“CONTRO LA BARBARIE DELL’OBBLIGO VACCINALE”

Come un gregge addestrato, gli uomini restano
seduti tranquilli e in infinita pazienza (E. Canetti).

L’infinita pazienza è il cibo dei perdenti.

Oggi Giuliano Ferrara si schiera apertamente «Contro la barbarie dell’obbligo vaccinale». «Trattare le masse come fossero pecore destinate all’immunità di gregge è oltranzismo positivista che rischia di esasperare menti già di per sé confuse. Invece serve pazienza per persuadere le minoranze riottose. Ma come si permettono? L’obbligo politico, comunitario, è una cosa seria. Non c’è bisogno di essere libertari radicali per sapere che la sola idea di un obbligo vaccinale è barbarica. Fa parte di quelle cupe idiozie da cui siamo circondati» (Il Foglio). Con le «minoranze riottose» bisogna usare la carota della persuasione, non il bastone dell’obbligo, dice il giornalista di peso e di spessore. Contro l’«oltranzismo positivista» Ferrara si trova, a mio modesto avviso, dalla parte della ragione – soprattutto di quella “borghese”. Infatti, perché apparecchiare adesso una dura crociata vaccinica, che peraltro odora tanto di guerra ideologica, quando l’obbligo quasi certamente si affermerà col tempo nei fatti, oggettivamente, almeno se la gente vorrà lavorare, studiare, viaggiare, andare al cinema, entrare in un Ospedale e quant’altro. Più che di immunità di gregge, immunità del gregge.

In ogni caso il gregge è pregato di non creare problemi e di attenersi scrupolosamente alle istruzioni che riceverà dai governanti, assistiti come sempre dai preziosi consigli del Comitato Tecnicoscientifico. Il tutto ovviamente in vista del bene comune, il quale deve sempre prevalere sul bene individuale. Non c’è dubbio: in pace come in guerra, viviamo nel migliore dei mondi possibili! Forse…

Sulla questione rimando a un mio post del 14 giugno 2020:
OBBLIGO VACCINALE E ALTRO ANCORA
Leggi anche: Il Virus e la nudità del Dominio

PER IL CAPITALE LA PACCHIA NON FINISCE MAI

Colpa e punizione

«È difficile scrivere di Soumayla Sacko. Martire perché nero, ucciso da un bianco. Martire perché sindacalista, difensore dei miserabili di San Ferdinando, dalle parti di Rosarno e Gioia Tauro. Martire speciale perché abbattuto come un cinghiale a San Calogero, e San Calogero in Agrigento è raffigurato nero, il santo eremita nero. Martire perché ladro di ferraglia punito con la morte. Martire perché non era un ladro e perché la ferraglia era una rimanenza di una cava di ladri che aveva inquinato la terra. Martire, tragicamente simbolico, perché ucciso mentre un ragazzotto lombardo che fa il super poliziotto predicava con brutalità ideologica che con lui al comando la pacchia è finita. Martire perché come il capo Lega di una volta Soumayla lottava contro la mafia, i padroni e i loro sostenitori. Martire perché raccoglieva nel caldo e per 3 euro all’ora pomodori che nessun italiano, padrone a casa sua, raccoglierebbe mai. Prendila dove ti pare, questa storia sa di martirio. È la testimonianza di tempi spietati, in Africa, nel Mezzogiorno d’Italia, in Europa Occidentale e nel mondo. Ci sono luoghi in cui la modernità e il capitalismo come rapporto sociale di produzione regolato dall’interesse organizzato dai padroni dei mezzi di produzione e dai lavoratori, e poi da idee e da leggi regolative per il benessere minimo per tutti, dai contratti, diritti, riposo, sono una chimera, una pacchia che non c’è. La maggioranza di noi, ciascuno nel suo tinello e nel suo salotto, in condizioni di conforto materiale diverso e conformazione di idee diverse, prende per sé la colpa e lascia la punizione a Soumayla. È un fatto religioso. Nietzsche che parlava male di Cristo diceva appunto che Cristo si era preso la punizione e ci ha lasciato la colpa mentre avrebbe dovuto fare l’inverso, se davvero voleva redimerci. È difficile parlare di una vittima assoluta e del male assoluto senza compiacimento, senza sottomettersi alla catena simbolica del bene facile, a buon prezzo: un’ora di pentimento e contrizione a tre euro. […] Soumayla Sacko è stato punito e noi siamo inevitabilmente i colpevoli, anche quando la colpa la attribuiamo, da posizioni populiste di destra o di sinistra, all’establishment e al sistema» (G. Ferrara, Il Foglio).

Un articolo davvero interessante, non c’è dubbio, almeno per chi scrive. Tuttavia, prendila come ti pare, caro Ferrara, ma a me questa storia sa di ordinaria brutalità capitalistica: gli “eccessi”, ovunque si manifestino, illuminano a giorno la reale natura di questa società-mondo, una tesi che un sostenitore del Capitalismo “politicamente corretto” non può certo condividere. Chi muore tutti i giorni nel deserto africano e nel Mediterraneo nel tentativo di conquistare quantomeno la possibilità di una vita meno miserabile, esattamente come accadeva in Europa qualche secolo fa e come continua ad accadere, mutatis mutandis, nelle regioni meridionali di questo Paese, è vittima di una guerra sociale che in forme diverse riguarda tutti, e in tutto il pianeta, il quale è dominato da un solo rapporto sociale, quello capitalistico. Già il solo vivere sotto questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento rappresenta per i proletari di tutto il mondo una punizione sociale, un vero e proprio martirio. Quando finirà la pacchia capitalistica?

E a proposito di colpa e di punizione, devo dire che ai miei occhi le classi subalterne di tutto il mondo oggi hanno la “colpa” di non provare, almeno provare, a porsi come un gigantesco soggetto rivoluzionario, cosa che le espone inevitabilmente a ogni sorta di punizione, compreso il sovranismo e il razzismo. Per mutuare un vecchio slogan, potremmo essere tutto e invece continuiamo a essere niente, e da buoni servi impotenti e incoscienti ci accontentiamo di “scegliere” ogni tot anni i politici che devono amministrarci: che bella “libertà”! E non verrà nessuno a liberarci da colpe e da punizioni, questo è sicuro, è forse la sola certezza che non teme smentita. «L’emancipazione del proletariato deve essere opera dello stesso proletariato», diceva l’uomo con la barba. Il fatto che io comprenda benissimo le cause vicine e remote di questa tragica condizione sociale, di questa “colpa storica” che grida vendetta, ebbene ciò può solo in parte mitigare, ma non eliminare, il senso di frustrazione che personalmente avverto come proletario e anticapitalista.

La via italiana alla competizione capitalistica

Secondo gli ultimi rilevamenti statistici ufficiali, sono 100 mila le persone in «condizione di schiavitù e para schiavitù» in agricoltura. L’80% sono stranieri, il restante 20% italiani. «Ma attenzione», sostiene il sociologo, il problema non sono i migranti, ma un sistema di accoglienza e un mercato del lavoro che sulle sponde settentrionali e orientali del Mediterraneo manifestano grossi limiti. I flussi migratori li mettono solo in evidenza. Il problema è strutturale, non a caso il fenomeno del caporalato non lo troviamo, come si pensa, solo nelle grandi piantagioni del sud, ma anche nelle aziende vinicole d’eccellenza del ricco Piemonte. In un sistema dove domanda e offerta sono così grandi si inseriscono le mafie. Lo fanno in due modi. In alcuni casi reclutano persone direttamente nel Paese di origine e organizzano il trasferimento, in maniera legale o illegale. Altre volte riescono a entrare nei Centri di Accoglienza Straordinaria meno controllati che, così, diventano luoghi di reclutamento. Le mafie non producono il sistema, dovuto a pecche dell’accoglienza e del mercato del lavoro, ma vi si inseriscono, lo sfruttano. Gli ultimi censimenti parlano di 27 mafie coinvolte in questo business». Omizzolo poi ribadisce un concetto che ci fa capire meglio quel è la via italiana alla competizione capitalistica mondiale nel settore agroindustriale (e non solo):  «È sbagliato pensare che questi lavoratori sfruttati finiscano solo a raccogliere pomodori in Puglia e in Sicilia [per 3/5 euro all’ora] o nei campi e nei mercati generali dell’Agro Pontino. Di uomini e donne ridotti in schiavitù se ne trovano anche nelle aziende dell’eccellenza vinicola del ricco Piemonte. Questo dimostra che il fenomeno ha natura sistemica». Infatti, si tratta del sistema capitalistico di produzione, fondato, come tutti sanno benissimo, sullo sfruttamento di uomini e sul saccheggio delle risorse naturali in vista del vitale (per questa escrementizia società, beninteso) profitto. Ancora Omizzolo: «E poi c’è lo sfruttamento della prostituzione, dove a dominare il mercato sono le mafie dell’est e quelle nigeriane. Un mercato, stima l’Istat, che vale 90 milioni di euro al mese, 1,1 miliardi all’anno, alimentato da circa 9 milioni di clienti che hanno a disposizione tra le 75 mila e le 120 mila ragazze sparse per il Paese. Il 55% di queste giovani, in buona parte minorenni, sono straniere, soprattutto nigeriane, che rappresentano il 36% delle non italiane, e romene, 22%. A queste vanno aggiunte le donne sfruttate in più settori.  In alcune aree del Paese, diverse forme di schiavitù si saldano. Prendiamo l’esempio delle romene: spesso lavorano nei campi ma sono costrette anche a mettersi a disposizione del proprio padrone come oggetto sessuale». Di questo ho parlato qualche settimana fa su Facebook (*).

Di Marco Omizzolo vedi: La rivolta dei braccianti sikh, i nuovi schiavi dell’Agro Pontino

Leggi anche: Rosarno e dintorni e Uomini, caporali e cappelli.

 

(*) Pomodoro rosso sangue!

Dal Blog di Iulia Badea Guéritée:
«La fortuna dei coltivatori siciliani riposa in parte sul lavoro forzato di centinaia di donne emigrate dalla Romania e ridotte in schiavitù. La schiavitù esiste ancora. Ed è tanto più terribile in quanto, molto spesso, è accettata». Certo, si è liberi di morire di fame, di prostituirsi, di accettare condizioni di lavoro disumane: viva la libertà di scelta! «“Tutto comincia in Romania”, racconta Dumitrache, presidente dell’Associazione delle donne romene in Italia” (Adri), “a Botosani, in una delle zone più arretrate del paese, da dove le donne hanno cominciato a emigrare nel 2007. L’esodo non si è mai interrotto. Vanno a raccogliere i pomodori in Italia, a Ragusa. E spesso partono senza sapere a cosa vanno incontro. Quello che è più triste è che anche quando qualcuna di loro riesce a scappare da quell’inferno, finisce sempre per tornarci, obbligata in qualche modo dalla spirale dei debiti, dai vicini a cui ha chiesto un prestito, e che la spingono a partire di nuovo per riavere i loro soldi”. Il filo del racconto si dipana, sempre più terrificante, come se fosse tratto dai vecchi romanzi che parlano di schiavi. Lo scandalo non è nuovo, riemerge periodicamente e si gonfia come una bolla di sapone. Ci sono le retate della polizia, le visite delle autorità, e a volte si intravede qualche barlume di speranza.
Gli ingredienti di questa brutta storia proprio davanti alla nostra porta? In Sicilia? Il banale affare della produzione dei pomodori a Ragusa, che con il tempo è diventata la più grande esportatrice di pomodori italiani in Europa, è anche una delle più sordide vicende del nostro continente. All’inizio c’è stata l’adesione della Romania all’Unione europea, nel 2007. E un’ondata massiccia di forza lavoro è arrivata sui mercati d’Italia, Spagna, Francia e Gran Bretagna. Donne partite per lavorare, ma che una volta arrivate a Ragusa vengono obbligate a prestare servizi sessuali ai padroni per poter conservare il proprio posto di lavoro. “La forza lavoro che arrivava dalla Romania era più la accomodante, la più disposta ad accettare compromessi”, spiega Silvia Dumitrache. “Le donne romene sono già tenute in una sorta di stato di schiavitù dai loro uomini, vengono picchiate… Molte di loro se ne vanno dalla Romania proprio per sfuggire a queste violenze. Raccontano che, anche se sono sfruttate, almeno in Italia guadagnano qualche soldo. Poi c’è un altro aspetto: in questo tipo di lavoro, se accettano le richieste di favori sessuali da parte dei padroni, possono tenersi vicini i figli, mentre se dovessero fare le badanti non sarebbe possibile”. Ma il lavoro nei campi, sotto la soffocante sorveglianza dei padroni? E gli anni in cui solo un osservatore attento avrebbe potuto farsi delle domande sul numero abnorme di aborti compiuti all’ospedale di Vittoria?». E la sempre più disumana natura del Capitalismo a ogni latitudine del pianeta?

“STRUTTURE DI PECCATO” E “CAVERNA EGOICA”. E POI DICE CHE UNO FA GLI SCONGIURI!

toto-874121Ha detto il Santissimo Padre in occasione della festa dell’Economia di Comunione (4 febbraio): «Il principale problema etico del capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. […]. Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!». No, compagno Papa, questo è il capitalismo, il quale sa bene come promuovere qualsiasi tipo di merce, compresa quella immateriale chiamata “etica della responsabilità”. Una merce che si vende benissimo, tra l’altro, soprattutto fra le pecorelle smarrite più acculturate del gregge. «Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione». Qui non posso dargli torto! E a questo punto non posso fare a meno di richiamare alla mente le tirate marxiane contro la filantropia borghese, questa cattiva coscienza buona solo a pareggiare i conti nella partita doppia dell’etica e a nascondere, peraltro abbastanza pietosamente, «l’antagonismo delle classi». Una sola citazione: «I filantropi vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile. Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono più borghesi degli altri» (Miseria della filosofia). E, sia detto con il rispetto dovuto al Vicario di nostro Signore, Bergoglio non fa eccezione. Ne fornisco la prova: «È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri, soprattutto con i poveri […]. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone!». Marx avrebbe forse chiosato così: «In ogni tempo i buoni borghesi e gli economisti filantropi si sono compiaciuti di formulare questi voti innocenti» (ivi). L’innocenza e l’ipocrisia sono dunque le due facce della stessa cattiva moneta chiamata Capitalismo?

Pare che sia un’impresa impossibile capire che dove esistono il profitto e il denaro, comunque “concettualizzati”, deve necessariamente esistere una generale condizione di disumanità nella società, semplicemente perché, come ripeto ormai abbastanza stancamente post dopo post, il profitto e il denaro presuppongono e creano sempre di nuovo rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Si dirà che il Papa sarà forse un “comunista”, come credono molti politicamente indigenti, con rispetto parlando, si capisce, ma rimane pur sempre un Papa. Che pretendiamo, un Papa folgorato sulla strada che conduce a Treviri? E che Cristo! Lungi da me queste diaboliche pretese. Ma non mi pare che il resto del mondo la pensi, quanto al profitto e al denaro, diversamente da Francesco. Perfino certi “marxisti” pensano che «un altro capitalismo è possibile», magari cambiandogli semplicemente il nome. Scriveva a questo proposito Karl Korsch nel 1912: «Se si domanda a un socialista che cosa intende per “socialismo” si riceve come risposta, nel caso migliore, una descrizione del capitalismo e l’osservazione che “il socialismo eliminerà il capitalismo”». Dopo un secolo le cose non sembrano di molto cambiate, anche grazie al trionfo, nel secolo scorso, del Capitalismo di Stato in guisa di “Socialismo reale”,  e così il Papa oggi può passare per “comunista” solo perché predica, praticamente tutti i giorni, la seguente sciocchezza: «È l’uomo che deve dominare sul denaro e sul profitto, non il denaro e il profitto sull’uomo». Come faccio a non ridere, a non sparare sulla Croce Rossa?! Se hai il profitto e il denaro hai il dominio del Capitale sull’uomo, necessariamente, non perché il diavolo ci ha messo la coda o altro. Punto! È una questione di Dominio, Santo Padre, non di Demonio. Beninteso, so di predicare al vento, e quindi riprendo il ragionamento “anticapitalista” del Papa più amato dai progressisti.

Non si tratta, Egli dice, solo di «curare le vittime», ma soprattutto di «costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più». Dobbiamo dunque affidare le sorti dell’umanità a un miracolo? Nient’affatto! È sufficiente «cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale», perché «imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. […] Quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato alla sua azione [ma] occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime». Il Papa ritorna spesso sulle «strutture di peccato», che forse è un modo cristianamente corretto di alludere ai rapporti sociali capitalistici, chissà. O forse, più semplicemente e “classicamente”, si evoca la presenza del Demonio su questa Terra. In ogni caso il “peccato originale” oggi si chiama Capitale, una potenza sociale tanto astratta quanto tremendamente concreta. Sempre a mio modestissimo avviso non bisogna «cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale», impresa che peraltro negli ultimi due secoli non ha avuto un gran successo, ma iniziare un altro gioco, un gioco che veda protagonisti solo uomini, e non classi sociali. Altro che (chimerica) comunione dei profitti! «Cambiare le regole del gioco»: così si esprimono le persone che rimangono alla superficie dei problemi, che non riescono a cogliere la realtà dei rapporti sociali che informano la nostra intera esistenza, nell’intero pianeta. «Cambiare le regole del gioco»: è un modo politicamente ingenuo e infantile di esprimersi – e di pensare.

Luca Kocci sul Manifesto commentava così il discorso del Papa qui citato: «Il Pontefice propone un riformismo radicale in un’ottica interna al sistema capitalistico». Perché, quelli del Manifesto propongono un’ottica diversa? Ma siamo seri! Anche il Manifesto si muove nell’ottica di «cambiare le regole del gioco».

A proposito di “comunisti”! Scrive Rossana Rossanda nella sua lettera al Congresso di Sinistra Italiana: «Di fatto, mi sembra che non si sia andati oltre al dilemma reale del Novecento: fra garanzia dei diritti civili e nessuna garanzia dei diritti sociali, oppure, all’opposto, garanzia dei diritti sociali e nessuna garanzia dei diritti di libertà». Qui la cosiddetta “signora del comunismo” ripropone la rancida, quanto infondata, distinzione tra «Capitalismo reale» e «Socialismo reale». Come se, “ai bei tempi”, i «socialismi reali» avessero garantito alle classi subalterne i «diritti sociali», sebbene a discapito dei «diritti di libertà»! Come se «la garanzia dei diritti di libertà», a sua volta, non fosse stata – e non sia – altro che, al contempo, una mistificazione ideologica e una prassi politica intese a rafforzare quel dominio sociale capitalistico che nega in radice la stessa possibilità di un’autentica libertà, inconcepibile in una società fondata sulla divisione classista degli individui. Lo stesso concetto di «diritto di libertà» contiene in sé la contraddizione che ne rivela il contenuto di classe, perché dove c’è il diritto, ossia la legge del Leviatano, la «libertà» è assimilabile all’ora d’aria concessa al detenuto. Ci si può accontentare, si può dire che ci può essere anche di peggio su questa Terra (vedi la Corea del Nord, ad esempio), e questo non lo nego affatto; ma si tratta pur sempre di un realismo che ci conferma nella schiavitù nei confronti dei rapporti sociali capitalistici. Anche nei lager nazisti o nei gulag stalinisti vigeva il relativismo delle condizioni, come hanno raccontato magistralmente Primo Levi e Aleksandr Solženicyn. La differenza tra quelle eccezionali condizioni e la normalità della prassi sociale è puramente quantitativa, non qualitativa: l’eccezione rivela piuttosto l’autentica natura della regola, e in questo preciso significato la conferma. Il peggio non conosce limiti, ed è su questa pessima verità che da sempre ha potuto contare il Dominio, che può sempre minacciare contro chi si lamenta un ulteriore giro di vite. Così è stato nei «capitalismi reali» e così è stato nei «socialismi reali», che poi altro non furono (e non sono: vedi la Cina) che dei reali capitalismi – più o meno “di Stato”.

La Rossanda conclude così la sua lettera: «I socialismi reali e i partiti comunisti si sono dissolti senza neppure affrontare le domande che avevano lasciate irrisolte». Questi sono problemi che lascio volentieri a chi in passato ha dato credito ai «socialismi reali» e ai «partiti comunisti», che personalmente ho sempre considerato capitoli particolarmente ignobili del Libro nero del Capitalismo mondiale.  «Quando ieri al congresso di Sinistra Italiana un giovane compagno ha terminato di leggere questo messaggio inviato da Rossana Rossanda tutti si sono alzati in piedi e hanno intonato l’Internazionale, il pugno alzato nel saluto comunista» (Il Manifesto). Dalla tragedia (lo stalinismo internazionale) alla farsa (i sinistri italioti).

Nel suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 settembre 2016, Barack Obama ha consegnato al mondo la perla di saggezza che segue: «In n mondo in cui l’1% dell’umanità controlla una ricchezza pari al 99%, non c’è uguaglianza». Caspita, non ci avevo mai pensato. Che grande verità ho appreso dalla bocca dell’ex leader massimo della prima potenza capitalistica del pianeta! Poi subito dopo Barack ha detto che «dopo la fine della guerra fredda possiamo dire che il mondo è più prospero che mai». Diciamo allora che io e il mondo marciamo su due strade parallele, diciamo…

L’altro ieri ho letto l’articolo di Giuliano Ferrara (Il Foglio) dedicato al «partito della Sconfitta Inc.», e mi sono confermato nell’idea che egli sia, fra gli intellettuali ultrareazionari di “destra” e di “sinistra”, quello di gran lunga più intelligente – semplicemente perché di solito non è ossessionato  dalla premura di mettere la sordina al cinismo insito nelle cose stesse, e non, in primo luogo, nelle parole chiamate a raccontarle. In ogni caso, lo cito: «Certo le destre arrembanti che attaccano globalizzazione e liberismo economico, sviluppo tecnologico e creazione di valore nei mercati aperti, hanno vinto la lotteria nel Michigan, devastano il linguaggio politico senza aggettivi, né corretto né scorretto, e pesano minacciose sulle elezioni francesi per scardinare Europa e diritti di libertà per ariani ed ebrei (l’Inghilterra in Brexit è un’altra cosa, è eccentrica, è un’isola). Certo la classe media dei paesi affluenti d’occidente è piena di problemi, è insofferente, si becca in pieno l’impazzimento del sistema della comunicazione fake-oriented, e le ondate di malessere vero si introducono dentro la sinistra, le sinistre, con una discreta violenza che a volte fa paura. Questo è ovvio, è il problema per tutti tranne che per i demagoghi e i loro servizievoli portavoce di tutte le risme.  […] La classe media disagiata perché ricca e welfarizzata soffre, d’accordo, in questa parte di mondo aperta all’uscita di miliardi di esseri umani dalla povertà e alla concorrenza di classi miserabili che tentano di essere meno miserabili, e in molti si domandano che fine farà il lavoro nell’epoca della robotizzazione, e magari qualche bru bru gli dice che si possono elevare muri contro la ricerca alleata della cattiva finanza come si progettano muri impossibili contro i messicani. D’accordo. Posto così, il problema è definito, ma già meglio del nuovo schema postmarxiano della proletarizzazione universale (cazzate anni Duemila che vengono direttamente dagli scarti degli economisti maoisti anni Sessanta del Novecento, tipo Baran e Sweezy). Domandina: c’è qualcuno che spiega loro che non è colpa di Reagan, della Thatcher, di Blair, di Clinton, di Lawrence Summers e magari di Google, Amazon, Merkel, Renzi e Macron? C’è? Non c’è». A questo punto mi faccio coraggio e timidamente domando: e allora, di chi è “la colpa”?, a chi dobbiamo attribuire il marasma sociale-esistenziale dei nostri pessimi e globalizzati tempi? La risposta l’ho già data prima e quindi vado avanti.

Ieri su Repubblica Massimo Cacciari evocava il grande spirito illuminista e riformista di Giordano Bruno, un grande filosofo che lottò contro «la decadenza d’Europa, contro il suo declino politico e morale»: «La guerra che ci separa fino a negarci non è soltanto un regresso allo stato dell’uomo lupo all’uomo, non è soltanto pazzia, di cui si è detto, ma pretenderebbe negare il supremo, ontologico vincolo di amore che regge l’universo nell’infinità dei suoi mondi. Ogni muraglia che qui si voglia innalzare pretende di ribellarsi all’eterno creare della Natura stessa, di cui la libertà della mente è esplicazione e immagine. L’Europa che si sprofonda nella sua caverna egoica, che sta portando a esiti estremi quel declino morale e politico, già tragicamente illuminato il 17 febbraio del 1600 dal rogo di Campo dei Fiori, questa Europa di mura, fittizie carceri e impotenti potenze, sarà eruttata via dalla potenza della stessa Natura, se si ostinerà a non ascoltare la voce dei suoi grandi, lo spietato realismo delle loro profezie, le loro dolorose verità. Memoria attiva, immaginativa, memoria di forze che possono essere genesi del nostro futuro. Memoria che questa Europa sembra impegnata solo a dimenticare». Solo ai grandi filosofi come Cacciari è concesso di sorvolare, senza temere una nota di demerito (diciamo), su una pinzillacchera, su una quisquilia che provo a riassumere così: «questa Europa» è l’Europa dominata dagli interessi capitalistici, è l’Europa delle nazioni che in passato hanno cercato di realizzare una massa critica (chiamata Unione Europea) per poter recitare un ruolo da protagonisti nella contesa interimperialistica, è l’Europa che non ha affatto (anzi!) risolto la rognosissima Questione Tedesca (la quale spiega anche i tentativi di Francia e Inghilterra di tenere a bada, con esiti altalenanti, la potenza oggettiva della Germania), è l’Europa alle prese con le contraddizioni sociali interne e internazionali generate dalla famosa – ma di non facile comprensione per certi filosofi – globalizzazione capitalistica. Oggi (vedi Il dubbio) Cacciari prega il Dio della Ragione perché il Partito Democratico non vada in frantumi consegnando il Paese ai grillini o “alle destre”. «E chi se ne frega!». È l’animaccia di Giordano Bruno che ha parlato, sia chiaro.

Leggiamo, per concludere degnamente, il piagnisteo di un altro uomo di buona volontà (Sergio Segio): «Le maggiori 200 multinazionali non finanziarie a livello mondiale impiegano 27.855.641 dipendenti e hanno avuto nel 2015 profitti per 18.811 miliardi di dollari, un valore superiore all’intero PIL degli Stati Uniti (18.700 miliardi). Se non si erode e ridimensiona fortemente questo potere e quello della finanza, causa prima delle enormi diseguaglianze sociali, delle crescenti povertà, delle devastazioni ambientali, del sistema della guerra e del neocolonialismo, di un modello di sviluppo centrato unicamente sul profitto, semplicemente e terribilmente non ci sarà futuro». E allora siamo davvero fottuti! Infatti, erodere e ridimensionare «fortemente» il potere sociale del Capitale è un’impresa forse ancora più titanica che volerlo annientare senz’altro, una volta per sempre. In ogni caso io mi tengo la mia utopia e lascio volentieri ai riformatori sociali che sprizzano “realismo” da ogni poro la loro mostruosa chimera. «Un vecchio proverbio boemo dice: “Il pessimista è un ottimista che si è informato”». Mi sa tanto che il proverbio citato dall’Elefantino nell’articolo sopramenzionato non dica poi il falso. Anzi!

BREXIT, THE DAY AFTER. Il punto sulla guerra in Europa.

soqueen102Il brusco sommovimento politico che si è prodotto al centro dell’Unione Europea dopo l’esito pro-Brexit del referendum del 23 giugno non è che l’ultimo atto di una crisi sistemica che ormai si trascina da anni, e che si è andata approfondendo via via che il processo di globalizzazione capitalistica e la crisi economica internazionale deflagrata circa otto anni fa hanno reso evidenti tutti i limiti, tutte le contraddizioni e tutte le ambiguità interne al progetto “europeista” fin dalle sue origini. Quando, nel gennaio del 1973, la Gran Bretagna entrò a far parte, insieme alla Danimarca e all’Irlanda, della Comunità Europea essa mostrava tutti i segni della vecchia Potenza declinante ormai da almeno sette decenni, non potendo più nascondere dietro un orgoglioso retaggio storico gli acciacchi e le ferite di un Paese alle prese con gravi problemi economici e sociali – gli stessi che da lì a poco avrebbero generato la cosiddetta «controrivoluzione thatcheriana», un tentativo abbastanza riuscito di ristrutturazione/modernizzazione del Capitalismo d’Oltremanica. Già alla fine della Seconda guerra mondiale a Winston Churchill apparve chiaro come solo nel contesto di un’Europa in qualche modo unificata il Regno Unito avrebbe potuto recitare ancora un ruolo di respiro internazionale, comunque tale da consentirgli di non subire in modo schiacciante la leadership degli Stati Uniti, la Potenza di gran lunga più forte sul versante occidentale, la sola che insieme all’altro imperialismo pro tempore alleato, quello Russo, poteva davvero dichiararsi vincitrice – non solo ai danni del Giappone, della Germania e dell’Italia, ma anche ai danni della Francia e della stessa Gran Bretagna, nazioni ormai surclassate in quanto centri imperialistici di rango mondiale. Churchill fu allora il solo statista europeo a evocare gli «Stati Uniti d’Europa» come la sola via da imboccare per portare le nazioni europee fuori dalla tradizionale e sanguinosa competizione nazionalistica.

Fin da subito però la prospettiva “europeista” dello statista inglese venne a scontrarsi non solo con gli interessi delle fazioni borghesi del suo Paese legate finanziariamente agli Stati Uniti, ma anche con la posizione protezionista e statalista che faceva capo soprattutto al Partito Laburista e ai sindacati, i quali temevano la situazione che si sarebbe creata in Gran Bretagna in seguito a una sua maggiore integrazione nel progetto europeo messo in campo dalla Francia e dalla Germania. A partire dagli anni Sessanta Londra guardò con crescente preoccupazione la rapida ascesa economica della Germania pur dimezzata (la RFT), la cui forza sistemica l’aveva ben presto posta nuovamente al centro del processo di unificazione europea, cosa che, come scriveva il generale Carlo Jean, «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (Manuale di geopolitica). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere, secondo Jean, il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca e nella dissoluzione dell’Unione Sovietica, eventi che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibili, quantomeno a breve/medio termine, e certamente non auspicabili.

Come ho scritto altre volte, il cosiddetto “sogno europeo” nasce sulle ceneri di un’Europa distrutta da cinque anni di guerra totale, in parte come tentativo degli Stati Uniti di rafforzare le proprie posizioni imperialistiche nel Vecchio Continente, soprattutto in funzione antisovietica; e in parte come tentativo posto in essere dalle nazioni del Vecchio Continente inserite nella “sfera di influenza” americana avente come obiettivo la creazione di un polo economico-politico in grado di smarcarsi dagli interessi americani che non si armonizzavano con i loro, e nelle condizioni di competere con i maggiori agglomerati capitalistici del pianeta. Massimo Fini esprime bene questa esigenza: «Io direi che [la Brexit] sarà un vantaggio per l’Europa. Ammettiamolo: l’Inghilterra non è mai stata europea, semmai è sempre stata legata a doppio filo agli Stati Uniti, che sono un alleato torbido che ci ha trascinato nelle situazioni peggiori. Gli inglesi, nel disegno dell’Europa unita, erano un corpo estraneo. Ce ne siamo sbarazzati. Noi e la Francia saremo quelli che dalla Brexit trarremmo vantaggi più degli altri. Soprattutto economicamente. Adenauer e gli altri avevano perfino pensato ad un esercito europeo, ma Washington bloccò tutto. Eppure, oggi, per evitare di essere stritolata da Cina, India, America, l’Europa occorre che sia unita. Il problema vero non è l’Europa, sono le istituzioni europee» (Libero Quotidiano). «Il problema vero non è l’Europa, sono le istituzioni europee» (variante: «il problema non è l’Europa ma questa Europa»): è il mantra oggi più ripetuto a “destra” come a “sinistra”. Vediamo come declina il concetto Yanis Varoufakis, l’ex eroe della “sinistra radicale” europea: «Il ceto medio e la classe lavoratrice sono andati a votare contro l’ormai ex premier Cameron perché sono i più danneggiati dal progressivo taglio dello stato sociale e dall’aumento delle tasse, in linea con i diktat di Bruxelles. Non hanno rigettato l’Europa ma le modalità dell’eurocrazia. Se le cose non cambiano, vedremo il trionfo dei nazionalismi. Per questo un populista come Donald Trump festeggia» (Il Fatto Quotidiano). Traduco in termini “volgari”: i maltrattati dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica non hanno rigettato il Capitalismo tout court (e questo lo avevo capito anch’io) ma una sua variante particolarmente brutta, sporca e cattiva, il cui successo è da ricercarsi in un establishment europeo asservito agli interessi del liberismo selvaggio e della Germania. «In questi mesi», continua l’infaticabile Yanis, «sono stato spesso nel Regno Unito a fare campagna a favore del Remain nelle zone più disagiate e ho faticato molto a convincere gli abitanti che non bisogna distruggere ma cambiare l’Europa perché uniti si è più forti e si pesa di più. [Occorre] fortificare l’Europa, facendola diventare una federazione e indebolendo l’establishment». Si tratta della necessità dell’imperialismo unitario europeo declinata, per così dire, da “sinistra”. Ritorniamo adesso a “destra” dello schieramento borghese.

L’antiamericano Fini non crede, e ciò può forse sorprendere chi conosce l’impianto passatista delle sue idee, che la chiusura nazionalista/sovranista sia la risposta adeguata alla globalizzazione: «Magari. In linea teorica e anche storica sarei d’accordo. Ma in questo momento storico [la chiusura nazionalista/sovranista è] un’utopia. Da soli verremmo schiacciati, lo ripeto. Oggi dobbiamo comunque fare un pacchetto di mischia». La metafora rugbista rende particolarmente bene l’idea. D’altra parte, non bisogna avere necessariamente un’intelligenza superiore alla media per capire la natura dello scontro interimperialistico in atto ai nostri tempi. Eppure, non sono pochi gli intellettuali, di “destra” e di “sinistra”, che credono nella possibilità del Capitalismo in un solo Paese – meglio se «di Stato», magari spacciato ai gonzi come «Socialismo del XXI secolo». Misteri della fede! Forse conviene chiedere lumi a Giuliano Ferrara, uno fra i più lucidi e intelligenti apologeti del «Capitalismo reale»: «Brexit vuol dire votare contro l’insicurezza del capitalismo mondializzato. Malgrado la cura liberista degli anni Ottanta benedetti, che ha ridotto la povertà nel mondo ma ha squilibrato la distribuzione della ricchezza e della mobilità sociale mettendo sotto pressione la classe media d’occidente, viviamo in questa parte del globo in un protettivo mezzo benessere diffuso che la sregolatezza programmata del capitalismo di mercato minaccia fin dentro la vita quotidiana di grandi masse, grandi numeri di forte impatto elettorale. […] Ma i cinesi, gli indiani, gli africani, i russi per la loro parte (ambigua e ancipite come sempre), insieme con i giovanotti e le giovanotte nati alla fine del secolo scorso, sono tuttora un partito del capitalismo o dei suoi spiriti animali difficile da sventrare, da far rientrare nei ranghi con una bella reazione occidentalistica, cioè neonazionalistica, regionalistica, piccole patrie. Bè, staremo a vedere. Comunque il caso della Brexit sta nella storia accidentata del capitalismo dopo la fine della storia, sta lì, non altrove» (Il Foglio). Non è che rimettere dentro il tubetto il dentifricio versato accidentalmente appare un’impresa titanica, se non impossibile: si tratta piuttosto della naturale dimensione planetaria del Capitalismo, le cui potenti linee di forza ridisegnano continuamente il profilo del mondo, e ciò accade sulla macro-scala come sulla micro-scala, riguarda le nazioni come le più piccole aree regionali*, le classi sociali come i singoli individui, le strutture economiche come le infrastrutture politico-istituzionali. Sotto il Capitalismo la società mondiale è terremotata in modo permanente, ed è ovvio che gli effetti più macroscopici di questa precaria condizione si registrano là dove momentaneamente si accumulano le maggiori contraddizioni – economiche, sociali, demografiche, etniche, culturali, politiche, ecc. Per questo leggere la Brexit nei termini di un anacronistico ritorno indietro è, a mio avviso, sbagliato e forviante, perché non si coglie la natura del magma sociale che si è contingentemente manifestato appunto come «voto contro l’insicurezza del capitalismo mondializzato». Ricordo a me stesso che la chiusura protezionistica degli anni Trenta precipitò il mondo nell’abisso del massacro indiscriminato scientificamente organizzato ed eseguito, certo, ma lo aprì anche a una nuova e più accelerata espansione dei rapporti sociali capitalistici – vedi alla voce “globalizzazione”. Quanto al «capitalismo dopo la fine della storia» di cui parla Ferrara, si tratta di una vecchia polemica interna all’intellighenzia occidentale, una disputa tra i detrattori e i sostenitori («al netto di tutti gli errori e di tutti gli orrori») del cosiddetto «Socialismo reale»**. Mi scuso per le divagazioni e riprendo il filo del discorso. Quantomeno ci provo.

Non bisogna dimenticare un nodo centrale dell’intricata matassa: la mai sopita Questione Tedesca. Scrive ad esempio Manlio Graziano: «L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea costringe la Francia a cercare nuovi antidoti per bilanciare l’egemonia riluttante della Germania: il nazionalismo e gli Usa» (Limes). È ritornata la Questione Tedesca, scrive Graziano; per come la vedo io, quella vecchia Questione non ha mai lasciato la scena della storia europea e mondiale.

Come limitare, controllare da vicino e, all’occorrenza, sfruttare la “naturale” potenza sistemica tedesca? La politica estera europea degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna in larga parte si spiega alla luce del dilemma Tedesco, e la cosa è apparsa evidente ai tempi dell’Ostpolitik***, della politica tedesca di penetrazione economica (commerciale e finanziaria) nell’Europa Orientale spalleggiata dall’Unione Sovietica e vista come il fumo negli occhi appunto da Washington, Londra e Parigi.

Alla fine degli anni Ottanta l’ex Cancelliere tedesco Helmut Schmidt dichiarò che «l’unico vero leader [europeo] è Margaret Thatcher», per aggiungere subito dopo: «Ma lei ha scarso interesse per l’Europa». Era il tempo in cui la Germania e la Francia spingevano, sulla base di interessi nazionali non sempre convergenti, verso una maggiore integrazione del mercato unico europeo e promuovevano con rinnovato vigore il progetto di una Banca Centrale Europea (centrata, quantomeno agli inizi, sulla Bundesbank) e di una moneta unica (egemonizzata dal forte e austero “spirito” del marco tedesco). La Francia cercò di moderare quanto e come le fu possibile quel processo che in larga misura essa subiva; il Paese d’Oltralpe si sforzò di marciare accanto alla locomotiva tedesca per frenarne il naturale espansionismo nel cuore stesso del Vecchio continente e per accreditarsi, in concorrenza con il Regno Unito, come centro politico-militare di prima grandezza nell’Unione Europea in formazione. Alla Germania la condizione di gigante economico e di nano politico-militare andava benissimo, tanto più alla luce della recente Unificazione, ottenuta senza l’impiego di un solo Panzer, di un solo cacciabombardiere, di un solo soldato. Nasce così il mito della «Potenza riluttante», del Paese politicamente egemone suo malgrado, controvoglia. Alla vigilia della Riunificazione Helmut Kohl disse che bisognava creare subito una forte Unione Europea affinché non prendesse corpo lo spettro di un’Europa a egemonia tedesca; la dichiarazione non rasserenò certo gli “alleati”, e soprattutto a Londra e a Washington le parole del Cancelliere tedesco forse suonarono evocative in modo davvero inquietante, se non addirittura minacciose.

La Gran Bretagna ha sempre cercato di giocare al meglio tanto la carta della sua “relazione speciale” con gli Stati Uniti, quanto quella che le deriva dalla sua collocazione geopolitica immediata, cioè dall’essere – checché ne pensi Jean-Claude Juncker! – un Paese europeo, e non raramente essa si è servita della carta europea per colpire gli interessi politici e finanziari americani tutte le volte che questi interessi sono entrati in rotta di collisione con i suoi. Ma a differenza di Parigi e di Roma, Londra non ha mai civettato con il cosiddetto “sogno europeo”, e non ha mai smesso di attaccare gli ideologi del superamento dello Stato nazionale foraggiati da Bruxelles, ed è per questo che nel fatidico 1989 Jacques Delors arrivò ad accusare la Lady di Ferro di voler ingannare i sudditi di Sua Maestà «sull’importanza reale dello Stato-nazione oggi», non mancando di aggiungere la seguente velenosa, ma non del tutto infondata, annotazione: «Lo sciovinismo può essere un bel paravento per nascondere venti anni di declino». Detto en passant, quanto a sciovinismo e a declino la Francia, almeno negli ultimi tre decenni, non ha avuto rivali.

Come si vede, mutatis mutandis i Paesi europei si trovano oggi alle prese con i problemi di sempre (tipo: è possibile europeizzare la Germania? è possibile usare la sua forza economica per creare un forte polo imperialistico europeo?), aggravati naturalmente da quanto è successo negli ultimi vent’anni nel mondo, a cominciare dalla tumultuosa ascesa capitalistica della Cina e dal nuovo dinamismo politico-ideologico-militare della Russia di Putin.

Scrive Slavoj Žižek commentando a caldo l’esito, per lui infausto, del referendum britannico: «Il referendum sulla Brexit è la prova definitiva che l’ideologia (nel buon vecchio senso marxista di “falsa coscienza”) è viva e vegeta nelle nostre società» (Newsweek). Non c’è dubbio. Peccato che l’intellettuale sloveno veda l’ideologia che alberga nelle posizioni politiche dei suoi avversari (i sostenitori della Brexit e i sovranisti-nazionalisti attivi in tutta l’Europa per distruggere la Comunità Europea), mentre non ha la minima contezza dell’ideologia che informa la sua posizione europeista, reazionaria almeno quanto lo è quella che egli avversa. Un solo esempio: «Guardate gli strani compagni di letto che si sono trovati insieme nel campo Brexit: destra “patriota”, nazionalisti, populisti che alimentano la paura degli immigrati, mescolati con la classe operaia arrabbiata e disperata. Una tale miscela di razzismo patriottico e di rabbia non è il terreno ideale per una nuova forma di fascismo?». Concordo. Ma i «compagni di letto» che si sono trovati insieme nel campo opposto, il campo europeista e “internazionalista” (sic!), dovrebbero forse ispirare una maggiore simpatia presso chi si batte per l’emancipazione dell’umanità dalla dittatura capitalistica mondiale? A quanto pare per Žižek la risposta non può che essere un grande . E a questo punto, diventato evangelico per dispetto, sentenzio: Chi non ha peccati ideologici che pesano come macigni sulla propria coscienza, scagli la prima pietra! Ma anche: Perché guardi la pagliuzza ideologica nell’occhio del vicino, mentre non badi alla trave che dimora nel tuo occhio?

«La Brexit potrebbe infondere nuova vita alla sinistra politica?», si chiede lo sloveno, per rispondere abbastanza sconsolato che «la sinistra esistente è ben nota per la sua capacità mozzafiato di non perdere l’occasione di perdere l’occasione». Come ben sanno i miei lettori, io non ho nulla a che fare con «la sinistra esistente», né ho mai avuto qualcosa da spartire con «la sinistra» che l’ha preceduta, quella per intenderci che nel fatidico 1989 rimase sotto le macerie del noto Muro – e che non poté schivare gli schizzi di sangue provenienti da Piazza Tienanmen. Quello che esibisco forse non è un titolo di merito, ma è certamente un fatto, forse significativo solo per chi scrive. Pazienza! Questo semplicemente per dire che non mi sento nemmeno sfiorato dall’ironia di Žižek. Ma «occasione», poi, per fare cosa? Forse per superare i vigenti rapporti sociali capitalistici attraverso una rivoluzione e in vista della Comunità umana mondiale? Non sia mai detto! Questa è minestra riscaldata forse buona per utopisti appiccicati come patelle allo scoglio delle vecchie “ideologie novecentesche”. Ci vuole ben’altro! E allora? Allora leggiamo i consigli autenticamente “rivoluzionari” dello sloveno: «Ricordiamo il vecchio motto di Mao Ze Dong: “Tutto sotto il cielo è nel caos più totale; la situazione è eccellente”. Una crisi è da prendere sul serio, senza illusioni, ma anche come possibilità da sfruttare appieno. Anche se le crisi sono dolorose e pericolose, sono il terreno su cui le battaglie devono essere combattute e vinte. Vi è la necessità di un nuovo progetto pan-europeo che affronti le vere sfide con cui l’umanità deve oggi confrontarsi». «Un nuovo progetto pan-europeo»: si tratta forse di una Comunità Europea “dal volto umano”, o quantomeno – e più realisticamente? – in grado «di combattere “accordi” commerciali e di investimento come il TTIP, che presentano una vera e propria minaccia per la sovranità popolare, e in grado di affrontare catastrofi ecologiche e gli squilibri economici che allevano nuove povertà e le migrazioni»? Decisamente la prospettiva “mozzafiato” delineata da Žižek mi attrae poco, diciamo; egli non vuole ignorare «il disperato bisogno di cambiamento che il voto [sulla Brexit] ha reso palpabile», e denuncia «la confusione che sta alla base del referendum e che non si limita all’Europa», essendo «parte di un processo molto più ampio della crisi della “fabbrica del consenso democratico” nelle nostre società»; denuncia «il crescente divario tra istituzioni politiche e la rabbia popolare, la rabbia che ha dato alla luce Trump nonché Sanders negli Stati Uniti». Žižek, come Varoufakis, ci avverte insomma che la casa occidentale sta andando a pezzi e che occorre inventarsi qualcosa per salvarla: auguri! Diciamo…

soqueenLeggi anche: BREXIT OR NOT BREXIT? MA È POI QUESTO IL PROBLEMA?

* Non a caso il Professor Miglio, cosiddetto teorico della Lega, teorizzò agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso le Macroregioni europee, assemblate secondo affinità economico-sociali (omogeneità sistemica), senza alcun riguardo per i vecchi e ormai obsoleti confini statuali/nazionali. La stessa Unione Europea, considerata da una prospettiva mondiale, appare come una macroregione.

** A proposito di «fine della storia», ecco cosa scrive Ottone Ovidi, sostenitore del recupero della riflessione storica come momento essenziale della lotta di classe: «Venuta meno l’esperienza dell’Unione Sovietica, che al di là del giudizio storico o politico che la può accompagnare rappresentava per milioni di persone nel mondo la possibilità stessa di una società diversa [gran bella diversità, non c’è che dire…], la società contemporanea sembra galleggiare in un eterno presente, un eterno da “fine della storia”, dove l’umanità avrebbe trovato finalmente la quadra per vivere e prosperare. La storia è una componente essenziale della creatività storica ed ideologica. […] Se privassimo la storia del suo contenuto ideologico, segnico, non rimarrebbe assolutamente niente» (Sinistrainrete). Inutile dire al lettore che conosce come la penso circa l’esperienza dell’Unione Sovietica quanto il «contenuto ideologico, segnico» di cui parla Ovidi mi sia oltremodo disgustoso. Alla memoria storica di Ovidi preferisco di gran lunga un sereno oblio, magari cullato dal dolce vino di Treviri.

*** È appena il caso di ricordare che la Ostpolitik, la politica di “apertura” verso l’Est, fu varata dal socialdemocratico Willy Brandt, ex borgomastro di Berlino diventato Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca nel 1969. Con l’Ostpolitik la penetrazione mercantile e finanziaria della Germania Ovest assume una più adeguata fisionomia politico-ideologica e una maggiore efficacia. Il Partito liberale tedesco, espressione di non pochi importanti gruppi industriali e finanziari molto interessati ai mercati “socialisti” e alle materie prime dell’Est, fu forse il più tenace assertore della nuova politica estera “distensiva”, la quale accelerò quel processo di attrazione sistemica lungo l’asse Bonn-Berlino che culminerà vent’anni dopo nella Riunificazione. Stati Uniti, Francia e Inghilterra dovettero fare buon viso a cattivo gioco dinanzi a una strategia che di fatto essi osteggiarono, per evidenti motivi concorrenziali, nei limiti delle loro possibilità. Per la già boccheggiante Unione Sovietica, militarmente forte ma economicamente già assai debole (in un modo allora non ancora sospettato dai più), l’Ostpolitik rappresentò invece una boccata d’ossigeno, probabilmente l’ultima prima del lungo rantolo finale. Insomma, con l’Ostpolitik ci troviamo dinanzi a una formula di straordinario successo dell’imperialismo tedesco.

 

APPUNTI DALL’INFERNO

sarinDopo l’ennesima «strage di innocenti» perpetrata a Pasqua dai talebani nel nome del noto Dio Misericordioso, Giuliano Ferrara ha sbottato contro il Santo Padre della cristianità, reo di aver definito «insensata» quella carneficina. L’insensatezza attribuita dal Papa Progressista all’eccidio di Pasqua in Pakistan è la sola cosa che suona insensata alle capaci orecchie del giornalista di sicuro spessore e di eccezionale peso. E non a torto, a mio più che modesto avviso. Scrive Ferrara: «Se le dichiarazioni rivolte da Francesco diventano una regola di prudenza legata allo spirito inter-religioso del dialogo allora vuol dire che non si vuole ammettere che la persecuzione dei cristiani nel mondo è opera del risveglio del fondamentalismo» (Il Foglio). Diventa così chiaro che è a partire da una ben diversa prospettiva che chi scrive giudica l’attacco terroristico a Lahore perfettamente sensato, ossia inscritto in una logica comprensibile perché organica alla dimensione del Dominio che sperimentiamo a qualsiasi latitudine di questo pessimo (disumano) mondo. Provo a spiegarlo con il breve scritto che segue.

1. «Quel giovane di origine magrebina prima era una persona normale: lavorava, beveva, fumava, aveva una ragazza, insomma conduceva una vita in tutto simile alla nostra. Poi, improvvisamente, si è radicalizzato». Dalla normalità assicurata dal nostro invidiabile stile di vita (che dovremmo difendere a ogni costo per non darla vinta al nemico: prego, si accomodi!), alla malattia chiamata radicalizzazione. «Quel tizio si è radicalizzato in carcere». «Quando e come si è radicalizzato il vostro vicino di casa?».  «Mia figlia si è radicalizzata dopo un viaggio in Siria. Prima era normale».

Insomma, tutto questo parlare di radicalizzazione, di persone che improvvisamente si “radicalizzano”, mi ha  fatto tornare in mente le storie raccontate dai film e dai romanzi rubricati nel genere horror. Intere comunità o singoli individui vengono sconvolti da una misteriosa malattia in grado di trasformare il più buono dei genitori in uno spietato mostro assetato di sangue umano e affamato di carne umana. Lo stesso discorso vale per figli, bambini compresi. Anzi, i bambini precipitati nell’abisso della radicalizzazione sono i mostri peggiori, perché trovano un particolare piacere nel terrorizzare il prossimo. Il giorno prima la normalità (apparente, perché la Cosa già da tempo travagliava subdolamente il corpo del disgraziato), il giorno dopo la caduta nell’orrore della malattia. Perché degli onesti cittadini si sono improvvisamente “radicalizzati”? Esiste un vaccino contro la “radicalizzazione”? Alla fine, del tutto casualmente, l’antidoto si trova; ma non tutte le storie finiscono in gloria. Personalmente preferisco l’esito nefasto, forse perché subisco il fascino nichilista della catastrofe. In qualche film horror, particolari occhiali consentono ai superstiti “sani” di vedere il mostro che si cela sotto i vestiti e sotto la pelle di persone apparentemente normali. Se si vendessero oggi, quegli occhiali andrebbero certamente a ruba: «Io non prendo mai la metropolitana senza i miei occhiali!» «Io, invece, li porto sempre quando vado in pizzeria». Ai “buoni” piace vincere facile.

«Degli uomini dissimulati tra la folla, con la punta degli ombrelli appositamente affilata, perforano delle sacche di plastica piene di uno strano liquido» (H. Murakami, Underground, Einaudi, 2011). E purtroppo gli occhiali di cui sopra non sono stati ancora inventati…

2. Soprattutto due concetti ho cercato di mettere al centro della mia riflessione intorno agli eventi bellici in corso su scala planetaria: l’estrema violenza sistemica del vigente regime sociale mondiale e l’estrema impotenza dei dominati. Inutile dire che questi due concetti rimandano a due realtà fra loro intimamente connesse, a due facce di una sola velenosissima medaglia. Due realtà, beninteso, attestate dal pensiero critico ormai da lungo tempo. Non raramente, anzi piuttosto frequentemente, il pensiero comune – dominante – rimane impigliato nel mutevole manifestarsi dell’essenza delle cose, così da non cogliere il momento centrale del loro essere e del loro divenire: il continuum del Dominio. Basti riflettere sulle tante sciocchezze che si sono dette e scritte a proposito delle cosiddette “Primavere arabe” per comprendere fino a che punto il pensiero che non ha profondità concettuale né radicalità politica corra continuamente il rischio, per non dire la certezza, di smarrire il reale significato degli eventi, nonostante la pletora di informazioni e di opinioni su cui esso può contare per formulare un giudizio praticamente su ogni cosa e su ogni fatto. Appare sempre più evidente come la pletora informativa basata sulla “tecnologia intelligente” non sia che l’altra faccia di una sostanziale incoscienza di massa. Più le macchine diventano “intelligenti” e più cresce la nostra stupidità nei confronti di una società che abbiamo imparato a subire come se fosse un ineluttabile destino. Ovviamente il problema non sta nella tecnologia, né in un loro uso «non intelligente»; come sempre il problema è da ricercarsi «a monte», non «a valle», ossia nel regno degli effetti e dei buoi già scappati da tempo immemore dal recinto.

3. Dopo l’ennesimo bagno di sangue ad opera del terrorismo jihadista ci si interroga con maggiore insistenza che nel recente passato se noi europei dobbiamo considerarci in guerra. In caso di risposta positiva si tratterebbe poi di afferrare la natura di questa guerra, così da mettere in campo contro il nemico risposte efficaci. Il Manifesto titolava qualche giorno fa: «Come in guerra». Adriano Sofri sul Foglio evocava addirittura il concetto di «conflitto universale», e sculacciava da par suo la “pacifista” Europa, la quale «ha cercato di rimpannucciare l’ordine sparsissimo in cui ha affrontato la nuova fase del conflitto universale, quella aperta dall’inizio della guerra civile siriana, che ha ormai superato il lustro, chiamando realismo la propria renitenza alla leva». Il premier francese Manuel Valls non si è certo fatto sfuggire l’occasione per ripetere la sua filastrocca preferita (pare che anche lo spettro di Carl Schmitt non ne possa più): «Viviamo in uno stato di guerra». E, si sa, quando insiste lo stato di eccezione… Anche Massimo Cacciari – e con lui la maggior parte dei politici e degli opinionisti europei – non ha lesinato certezze: «Siamo in guerra? Questo non è nemmeno da discutere. Se ti dichiarano guerra sei in guerra. Il problema è che non abbiamo davanti l’esercito di Hitler che invade la Polonia, né questo è l’Islam della storia alla conquista della Spagna e dei territori bizantini». Non ci sono più le belle guerre mondiali di una volta, le quali peraltro contribuivano in modo decisivo a rilanciare economie nazionali ridotte allo stremo da anni di depressione. Siamo immersi in una guerra di nuovo conio, osserva il filosofo veneziano, che tuttavia sarebbe sbagliato combattere solo con lo strumento militare: «Cosa facciamo? Sigilliamo con il filo spinato le banlieue di Parigi e Bruxelles?». E perché non sigillare anche i quartieri “bassi” di Napoli, di Palermo e di Catania, tanto per cominciare? È questo pensiero politicamente scorrettissimo che mi viene in testa se penso alla carica di «odio nichilista» che acceca e anima il sottoproletariato meridionale. E se il virus della radicalizzazione si impossessasse dei loro corpi? «Sigilliamo, sigilliamo!». In effetti, la cosa apparirebbe un po’ eccessiva; d’altra parte lo stato di eccezione rende possibile domani ciò che oggi ci appare inimmaginabile. Ricordo, en passant, che negli anni Trenta del secolo scorso la stessa comunità ebraica tedesca cercò un qualche accomodamento con il regime nazista, in attesa di tempi migliori, fino a quando non fu più materialmente possibile scappare dall’inferno.

Come ne veniamo fuori? «La risalita dal pozzo di barbarie in cui siamo precipitati», scrive Cacciari, «sarà lunga e faticosa. Non ci sono ricette miracolose». Segue il solito elenco di azioni politicamente corrette che, sempre secondo il simpatico intellettuale, i governi europei si rifiutano di implementare per ignavia, per egoismo, per miopia politica, e via di questo passo. È questa inadeguatezza politica e culturale che non consente di dare un senso forte e un fine chiaro alla guerra contro il terrorismo che alligna nelle periferie-ghetto delle nostre città. Com’è noto il punto di vista di Cacciari è quello di un europeista convinto, il quale invita il popolo europeo ad approfittare della sfida che il «radicalismo islamico» ha lanciato alla «civiltà occidentale» dall’11 Settembre in poi per accelerare e rendere effettivo il processo di formazione degli Stati Uniti d’Europa, la sola prospettiva che, sempre a detta del cultore dell’«utopia europeista», può evitarci un grigio impaludamento nell’irrilevanza politica, economica, culturale. Un esito che certo non toglie il sonno a chi, come chi scrive, si considera ormai da diversi lustri in stato di guerra permanente con la Patria capitalistica comunque declinata: sovranista, europeista, mondialista, decrescista, liberista, statalista.

4. Secondo lo scrittore algerino Boualem Sansal «Dovevamo affrontare il problema del fondamentalismo islamico dieci o vent’anni fa. Ecco quello che accade quando non c’è integrazione: nell’apartheid sociale la criminalità, l’estremismo e l’odio religioso mettono radici. Gli immigrati di seconda e terza generazione sono adulti fragili, prede perfette per i reclutatori, che al contrario sono abili e preparati, sanno individuare il vuoto e sanno come riempirlo. I reclutatori li persuadono che combattere contro l’Occidente dia un senso alla loro vita e anche alla loro morte. Ormai siamo in guerra, e alla guerra è legittimo rispondere con la guerra. La risposta deve essere militare e giudiziaria, anche se certo non bisogna infrangere i limiti morali e legali della democrazia» (La Repubblica). Si tratta di capire dove bisogna fissare «i limiti morali e legali della democrazia» in tempo di «guerra al terrorismo internazionale»: chiediamo lumi agli Stati Uniti d’America?

In miei diversi post ho sostenuto l’idea secondo cui l’intera umanità è ostaggio e vittima del sistema mondiale del terrore, ossia, detto in termini più “tradizionali”, della società capitalistica mondiale. È vero: siamo in guerra. È una guerra per il profitto, per le materie prime, per il Potere comunque concettualizzato (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, geopolitico, militare, in una sola parola: sociale), per la sopravvivenza – ad esempio, di vecchi equilibri sociali e geopolitici: è soprattutto il caso del Medio Oriente “allargato” e dell’Africa. In questa guerra sistemica ognuno combatte con le armi (comprese quelle ideologiche: dai “sacri e inalienabili” diritti dell’uomo agli imperativi categorici a suo tempo stabiliti dal Misericordioso Profeta arabo) e con gli eserciti (compresi diseredati e frustrati d’ogni tipo) di cui può disporre. Il fatto che una persona possa usare il proprio corpo come un vettore per esplosivo non è certo una novità introdotta dai terroristi di “matrice islamica”: il kamikaze non è precisamente un’invenzione degli adoratori di Allah. In ogni caso c’è chi, come Massimo Fini, non nasconde una certa ammirazione per il kamikaze di stampo Jihadista: «Laggiù in Oriente ci sono uomini che combattono con grande valore contro delle macchine, perché noi usiamo droni e bombardieri. Invece loro quando vengono a fare questi attentati mettono in gioco la loro vita. Il kamikaze ha una sua nobiltà» (Radio 24). Ma «noi» chi? Noi occidentali, si capisce! «Noi siamo peggio, siamo sotto i terroristi. Noi siamo all’attacco del mondo musulmano, dall’Afghanistan in avanti. Siamo peggio dei terroristi perché siamo molto più ipocriti. Facciamo guerre solo per soldi, per business, una forma di colonialismo occidentale. Solo negli ultimi 15 anni, abbiamo fatto centinaia di migliaia di vittime,  in Iraq da 650 mila a 750 mila. Non posso mettermi a piangere perché qui in Europa questi rispondono e ne fanno 15 o 30, di morti. I morti in Belgio non mi toccano. Quando c’è stata la prima guerra del Golfo coi missili intelligenti e le bombe chirurgiche, i morti civili sono stati 169 mila, di cui 32.190 mila bambini, che non sono meno bambini dei nostri. Anche noi facciamo terrorismo, ma siccome lo facciamo con le macchine, non ci fa impressione. Quando un drone colpisce un obiettivo e fa 150 morti civili che cos’è?».  Se usciamo dalla logica storicamente infondata e politicamente infantile del «noi occidentali e loro musulmani», e ragioniamo dal punto di vista radicalmente anticapitalista, ricaviamo dalle tesi del “bizzarro” intellettuale questa verità: tutti gli attori della guerra sistemica mondiale in corso fanno del terrorismo, sono attori di una stessa rappresentazione. E non c’è dubbio alcuno che la feroce contabilità dei morti depone contro il civilissimo “Occidente”, ossia contro il Capitalismo avanzatissimo che prospera alle nostre latitudini. Ovviamente ciò non induce l’anticapitalista conseguente a nutrire, neanche lontanamente, un solo atomo di simpatia per chi si fa usare dal Potere (comunque declinato e a qualsiasi latitudine) come un ottuso strumento di morte. I morti in Belgio non toccano i sentimenti di chi ha tolto sostanza umana al Nemico, considerato, come nel caso di Massimo Fini, anche nella sua odiosa veste di singolo cittadino occidentale che in qualche modo si è fatto complice di chi sfrutta e bombarda mezzo mondo senza alcun riguardo per la popolazione civile inerme. Di qui l’insulsa logica del «noi occidentali/crociati e loro arabi/islamici», una logica che non considera nemmeno come ipotesi l’esistenza delle classi sociali, del Capitalismo, dell’Imperialismo – che, non dimentichiamolo, fa capo a Potenze grandi e piccole, “occidentali” e “orientali”. Per me i caduti di Bruxelles sono vittime del Sistema mondiale del terrore, della guerra sistemica planetaria che il Potere sociale ha dichiarato a tutta l’umanità; per Fini invece essi sono vittime di un astratto Occidente, e in parte anche vittime della loro stessa complicità con il «colonialismo occidentale». Mi rendo conto che la coppia amico/nemico declinata nei termici storico-sociali da me proposti possa suonare troppo obsoleta alle orecchie di un «conservatore rivoluzionario» come forse crede di essere il nostro fustigatore della presunzione occidentale.

9bec0844e70b9bec10340a3d12e566fa5. Nella buia notte del Capitalismo mondiale tutte le vacche (leggi: Stati, Potenze, nazioni, interessi economici, ecc.) non solo appaiono, ma sono nere. Nere come il petrolio, certo, ma non solo.

Per chi si trova da questa parte del fronte, dalla parte nord-occidentale intendo, questo approccio può forse suonare decisamente apologetico nei confronti del «nostro nemico», ma il lettore deve prendere atto  di un fatto che può risultargli sgradevole e incomprensibile: il nemico di chi scrive non è solo il terrorismo di “matrice islamista”, ma, appunto, il Sistema mondiale del terrore globalmente inteso, il quale crea sempre di nuovo fatti e processi che generano violenza, rabbia, odio, competizione, frustrazione, invidia sociale, solitudine, atomizzazione, massificazione, nichilismo e quant’altro. Una società di tal fatta cosa deve prevedere di raccogliere, tempesta o opere di bene? Purtroppo oggi la tempesta non ha il volto della rivoluzione sociale, e questa è una vera tragedia, è anzi la peculiare tragedia dei nostri tempi, tempi che tuttavia trasudano da tutti i pori la possibilità dell’emancipazione universale degli individui. Lungi dal creare rincuoranti, quanto impotenti, speranze circa il futuro questa possibilità deve aiutarci a comprendere l’enormità della tragedia che ci sequestra nella dimensione del Dominio, deve consentirci di misurare con precisione l’abisso che ci ha inghiottito.

I massacri in Siria e in Africa; gli attentati in Turchia e in Europa; la criminale deportazione di migliaia di profughi in fuga da ogni genere di sventura e trattati cinicamente come informe massa di manovra funzionale alle politiche dei singoli Paesi della civilissima Europa: tutto questo è solo l’aspetto più appariscente di un regime sociale che non può vivere senza creare contraddizioni e problemi d’ogni tipo e natura. Come ho scritto altre volte, in questo capitalistico mondo si soffre per “troppo” Capitalismo (è il caso del fronte nord-occidentale della guerra) ma anche perché di Capitalismo ce n’è ancora “troppo poco” (è il caso di molti Paesi africani e del Medio Oriente). In ogni caso, c’è molta sofferenza e molta disperazione in giro per il mondo, e nessuno (nemmeno i servizi segreti più esperti!) può sapere in anticipo sui tempi quale strada imboccherà il “disagio sociale”, che tipo di «reclutatori» esso incrocerà. Io, nel mio infinitamente piccolo, mi candido, si capisce; ma la vedo difficile…

6. In Underground Haruki Murakami si sforza di capire, intervistando vittime e carnefici, il significato che per le prime e per i secondi ha avuto l’attentato al sarin verificatosi il 20 marzo 1995, «un lunedì», nella metropolitana di Tokio. Lo scrittore giapponese racconta di essere rimasto particolarmente impressionato dalla lettera di una signora il cui marito aveva perso il lavoro a causa dell’attentato, certo, ma non solo. «L’uomo si stava recando in ufficio, quando per sfortunata coincidenza era rimasto intossicato dal gas. Trasportato privo di sensi all’ospedale, era stato dimesso dopo alcuni giorni, ma per colmo di sventura l’intossicazione gli aveva lasciato dei postumi che non gli permettevano di svolgere il suo lavoro come prima. All’inizio tutti avevano chiuso un occhio, ma col passare del tempo superiori e colleghi avevano incominciato a mostrare irritazione e insofferenza. Incapace di sopportare oltre l’ostilità dell’ambiente, il marito della lettrice aveva finito col dare le dimissioni. […] Ecco quanto sono venuto a pensare riguardo alla doppia violenza inferta a quel giovane sfortunato impiegato: suppongo che la distinzione tra ciò che appartiene al mondo della normalità e ciò che non vi appartiene, non significhi più nulla per lui. Probabilmente non riesce a distinguere i due generi di violenza e a considerarli in termini di “estraneità” e di “appartenenza”. Anzi, più ci pensa, più si convince che i due episodi differiscono nella forma esteriore, ma sono in realtà della stessa natura, nascono entrambi da radici sotterranei». Si tratta allora di comprendere la natura di queste maligne radici, per capire se esse possono venir recise.

La violenza dell’inaspettato (?) evento che tanto profondamente colpì la sensibilità di Murakami aveva messo in corto circuito due mondi (quello dalla “normalità” e quello dell’”eccezionalità”) solo apparentemente incomunicabili l’uno con l’atro, ma in realtà intimamente collegati fra loro da mille «radici sotterranei». È il concetto che cerco di esprimere quando spesso scrivo che l’eccezione tradisce la vera natura della “normalità”. Il carattere radicalmente disumano della nostra società unisce in un solo mostruoso abbraccio vittime e carnefici, due aspetti di una sola cattiva realtà. È da questa – impegnativa, lo riconosco – prospettiva che invito il lettore a guardare i casi eccezionali che la cronaca (da quella politica a quella propriamente criminale) non manca mai di regalarci, forse per ricordarci il carattere sempre più precario della nostra esistenza, sempre minacciata da insondabili eventi che sfuggono al nostro controllo: «Nessuno poteva impedire che questo accadesse?» (Murakami). Controlliamo sofisticatissime macchine spaziali e, a quanto pare, siamo a un passo dal comprendere sul piano “schiettamente scientifico” il mistero della resurrezione di Gesù, ma non riusciamo a controllare le fonti essenziali della nostra vita e non padroneggiamo il significato della nostra esistenza in quanto creature sociali, come esseri che possono vivere solo in una società. Anziché cercare di dare scacco matto a Dio, non faremmo meglio a sbarazzarci del Dominio?

Nel 1956 Guenther Ander sentenziò: L’uomo è antiquato. «Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale». Di qui il concetto di post-umano o trans-umano. Per come la vedo io, l’uomo è ancora una conquista che ci sorride da molto lontano e che rischia di sfuggirci dalle mani definitivamente. Ecco perché quel sorriso di speranza a volte mi appare come un cinico e beffardo ghigno. Anche questo ci dicono le giornate di terrore.

regard7. Scriveva l’antropologo Alain Bertho riflettendo sugli attentati di Parigi del 2015: «Penso che sia necessario capire che non abbiamo a che fare con un fenomeno settario isolato, e soprattutto che non abbiamo a che fare con una “radicalizzazione dell’islam”, ma piuttosto con un’islamizzazione della rivolta radicale» (Alfa Domenica, 7 giugno 2015 ). Condivido questa tesi (si tratta poi di chiarire i termini di quella «rivolta»), la quale colpisce al cuore tanto i teorici dello scontro fra le civiltà (Occidente cristiano versus Oriente islamico) quanto gli “illuministi” che auspicano, «quantomeno», la riscoperta «dell’autentico spirito religioso» da parte di tanti giovani di origine araba oggi attratti da una «falsa versione» dell’Islam. Questi tardi “illuministi” non capiscono che di un «autentico Islam» quei giovani “radicalizzati” non sanno proprio che farsene, e che anzi lo rifuggono, come fa il diavolo con l’acqua santa, nella misura in cui esso non entra in sintonia con il loro impellente bisogno di “passare all’atto” nei confronti di un mondo che non comprendono e che odiano profondamente. Qui è il concetto di miseria sociale che, come si dice, fa premio. Un concetto, si badi bene, da declinarsi “a 360 gradi”, in modo da ricomprendere l’intera esistenza di molti giovani, e non solo la loro immediata condizione economica – cosa che peraltro spiega la “radicalizzazione” dei giovani benestanti di origine araba e non solo: morto il “marxismo” anche il “radicalizzato” occidentale potrebbe vedere nell’Islam preparato in alcune cucine arabe una valida alternativa al vuoto cosmico che lo divora.

«Charlie», continua Bertho, «ha iscritto la sua irriverenza nei confronti dell’islam nella sua postura d’opposizione alle chiese e ai dogmi che impediscono la liberazione della società. Non ha calcolato che in Francia nel ventunesimo secolo, prendersela con l’Islam, significa soprattutto ferire le persone dominate per le quali la religione è un punto d’appoggio per far fronte alla sofferenza sociale». Certo, c’è anche questo aspetto che occorre considerare quando prendiamo in esame il completo fallimento dei cosiddetti valori occidentali di cui i tardo illuministi (la prima volta come tragedia, la seconda…) rappresentano la più evidente manifestazione.  «Quando abbiamo questo in testa, capiamo meglio la potenza soggettiva dei propositi jihadisti. Il solo avvenire proposto è la morte: quella “dei miscredenti, degli ebrei e dei crociati”, come quella dei martiri. […] Il crollo della categoria di futuro di cui abbiamo parlato, e che l’antropologo Arjun Appadurai ha messo al centro de suo ultimo libro The Future as Cultural Fact, è senza dubbio una delle dimensioni dell’ondata di scontri che hanno toccato il mondo intero dall’inizio di questo secolo. […]  Questi scontri possono sfociare su due divenire possibili: la costruzione di una figura durevole della rivolta e della speranza che s’incarna nei movimenti politici organizzati e nelle prospettive istituzionali, o la deriva verso lo sconforto e la violenza minoritaria». Come si vede, Bertho non prende nemmeno in considerazione la terza possibilità: il farsi soggetto di storia delle classi subalterne e di tutti gli individui che si sentono in guerra contro il nichilismo sociale, ossia contro i rapporti sociali capitalistici. D’altra parte per lui, come per la stragrande maggioranza dei cittadini di questo pianeta, la rivoluzione sociale non ha dato dei frutti particolarmente apprezzabili: vedi la Russia di Stalin e la Cina di Mao. (Su questo punto rimando ai miei scritti dedicati al falso «socialismo reale» stalinista e maoista). E qui giungiamo, per concludere, al punto di partenza di questa breve e disordinatissima riflessione: l’estrema violenza sistemica del vigente regime sociale mondiale e l’estrema impotenza dei dominati.

FERMENTAZIONE GRECA

obama-gr_fQuelli che vogliono salvare il capitalismo
dai capitalisti tifano Tsipras (G. Ferrara).

1.
«La Grecia», ha dichiarato il “comunista non rivoluzionario”, nonché Ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, «ha bisogno della Germania, che si è trovata nel passato nella sua stessa situazione, cioè umiliata dagli altri paesi e in una pesante depressione, quella che il secolo scorso ha portato all’ascesa del nazismo. Il terzo partito del Parlamento greco è il partito nazista. Credo che di tutti i Paesi europei la Germania possa capire questa semplice notizia: quando si scoraggia troppo a lungo una nazione orgogliosa, e la si espone a trattative e preoccupazioni di una crisi del debito deflattiva, senza luce alla fine del tunnel, questa nazione prima o poi fermenta». Il simpatico Varoufakis dice il vero; come facevo osservare qualche giorno fa, «Quando la miseria incalza e la “coscienza di classe” latita, persino una minestra calda garantita tutti i giorni, e magari un fucile in spalla per difendere la “dignità nazionale” dai cattivoni di turno, possono apparire agli occhi di milioni di persone azzannate dalla crisi quanto di meglio possa offrire loro il pessimo mondo che li (ci) ospita».

Il fatto è che, contrariamente a quanto ritengono molti militanti della “sinistra radicale”, lo stesso successo elettorale di Syriza testimonia l’assenza di “coscienza di classe” lamentata sopra. Dal punto di vista di chi mantiene ferma la necessità di sradicare il vigente dominio sociale mondiale, e che si muove nel quotidiano in vista  di quell’obiettivo (affrontando le ineludibili e tutt’altro che facili questioni poste dalla dialettica fra “tattica” e “strategia”), Syriza è parte del problema, non ne è la soluzione, nemmeno in una sua forma abbozzata e non ancora precisata. La stessa politica estera del governo Tsipras, che ammicca sfacciatamente all’imperialismo russo per acquistare peso politico nella contesa fra partner europei e per soddisfare l’orgoglio sovranista del popolo greco (quando non si ha pane da offrire agli affamati si può sempre vendere loro un po’ di sano e virile orgoglio nazionale), rende oltremodo evidente quanto appena detto.  Ritornerò tra poco su questo punto.

Dichiarava ieri Marianella Kloka, attivista greca di Mondo senza Guerre e senza Violenza: «In quattro ore si è organizzata ad Atene una manifestazione in piazza Syntagma, ripetuta anche a Salonicco. Gli slogan della manifestazione di oggi: Non ci lasceremo ricattare. Non ci arrendiamo. Non abbiamo paura. Non ci tireremo indietro. La gente è indignata per la crudeltà con cui la BCE ha risposto alle proposte del governo greco e si ribella ai ricatti. La settimana prossima, in coincidenza con la riunione dell’Eurogruppo, scenderemo di nuovo in piazza in tutte le città greche con gente di ogni età. Questa situazione di asfissia sociale non può continuare, né in Grecia, né nel resto d’Europa. Il fallimento del sistema è ogni giorno più chiaro. Abbiamo l’obbligo di spiegarlo e di cambiare le cose insieme a tutti i popoli d’Europa». Certo, nella testimonianza appena riportata si coglie la rabbia, l’insofferenza, la voglia di reagire a una situazione sempre più intollerante; insieme, però, a una grande confusione per ciò che concerne la ricerca delle vere cause dell’asfissia sociale che ha colpito milioni di persone (lavoratori, disoccupati, pensionati, ceto medio declassato) e nell’individuazione dei veri nemici. Veri, beninteso, dal punto di vista critico-rivoluzionario, ossia da una prospettiva autenticamente anticapitalista. Inutile farsi illusioni “rivoluzionarie” a tal proposito: nel breve e nel medio termine, in Grecia come altrove in Europa e nel mondo, quella prospettiva farà una fatica mostruosa per iniziare a penetrare fra i nullatenenti e fra le persone umanamente più sensibili appartenenti alle diverse classi sociali. Le sirene sovraniste e populiste, di “destra” e di “sinistra”, oggi nuotano come pesci nel mare della crisi sociale e della disperazione, mentre il rivoluzionario che non vuole farsi inglobare nel Fronte Nazionale (o Unità Nazionale, o Fronte Popolare: chiamate come volete la sudditanza del “popolo” al Moloch nazionale, la sostanza non cambia di un atomo) rischia di passare fra le masse disperate e prive di coscienza critica alla stregua di un traditore della patria, quale d’altra parte egli è a tutti gli effetti. Dove c’è patria c’è dominio di classe, ho scritto qualche giorno fa; purtroppo i proletari oggi (e domani? e dopodomani?) non la pensano affatto così. Cosa che tuttavia non rende meno vera quella tesi.

«Non siamo una colonia della Merkel», si leggeva su un cartello esibito da un dimostrante durante la manifestazione ateniese dello scorso giovedì; è precisamente questo spirito nazionalista che bisogna combattere, cercando di fare capire ai lavoratori e ai disoccupati che siamo tutti una colonia del Capitale, a prescindere dalle sue “declinazioni” nazionali, religiose, politiche. L’invito rivolto a suo tempo al proletariato di tutte le nazioni a unirsi in una sola gigantesca unione rivoluzionaria non ha nulla di ideologico e, alla luce del capitalismo totalitario del XXI secolo, non è invecchiato neanche un po’: anzi, quel grido di battaglia è più attuale che mai. Ho scritto attuale, non di facile ricezione, perché qui non si fa della facile demagogia.

2.
La crisi economica, osservava Marx, è il secchio di acqua gelida gettata in faccia a una società ipnotizzata dalla fantasticheria, coltivata per anni e a volte per decenni, secondo la quale la ricchezza sociale può essere creata miracolosamente attraverso la circolazione della stessa ricchezza da una tasca all’altra (come avviene anche attraverso l’intermediazione fiscale gestita dallo Stato), o dalla moltiplicazione di valori-capitali puramente fittizi. Ma la bolla finanziaria, alimentata sia dal “pubblico” che dal “privato”, prima o poi scoppia, provocando morti e feriti, virtuali e reali, e rimettendo le cose sui piedi. Ci si accorge, allora, che molti hanno condotto un’esistenza di gran lunga superiore alle loro capacità di generare ricchezza, e a quel punto anche chi ha concesso loro facile credito rimane fregato. Il debito da virtuoso che era si capovolge in peccato: Schuld!

La crisi internazionale che ha investito l’Occidente a iniziare dagli Stati Uniti ha avuto almeno il merito, diciamo così, di ricordarci come il presupposto della stessa speculazione finanziaria sia radicato nel processo di accumulazione del capitale, ossia nello sfruttamento produttivo del “capitale umano”, come ben sanno i cultori della cosiddetta economia reale. Anziché prendersela solo con i tedeschi e con la Troika, gli europei meridionali farebbero bene a puntare i riflettori soprattutto sulla struttura capitalistica, relativamente arretrata e fortemente parassitaria, dei loro Paesi, le cui leadership nazionali hanno rinviato decennio dopo decennio lo scioglimento dei tanti nodi strutturali che hanno impedito l’ammodernamento dei relativi sistemi, sia per non intaccare interessi consolidati e rendite di posizione, sia per non fare i conti con la inevitabile perdita di consenso politico e con i conflitti sociali connessi alle “riforme”. Insomma, gli interessi capitalistici della Germania non sono più odiosi degli interessi capitalistici dei Paesi che oggi fanno la voce grossa contro «l’ottusa e insostenibile politica dell’austerity». «Nella drammatica vicenda della Grecia le cose si fanno quasi folli», scrive Paul Krugman sul New York Times. Si tratta però di un braccio di ferro fra interessi capitalistici contrapposti, ed è urgente demistificare le cose.

«Il problema di Atene», scrive Giorgio Arfaras, «non è l’onere del debito, ma la difficoltà di finanziare la crescita della spesa sociale ricorrendo all’aumento del prelievo fiscale. […] Concludendo, i limiti della Grecia erano e sono: 1) una base fiscale insufficiente, 2) una base industriale insufficiente» (Limes, 5 febbraio 2015). È questo il nodo strutturale che deve sciogliere qualsiasi partito oggi vinca le elezioni in Grecia, a prescindere dalla sua permanenza nell’area della moneta unica e della stessa Unione Europea.

Scusandomi con il lettore, mi concedo l’autocitazione che segue: «A Piketty “Sembra necessaria la leva della tassazione. Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale. L’ideale sarebbe di poter tassare tutte le grandi fortune a livello mondiale, da quelle americane a quelle mediorientali, dai patrimoni europei a quelli cinesi. È una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche l’imposta progressiva sul reddito era solo un’utopia. Occorre volontà politica”. No, occorre in primo luogo che l’accumulazione capitalistica riprenda in grande stile, occorre che la generazione di ricchezza sociale attraverso lo sfruttamento sempre più intensivo (scientifico) della capacità lavorativa torni a sorridere al profitto come ai bei tempi (per il capitale industriale, beninteso) del boom economico, perché solo questo rende possibile la distribuzione della lana, per riprendere la celebre metafora di Olof Palme sulla pecora borghese da tosare solo dopo averla ben nutrita. Insomma, anche nel Capitalismo del XXI secolo la “volontà politica” non sorretta da un adeguato saggio di accumulazione del capitale distribuisce solo la miseria» (Brevi note critiche al Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty).

La polemica tedesca sulla cicala meridionale ricorda molto da vicino la polemica antimeridionale leghista degli anni Novanta, ma anche la lotta politica antiserba della Croazia e della Slovenia ai tempi della ex Jugoslavia. Al netto della schiuma ideologica, che tanto disturba anche l’analisi di molti “materialisti storici”, le questioni dirimenti si aggrovigliano sempre intorno alla scottante questione della generazione e distribuzione della ricchezza sociale. I Paesi “nordici” lo sanno e ci tengono a ribadirlo sempre di nuovo; i Paesi “meridionali” lo sanno ma fanno finta di non saperlo, per non pagar dazio, come si dice volgarmente. La tragedia, per me, è che dentro questo “dibattito” capitalistico i nullatenenti non hanno una posizione autonoma, ma si accodano alle “formiche” piuttosto che alle “cicale”, mentre si tratterebbe di mandare a quel paese entrambe le bestie.

«Siamo un Paese sovrano e democratico» ha detto Alexis Tsipras ai parlamentari di Syriza dopo il giuramento del nuovo Parlamento; «Abbiamo un contratto con chi ci ha votato e onoreremo i nostri impegni». Mutatis mutandis, è lo stesso discorso che fa tutti i giorni la Cancelliera di Ferro ai suoi parlamentari e al suo elettorato. È la democrazia (borghese), bellezza!

3.
Mettendo in relazione la crisi economico-sociale greca con la crisi geopolitica ucraina non si compie, a mio avviso, nessuna forzatura politica o concettuale, perché entrambi gli “eventi” si inquadrano nella guerra sistemica in corso ormai da diversi anni in Europa, e i cui sviluppi sono difficilmente prevedibili. Almeno per le mie capacità analitiche. Ciò che invece mi appare di solare evidenza è 1) il carattere ultrareazionario della contesa da ogni lato la si guardi (da Nord come da Sud, da Ovest come da Est), e 2) la necessità/urgenza dell’autonomia politica delle classi subalterne, oggi costrette a recitare il ruolo di strumenti nelle mani delle fazioni capitalistiche in lotta per il potere, o per la sopravvivenza attraverso il compromesso con chi uscirà vincente dal conflitto.

«È di oggi la notizia, riportata da alcuni quotidiani, che la Grecia ha firmato un contratto con la Russia per la fornitura di pezzi di ricambio per i sistemi di difesa aerea “TOR-M1″ e “OSA-AKM”. A confermarlo anche una fonte militare di Atene, che non ha reso noto l’importo del contratto, ma che ha riferito che “Per la Grecia questo contratto è molto importante perché consente di mantenere il corretto livello di difesa aerea”. Si tratta di un evento fondamentale che inevitabilmente sposta gli attuali equilibri (già in forte evoluzione sotto l’aspetto economico e finanziario) anche sotto il profilo militare» (Notizie Geopolitiche, 5 febbraio 2015). Detto per inciso, il punto 10 del manifesto elettorale di Syriza recita: «Tagliare drasticamente la spesa militare». Si predica bene e si razzola male? Staremo a vedere. Ma non è questo il punto su cui invito a riflettere.

Come scriveva Giorgio Cuscito su Limes del 30 gennaio, «Nel suo primo giorno di lavoro, il governo greco si era detto contrario a nuove sanzioni contro la Russia in merito ai recenti sviluppi della crisi in Ucraina. In seguito Mosca, che ovviamente ha accolto con favore la posizione ellenica, ha affermato di non escludere eventuali prestiti per aiutare Atene». Prezzo del petrolio permettendo, bisognerebbe forse aggiungere.

Il punto 40 del citato manifesto elettorale di Syriza recita: «Chiudere tutte le basi straniere in Grecia e uscire dalla Nato». Per Paesi investiti da un’acuta crisi economica e sociale, l’antiamericanismo nazionalista può essere un eccellente strumento di lotta nella contesa interimperialistica e un ottimo collante ideologico per tenere le masse attaccate al carro del Dominio. Uscire dalla Nato per rafforzare il proprio Paese o per dare vita a una nuova alleanza politico-militare (magari antiamericana, magari con Russia, Cina, Venezuela e altri avversari del Grande Satana): una prospettiva che personalmente ho sempre combattuto e che continuerò a combattere, anche contro i teorici del «Nemico Principale» (gli Usa e i suoi alleati, c’è bisogno di dirlo?) da far fuori oggi per indebolire il capitalismo mondiale e poterlo schiacciare più agevolmente domani. Questa finezza dialettica non è alla portata della mia rozza logica proletaria.

varoufakis-brando-640904Aggiunta da Facebook (17 febbraio 2015)

COSE GRECHE

1. Syriza di lotta – intercapitalistica

Scrive Marco Valerio Lo Prete (Il Foglio): «C’è tempo fino a venerdì. Eppure non mancano gli indizi di un fatto: la disfida greca si configura, più che come una riedizione del duello Davide vs. Golia, come una sofisticata partita interna al mondo capitalistico. Con attori [Stati Uniti compresi] interessati, per interposta Grecia, a fare pressioni sull’Eurozona a trazione tedesca».

Allora non avevo capito poi così male…

2. Populismo kantiano e Red Line

Dichiara Yanis Varoufakis, il Ministro delle Finanze più cool del pianeta, al New York Times:

«Come facciamo a sapere che la nostra modesta agenda di politica economica, che costituisce la nostra linea rossa, è giusta in termini kantiani? Lo sappiamo guardando negli occhi le persone affamate che riempiono le strade delle nostre città o la classe media sotto pressione, o considerando gli interessi di ogni lavoratore nell’unione monetaria». Quasi mi commuovo. Quasi. Ci manca un soffio. Rinvio la lacrima.

Non c’è dubbio: la lotta di classe è, ovunque in Europa, un imperativo categorico. Avrò anch’io il diritto di esprimermi in termini kantiani (anche se lascio a desiderare quanto a cool)! A proposito, ho detto lotta di classe, non Fronte Unito Meridionale Antitedesco. Ci tengo a precisare la mia modesta Red Line.

MISERABILANDIA E IL FALLO DI BERLUSCONI

silvioIl fallo, inteso come errore, non sussiste. Il fallo, se Dio vuole, non costituisce reato. Dopo l’epocale sentenza emessa ieri dalla Corte d’Appello di Milano, Miserabilandia è tornata a spaccarsi: ecco il partito berlusconiano esultare e gongolare, ecco il partito antiberlusconiano piangere e rosicare.

«Berlusconi è innocente a sua insaputa», ha balbettato uno stinto Travaglio, la punta di lancia della fazione manettara, nonché zelante velina al servizio dei Pubblici Ministeri chiamati a raddrizzare l’albero storto  dell’etica italiota. Poche storie: «essere Berlusconi non è reato», hanno rilanciato i fedelissimi dell’ex puttaniere di Arcore, Giuliano Ferrara in testa, il quale è apparso contento di scoprirsi un dignitoso signore (nonostante certe frequentazioni “pericolose”), anziché «una puttana alla corte di Silvio».

«Tutto quello che dicono sul fatto che noi vogliamo il fango e la ghigliottina e il sangue e le manette sono tutte cazzate», ha dichiarato Travaglio ad Affaritaliani.it. con il solito spocchioso livore. Uhm. Sarà vero? Titubo. Tentenno. Nel dubbio consiglio prudenza, secondo il noto principio di precauzione: se li conosci

Ascoltata con le lacrime agli occhi la sentenza del Bunga-Bunga, l’ironico Giancarlo Lehner, politico e intellettuale di provata fede berlusconiana (altro che Fini e Alfano!), si è affrettato a divulgare la seguente sconvolgente notizia: «Rosy Bindi annuncia di voler lasciare la politica per darsi alla teologia. Non si minaccia così Nostro Signore». Come dargli torto. E poi, la campagna femminista incentrata sul Corpo delle Donne ha ancora bisogno di colei che osò negarsi ai demoniaci istinti sessuali del noto satrapo (il quale bramava, a quanto pare “a sua insaputa”, le virginali grazie della pulzella di Sinalunga). Tanto più adesso che si profila l’odioso sdoganamento a mezzo riforme costituzionali del famigerato Porco: se non ora, quando?

boccassini-berlusconi-occhiali-571132Ancora stordito dall’inattesa assoluzione, lo Statista Pregiudicato oggi alle prese con la riforma costituzionale ha dichiarato che, dopo tutto, la maggiore responsabilità delle sue traversie politico-giudiziarie va attribuita non tanto alla Magistratura, che comunque in larghissima parte è fatta di «brave persone», ma «all’odio, al gossip e alla disinformazione» propalati da certi giornali faziosi. Naturalmente l’allusione dell’eroe del giorno cade su Repubblica e su Il Fatto Quotidiano, gli araldi dell’antiberlusconismo duro e puro.

L’intellettualone – nonché fasciostalinista – Alberto Asor Rosa, a suo tempo teorico del «colpo di Stato democratico» ai danni dell’ex Cavaliere Nero, appresa la sciagurata sentenza ha sentenziato che adesso il partito anticostituzionale si è indubbiamente rafforzato: di qui, sempre secondo il Professorone, l’urgenza di costruire una forte Resistenza in grado di arrestare l’involuzione antidemocratica del Paese. Un appello (l’ennesimo) al quale gli amanti della Costituzione «più bella del mondo» risponderanno certamente con rinnovato entusiasmo, al contrario di quanto farà chi scrive, nella sua qualità di nemico irriducibile della Repubblica democratica fondata sul lavoro salariato.

Norma Rangeri (Il Manifesto) non riesce a nascondere la sua indignazione, che cerca di esprimere in modo ironico: «Non sarà lo sta­ti­sta che in Europa e nel mondo ci invi­dia­vano, ed è pur sem­pre un imprenditore pre­giu­di­cato per reati di frode fiscale, oltre che un ex pre­si­dente del con­si­glio a pro­cesso per la compra-vendita di parlamentari. Ma con l’assoluzione pro­nun­ciata dai giu­dici della corte d’appello di Milano, oggi Sil­vio Ber­lu­sconi con­qui­sta l’invidiabile sta­tus di anziano miliar­da­rio a tal punto cre­du­lone da scam­biare Ruby per la nipote di Mubarak. […] La realtà supera sem­pre la fan­ta­sia, e dice che non c’era biso­gno di que­sta assoluzione per ridare a Ber­lu­sconi il ruolo di part­ner pri­vi­le­giato nella revi­sione delle regole democratiche. Come si diceva una volta, il pro­blema è politico». Non c’è dubbio.

Anche per il garantista Piero Sansonetti «il problema è politico», e infatti egli invita i suoi amici della sinistra forcaiola a non guardare solo le vicende giudiziarie dell’imputato eccellente per evidenti fini politici, perché l’irresponsabile partito dei Pubblici Ministeri oggi stritola soprattutto migliaia di poveri cristi.

ferrara-boccassini-246760Ad Alessandro Trocino (Il Corriere della Sera) Giuliano Ferrara confessa di sentirsi «l’uomo più felice del mondo», perché è un amico di Berlusconi e perché l’ha «sempre considerato non un pregiudicato ma un perseguitato». Io invece l’ho sempre considerato un capitalista e un politico al servizio del regime sociale capitalistico, esattamente alla stregua di tanti altri suoi colleghi (di “destra”, di “centro”, di “sinistra”). Qui però si tratta dell’ex Premier e della felicità dei suoi amici e tifosi, non del sottoscritto.

Ecco alcuni passaggi dell’intervista-orgasmo rilasciata dal noto Elefantino (che pubblico solo per confermare quanto ebbe a dire una volta Rino Formica, una delle teste “più lucide” della cosiddetta Prima Repubblica: «La politica è sangue e merda»).

«Questa è stata una vicenda ignobile. Un’inchiesta che è andata avanti come una campagna di disinfestazione moralistica e con toni da comune senso del pudore che non vedevamo dai reazionari anni 50. È stato un processo da inquisizione, che fa esplodere la grande complicità del sistema mediatico, dei vari Travaglio, Santoro, Lerner. Non amo polemizzare alla memoria ma tutti ricordiamo come la stessa mano che ha scritto che Rostagno era stato ucciso dai suoi amici e non dalla mafia, tesi smentita da una sentenza di tribunale, ha poi costruito intorno a Berlusconi un romanzo voyeuristico e spionistico che tornerà per sempre a disonore del giornalismo italiano. È noto che Berlusconi non ama giocare a canasta con i suoi coetanei, ma l’idea che fosse a capo di un racket di prostituzione poteva venire solo a una giustizia ripugnante, codina e reazionaria. Gli avversari di Berlusconi sostengono: un conto è un’assoluzione, un conto il giudizio politico. Chi lo contestava prima, non cambierà idea. Sono sepolcri imbiancati, ipocriti. Il punto è precisamente quello, si trattava di una contestazione penale. Sono state costruite accuse grottesche, come il reato di palpeggiamento*. Oggi, spero, sarebbe accolto con un fragoroso pernacchio chi avanzasse l’idea di mettere in galera una persona solo perché critica la magistratura».

A questo proposito io consiglio maggiore prudenza, anche perché non tutti possono permettersi gli avvocati di serie A, e probabilmente nemmeno quelli della serie inferiore.

CDR457840 digital rectal exam* «Camera dei Deputati, 4 aprile 2011. Dibattito sulla prostata – evidentemente infiammata – dell’Assatanato di Arcore. La relatrice di minoranza del PD ha dichiarato che il noto Mostro si è reso responsabile di “atti eticamente e penalmente sensibili”.

Vacilla, sotto la spinta degli eticamente corretti (ex stalinisti, ex fascisti, ex cattocomunisti, fondamentalisti cristiani e gentaglia varia), il già debole confine che separa peccato e reato. Per parafrasare il bravo cantautore siciliano, forse è venuto il tempo di rimetterci la maglia, e, già che ci siamo, il cappotto: forse i tempi stanno davvero per cambiare. In peggio, ovviamente, perché com’è noto il peggio non conosce limite. Intanto ho chiesto istruzioni al mio avvocato: meglio non lasciarsi trovare impreparati in caso di equivoche conversazioni telefoniche.

La voce del padrone eticamente impeccabile fa sapere che chi ha la coscienza tranquilla e non ha nulla da nascondere non ha motivo di preoccuparsi. Appunto!» (La prostata di Silvio e gli eticamente corretti).

mutande-572267Aggiunta da Facebook (24 luglio 2014)
DIALETTICA DELLA LINGERIE
Dedicato anche a Barbara Spinelli*

«Juliette ha per credo la scienza. Le ripugna ogni venerazione la cui razionalità non si possa provare. Anche la libertina Juliette si schiera dalla parte di quella normalità che riduce il piacere fisico. Il debosciato senza illusioni per cui si pronuncia Juliette, si trasforma nell’uomo pratico e comunicativo, che estende la sua professione d’igiene e di sport anche alla vita sessuale. Il dominio sulla natura si riproduce all’interno dell’umanità. L’immaginazione cerca di tener testa all’orrore. Il proverbio romano per cui res severa verum gaudium, esprime anche la contraddizione insolubile dell’ordine che trasforma la felicità nella sua parodia, e la suscita solo dove la prescrive. Sade e Nietzsche hanno eternato questa contraddizione, ma hanno contribuito così a recarla al concetto» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo).

* «Sade avrebbe potuto far proprie letterariamente le parole di Ferrara, e in genere la condotta di Berlusconi, anche se quest’ultimo non torturava ma blandiva favorite e concubine. Ma Sade è uno scrittore. Raffigurando teatralmente la negazione dell’uomo e di Dio, Sade è lo scandaloso demistificatore che nel ’700 abbatte tutti i tabù e le morali costituite: “È la natura che voglio oltraggiare: voglio perturbare i suoi piani, contrastare il suo cammino, fermare il corso degli astri” (La Nuova Justine). “Il marchese De Sade installato a Palazzo Chigi è dinamite non letteraria o artistica o naturale, ma pericolo pubblico che ha degradato e in parte distrutto l’Italia. Ancora oggi ne paghiamo il prezzo, se è vero che Berlusconi, rallegrato dall’assoluzione, si appresta con l’aiuto di Renzi a divenire, anche se tuttora condannato per frode fiscale, il padre rifondatore – e sovvertitore – della nostra Costituzione» (B. Spinelli, Il Fatto Quotidiano).

Dinanzi a una simile dimostrazione di razionalità politico-filosofica il mio indigente pensiero ammutolisce. Tanto più che non ho nulla da dire contro i “sovvertitori” «della nostra Costituzione». Lo confesso: «la mia fantasia è sempre stata al riguardo molto oltre i miei mezzi; ho sempre immaginato molto più di quanto ho fatto» (Le 120 giornate di Sodoma).

Leggi:

UMILIATI E OFFESI. I DOLORI DEL POPOLO ANTIBERLUSCONIANO

IL COLPO DI STATO SESSUALE È MEGLIO

IL BUCO DELLA SERRATURA. E QUELLO DI NOI TUTTI

L’ODIOSA VERITÀ DEL CAVALIERE NERO

BENVENUTI A MISERABILANDIA

LA QUESTIONE NON È “MORALE” MA “STRUTTURALE”. OVVERO: ECCHEPPALLE!

ghigliottinaFrastornata dagli ultimi scandali veneziani, la “sinistra” del PD rimpiange «la tenuta etica e morale del PCI», ossia di quel partito che durante la cosiddetta Prima Repubblica intascava, esattamente come tutti gli altri partiti dell’«Arco Costituzionale», la propria quota parte di tangenti attraverso un sofisticato sistema economico-politico che aveva nelle famigerate “cooperative rosse” il suo più importante e rodato centro direzionale. Personalmente non ho dovuto aspettare il paraguru Grillo per denunciare (invano, debbo ammetterlo) la «peste rossa» che ammorbava mezza Italia, in concorrenza, ma più spesso in sinergia, con la «peste bianca» democraticocristiana e con quella diversamente colorata dei cosiddetti partiti laici: PSI, PRI, PLI ecc.

Ovviamente la mia denuncia non nasceva sul terreno dell’indignazione etico-morale, ma si sforzava piuttosto di rendere evidente anche ai ciechi la natura ultrareazionaria (borghese, per usare un concetto tanto “vecchio” quanto vero) di un partito che contro ogni più elementare “legge” della politica si autodefiniva “comunista” senza che ciò suscitasse l’ilarità della stragrande maggioranza degli italiani. Anzi! «La diversità etica è finita col PCI»: questa clamorosa balla speculativa, oggi gonfiata soprattutto dai numerosi nostalgici del “comunismo italiano” (una variante nazionale dello stalinismo, attraverso la mediazione di Palmiro Togliatti) ma accreditata durante l’ultima campagna elettorale europea dal paraguru Casaleggio, è una merce di pessima qualità che difficilmente troverà successo presso le mitiche «larghe masse» tanto care a Cossutta, l’ultimo beneficiario dei finanziamenti occulti sovietici – pare in funzione antiberlingueriana: erano i giorni dell’invasione russa dell’Afghanistan.

Gli analisti economici e politici più intelligenti del Paese non hanno avuto difficoltà nel mettere in stretta relazione l’ultima ondata “corruttiva” che si dipana lungo l’asse Milano-Venezia con i dati economici (sfornati ad esempio ieri dal Censis) che attestano la perdurante relativa arretratezza della struttura capitalistica italiana. Lo stesso Carlo Nordio, il procuratore responsabile delle indagini sul Mose, ha dichiarato (vedi Il Messaggero e La stampa di oggi) che il problema “tangentizio” non sta nella mancanza di leggi né di pene che colpiscano severamente la corruzione, ma in un sistema-Paese generalmente considerato che rende possibile la continua generazione di corrotti e corruttori. Là dove la politica e la burocrazia hanno troppo potere in termini di controllo e di decisione, quasi spontaneamente si realizzano i presupposti della «condotta criminale».

trappola-ghigliottina-per-i-gatti-18270Se l’occasione fa di un politico, di un burocrate o di un imprenditore un potenziale ladro, non c’è ghigliottina, simbolica o reale che sia, che possa scongiurare la caduta del politico, del burocrate e dell’imprenditore nella «condotta criminale». In Cina, ad esempio, le pene contro la corruzione sono severissime, ma il partito-regime è così capillarmente infiltrato in ogni aspetto della prassi sociale che ogni anno sono migliaia i funzionari di partito di ogni ordine e grado che finiscono nelle maglie repressive della Giustizia con caratteristiche cinesi. Resistere al potere del denaro che dà ricchezza e potere sugli individui, è una prova davvero troppo dura per tantissima gente. Renzi sa benissimo che il problema è “strutturale”, ma all’opinione pubblica votante deve pur vendere qualcosa di politicamente indignato: «Cacceremo a pedate in culo i ladri dal PD». Auguri!

Giustamente Giuliano Ferrara osserva che «la pandemia delle mazzette nei sistemi democratici» è qualcosa di fisiologico; ciò che rende più governabile e meno devastante in termini di immagine pubblica la cosa negli altri Paesi è la loro capacità di «trasfigurarla», in modo da renderla più accettabile per l’opinione pubblica e meno nociva per l’erario pubblico. «Le regole ci sono», dice l’Elefantino, «il problema sono i ladri», ossia, dico io, la vetusta struttura sociale del Belpaese, che si esprime ad esempio attraverso quella cultura cattocomunista che stigmatizza come eticamente inaccettabile la prassi lobbistica di stampo angloamericano, salvo poi versare moralistiche lacrime quando vengono a galla le P2, le P3, le Pn e le Tangentopoli di turno.

Nulla irrita quel poco di coscienza critica che ho più di chi vuole eticizzare e moralizzare la società fondata sul profitto che ha nel denaro la potenza sociale più affascinante, dominante e ipnotica. Non saranno di certo il Santissimo Francesco e lo spettro dell’Onesto Enrico a mondare la vigente società dalla disumana brama di ricchezza: questo è poco ma sicuro, come si dice dalle mie parti.

Insomma, l’ultima ondata scandalistica non va rubricata come “Questione Morale”, ma deve essere collocata nell’annosa e sempre più capitalisticamente insostenibile questione afferente le famose  “Riforme Strutturali”. La questione non è “morale”, per riprendere la celebre formula berlingueriana che tanto successo ha avuto e continua ad avere nel “popolo di sinistra”, ma “strutturale”, nell’accezione più rigorosa del concetto. (Qui per “struttura” intendo anche l’«infrastruttura politico-istituzionale», per dirla con i sociologi, chiamata a servire le esigenze di competitività sistemica del Paese). Oppure date l’ultima parola a Giuliano Ferrara: «Smettetela di rubare, per favore, tregua; oppure la smettano di arrestarvi e vi lascino delinquere in pace, ché tanto nulla poi cambia e non se ne avvantaggia alcuno, neppure il dott. Gribbels. Tertium non datur. Eccheppalle» (Il Foglio, 4 giugno 2014). Già, eccheppalle!

È UFFICIALE: PAPA FRANCESCO NON È COMUNISTA. CHE DELUSIONE!

papaFRANCESCO_TNTERRASANTAÈ dunque ufficiale: Papa Francesco il Misericordioso, nonché il fustigatore dei politici corrotti («sepolcri imbiancati»), non è comunista. Occorrerà farsene una ragione. La “destra” (al netto dei recalcitranti “atei devoti” del Foglio) esulta: «Il Papa è nostro!»; la “sinistra”… anche. Ma cos’ha detto di così sorprendente il Santissimo? Per la verità nulla. Si è limitato a ripetere quanto aveva detto e scritto altre volte, in pratica in ogni occasione utile. Ecco comunque le sue parole: «Per me il cuore del Vangelo è nei poveri. È stato detto che l’opzione preferenziale per i poveri fa di me un comunista, ma non è così. Questa è una bandiera del Vangelo, non del comunismo. La povertà è senza ideologia. I poveri sono al centro dell’annuncio di Gesù, basta leggerlo».

In effetti, la bandiera del Comunismo (e quindi non sto parlando né di Stalin né di Mao né dei loro nipotini 2.0 che amano definirsi “comunisti”, per la gioia dei detrattori del Comunismo) non sono i poveri, la cui stessa esistenza legittima la funzione ideologica e sociale della Chiesa, come d’altra parte la legittima la presenza in gran copia in questo iniquo mondo dei peccatori (senza poveri, senza peccatori e senza disagiati sociali d’ogni sorta la Chiesa si troverebbe improvvisamente priva di clienti); la sua bandiera è piuttosto l’emancipazione dell’intera umanità attraverso l’emancipazione «degli ultimi», ossia delle classi subalterne. Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità, disse una volta il “Papa Rosso” di Treviri. Personalmente sono diventato un militante della teoria critico-radicale il giorno in cui ho letto quella folgorante frase. E la cosa strana, e forse a suo modo perfino dialettica, è che quella potente tesi marxiana era citata in un libro che cercava di conciliare marxismo e cristianesimo, e che mi fu prestato proprio dal professore di religione – correva l’anno 1977, se ricordo bene. La tesi centrale del saggio, che probabilmente il simpatico professore in abito talare mi prestò per confondere ulteriormente le acque che si agitavano nella mia piccola mente, non mi convinse affatto, ma le parole del gran bevitore tedesco mi rimasero scolpite nel cervello, e a suo modo fecero un po’ di chiarezza nel caotico ancorché esiguo materiale grigio.

Non la cura dei poveri, dunque, ma il superamento delle condizioni sociali che generano sempre di nuovo sfruttamento, oppressione, alienazione, reificazione e ogni genere di miseria sociale (“materiale” e “spirituale”) è «l’opzione preferenziale» del Comunismo come movimento politico che agisce nella vigente società disumana . La cura e la compassione per i poveri (nel corpo e nello spirito) sono al centro delle ideologie “umanitarie” che non mettono radicalmente in questione lo status quo sociale; la lotta di classe per superare una volta per tutte il fondamento storico-sociale dell’indigenza sociale (“materiale” e “spirituale”) è il necessario corollario del Comunismo come «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».

Diverse volte Francesco ha sostenuto l’esigenza di modificare radicalmente il nostro «immaginario» alienato e reificato, e si è scagliato contro la religione che ha nel denaro e nella merce le sue divinità. Egli auspica una vita più austera (per la gioia dei beati berlingueriani), più “francescana”, più incline a seguire la virtuosa strada indicata dai «veri valori», che poi sono quelli cattolici, si capisce. Anche qui, nulla di nuovo, e ciononostante il Papa è stato accusato di sinistrismo dai cultori di Benedetto XVI. Tanto per fare un esempio, la teologia cristiana del XIX secolo è profondamente segnata dall’anticapitalismo reazionario che esprimeva la paura dei ceti aristocratici di perdere definitivamente ogni potere e ogni prestigio sociale.

D’altra parte, scagliarsi contro i «nuovi e luccicanti idoli» mi sembra il minimo sindacale di ogni predica cristiana meritevole di essere ascoltata. Tanto più nel momento in cui la Chiesa si è trovata al centro di una grave crisi sistemica: «La prima conseguenza di Bergoglio è quella di aver rilanciato la Chiesa, attraverso se stesso, nel mondo. Di averla riportata al ruolo di soggetto del dibattito pubblico – politico, religioso e culturale – internazionale e di averne fatto di nuovo un attore geopolitico, ascoltato e influente: il caso più eclatante è quello della Siria ma ve ne sono altri. Sul piano interno, poi, il Papa ha avviato una riforma dell’istituzione ecclesiastica che dovrà essere perfezionata ma che per ora continua a portare avanti col suo stile» (L. Caracciolo, Le conseguenze di Papa Francesco, La stampa, 12 marzo 2014). La saggezza politico-ideologica della Chiesa non si discute, mentre fanno ridere quei sinistrorsi che pensano di poter tirare a loro profitto i santi paramenti del Papa venuto da lontano. Né fa ridere il guru-comico di Genova quando dice che «Bergoglio è il primo grillino della storia»: una così bassa opinione del Papa non l’ha concepita nemmeno il teologicamente pretenzioso Giuliano Ferrara!

A ben vedere, per riformare il nostro capitalistico «immaginario» occorre superare il vigente meccanismo sociale che tutto sfrutta, consuma, mercifica, inquina e disumanizza. Per mutuare Marx, Francesco vuole emancipare l’uomo dalla religione del denaro e della merce solo «affinché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante», mentre si tratta di gettare via la catena capitalistica e cogliere i fiori vivi della Comunità Umana, oggi sempre più possibile e, al contempo, sempre più negata. È in questa presa di coscienza che, a mio avviso, si deve individuare la sola «rivoluzione culturale» in grado di ripristinare il Tempo della Speranza.

«Diceva Hélder Càmara, il “Vescovo delle favelas”: “Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano Santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”. Lo stesso potrebbe dire papa Francesco» (A. M. Cossiga, Il papa è comunista?, Limes, 11 marzo 2014). Il comunista, e qui mi si consenta un po’ di metafora spicciola, non intende sfamare i poveri (perché aggiungersi ai tanti buoni di cuore, laici e religiosi, che si affannano per alleviare le sofferenze dei nostri fratelli che soffrono?): egli vuole piuttosto abolire la povertà stessa. Ecco perché il comunista giudica come la peggiore politica possibile per i dominati la politica del male minore, la quale suggerisce al pensiero che solo il realismo, ossia l’accettazione di un mondo imperfetto, è in grado di promuovere utili cambiamenti. Ma si tratta di conquistare un mondo umano, semplicemente umano, non perfetto. Come si dice, la perfezione non è di questo mondo; l’umanità può esserlo.

papa-francesco-al-telefono-52536_218x218Squilla il telefono. Ma è Lui! «Pronto? Ciao! Sono Francesco. Ci manca solo che dici che il Paradiso può discendere sulla Terra!» Certo Francy, lo dico: può! Ho scritto può, Santissimo: forse sono comunista, ma di certo non difetto di… realismo.

BARACK E FRANCESCO. LA COPPIA PERFETTA

san obama«Barack Obama ha avvertito oggi che i membri della Nato non possono permettersi di tagliare la spesa militare. “La situazione in Ucraina ci ricorda che la libertà ha un costo”, ha detto il presidente americano qui a Bruxelles dopo un incontro con il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e il presidente della Commissione José Manuel Barroso» (Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2014). Non so cosa succede a voi quando il Presidente della prima potenza capitalistica/imperialista del mondo parla di «libertà». Nel mio caso la manina corre velocemente e nervosamente alla rivoltella (metaforica, maresciallo, metaforica, per carità!).

Inutile dire che con il Santissimo Francesco il Nobel per la Pace a stelle e strisce, nonché teorico dell’uso massiccio dei droni nei teatri di guerra (ossia ovunque vi siano interessi americani da difendere), parlerà appunto della pace nel mondo, nonché delle tante magagne che ancora affliggono questo povero pianeta: ingiustizie e diseguaglianze sociali, fame, malattie, inquinamento, surriscaldamento/congelamento di Gaia, e via elencando sulla scorta del noto catalogo delle sventure caro al politicamente ed eticamente corretto. «Obama – ha dichiarato un consigliere del presidente – ammira la leadership di Papa Francesco e con lui discuterà il loro comune impegno a combattere la povertà e la disuguaglianza crescente». Come non sciogliersi in un compassionevole e speranzoso Alleluia?

«La presenza del demonio», ha dichiarato Francesco qualche mese fa (mandando in bestia diversi suoi simpatizzanti sinistrorsi e in solluchero… Giuliano Ferrara!), «è nella prima pagina della Bibbia, e la Bibbia finisce anche con la presenza del demonio, con la vittoria di Dio sul demonio. […] Sant’Ignazio ricorda che “l’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana”». Certo, il Demonio non come mera metafora teologica, o come espressione di un disagio psichico, secondo l’ingannevole lettura di «alcuni preti che quando leggono i brani del Vangelo, dicono: “Gesù ha guarito una persona da una malattia psichica”»; piuttosto il Demonio come concreta realtà, come «nemico numero uno», come «essere oscuro e conturbante che esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana» (Paolo VI, 15 novembre 1972).

Ora, non vorrei rubare il mestiere né a Giuliano Ferrara né, tanto meno, all’inarrivabile Eugenio Scalfari, i quali sono avvezzi a dare del tu all’Insondabile; e tuttavia, nel mio infinitamente piccolo, non posso contenere un amletico dubbio: e se si trattasse del Dominio, e non del Demonio? E se «il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana» avesse l’impalpabile ma concretissima sostanza di un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento? Avanzo una semplice ipotesi, Intendiamoci.

imagesMa guarda che bizzarre e oziose idee mi vengono in mente proprio quando Barack e Francesco si misurano con la difficile e complessa realtà del mondo e in fraterno sodalizio tirano avanti il pesante Carro del Progresso. Dio, o chi ne fa le veci, mi perdoni!

PRESSIONI “UMANITARIE” SULL’INFERNO NORDCOREANO

KIM-JONG-UNDopo decenni di imbarazzante silenzio, anche l’ONU “scopre” e denuncia le «violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani» nell’ultima roccaforte dello stalinismo-maoismo più retrivo. Secondo il Rapporto dell’ONU reso pubblico a Ginevra il 17 febbraio, centinaia di migliaia di prigionieri politici sono morti nei campi di prigionia della Corea del Nord mediante una «politica deliberata di fame, lavori forzati, esecuzioni, torture, stupri, aborti forzati, infanticidi». Il regime di Pyongyang non ha certo lesinato sforzi per assicurare ai suoi amatissimi sudditi l’inferno su questa terra baciata dal Capitale. E se pensiamo che questo miserabile inferno è passato alla storia come comunismo [sic!], ancorché “reale” [risic!], ci rendiamo ben conto in che razza di mostruosità l’astuto Dominio capitalistico mondiali ci ha cacciati.

Scrive AsiaNews (18 febbraio): «Le testimonianze [raccolte nel Rapporto] sono terribili: centinaia di migliaia di persone sono morte nei campi di lavoro del regime, rinchiuse a causa di motivazioni politiche, religiose o sociali. Secondo il testo, all’interno dei gulag (che conterrebbero ancora oggi circa 300mila persone) il diritto “non esiste: i lavoratori sono costretti a vivere e morire come animali, sono sottoposti a violenze sessuali e torture, sotto una perenne coercizione psicologica”. La situazione non è nuova: in effetti dura da 61 anni, ovvero dalla divisione in due della penisola coreana al termine della Guerra di Corea». Una pagina particolarmente mostruosa e odiosa del grande Libro Nero del Capitalismo Mondiale.

«Non serve molto per essere arrestati in Corea del nord. Puoi essere portato in un campo di lavoro se nomini i leader Kim Il-sung o Kim Jong-il senza anteporre il titolo di “compagno tongji”. In Corea del nord la gente fuma il tabacco arrotolato nei fogli di carta. Quando non c’è abbastanza carta, qualcuno al suo posto usa i fogli del quotidiano Rodong. Puoi essere deportato nei campi di prigionia perché magari non hai fatto attenzione all’immagine di Kim Il-sung riportata sul giornale» (Il Foglio, 24 settembre 2013). Non c’è dubbio: il “comunismo” con caratteristiche nordcoreane nuoce gravemente alla salute! Ma suggerisco un’altra ipotesi: chi scrive il post che state leggendo potrebbe essere un servo sciocco dell’Imperialismo occidentale, e difatti cita nientemeno che Il Foglio dell’ultrareazionario Giuliano Ferrara. Meditate gente, meditate…

Naturalmente quando l’ONU, «un cesso» secondo la sobria e intelligente definizione del citato Elefantino Ferrara, «un covo di briganti» secondo una definizione a me più congeniale mutuata da Lenin e da lui coniata per la Società delle Nazioni; quando l’ONU, dicevo, tira in ballo la violazione dei “diritti umani” in riferimento a questo o quel Paese, lo fa o per conseguire un obiettivo ideologico, ossia per tacitare la “coscienza ferita” della cosiddetta opinione pubblica mondiale, oppure perché qualcosa di nuovo bolle in pentola nella “dialettica” fra le potenze mondiali.

Non di rado dopo la pioggia “umanitaria” che dà refrigerio alle angustiate coscienze dei buoni di spirito, segue la fioritura dei missili intelligenti, che dà la pace (eterna) ai cattivi di turno.

Che tutte le nazioni che contano, compresa la Cina, la Potenza che ha foraggiato la Corea del Nord nel corso degli ultimi sei decenni, non vedano l’ora di chiudere definitivamente lo scottante dossier nordcoreano con il minimo costo possibile in termini di sangue e di contraddizioni (gestione del rischio nucleare, esodo “biblico” dal Nord del Paese verso il Sud e la Cina), è cosa nota. Ma come fare? Intanto, la Corte Penale dell’Aia è pronta a organizzare un bel processo di espiazione internazionale contro il simpatico e «Carissimo Leader» Kim Jong-un.

Kim%20Jong%20UnL’ambasciatore cinese alle Nazioni Unite Wu Haitao ha ovviamente negato ogni responsabilità del Celeste Impero nell’inferno con caratteristiche nordcoreane, aggiungendo che Pechino «continuerà a gestire in modo prudente e appropriato» il rognoso dossier nordcoreano. In realtà la Cina, che sa benissimo di essere il vero obiettivo delle pressioni “umanitarie” esercitate dagli Stati Uniti, ha accusato il “proditorio” colpo, e il ministero degli Esteri cinese ha fatto sapere a Washington che la politicizzazione della questione dei diritti umani non contribuisce a risolvere i problemi, né a convincere i cinesi a votare in sede di Consiglio di Sicurezza nuove sanzioni ai danni di Pyongyang. Ma su questo punto la posizione di Pechino appare meno tetragona del solito. E anche questo può essere l’indizio che qualcosa nella pentola geopolitica di quel delicato quadrante sta davvero bollendo. Si tratta di sapere chi rimarrà scottato.

Vedi:

COREA DEL NORD. LA FAME UCCIDE. LA TELEVISIONE PURE

PROVE DI APOCALISSE NUCLEARE LUNGO IL 38° PARALLELO

IL SOL DELL’Avvenire

IN MEMORIA DEL GENERALE INIVINCIBILE E SEMPRE TRIONFANTE

AMICO NORD COREANO, SPUTA L’ERBA E ADDENTA LA BISTECCA!

PAPA FRANCESCO TRA KATÉCHON E REALISMUS

mathematicians-pythagoras-001Delle risposte Che Papa Francesco ha voluto dare alle domande postegli dell’illuminista che non cerca Dio (secondo la sua stessa definizione) Eugenio Scalfari, mi ha colpito soprattutto quella concernente il carattere più o meno assoluto della verità. Vediamo intanto come il Santo Padre del giornalismo italiano ha impostato la domanda: «Il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?» (La Repubblica, 7 agosto 2013).

Per sondare lo spessore intellettuale dell’illuminismo scalfariano, e così avere un’idea un po’ più precisa circa il suo fondamento concettuale (“filosofico”), è sufficiente leggere quanto segue: «Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini». La religione come Grande Illusione e come oppio dei popoli: una tesi che non può non suonare triviale, oltre che banale, al metaforico orecchio di chi cerca di studiare criticamente e con sguardo penetrante la storia della millenaria prassi sociale umana.

Ma qui non è il caso di riprendere la distinzione che corre tra il punto di vista dell’ateismo borghese di matrice illuminista, che riduce appunto la religione a un difetto di Ragione, e quello critico-radicale, maturato – almeno per quanto mi riguarda – alla luce del potente pensiero marxiano: l’azione rischiarante dell’ateismo illuminista alla fine non fa che «strappare dalla catena i fiori immaginari», ottenendo con ciò che «l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante», mentre si tratta di gettare via la catena e «di cogliere i fiori vivi» (Marx). Su questo punto rimando a diversi scritti pubblicati su questo blog (vedi anche L’Angelo nero sfida il Dominio).

Ma veniamo alla “spiazzante” (vedremo per chi) risposta di Francesco: «Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!» La «verità è una relazione», con tanto di punto esclamativo che ne rafforza il concetto. L’assoluto privo di relazione è un assoluto vuoto, privo di concrete determinazioni, e perciò inidoneo a fondare verità di qualche genere. La verità esiste solo nella correlazione tra Dio e uomini mediata da Gesù.   «Tant’è vero», continua il “correlazionista” Francesco, «che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».

Qui, a mio modesto avviso, insiste – magari solo “oggettivamente” – la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, ossia la scoperta dell’Assoluto che si dà solo percorrendo «una via lunga e difficile» fatta di eventi storici e sociali.

«Dell’assoluto, infatti, bisogna dire che è essenzialmente un risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità» (Fenomenologia). Hegel era del tutto cosciente che l’Assoluto concepito essenzialmente come risultato «possa sembrare contraddittorio», e per sciogliere l’apparente contraddizione introdusse il fondamentale, quanto scabroso e a suo modo luciferino, concetto di mediazione, nei confronti del quale «c’è però una specie di timor panico, come se accettare l’affermazione per cui la mediazione sarebbe qualcosa di assoluto e avrebbe luogo nell’Assoluto, significasse dover rinunciare alla conoscenza assoluta».

A differenza di Hegel, e sulle orme del gigante di Treviri, io “declino” la mediazione in termini squisitamente storico-sociali: «L’uomo è (storicamente, socialmente e antropologicamente) tale nella misura in cui oppone resistenza, materiale e spirituale, alle cose, e non le subisce semplicemente e passivamente. L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, per così dire, prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione. Mediare significa comprendere, trasformare, padroneggiare, senza soluzione di continuità reale e concettuale. Medio, dunque esisto! L’uomo è la specie che pone la mediazione. Probabilmente è in questo porre la distanza tra sé e la natura, che ha reso possibile l’anomalia chiamata uomo, che va cercata la genesi del Male e la possibilità del suo definitivo annientamento» (da Bisogno ontologico e punto di vista umano).

Molto interessante appare anche la risposta francescana alla terza e ultima domanda di Scalfari, quella che mobilita il pezzo forte del correlazionismo soggettivista: la realtà del mondo dopo la scomparsa dell’uomo.

«Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero». Fin qui siamo a un minimo sindacale di oggettivismo teologico, se così posso esprimermi. La realtà di Dio si colloca fuori del soggetto. Ma non ne prescinde, perché «il rapporto è tra due realtà». «Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno –, l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di “cieli nuovi e terra nuova” e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà “tutto in tutti”».

Non è il caso adesso di cogliere le eventuali contraddizioni teologiche e filosofiche (a mio avviso una distinzione puramente formale) rintracciabili nella riflessione di Francesco (o dell’«agostiniano Ratzinger»?); ciò che qui conta rilevare è che egli non riesce, fino all’ultimo, a separare il destino di Dio da quello dell’uomo. Ed è precisamente in questo sforzo di suprema Riconciliazione che il pensiero religioso mostra sempre un volto assai più umano di quello esibito dal pensiero scientifico.

Quando prima definivo “spiazzante” la risposta francescana alludevo soprattutto a Giuliano Ferrara, l’ateo più devoto (forse dopo Scalfari) esistente in natura. Nel suo editoriale dell’11 settembre intitolato, assai significativamente, Relativismus il direttore del Foglio ha voluto piegare strumentalmente la riflessione di Bergoglio in modo da ricondurla alla misura della secolare, e non sempre eticamente e teologicamente specchiata, prassi missionaria dei gesuiti. «I gesuiti sanno come fare missione. Hanno elaborato la missionologia portandola a vette iperteologiche. La loro pretesa relativistica è stata oggetto di calunnie, di sberleffi pascaliani, di inquisizioni d’ogni genere, sono stati combattuti e banditi dai governi e dalla stessa chiesa per questa loro capacità politica di inculturare la fede cristiana in forme le più sottili, le più arrischiate». Le più arrischiate, appunto.

Mentre il Relativismus gesuitico di Francesco tormenta Ferrara (e lo tormenterebbe di più se leggesse la mia interpretazione “hegeliana” della lettera papale), il quale confida nella capacità di obbedienza degli «eroici reverendi padri», ciò che inquieta «il pregiatissimo Dottor Scalfari» è piuttosto l’illusione francescana di Francesco, sebbene egli dica di apprezzarla alquanto. Almeno è questa una delle possibili letture che, a mio giudizio, si possono fare dai passi che seguono:

Giotto__Predella_3«Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II. Una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere, diventerebbe irrilevante. È accaduto con Lutero ed oggi le sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi. Non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione. La Chiesa cattolica, piena di difetti e di peccati, ha resistito ed è anzi forte perché non ha rinunciato al potere. Ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo, come pure Francesco d’Assisi e Gesù di Nazareth. Ma non credo che Gesù sarebbe diventato Cristo senza un San Paolo. Lunga vita a Papa Francesco». E, mi pare di poter leggere in controluce tra le righe, soprattutto lunga vita alla potente “funzione katechontica” al servizio del Dominio praticata dalla Chiesa Romana.

A questo punto non posso che invitare il lettore alla lettura del mio Dominio e katéchon.