica?». Sì, metaforica; per la critica delle armi c’è sempre tempo, forse. D’altra parte, non avrebbe senso alcuno armare la mano senza prima armare la testa, e gli esempi, lontani e recenti, in Italia non sono mancati e non mancano. Armare la testa significa, nel caso di specie, demistificare il discorso di razzisti e buonisti gettando un fascio di luce sul funzionamento dell’economia basata sul profitto, per scongiurare la guerra tra i miserabili, materia prima vivente a disposizione del Capitale. E qui ritorniamo a Grossmann e al Giappone.

Nel capitolo Accumulazione di capitale e problema della popolazione Grossmann fa la storia del Capitalismo tedesco, e mostra come nel corso del suo sviluppo il capitale tedesco avesse via via allargato la propria base di valorizzazione per sostenere i sempre più accelerati ritmi di accumulazione. «Con la rapida espansione dell’industria e con il ritmo accelerato dell’accumulazione di capitale a partire dagli anni ’90 [del XX secolo] cessò l’emigrazione e cominciò persino l’immigrazione (polacchi, italiani) nei settori industriali dell’occidente. Soltanto questo crescente assorbimento della forza lavoro addizionale poteva formare una base sufficiente per la creazione di plusvalore, che era necessaria per la valorizzazione del capitale accresciuto. […] Dopo la crisi del 1907 il capitale è costretto a crearsi una più ampia base di valorizzazione attraverso un più elevato impiego del lavoro femminile che possiede ancora il vantaggio di essere più a buon mercato» (pp. 352-353). Come diceva Marx, i rapporti sociali capitalistici rivoluzionano continuamente non solo la struttura tecnologica delle imprese industriali e commerciali, ma anche la struttura sociale presa nel suo insieme. E degli effetti “sovrastrutturali” di questa “rivoluzione sociale” si trova traccia anche nei commenti dei moralisti: «La mascolinizzazione della donna sotto tutti i punti di vista rappresenta un grande pericolo della civiltà contemporanea». Questo scriveva P. Leroy-Beaulier (citato da Grossmann) nel 1913, che concludeva con queste parole dense di preoccupazioni (di stampo capitalistico, beninteso) tutt’altro che infondate: «Le razze europee manterranno ancora a lungo una eccedenza degna di nota delle nascite rispetto ai decessi?». Calo demografico e immigrazione: in Europa non si sta forse discutendo di questo da molti anni? Allargare la base di valorizzazione e al contempo rendere più economica la sostanza vivente che realizza quella base: un difficile problema che come vediamo ha implicazioni di vario ordine.

Ho pensato al Giappone leggendo le pagine dell’assai istruttivo libro di Grossmann perché quel Paese oggi si confronta con una dinamica demografica molto più problematica di quella europea. Cito, e mi scuso, un mio post del 2015 dedicato appunto al Giappone:

«I giapponesi vantano il non invidiabile primato mondiale per quanto riguarda la loro età media: 44,7 anni. Quella giapponese è, infatti, la popolazione più vecchia del mondo, davanti a quella tedesca e italiana. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’età media giapponese si aggirava intorno ai 22,5 anni: esattamente la metà di quella attuale. E se ancora a metà degli anni Settanta del secolo scorso il tasso di natalità in Giappone oscillava sopra il 2%, oggi il Paese deve fare i conti con una decrescita che fa registrare una contrazione della popolazione totale. Sulla scorta di dati basati sulla proiezioni del trend demografico degli ultimi anni, la popolazione giapponese potrebbe passare dagli attuali 125 milioni circa di abitanti a poco più di 80 milioni entro il 2060. La popolazione attiva del Giappone rappresenta una percentuale via via decrescente della popolazione del Paese. Oggi in quel Paese si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio. L’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica attualmente non supera il 20% del PIL, ma secondo recenti stime questa incidenza potrebbe oltrepassare il 35% entro il 2035. […] Com’è noto, la società del Sol Levante è storicamente chiusa nei confronti di acquisti di popolazioni “barbare”: l’unico gruppo etnico non giapponese che vive nel Paese è quello Ainu, che conta circa 25.000 persone concentrate quasi interamente sull’isola di Hokkaido e sulle Isole Curili. “L’altissimo livello di coesione sociale e razziale della popolazione, che ha sperimentato pochissimi matrimoni misti con etnie diverse”, è alla base di “una coesione che si palesa non solo in un fortissimo senso di identità nazionale e in una specificità culturale, quanto anche – ed è questo che maggiormente impressiona gli occidentali – in una marcata enfasi su principi quali armonia sociale, ricerca del consenso, deferenza generazionale e subordinazione dei desideri individuali al bene collettivo” (P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Garzanti, 1993). […] Insomma, la politica della purezza della razza oggi mostra tutti i suoi limiti, e la demografia del Giappone si è incamminata da anni lungo un sentiero molto problematico. Naturalmente qui non si fa riferimento a un’astratta demografia, alla demografia in sé, per così dire, ma alla questione demografica come viene configurandosi nel contesto di una società capitalistica collocata in un pianeta dominato dai rapporti sociali capitalistici. Insomma, una lettura malthusiana di questo problema è, almeno per chi scrive, del tutto priva di senso».

Ritorniamo adesso, per concludere rapidamente, al punto di partenza. Scriveva ieri Cristian Martini Grimaldi sulla Stampa: «Oggi i tassi di natalità più bassi hanno generato un invecchiamento precoce della popolazione e una diminuzione della forza lavoro che hanno messo in serio pericolo la futura crescita economica del Paese. […] Al momento tra le soluzioni contemplate non c’è quella di utilizzare l’immigrazione per compensare il declino. Basti considerare che l’anno scorso sono stati accolti appena 28 richiedenti asilo e 27 nel 2015. Non sorprende dunque se nella relazione annuale sulla politica estera pubblicata ogni anno dal ministero competente si legge già alla seconda pagina: “Il numero di persone che attraversano le frontiere è drammaticamente in crescita a causa della globalizzazione, questo fatto pone una grave minaccia per lo scoppio e la diffusione di malattie infettive”. Nessun cenno quindi alle risorse che potrebbero rappresentare i migranti, si parla solo di un loro potenziale pericolo». E come pensa di supplire all’assottigliamento della base di valore il capitalismo giapponese? È subito detto: automatizzando ogni settore dell’economia, dall’industria, com’è ovvio, ai servizi d’ogni tipo. «Ed ecco allora che lo staff dell’Henna Hotel di Nagasaki è stato rimpiazzato da un’eclettica schiera di robot, tra i quali una signora umanoide che annuisce e regala sprazzi di realistiche espressioni. Ora, per via del costante calo di manodopera, le aziende giapponesi hanno preso a reclutare personale meccanico alla stessa maniera di quello strano hotel».

Se non è possibile estendere fisicamente la base di valore, prosciugando sacche di lavoro umano non ancora “messo a valore”, è necessario intensificare lo sfruttamento di quella stessa base, la quale peraltro tende a restringersi, sia per una questione di calo demografico, sia perché l’intensificazione dello sfruttamento nel Capitalismo avanzato si traduce presto o tardi in un’espulsione di capacità lavorativa divenuta superflua ai fini della valorizzazione. Scriveva Marx: «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (7). Oggi parlerei di sottomissione totale del lavoro al capitale; di dominio totale e totalitario degli uomini e della natura da parte dei rapporti sociali capitalistici.

C’è un aspetto fondamentale della questione che bisogna considerare, e che qui mi limito a sfiorare. Elevando la composizione organica del capitale, espressione monetaria della composizione tecnologica di un’impresa, si innesca un meccanismo che da virtuoso (si eleva il saggio di sfruttamento del lavoro, definito marxianamente come saggio del plusvalore) tende a trasformarsi in vizioso (si abbassa il saggio del profitto, ossia il rendimento dell’intero capitale investito in una produzione di beni). Infatti, il robot può rendere più produttiva la forza-lavoro ma non può creare plusvalore nel processo produttivo di merci, plusvalore che rappresenta la base reale, la “struttura” che sorregge ogni tipo di profitto e di rendita, ogni superfetazione a carattere speculativo. «Non esiste un capitalista il quale applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo, pur essendo assai più produttivo ed aumentando considerevolmente il saggio del plusvalore, provoca una diminuzione del saggio del profitto. Ma un tal metodo fa diminuire il prezzo delle merci» (8), e ciò consente al capitale tecnologicamente più avanzato, per così dire, di battere la concorrenza.

Insomma, i robot non potranno mai diventare la base di valorizzazione del XXI secolo, e questo non per un limite tecnologico o antropologico, ma per un irriducibile limite storico-sociale.

(1) Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(2) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1976.
(3) K. Marx, Il Capitale, I, p. 345, Editori Riuniti, 1980.
(4) E come teorizzava la stessa Rosa Luxemburg in un saggio del 1913: «La realizzazione del plusvalore è a priori legata in quanto tale a produttori e consumatori non-capitalistici. L’esistenza di acquirenti non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del problema dell’accumulazione del capitale» (R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 361, Einaudi, 1980).
(5) K. Marx, Il Capitale, III, p. 317, Editori Riuniti.
(6) K. Marx, Il Capitale, I, p. 103.
(7) K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976.
(8) K. Marx, Il Capitale, III, p. 318.

IL GIAPPONE E LA COSTITUZIONE “PACIFISTA”

31460Da quando sono tornato in Giappone, mi sono sempre sentito come un guscio vuoto. E quando uno vive come un guscio vuoto, per quanto lunga sia la sua vita, non si può dire che abbia veramente vissuto. Dal cuore e dal corpo di un guscio vuoto, nasce solo la vita di un guscio vuoto. È solo questo che vorrei farle capire, in realtà, signor Okada (H. Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo).

Secondo il monaco scintoista giapponese che fa da guida nel famigerato santuario di Yasukuni (Tokyo), il secondo dopoguerra è stato «il tribunale dei vincitori». Non c’è dubbio. Almeno per chi scrive. Chi vince scrive la storia a sua immagine e somiglianza, e giudica con severità i crimini di guerra commessi dal nemico, mentre sui suoi crimini stende il velo dell’oblio che intreccia l’alloro della vittoria. Questo diritto gli deriva dalla forza, e da nient’altro. Le fumisterie politiche, giuridiche e ideologiche servono al vincente a dare forma di Giustizia a ciò che ha la sostanza della Violenza. E il diritto internazionale? Come disse quello, «Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto» (Miseria della filosofia).

E il fatto è che il Giappone ha perso, e malissimo, la Seconda guerra mondiale, insieme alla Germania e all’Italia. Un altro fatto indiscutibile è che gli Stati Uniti d’America imposero a quei Paesi, che realizzarono l’Asse del Male di quell’epoca, una Costituzione che sanciva il loro status di potenze sconfitte che accettavano di buon grado il nuovo ordine mondiale dominato dalle due note superpotenze, protagoniste assolute della Guerra Fredda conclusasi con la catastrofe del blocco imperialista centrato sull’Unione Sovietica.

Come ha scritto Jon Halliday nella sua Storia del Giappone contemporaneo, la Costituzione giapponese approvata nel 1947 «fu redatta in tutta fretta dallo stato maggiore di McArthur». Chi vince scrive la storia, amministra giustizia e scrive «in tutta fretta» le Costituzioni “pacifiste”. Ecco cosa recita L’Art. 9 della Costituzione giapponese, «introdotto per insistenza personale di McArthur»: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione, e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Il monopolio della violenza come diritto sovrano passa, dopo l’ultima guerra, nelle mani delle nazioni vittoriose, e questo stato di cose trova una ratifica internazionale con la creazione dell’ONU. Lungi dall’essere un crogiuolo di buone intenzioni, quest’organizzazione esprime piuttosto gli interessi di quelle nazioni, e non a caso le ex potenze sconfitte ne richiedono da tempo la «riforma. È per questo che i pacifisti dimostrano poca avvedutezza politica (notare la mia… diplomazia) tutte le volte che in caso di conflitto regionale o di “crisi umanitarie” invocano un «intervento umanitario sotto l’egida dell’ONU». Nel caso siriano non è stato possibile, almeno fino a questo momento, dare via libera a quel tipo di intervento semplicemente perché i maggiori imperialismi mondiali (Stati Uniti, Cina e Russia) non hanno trovato un accordo sul dopo-Assad e perché hanno in quel quadrante geopolitico interessi diversi. Chiudo la parentesi onusiana e ritorno nelle sempre più agitate acque del Pacifico.

A6M2Sak%2001%20P650Naturalmente il Giappone sconfitto non solo non è uscito dalla contesa interimperialistica, ma ne è stato anzi uno degli attori più importanti, cosa che naturalmente è sfuggita a chi ha una concezione militarista e politicista dell’Imperialismo. Per chi scrive l’Imperialismo di questa epoca storica è in primo luogo un fenomeno sociale radicato negli interessi economici, e prima ancora di appuntare  la propria attenzione sulla potenza militare delle nazioni, chi intende studiare seriamente quel fenomeno farebbe bene a concentrarsi piuttosto sulla loro potenza economica, sulla loro produttività sistemica, sulla loro capacità di esportare merci e – soprattutto – capitali.

Sotto questo aspetto, il Giappone (ma analogo discorso si può fare per la Germania) è stato per lungo tempo l’avversario più temuto dagli Stati Uniti, che soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta cercarono di colpire in tutti i modi l’attivismo capitalistico giapponese, non ultimo usando la leva dei cambi, in modo da creare ostacoli al “proditorio” export giapponese attraverso la svalutazione del dollaro e la rivalutazione dello yen. Almeno fino al 1985* questa strategia non ha avuto successo, e non solo il Made in Japan ha continuato a dilagare sul mercato americano, ma soprattutto il capitale nipponico ha accresciuto costantemente il suo peso sul colossale sistema finanziario statunitense, al punto che agli inizi degli anni Novanta, proprio alla vigilia dell’inabissamento (relativo, beninteso) del vascello giapponese, i politici e i media a stelle e strisce non trovarono di meglio, per rincuorare l’abbattuto spirito patriottico degli americani, che ricordare, un giorno sì e l’altro pure, il “proditorio” attacco giapponese a Pearl Harbour. Come spesso accade, la “voce grossa” è più indice di debolezza che di forza.

Nel 1986 Eguchi Yujiro, pezzo grosso della banca d’investimento Nomura, pose ufficialmente sul tappeto il seguente scottante problema: è sostenibile l’attuale situazione geopolitica internazionale che vede il Giappone al rango di potenza economica globale senza una sua corrispondente capacità politico-militare? Altri economisti, storici e politici giapponesi (tutti accusati dalla “sinistra” nipponica e dai diplomatici americani di nazionalismo e di revisionismo storico), preso atto del declino economico-finanziario americano e della crisi sempre più profonda che minava l’Unione Sovietica, alimentarono il dibattito intorno alla necessità di «costruire il nuovo ordine mondiale del XXI secolo». Il problema naturalmente investiva direttamente il carattere “pacifista” della Costituzione giapponese. Il lungo periodo di appannamento economico che ha segnato il Giappone degli ultimi venti, venticinque anni mise la sordina a quel dibattito, senza peraltro scalfirne minimamente i presupposti materiali.

Infatti, mutatis mutandis, la necessità di dotarsi di un’adeguata capacità militare sta nuovamente su tutti i quotidiani del Giappone, e ancora una volta l’attenzione degli intellettuali e dei politici del Sol Levante si focalizza sulla maledetta Costituzione “pacifista”: come “riformarla” senza stuzzicare la suscettibilità geopolitica degli “amici” (americani, sudcoreani, indiani, ecc.) e dei potenziali nemici? «Nella sede del partito di Abe, c’è un ufficio apposito, con tanto di targhetta, per la revisione della Costituzione ultrapacifista imposta dagli Usa vittoriosi. Non ci sarebbe niente di male a cambiare dopo oltre 60 anni una Carta fondamentale dettata dallo straniero: qualsiasi altro Paese l’avrebbe già fatto.  Il problema è che le bozze di revisione fatte circolare hanno fatto accapponare la pelle a molti costituzionalisti» (Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore, 2012). Scommetto che i fatti si incaricheranno assai presto a far mutare opinione a molti di quei costituzionalisti.

japan_abe_yasukuni_shrine_1226Per il professor Kuni Miyake, direttore di ricerca al Canon Institute for Global Studies, «La reinterpretazione della Costituzione è una salutare mossa geopolitica. La versione finora accettata poteva andar bene per la Guerra Fredda, ma ora per la prima volta dal conflitto mondiale il Giappone deve fronteggiare un pericolo fisico, una minaccia che viene dal mare. Al governo sanno benissimo che la Cina sta arrivando nelle nostre acque territoriali. Pechino non conosce le regole del gioco, sono nuovi al mondo e xenofobi» (Corriere della Sera, 23 giugno 2014).

La Cina è dunque individuata dai nipponici che contano come il nuovo nemico strategico del Giappone, e la cosa non ha bisogno di molte spiegazioni. Secondo Morio Matsumoto, direttore del desk cinese al ministero degli Esteri, «La crescita pacifica della Cina non è pacifica affatto [su questo punto concordo, a dispetto dei tifosi italiani del “socialismo con caratteristiche cinesi”**]. Dobbiamo convincere Pechino, attraverso un mix di dialogo e pressioni, a entrare nel sistema di regole di sicurezza internazionali. Vogliamo che la Cina sia un partner responsabile. Non c’è ragione per un conflitto armato, ma potrebbe sempre verificarsi uno scontro accidentale». E già, la colpa è sempre degli altri, e in Cina si ascoltano gli stessi discorsi, naturalmente a parti invertite nel ruolo dei “buoni” e dei “cattivi”, dei “responsabili” e degli “irresponsabili”. Quanto a nazionalismo e a xenofobia, c’è una bella gara fra Tokyo e Pechino, ovviamente a spese delle classi dominate di entrambi i Paesi. Basti pensare che il documento ufficiale sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale emanato dal governo giapponese il 17 dicembre 2012 non fa che ricordare ossessivamente, pagina dopo pagina, la necessità che ogni singolo cittadino giapponese «percepisca la sicurezza nazionale come una questione familiare e di interesse immediato». Com’è noto, il cittadino giapponese è un modello (anche per il cittadino cinese) di patriottismo in “pace”, nelle fabbriche e negli uffici, come in guerra. Amen!

«La Cina sta mettendo in atto azioni provocatorie per cambiare lo status quo», sostiene Takehiro Kano, direttore per la sicurezza nazionale al ministero degli Esteri: «Non diciamo che si tratta di una minaccia, ma siamo sicuramente preoccupati per la crescita di un budget militare che è 3-4 volte maggiore del nostro. Per noi la diplomazia deve venire prima di tutto, ma la difesa è l’ultima risorsa». Diciamo piuttosto che 1) la preoccupazione giapponese è, al pari dell’attivismo imperialistico dei cinesi (o degli americani, o dei russi), giustificata dall’assetto capitalistico del nostro pianeta, e che 2) la diplomazia non è che la continuazione con altri mezzi della guerra capitalistica globale, la quale a volte “degenera” in scontro armato.

Per Tomohiko Taniguchi, consigliere speciale del premier Shinzo Abe, «Il tempo è maturo per un ruolo proattivo del Giappone. Finora siamo stati fortunati a essere protetti dall’ombrello Usa, e durante la Guerra Fredda il Giappone non aveva bisogno di uscire dai suoi confini. Ora gradualmente stiamo venendo fuori dal guscio». Il problema è che in quel cruciale quadrante geopolitico tutte le nazioni stanno venendo contemporaneamente «fuori dal guscio», affollando un mare che all’improvviso si è fatto troppo piccolo.

A proposito di guscio (esistenziale), il quale forse racchiude qualche importante risposta anche ai problemi qui affrontati, rimando alla citazione di Murakami che apre questo modesto post.

Japan's next PM Abe points during a news conference in Tokyo* «Detto di passata, la crescente tensione nazionalistica tra Cina e Giappone non è estranea – anzi! – alle tensioni sociali che si stanno accumulando nelle due tigri asiatiche, nella prima a causa di un relativo rallentamento nel ritmo di crescita economica (sotto l’8 per cento annuo la società cinese entra in fibrillazione), nel secondo a motivo della perdurante crisi sistemica, il cui inizio rimonta, non certo casualmente, al 1985, anno in cui i rappresentanti di USA, Germania, Francia, Giappone e Inghilterra si riunirono al già menzionato Hotel Plaza di New York e decisero una sostanziale rivalutazione del marco e dello yen – alla fine degli anni Ottanti la divisa giapponese si rivalutò del 40%, azzoppando gravemente la capacità competitiva nipponica, e spingendo il capitale del Sol Levante verso scorribande speculative non sempre coronate dal successo» (Divise in guerra).

** A proposito del Celeste Imperialismo cinese, ecco una notizia fresca di giornata che dà la misura dell’attivismo capitalistico della Cina: «Ora la Grecia salvata [dall’Unione Europea] se la pappa la Cina, a prezzo di saldo. Con appena 6,5 miliardi, infatti il primo ministro cinese Li Keqiang, venuto in Grecia per tre giorni di visita ufficiale assieme al ministro degli Esteri Wang Yi e a una folta delegazione di imprenditori, ha firmato 19 accordi economici che coprono export, trasporti marittimi, aerei e terrestri, cantieristica navale, e in pratica fanno dell’Ellade la piattaforma di Pechino per sbarcare nel Mediterraneo e in Europa. “Una Perla nel Mediterraneo”, ha definito il Pireo Li Keqiang: può sembrare un’espressione poetica di apprezzamento estetico, non fosse che “Collana di Perle” viene chiamata dai cinesi la strategia di realizzazione di una serie di installazioni portuali, commerciali e dove possibile anche militari che stanno costruendo una sorta di impero marittimo cinese, che mutatis mutandis in riguardo ai tempi di oggi assomiglia in modo impressionante a quella catena di piazzeforti che l’Impero Britannico aveva realizzato per blindare le vie per le Indie» (Maurizio Stefanini, Libero, 24 giugno 2014).

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PROVE DI APOCALISSE NUCLEARE LUNGO IL 38° PARALLELO

781px-Crossing_the_38th_parallelIeri
La guerra di Corea che deflagrò nel 1950 lungo il 38° parallelo e che si protrasse fino al 1953 apparve all’opinione pubblica e agli stessi analisti di politica internazionale di allora come la continuazione della Seconda carneficina mondiale, ovvero come il preludio a una Terza carneficina, la quale si prospettava ancora più terribile della precedente a causa della nuova arma “fine di mondo” messa a punto dalla scienza capitalistica: la bomba atomica. In realtà quella guerra si inscriveva soprattutto nel quadro della divisione imperialistica dell’Estremo Oriente tra le due potenze uscite vittoriose dal conflitto mondiale (Stati Uniti e Unione Sovietica), nel contesto dello storico declino delle vecchie potenze occidentali che per lungo tempo avevano dominato praticamente in esclusiva quell’area del mondo (Inghilterra e Francia), e della violenta rappresaglia contro le velleità imperialistiche del Giappone. Velleità, sia detto, non campate in aria ma fondate sugli interessi strategici e sulla potenza sociale (capitalistica) del Sol Levante.

La questione di Formosa e la guerra in Indocina erano le altre due grandi questioni che allora esprimevano la contesa imperialistica fra i due blocchi un tempo alleati contro il cosiddetto Asse del maleabbattuto, com’è noto, a furia di bombardamenti “convenzionali” e “non convenzionali” su città come Dresda, Roma, Tokio, Hiroshima, Nagasaki.

In Estremo Oriente le due Superpotenze saggiavano dunque i loro rapporti di forza e appalesavano le loro esigenze di espansione sistemica in quell’area lungo le canoniche direttrici economiche, politiche, militari, ideologiche. La competizione veniva tuttavia a intrecciarsi con il processo di indipendenza nazionale che nel secondo dopoguerra attraversò tutte le ex colonie occidentali e tutti i possedimenti giapponesi, e ciò complicò non poco l’insieme del quadro geopolitico e geosociale di quella regione. Interessi e politiche imperialistiche vennero infatti a stabilire intimi contatti con processi schiettamente progressivi (nazionali e democratico-borghesi: vedi la Cina di Mao) se considerati dalla prospettiva storica. Molte “avanguardie politiche” occidentali rimasero impigliate nella complessa e confusa rete degli interessi economici, politici e sociali che allora si stendeva su tutto l’Estremo Oriente, al punto da venir fagocitati sul piano della propaganda politico-ideologica dal ragno Sovietico, sponsor  del famigerato movimento dei Partigiani della Pace.  Ma su questo punto è meglio arrestarsi, per non andare troppo fuori tema.

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Sessant’anni dopo solo uno dei grandi protagonisti di allora è rimasto in piedi, sebbene logorato dal naturale processo di declino relativo che la storia riserva alle potenze mondiali: l’imperialismo americano. Al posto dell’Unione Sovietica, il cui sistema capitalistico era troppo poco produttivo e competitivo per reggere con successo la competizione totale con quello americano, troviamo la Cina, la nuova fabbrica del mondo, nonché potenza mondiale in inarrestabile ascesa. Naturalmente ciò non significa affatto che la Russia non abbia più alcuna proiezione imperialistica nel delicato scacchiere del Pacifico, sebbene le sue ambizioni oggi appaiono assai più modeste che ai “bei tempi” dell’Unione Sovietica. Ma veniamo alle ultime scottanti notizie.

Per Pyongyang sembra alla fine essere arrivato il «tempo della battaglia finale». Il Rodong Sinmun, il quotidiano del Partito dei lavoratori [sic!] nordcoreano, ha dichiarato la scorsa domenica che in seguito alle manovre militari congiunte tra Washington e Seul la Corea del Nord considera l’armistizio del 1953 con la Corea del Sud «completamente nullo da oggi». Le truppe ammassate lungo il famigerato 38° parallelo «aspettano solo l’ordine di attacco». L’inevitabile redde rationem bussa dunque alle porte del Sudest Asiatico?

D’atra parte, l’ex «Caro Leader» Kim Jong-il aveva dichiarato, qualche mese prima di raggiungere il Paradiso Comunista dell’Aldilà, che «a causa della sconsiderata politica bellica dei sud-coreani, non si tratta di guerra o pace nella regione coreana, ma di quando scoppierà la guerra», e aveva aggiunto, giusto per tranquillizzare i fratellastri sud-coreani, i cugini cinesi e gli odiati giapponesi, che la guerra «condurrà al confronto nucleare e non sarà circoscritta alla penisola coreana». Com’è noto, la sola fabbrica coreana davvero produttiva è quella del terrore: sociale (verso l’interno ) e nucleare (verso l’esterno), che ha consentito all’inquietante regime militare di Pyongyang di mantenersi a galla nonostante (?) l’estremo degrado economico, morale e psicologico della popolazione del Paese. Pare che il giovane leader Kim Jong-un sia di fatto ostaggio della “casta militare”, la quale da sempre è stata ostile a qualsiasi seppur timida e limitata «riforma economica», intesa quantomeno a frenare l’emorragia di cittadini nordcoreani che fuggono con tutti i mezzi possibili verso la Corea del Sud e verso la Cina.

«”È difficile insegnare qualcosa ai bambini quando muoiono di fame. Anche restare seduti al banco diventa difficile” racconta la maestra [fuggita dalla Corea del Nord nel 2012] al New York Times. Dopo esser rimasta senza un soldo, la donna ha deciso di abbandonare la Corea del Nord. Una notte si è così tuffata nelle acque gelate del fiume Tumen e con non poche difficoltà ha raggiunto la Cina. Affamata, zuppa d’acqua e con il terrore di esser scoperta dalle guardie sul confine, l’ex maestra ha infine trovato il coraggio di bussare a una porta per chiedere aiuto. Poco tempo dopo la donna si è potuta ricongiungere con alcuni parenti già in Cina. La vita per l’ex maestra vissuta per anni nella fame è cambiata notevolmente. Il cibo fortunatamente non manca, ma il desiderio di mangiare a volte sì. Oltre il confine, la donna ha lasciato molti affetti e i propri figli con i quali non può mettersi più in contatto» (Come si vive in Corea del Nord, Il Post, 10 giugno 2010). Inutile dire che chi riporta queste oscene menzogne borghesi è un pennivendolo al servizio dell’imperialismo occidentale e giapponese. Ovviamente sto parlando di me.

kimjongun_460Quanto la situazione della Corea del Nord, sempre sul punto di esplodere in maniera catastrofica, sia diventata insostenibile anche per la Cina l’ha dimostrato, per ultimo, la violenta reazione di Pechino al test nucleare coreano del 12 febbraio scorso, condotto peraltro dalla macchina bellica coreana «in maniera sicura e perfetta». Il Socialismo Atomico di Pyongyang non terrorizza solo l’Occidente e i suoi alleati asiatici, ma anche il Socialismo «con caratteristiche cinesi», soprattutto adesso che Pechino sta cercando di implementare una politica friendly nei confronti della Corea del Sud in chiave antiamericana e, soprattutto, antigiapponese.

Per capire che cosa rappresenta la Cina per la scomoda “alleata” è sufficiente ricordare che la prima «è l’unico fornitore di energia (il 70%) e alimentari (dal 30% al 50%)» della seconda (Francesco Sisci, Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2013). Ma per adesso i «Cari leaders» nordcoreani non sembrano troppo impauriti dalla prospettiva di dure sanzioni cinesi, e continuano imperterriti a produrre terrore.

Scrive F. Sisci: «Pechino sta in questi giorni stravolgendo l’assetto tradizionale di politica estera in quello che è un radicale cambiamento della nuova guida del Paese sotto Xi Jinping. Il 6 febbraio il quotidiano Tempi Globali, di proprietà dell’editoriale del giornale ufficiale del partito (Quotidiano del popolo), aveva pubblicato un commento rivoluzionario: Pechino minacciava di rompere con la Corea del Nord, come fece con l’Urss negli anni ‘60, se Pyongyang fosse andata avanti con il suo esperimento nucleare. “Alcuni (a Pechino Ndr) ritengono che Usa, Giappone e Corea del Sud usano delle provocazioni per minare i legami tra Cina e Corea del Nord. Questa provocazione forse è vera. Ma la Cina non può cadere in una nuova trappola per cercare di evitare questo tipo di trucco e finire per avere la sua politica nucleare in ostaggio della Corea del Nord”». E questo la dice lunga anche sul “dibattito” interno al regime cinese, alle prese con sfide globali e regionali sempre più impegnative, e comunque tali da mettere in sofferenza un assetto politico-istituzionale che appare sempre meno adeguato a rispondere con la necessaria rapidità ai mutamenti intervenuti negli ultimi anni nella società cinese e nello scenario internazionale.

esplosione-nucleare-300x225A proposito di Apocalisse Nucleare: il guru Casaleggio non aveva fatto la data del 2020 per la Terza – e trentennale – guerra mondiale? Vuoi vedere che gli Illuminati hanno anticipato i tempi per togliere i grillini dalla testa a certa gente? Ma che colpa abbiamo noi

LE OMBRE DEL 1914 SCENDONO SUL PACIFICO?

pacifico1Sul Quotidiano del Popolo del 18 gennaio 2013 Ren Weidong, ricercatore del China Institute of Contemporary International Relations, scriveva: «L’unico modo affidabile per noi al fine di evitare, prevenire e ritardare la guerra è quello di far riconoscere a chi spinge in direzione di questa che non è in grado di vincere contro la Cina. Che dalla guerra non otterrà più successi di quanti ne possa ricavare dalla coesistenza pacifica. Una delle ragioni importanti per cui non ci sono state guerra contro la Cina negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso è che la Cina ha svolto un intenso lavoro di preparazione alla guerra. Al giorno d’oggi, le leggi della storia non sono cambiate. Ogni volta che le contraddizioni interne del mondo capitalista diventano acute, aumenta il rischio di guerra. E ora ci troviamo in questo frangente. (…) Quindi, in ultima analisi, dobbiamo gettare via il pacifismo e il romanticismo che facilmente può evolvere in capitolazionismo in caso di pressioni e minacce. Dovremmo prepararci a fondo alla lotta e alla guerra. Solo in questo modo la Cina potrà mantenere un lungo periodo di pace e di sviluppo» (Citazione tratta da Linkiesta del 4 febbraio 2013). Se vuoi la pace, prepara la guerra: un classico degno di una Grande Potenza.

Inutile dire che i «nemici della pace» individuati da Weidong si chiamano Stati Uniti e Giappone. Ed altrettanto inutile è precisare che il nostro amico cinese non mette il suo Celeste Paese nel cattivo «mondo capitalista», essendo la Cina un fulgido e pacifico esempio di «socialismo di mercato». Che la leadership cinese copra con questa sempre più ridicola fraseologia  tardo maoista esigenze schiettamente capitalistiche e imperialistiche non deve affatto sorprendere, mentre molto deve far riflettere il fatto che in Occidente, soprattutto in Italia, ci sia ancora gente che continua ad abboccare all’amo del «socialismo reale» in salsa cinese. Per passare a cose più serie, non c’è dubbio che la posizione di Weidong non è solo l’espressione di una situazione internazionale che si va surriscaldando, man mano che, di crisi in crisi, di crescita in crescita, la competizione capitalistica si fa più dura; essa getta pure luce sull’aspro scontro interno al Partito-Regime cinese fra le diverse correnti che tradizionalmente lo attraversano, e che rappresentano diversi interessi materiali e diverse opzioni strategiche, tanto per ciò che riguarda la politica interna quanto per ciò che concerne la politica estera. Lungi dall’essere un monolite, il PCC è un organismo politico-istituzionale che già contiene, in fieri, il – probabile – futuro multipartitismo cinese. Ho scritto probabile!

Intanto Gideon Rachman ha evocato, sul Financial Times di ieri, lo spettro di un nuovo 1914: «Le ombre del 1914 scendono sul Pacifico». Lo scenario disegnato dall’esperto di politica estera è quello di una guerra combattuta appunto nell’area del Pacifico tra Stati Uniti e Giappone, su un fronte, e la Cina, a cui Rachman fa indossare i panni della Germania guglielmina castrata dall’Inghilterra e dalla Francia nella sua ricerca di un adeguato spazio vitale, sul fronte opposto. Segno dei tempi? Non c’è dubbio, e questo a prescindere dallo scenario, più o meno plausibile, proposto da Rachman.

Posto che la guerra sistemica permanente è un fatto ineludibile nel seno della Società-Mondo del XXI secolo, chi si munisse di fucile ed elmetto, tanto per “portarsi avanti” col lavoro, non meriterebbe davvero alcun biasimo.

GIAPPONE: ATTIVISMO A TUTTO CAMPO

1342093712833_fig_13-manifestoantigiapponeseinlinguaolandesestampatoalondranel1944Nel suo libro del 2001 Le insidie del capitalismo globale (Bocconi Editori) Robert Gilpin denunciava la sindrome della cicala, se così posso dire sulla scorta dell’attuale dibattito europeo, anche nel caso giapponese (oltre che in quello americano): per «motivi di armonia interna e di indipendenza nazionale» il Giappone, formica di rango mondiale dal secondo  dopoguerra fino ai primi anni Novanta, ha poi tollerato lo sviluppo di settori improduttivi che ne hanno di molto imbrigliato la tradizionale capacità industriale, la quale stava al centro della sua geopolitica. Come facevo notare su un post (Divise in guerra) del 19 settembre del 2012, l’inizio della perdurante crisi sistemica giapponese rimonta, non certo casualmente, alla fine degli anni Ottanta, allorché gli accordi sanciti nel settembre del 1985 all’Hotel Plaza di New York tra USA, Germania, Francia, Giappone e Inghilterra giunsero ad effetto. In quell’accordo fu decisa, fra l’altro, una sostanziale rivalutazione del marco e dello yen: alla fine degli anni Ottanta la divisa giapponese si rivalutò del 40%, azzoppando gravemente la capacità competitiva nipponica, e spingendo il capitale del Sol Levante verso scorribande speculative non sempre coronate dal successo.

In effetti, una combinazione tra bassi tassi d’interesse, politiche permissive e riluttanza delle grandi banche ad abbandonare le aziende improduttive ha innescato un circolo vizioso dal quale il Giappone non è ancora uscito, anche se il suo recente attivismo a tutto campo (fronte valutario, fronte commerciale, fronte militare) la dice lunga sulla capacità reattiva del Paese. Soprattutto Germania e Cina hanno immediatamente registrato il terremoto valutario-commerciale (svalutazione della moneta giapponese) e quello militare.

Naval_Ensign_of_Japan_svgAppena il giorno dopo l’annuncio dato dal premier Shinzo Abe circa l’intenzione del Sol Levante di incrementare il budget della Difesa, il più forte negli ultimi dieci anni e parte integrante del piano di stimoli “keynesiani” approntato nelle scorse settimane dal governo nipponico, diverse vedette militari cinesi hanno compiuto un aggressivo blitz dimostrativo al largo delle Senkaku, giusto per far capire ai cugini giapponesi che il gigante asiatico ha recepito, forte e chiaro, il messaggio lanciato da Tokyo.

Probabilmente il confronto sistemico (economico, tecnologico, ideologico, militare) sino-giapponese conoscerà un certo surriscaldamento nei prossimi mesi, cosa che non potrà non chiamare in causa la potenza americana, amica del Giappone (ma fino a un certo punto: la “fraterna amicizia” degli Stati Uniti si arresta dinanzi all’aggressivo Mede in Japan!) e nemica strategica (secondo l’attuale linea geopolitica americana, peraltro condivisa, sebbene in modo informale, da Pechino) della Cina. «Gli Usa vogliono concentrarsi, Prendendo a prestito la sicurezza dei propri protetti più affidabili e malleabili [sudcoreani, giapponesi, indiani, indonesiani, taiwanesi, malesi, australiani], sul vero nemico globale, quello che li sta umiliando con il credito dal cuore peloso e con una crescente arroganza» (F. Mini, Usa Contro Cina, Limes 6/2012, p. 49). Le stesse cose scrivevano, alla lettera, gli analisti di politica internazionale alla fine degli anni Ottanta con riferimento alla relazione interimperialistica USA-Giappone: Usa contro Giappone

yenCome scrive Vito Lops sul Sole 24 Ore del 25 gennaio, «La nuova battaglia della guerra tra le valute si combatte tra Germania e Giappone. Nelle ultime ore il presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, è andato giù duro contro la nuova politica di allentamento monetario varata dalla Banca centrale del Giappone che ha annunciato un obiettivo di inflazione al 2% e ha iniettato sul mercato nuovi yen. La Germania, che basa oltre il 50% della sua crescita sulle esportazioni, ha sbilanciato negli ultimi anni la sua economia più sulla domanda esterna che su quella interna. Per questo motivo, ancor più di altri Paesi, vive con tensione la nuova fase della guerra delle valute con l’ingresso a gamba tesa del Giappone». Perché a «gamba tesa»? Forse perché la Germania non è libera di manovrare la leva del cambio come a bei tempi del Marco tedesco? Si pretende dai competitori che non piacciono che essi gareggino senza un piede e senza un braccio: troppo comodo, non vi pare? Giustamente – dal punto di vista del Capitale nipponico, occorre precisarlo? – il ministro delle Finanze giapponese Taro Aso ha spedito al mittente le proditorie accuse tedesche: «Le critiche sulla manipolazione dei corsi delle valute sono del tutto senza fondamento».

C’è da scommettere che il tema della sovranità monetaria in Europa, più precisamente: nella zona-euro, farà i conti nelle prossime settimane e nei prossimi mesi con le fibrillazioni valutarie e commerciali che accompagnano questa fase della competizione capitalistica mondiale.

Scrive Lops, forse facendo una piccola concessione al pensiero “decrescista”: «Chi svaluta di più esporta di più e si conquista terreno nella competizione senza fine voluta dal dogma della crescita a tutti i costi». No, il dogma si chiama Capitalismo, il regime sociale che svaluta e rende sempre più produttivo il «capitale umano» secondo il noto imperativo categorico: profitto a tutti i costi!

INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA E COMPETIZIONE CAPITALISTICA TOTALE

1911_Ford_Model_T_TouringScrivevo in un breve studio dedicato al processo di concentrazione e centralizzazione del capitale che la crisi economica genera una brusca accelerazione di una tendenza che, com’è noto, ha un respiro storico ultrasecolare e una dimensione geosociale che ormai ha i confini del pianeta. La mappa del potere capitalistico che la crisi e il violento processo di risanamento che essa innesca nel modo contraddittorio e socialmente doloroso di cui abbiamo esperienza, storicamente e attualmente, si discosta considerevolmente dalla vecchia mappa, a volte in termini assoluti, realizzando un vero e proprio salto qualitativo nella gerarchia del potere capitalistico, il quale dalla fine del XIX secolo si dà come Imperialismo.
La concentrazione e la centralizzazione del capitale si situano, insieme alla svalorizzazione e distruzione del capitale (mezzi di produzione, materie prime e capacità lavorative) diventato pletorico, al cuore del processo di risanamento sopra accennato, ed è possibile vederle all’opera soprattutto nei settori industriali a più alta intensità di capitale (a più alta composizione organica) e maggiormente integrati con le attività finanziarie. È il caso dell’industria mondiale automobilistica: seguendo i processi di ristrutturazione, razionalizzazione, delocalizzazione, internalizzazione, fusione e così via che la stanno attraversando è possibile farsi un’idea abbastanza precisa delle tendenze di fondo del capitale colto in questa particolare fase storica, segnata dalla crisi economica più severa del secondo dopoguerra nei Paesi capitalisticamente più avanzati e dall’irresistibile ascesa capitalistica degli ex Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.
Lungi dal trattare in modo organico la questione, anche perché la cosa esubera le mie capacità, intendo piuttosto dare qualche elemento di riflessione, riproponendomi di ritornarvi sopra, con nuovi dati e nuove considerazioni. Mi scuso in anticipo per la forma disorganica e frammentata dello scritto, che non ha alcuna ambizione “scientifica” né, men che meno, specialistica.

bmw_sede_headquarter_modTutte le più grandi case automobilistiche del mondo hanno ovviamente alle spalle un lungo processo di assorbimenti e fusioni che ha investito prima il livello nazionale dei singoli Paesi produttori, poi quello continentale e infine quello mondiale o globale. Ancora alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso l’industria automobilistica europea non era che la somma dei singoli produttori nazionali, i quali poterono fare affidamento su una politica largamente protezionistica che ne assecondò lo sviluppo durante il boom economico del dopoguerra. Ma già solo alcuni anni dopo il quadro appariva notevolmente cambiato, e con la crisi degli anni Settanta, con lo shock petrolifero e con l’emergere dell’industria automobilistica giapponese come competitore mondiale di assoluta grandezza, la ricerca di alleanze strategiche con partner internazionali stabili e affidabili ha cambiato per sempre la fisionomia “provinciale” dell’industria automobilistica europea.

Nella definizione della mappa di quest’industria negli anni Settanta un ulteriore elemento si aggiunge all’aumento del prezzo del petrolio, con il conseguente “ricasco”  sul prezzo della benzina e sul prezzo di tutte le materie prime, e alla saturazione dei mercati nel Nord del mondo: «La produzione dei componenti auto e il loro assemblaggio sono diventati sempre più standardizzati, per cui richiedono manodopera sempre meno qualificata che può essere fornita anche dai paesi privi di tradizioni industriali. Si spiega anche così il decentramento della produzione fuori dalle localizzazioni tradizionali: a partire dagli anni Settanta, lo spostamento della produzione in paesi dal minore costo della manodopera è la caratteristica più importante nella geografia automobilistica. Da questo punto di vista, l’industria automobilistica rispecchia una tendenza comune a tutte le attività industriali» (F. E. Ian Hamilton, Un’economia mondiale in continua trasformazione, in R. Bennett – R. Estall, La sfida del cambiamento globale, p. 89, Franco Angeli, 1996).

Sempre negli anni Settanta cambia il modo di produrre le automobili: si passa dalla produzione concentrata in singoli impianti integrati su scala locale, nei quali «arrivavano i minerali di ferro e il carbone da un lato e uscivano autoveicoli dall’altro» (Ivi), alla scomposizione-ricomposizione dei processi produttivi in stabilimenti dislocati in diverse parti del pianeta, «ciascuno specializzato in determinati componenti o nell’assemblaggio finale». Scrive Robert Gilpin: con il passare degli anni, le multinazionali di ogni provenienza abbandonarono le strategie di investimento orizzontale in favore di strategie di investimento “verticale” e di outsourcing, in cui i processi di produzione sono integrati e razionalizzati su scala mondiale. Il termine outsourcing indica che i componenti in una località sono assemblati in altri paesi e successivamente esportati in tutta l’economia mondiale, compreso il mercato d’origine della multinazionale. I luoghi di produzione, assemblaggio e commercializzazione dei prodotti sono decisi nell’ambito della sua strategia aziendale globale (R. Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 158, Università Bocconi Ed., 2004).

Naturalmente sulla tendenza alla delocalizzazione, razionalizzazione e innovazione in chiave laborsaving della produzione pesò allora, come sempre del resto, l’esigenza del capitale di spezzare sempre di nuovo la forza contrattuale del lavoro, che è più forte là dove più alto è il numero delle “maestranze” e più qualificata la loro capacità lavorativa.

Come ricorda Jeremy Rifkin, nella nuova strategia aziendale dell’industria automobilistica la Toyota ha avuto un ruolo d’avanguardia già negli anni Cinquanta: «Mentre il “metodo americano” [fordista] conquistava tutti i mercati del mondo, negli anni Cinquanta un’azienda automobilistica giapponese che lottava per riprendersi dalle conseguenze della seconda guerra mondiale iniziò a sperimentare un nuovo approccio alla produzione …  Il principio su cui si fonda la lean production  [produzione leggera o snella] della Toyota è la combinazione di nuove tecniche manageriali con macchine sempre più sofisticate al fine di realizzare più produzione con meno risorse e meno lavoro … Nella produzione di massa, i macchinari sono così costosi da rendere necessario evitare i fermi e perciò il management è costretto a creare “polmoni” in forma di scorte o lavoro in eccesso per essere sicuro di non esaurire mai le scorte e di rallentare il flusso di produzione. Infine, l’elevato costo dell’investimento in macchinari preclude la possibilità di rapida conversione degli impianti a nuove specifiche di prodotto … Con metà impiego di uomini in fabbrica, metà spazio occupato dagli stabilimenti, metà investimento in macchine utensili, metà ore di progettazione per sviluppare un nuovo prodotto e metà scorte la Toyota realizza prodotti con meno difetti e produce una varietà di prodotti più ampia» (J. Rifkin, La fine del lavoro, pp. 163-165, Mondadori, 2002). La “filosofia” industriale che alla fine della seconda guerra mondiale ispirò Taiichi Ohno, autore principale del Toyota Production System (TPS), e Kiichiro Toyoda, proprietario e presidente della casa giapponese, si basava sul principio del fare di una necessità una virtù, ossia di rendere profittevole una condizione estremamente difficile sotto ogni aspetto: politico, tecnologico, finanziario, e così via, principio che tendeva a esaltare la produttività di ogni singolo aspetto del processo industriale. Quanto aggressiva e ambiziosa fosse quella “filosofia”, basti dire che il 15 agosto 1945, data non certo fausta per l’ex Impero Giapponese, Toyoda dichiarò che il Giappone avrebbe dovuto «raggiungere l’America in tre anni» nella produzione industriale (Cfr. Taylor, Ford e Toyota, seminari Fim-Fiom-Uilm, luglio 2008).

toyota_logoLean production, concurrent engineering (coinvolgimento nella progettazione del prodotto di chiunque sia coinvolto nella progettazione, produzione, distribuzione e marketing delle auto), kaizen (miglioramento continuo), just-in-time (all’ultimo momento, solo al momento opportuno, per economizzare sui tempi morti presenti in tutti i punti sia del processo produttivo, sia di quello distributivo e di vendita) a monte (nel processo produttivo) e a valle (sul mercato): sono, questi, tutti concetti elaborati dalla Toyota che col tempo sono entrati nel vocabolario dell’economia capitalistica mondiale. L’attualizzazione in chiave “occidentale” del TPS si chiama World Class Manufacturing (WCM), al cui sviluppo ha lavorato Hajime Yamashina, «un accademico di professione giapponese, un samurai nell’anima, ma del tutto occidentalizzato nei modi e nello stile, molto conosciuto all’estero e poco amato a casa sua» perché secondo i suoi esigenti compatrioti «avrebbe “sporcato” la purezza del metodo Toyota» (Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2010). Puro o impuro che sia, l’azienda automobilistica basata contingentemente a Torino ne ha fatto un imperativo categorico: «Quel che è certo è che la dieta WCM in Fiat andrà avanti. Sono i conti a dirlo. La revisione dei layout produttivi negli impianti di Italia e Polonia ha portato in quattro anni a una riduzione media del 50% delle operazione che sulle linee non apportano valore aggiunto. Ha abbattuto del 26% i costi della logistica negli stabilimenti europei e permesso un risparmio del 20% del costo unitario di energia per vettura prodotta» (Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2011).

Il modello-Toyota non solo economizza sul capitale produttivo (che per l’imprenditore è un puro costo), non solo esalta la produttività di tutti i «fattori produttivi», a iniziare dal fattore-lavoro (il solo in grado di creare quel valore in più che “remunera” l’investimento), ma coinvolgendo intensamente il lavoratore in ogni fase del processo produttivo (dalla progettazione del nuovo modello alla sua realizzazione industriale, secondo il principio del concurrent engineering) tende a responsabilizzarlo sul piano ideologico e psicologico, facendolo sentire parte di un «grande progetto». Come ha scritto Vincenzo Elviretti, il modello-Toyota «Può funzionare bene alla sola condizione di contare sulla totale dedizione dei collaboratori e dei lavoratori dell’azienda. Lavoratori che il toyotismo promuove a cittadini dell’impresa, a patto però che essi ne facciano la propria famiglia, la propria comunità da difendere contro tutti e contro tutto» (V. Elviretti, L’evoluzione del toyotismo, 2007).

Una vignetta campeggiava nel 1992 sulle prime pagine di molti quotidiani statunitensi alle prese con il cinquantenario di Pel Harbour, e con un conflitto commerciale nippo-americano sempre più caldo: uno Zero giapponese bombardava la Casa Bianca con automobili Toyota. Il significato appare fin troppo esplicito: da Tora! Tora! Tora! a Toyota! Toyota! Toyota! La guerra economica, che allora l’America del Nord stava perdendo su tutti i fronti (industriale, finanziario, scientifico), come continuazione della guerra militare, secondo i classici schemi del Capitalismo giunto nella sua fase imperialistica. Un’altra vignetta, sempre di quell’anno, mostrava un obeso operaio americano spiegare a un anoressico Presidente Bush-padre l’origine del frastuono provocato dal solito bombardamento capitalistico giapponese: «Sono i giapponesi! La loro produzione di massa ci oltraggia… Non possiamo competere!!» Le contromisure americane furono davvero pesanti, anche sul versante della guerra dei cambi, e certamente contribuirono ad aprire la lunga crisi sistemica del Capitalismo giapponese. «Anche se il mercato interno ha sempre avuto per il Giappone una notevole importanza, il grado di dipendenza dalla domanda estera è rapidamente aumentata a partire dalla fine degli anni Sessanta per le industrie di processo e assemblaggio più promettenti, quali quelle produttrici di macchine di precisione, automobili, elettrodomestici, macchinario industriale, strumentazione elettronica e per telecomunicazione, fino a superare in alcuni casi il 50%. A causa di questo mutamento strutturale nella composizione della domanda globale, che ha visto crescere rapidamente la componente estera, il sistema economico giapponese è diventato più vulnerabile alle influenze esterne. Emblematico è il caso dell’automobile: fino al 1975 il mercato interno ha assorbito oltre il 60% della produzione, ma tra il 1980 e il 1986 il Giappone ha visto aumentare la dipendenza estera in modo estremamente pericoloso» (G. Fodella, Fattore Orgware. La sfida economica dell’Est-Asia, p. 56, Garzanti, 1993).

toraMolti tecnici e operai giapponesi licenziati nella seconda metà degli anni Novanta, nel corso di una violenta ristrutturazione e razionalizzazione industriale, presi nella morsa della vergogna e dell’impotenza abbandonarono mogli e figli, per vivere nelle periferie delle grandi città un’esistenza di reietti sociali. Non pochi di essi si suicidarono. Le tendopoli che spuntarono nelle periferie per dare ospitalità a un esercito industriale sconfitto e depresso, davano l’impressione di una devastazione tellurica.

Il premier giapponese Miyazawa definì «criminale» la politica protezionistica adottata dalla Casa Bianca contro l’industria giapponese in generale, e contro quella automobilistica in particolare Ciò, fra l’altro, dimostra come la politica liberista – adottata ieri dai giapponesi e oggi dai tedeschi – è dei Paesi forti mentre quella protezionistica appartiene ai Paesi deboli. Deboli sempre in termini relativi, si capisce.

Segue qui.

CINA O GIAPPONE? SORA AOI!

Cina o Giappone? Sora Aoi!

Haruki Murakami, scrittore giapponese di fama mondiale: «Le dispute territoriali che incendiano il nazionalismo sono come un liquore scadente, che ti ubriaca dopo pochi bicchieri rendendoti isterico. Ti fa sbraitare ad alta voce e comportare in maniera rozza… Ma dopo una furia ubriaca ciò che resta è solo un mal di testa tremendo il giorno dopo. Dobbiamo stare attenti ai politici e ai polemisti che dispensano liquori scadenti e incitano questo tipo di violenza» (Japan Times).

Lin Shaohua, traduttore dei romanzi di Haruki Murakami in Cina: «Chiunque si riconosca in un’identità nazionale dovrebbe anteporre ai propri interessi quelli della nazione. E lo stesso principio vale anche per i più razionali e amichevoli tra i giapponesi. Si tratta di un principio fondamentale alla base del concetto di nazione, tutto il resto è secondario» (cit. tratta da La Stampa, 6 ottobre 2012).

L’accostamento delle due citazioni intende far sorgere il sospetto nel lettore di una mia simpatia per il Giappone a proposito delle note scaramucce nazionalistiche intorno alle contese isole Senkaku (per i giapponesi) o Diaoyu (per i cinesi). Cosa che mi consente di ribadire con una certa economia di pensiero la mia totale avversione per entrambi i contendenti. «Il Giappone controlla quelle isole dal 1885, fatta eccezione per il periodo 1945-1972 in cui, in base al trattato di San Francisco (1951), furono amministrate dagli Stati Uniti. La Cina sostiene di averle possedute dal XIV secolo e di averne perso il controllo perché vittima dell’imperialismo nipponico. Cina o Giappone? (Niccolò Locatelli, Le isole contese e il declino degli Usa, Limes, 21 settembre 2012). La mia risposta è: né Cina né Giappone. Anzi: contro la Cina e contro il Giappone, a prescindere dalle motivazioni di carattere storico e legale addotte dai due Paesi contendenti a sostegno delle loro rivendicazioni territoriali. Sotto il vasto e grigio cielo del Capitalismo mondiale, tutte le ragioni che fanno capo alle nazioni cospirano contro le classi dominate del pianeta e contro la possibilità dell’emancipazione universale. Per questo il vero antidoto all’ubriacatura nazionalista è, ieri come oggi, la coscienza di classe, estranea tanto al pacifista Murakami (peraltro il mio scrittore contemporaneo preferito) quanto, ovviamente, al suo traduttore cinese.

Se proprio dovessi fare una scelta fra partigiani della pace e nazionalisti isterici, ebbene come male minore sceglierei di stare dalla parte di Sora Aoi, Attrice porno di successo giapponese, «cagna giapponese» per i nazionalisti cinesi, ma soprattutto autrice di uno sfortunato messaggio pacifista ai due popoli cugini del Pacifico Orientale. Ma, come si può intuire, si tratterebbe di una scelta più personale che politica…

«Il valore di queste isole, e con esso la portata politica delle dispute, non si limita allo sfruttamento delle risorse naturali: la questione conserva risvolti strategici molto più ampi che riguardano direttamente gli equilibri politico-militari dell’Asia Orientale nel medio-lungo periodo» (Matteo Dian, Le isole Senkaku o Diaoyu come termometro degli equilibri in Asia orientale, Limes, 15 ottobre 2012). Non ho bisogno di attingere altre informazioni per schierarmi contro l’imperialismo cino-giapponese, il quale fa capo a due Paesi concorrenti sul terreno della competizione capitalistica globale, ma alleati nello smungere plusvalore alla Vacca Sacra salariata e nel collaborare alla disumanizzazione generale del pianeta.

Nella giungla asiatica

Come scrive Jon Halliday nella sua Storia del Giappone contemporaneo (Einaudi), «Il Giappone riacquistò formalmente l’indipendenza nell’aprile 1952, in seguito alla firma congiunta (avvenuta a San Francisco l’8 settembre 1951) del trattato di pace predisposto dagli Stati Uniti e del trattato di sicurezza nippo-americano. Questi due trattati inserirono il nuovo Giappone indipendente nell’alleanza occidentale». Con la Cina e la Russia, membri della coalizione imperialistica uscita vincente dalla Seconda guerra mondiale, il Giappone non firmò invece alcun trattato di pace, e non per sua scelta, a dire il vero, ma perché allora così decisero gli americani, i quali non tennero in alcuna considerazione le intenzioni dei partner giapponesi, pronti a stabilire normali relazioni economiche e diplomatiche con la Cina. Per tutta risposta, gli Stati Uniti non solo impedirono al Giappone «di ricercare i contatti che esso desiderava con il suo maggior vicino, la Repubblica popolare cinese», come scrive sempre Halliday, ma arrivarono «al punto di imporre un brutale embargo sul commercio giapponese con la Cina». La guerra in Corea, e il ruolo svolto in essa dal Giappone, spiegano con sufficiente chiarezza l’atteggiamento americano ostile a una rapida normalizzazione dei rapporti interstatali nel Sud-Est Asiatico.

Fino alla prima metà degli anni Settanta, sebbene molto ingiallita, la metaforica fotografia scattata a San Francisco da Foster Dulles conservò un certo rapporto con la realtà dei rapporti interimperialistici nell’area del Pacifico Orientale. Il repubblicano Dulles fu incaricato di seguire la “pratica giapponese” fino alla firma del trattato di pace in qualità di consigliere di politica estera per il Segretario di Stato americano (democratico). Dopo d’allora, per un verso l’attivismo economico e politico del Giappone, sempre più affamato di mercati per il Made in Japan, di risorse energetiche e di riconoscimenti politici soprattutto da parte degli alleati occidentali; e per altro verso il relativo declino della potenza americana hanno di molto invecchiato quella foto, fino a renderla per certi aspetti anacronistica. La fine della cosiddetta guerra fredda e l’irresistibile ascesa del Capitalismo cinese hanno fatto il resto.

Alla fine degli anni Settanta la penetrazione del capitale giapponese negli Stati Uniti (in California, in primis) è ormai un fatto con cui gli americani sono costretti a dover fare i conti, proprio quando il trattato cino-giapponese del 1978 rese evidente un notevole spostamento dell’asse di potenza imperialistica (o capitalistica, fa lo stesso) in direzione dell’Asia Orientale, facendo già allora paventare in Occidente l’avvento di un secolo Asiatico, dominato dal Giappone. Interrogato nel 1983 dal Washington Post sulla strategia politico-militare più confacente agli interessi del Giappone, l’allora Premier giapponese Nakasone rispose che «Su questi temi non intendiamo agire sotto la pressione o l’influenza degli Stati Uniti, ma unicamente in ragione degli interessi del nostro paese … Un obiettivo che ci poniamo è quello di salvaguardare le linee di comunicazione oceaniche. A tale proposito la striscia di mare sulla quale devono estendersi i nostri controlli difensivi deve comprendere anche le rotte tra l’isola di Guam e Tokyo e tra lo stretto di Taiwan e Osaka» (l’intervista fu ripresa da Repubblica del 20 gennaio 1983). È sufficiente gettare l’occhio sulla carta geografica dell’Asia Orientale per capire le implicazioni geopolitiche di questa dichiarazione, che esprimeva una potenza sistemica in dirompente ascesa.

Le contromisure economico-finanziarie prese dagli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta per arginare l’espansione economica del Giappone (volti soprattutto a intaccarne la «produttività totale dei fattori»), e indebolirne la conseguente proiezione geopolitica, sortiranno l’effetto voluto dagli americani. Tuttavia, niente può ristabilire il vecchio equilibrio interimperialistico, soprattutto nell’area sociale più dinamica del pianeta.

Le tensioni che si sono accumulate nel tempo nell’area del Mar Cinese Orientale e Meridionale oggi possono finalmente innescare movimenti tellurici prima contenuti nella camicia di forza post Seconda guerra mondiale, lasciando interdetti gli Stati Uniti. Gli americani si trovano a dover sostenere un alleato strategicamente fondamentale (il Giappone) senza poterne tuttavia controllare i movimenti come ai bei tempi della guerra fredda, la quale peraltro mise il Capitalismo giapponese – e tedesco – nelle condizioni di svilupparsi molto rapidamente, fino a diventare il vero concorrente del Capitalismo americano. L’ombrello atomico come serra capitalistica. E d’altra parte essi non hanno alcun interesse, oggi, a inasprire il confronto con la Cina, diventata nel frattempo la seconda potenza capitalistica del mondo, nonché tra i principali detentori esteri del debito pubblico Usa, ma soprattutto desiderosa di affermarsi come esclusiva potenza egemone in Asia Orientale, subentrando in linea storica proprio al Giappone.
Per quanto Potenza strategicamente nemica di primo livello, come recitano i dossier “segreti” elaborati dall’alta scienza sociale americana per conto della Casa Bianco (l’inimicizia va dall’economia alla politica, dalla situazione militare alla cultura, dalla geopolitica alla demografia, ecc.), la Cina va “confrontata” dagli Stati Uniti in modo relativamente fair. Almeno in questa fase.

Scriveva Maurizio Guandalini nel 1994: «La caduta del Muro di Berlino, la prosecuzione dell’impetuoso sviluppo economico della Cina nel segno del “socialismo di mercato” e la crisi economica che ha colpito, a differenza dei paesi asiatici, i paesi europei e gli Stati Uniti (confermando la validità dell’area Asia-Pacifico) hanno consentito alle Tigri asiatiche di emergere al di fuori di qualsiasi schema o proposito di alleanza politico-militare. Esse sono decise a incrementare i loro rapporti commerciali al di sopra di qualsiasi altra considerazione» (Dalla Cina verso Ovest, Etaslibri). In questo processo di sviluppo e di integrazione economica il Giappone ha naturalmente giocato un ruolo di assoluto rilievo, fornendo peraltro alle giovani Tigri, Cina compresa, un collaudato modello capitalistico di successo: «La strada verso lo sviluppo economico seguita dal Giappone negli ultimi 45 anni ha ricalcato quella del ciclo dei prodotti: dai tessili e dalle calzature con manodopera a basso costo il Giappone è passato agli strumenti ottici e alle apparecchiature elettroniche, successivamente all’industria pesante in settori quali l’acciaio, la cantieristica e l’auto per approdare, dopo lo shock petrolifero del 1973, alle industrie ad elevato contenuto tecnologico come i computer e le telecomunicazioni».

La Cina, il cui «”socialismo di mercato”» è una panzana politico-ideologica volta a camuffare, non so decidermi se in modo più maldestro o più ridicolo, la realtà di un Capitalismo a forte presenza, diretta e indiretta, statale; la Cina, dicevo, è oggi impegnata in una transizione della sua economia analoga a quella del Giappone di parecchi decenni fa, senza che ne debba necessariamente ricalcare pedissequamente le tappe. Questo delicato, complesso e lungo processo di maturazione del Capitale cinese crea nel gigante asiatico tendenze di segno opposto: in direzione di una maggiore collaborazione-integrazione con le altre Tigri asiatiche, Giappone compreso, e in direzione di una maggiore e sempre più aggressiva competizione globale (economica, politica, ideologica) con le stesse. Non solo, ma questo stesso processo probabilmente genererà forti tensioni sociali nel Paese, con l’acuirsi tanto dei conflitti sociali (ma anche nazionali ed etnici) quanto dello sciovinismo (anche a sfondo razziale), che è sempre un eccellente strumento di controllo, di repressione e di reclutamento delle masse. Anche le ambigue vicende interne al Partito-Stato cinese alla vigilia di scelte politiche importanti non sono estranee allo scenario appena abbozzato.

IL DITO NELL’OCCHIO E LA LUNA SULLA ZUCCA

La (Grande) Onda Presso la Costa Kanagawa, Katsushika Hokusai (1830 - 1834)

Non so se mentre scrivo queste poche e povere righe il Giappone stia sprofondando nella sua fossa abissale, come prevedeva un bel film di Shiro Moritani girato agli inizi degli anni Settanta – Nippon Chinbotsu (Il Giappone Affonda), 1973, in pieno shock petrolifero – e che ho avuto il cinismo di rivedere proprio il giorno della Catastrofe Perfetta. Non so nemmeno se la centrale nucleare di Fukushima abbia o meno superato la fase della Sindrome Cinese, e certo non vorrei abitare al suo antipode. Oggi non è questo che mi preoccupa, anche perché ho la fortuna di guardare la televisione (perché la Catastrofe Perfetta alla TV ci guadagna, eccome!) dalla parte giusta del capriccioso Pianeta. E cosa osservo dalla mia postazione critica? Un esercito di vecchi e nuovi militanti antinucleare sciacallare, mi si passi il termine, sull’altrui disgrazia.

Mentre ovunque, nel Nord del Giappone, esplodono fabbriche chimiche, fabbriche di raffinazione di idrocarburi, depositi giganteschi di gas e petrolio; mentre crollano le dighe che alimentano le centrali idroelettriche: insomma, mentre va in scena l’inferno convenzionale, gli italici ecologisti si preoccupano di dire al solito Cavaliere Nero di Arcore di non pensare nemmeno di costruire le quattro centrali nucleari di «nuova generazione» programmate e che, se va bene (per il capitalismo di casa nostra, of course), vedranno la luce nel 2030. Mentre l’inferno convenzionale divora, qui e subito, uomini, cose e animali, illuminando a giorno la notte giapponese, gli ecologicamente corretti ammoniscono Berlusconi per evitare l’inferno nucleare prossimo venturo. Si dice che la prevenzione salva le vite, e intanto paghiamo in bolletta l’energia nucleare francese, prodotta a pochi chilometri da Pinerolo. Però, vivaddio, la coscienza antinuclearista del Bel Paese è salva!

Naturalmente al pensiero ecologicamente corretto sfugge un particolare, un dettaglio quasi insignificante: la tecnologia nucleare non si è sviluppata nel vuoto, o nel contesto di una generica comunità umana, ma è stata concepita, fabbricata e usata nella società capitalistica, a scopi bellici e “pacifici”. Certo, si tratta di un dettaglio. Ma è nel dettaglio che ama nascondersi il dominio. Invece di condannare «senza se e senza ma» la società dominata ciecamente dalla Legge del Profitto, gli ecologicamente corretti pensano di fare la cosa più umana e rivoluzionaria di questo mondo inveendo – ideologicamente – contro una sola delle sue opzioni tecnologiche. Centinaia di migliaia di individui morti come topi nelle miniere, arrostiti nelle fonderie, affogati nel mare, spazzati via dall’acqua delle centrali idroelettriche (in Cina succede continuamente) scompaiono dinanzi a un solo povero disgraziato ucciso dalla Maligna Radiazione Nucleare. La Morte Atomica fa più paura, e si capisce. Ma la paura soprattutto annichilisce la nostra capacità di comprendere dove sta la coda del demonio, pardon: del dominio.

Tra l’altro, gli ecologicamente corretti tirano sempre in ballo Chernobyl, evento disastroso che più che dimostrare la pericolosità del Nucleare, testimonia innanzi tutto la miserabile arretratezza tecnologica del fatiscente capitalismo di Stato Russo, «avanzato» solo sul terreno militare (e quindi spaziale). Questi signori camminano sempre col dito nell’occhio e la luna sulla zucca! Aveva proprio ragione Karl Kraus: «La stupidità è un evento elementare a cui nessun terremoto può tener testa». E continuava quasi profeticamente: «Le forze interne della stupidità debbono per una volta scaricarsi in una catastrofe che cambierà la fisionomia di questo pianeta» (Terremoto, febbraio 1908).

A proposito di stupidità: Roberto Saviano, il personaggio più luogocomunista e sopravvalutato del Pianeta, ha dichiarato che ciò che lo ha «positivamente colpito» dall’immane tragedia è stata la «disciplina del dolore» dei cittadini giapponesi: invece di darsela a gambe, le lavoratrici dei supermarket cercavano stoicamente di salvare dalla tremenda scossa tellurica le merci esposte negli scaffali. Che scena eroica, degna dei kamikaze degli anni Quaranta! Ben’altro spirito di sacrificio hanno mostrato a suo tempo i napoletani… Si, lo scrittore di successo è proprio quello che si dice un uomo d’ordine. Il fatto che ciò che l’ha «positivamente colpito» è esattamente quello che più mi ha inquietato, per non dire altro, mi conforta davvero molto. Questi grigi personaggi politicamente corretti sono balsamo per la mia autostima.

Intanto non passa giorno senza che la realtà non ci ammonisca del fatto che la vita è un rischio d’impresa. A proposito: dagli economisti nipponici arrivano notizie davvero incoraggianti. Ci voleva, dopo tanto televisivo soffrire. Pare che, proprio grazie alla Catastrofe Perfetta, nel medio periodo le cose si metteranno bene per la terza economia del mondo. Era ora, dopo la lunghissima fase di stagnazione iniziata nella prima metà degli anni Novanta. Signori, c’è poco da moralisticheggiare: come insegna la seconda guerra mondiale, la Catastrofe, «naturale» o «artificiale», è un tocca sana per il profitto agonizzante. Non si tratta di cinismo, ma di saggio del profitto e di composizione organica del capitale. È triste dirlo, ma il cinismo e la cattiveria degli individui non hanno mai avuto un gran peso nella storia. Per questo la «questione sociale» si presenta così complessa e difficile da sbrogliare. Bastasse solo una rivoluzione etico-ecologica-culturale…

Scriveva Jeremy Rifkin in un suo libro ecologicamente corretto scritto qualche anno fa: «La verità è che le leggi che regolano il flusso dell’energia sono ferree e, se infrante, possono far crollare un sistema sociale. Le leggi della termodinamica stabiliscono, in ultima analisi, quali sono i limiti che l’uomo, nel tentativo di dominare l’ambiente, non potrà mai oltrepassare. Le società che tentano di superare i vincoli imposti dal loro stesso regime energetico rischiano la catastrofe» (Economia all’idrogeno, 2002, Mondadori). Ma è possibile che uno Scienziato Sociale del calibro di Rifkin non comprenda che le uniche Ferree Leggi (bronzee alla stregua di quelle naturali che scuotono il Pianeta) che oggi governano la Società-Mondo sono quelle che fanno capo alla prassi economica (organizzare, produrre, vendere, comprare, consumare le merci; il tutto in vista del vitale profitto)? Sì, è possibile, e ciò dimostra che più che di scienza, il pensiero che dice no a questo catastrofico mondo – con o senza nucleare – si nutre di coscienza.