Il Global Time, il quotidiano in lingua inglese del regime cinese, si chiedeva ieri: «Si sta verificando una rivoluzione colorata a Hong Kong?». La risposta non si fa attendere e non potrebbe essere più chiara: «Pensiamo di sì, anche se questo è in qualche modo sconcertante». Ciò che sconcerta i funzionari del Partito-Stato è che una protesta nata su questioni particolari, sebbene di notevole importanza politico-istituzionale, si sia rapidamente trasformata in «una spietata distruzione dello Stato di diritto della città», abbia cioè assunto la dimensione di un movimento sociale che contesta l’intero assetto politico-istituzionale di Hong Kong basato sulla nota formula “Un Paese, due sistemi”. Come scrivevo in un precedente post, la formula andrebbe modificata come segue: «Un Paese (ovviamente la Cina), un sistema sociale (quello capitalistico), due diversi regimi politico-istituzionali – in attesa del fatidico, e per molti cittadini di Hong Kong famigerato, 2047, anno fissato per la piena integrazione dell’isola nel sistema cinese».
In realtà non c’è nulla di sconcertante in ciò che è accaduto e sta accadendo a Hong Kong, perché molto spesso una crisi politico-sociale di limitate proporzioni si trasforma rapidamente in una scintilla che innesca un incendio di vaste proporzioni, soprattutto in presenza di un materiale esplosivo che per deflagrare aspetta solo un detonatore di qualche tipo. Lo abbiamo visto recentemente in Francia con i Gilets Jaunes. La pressione generata dalle contraddizioni sociali ha modo di venire allo scoperto tutte le volte che essa incontra un punto di debolezza o uno strappo nel tessuto sociale. Scrive il sociologo Paolo Sorbi: «Il motore delle proteste a Hong Kong è la diseguaglianza. Milioni di ragazzi contestano i troppi divari del paradiso super liberista. L’isola è l’emblema della globalizzazione che però mostra gli stessi segni di crisi delle dinamiche internazionali. Sono soprattutto le fasce giovanili a risentire della precarietà lavorativa prodotta dalla concentrazione finanziaria e tecnologica» (Avvenire, 11/8/2019). E questi stessi giovani sanno che il regime cinese tratta col pugno di ferro ogni forma di espressione del dissenso sociale (che esso controlla servendosi dei mezzi tecnologici oggi più avanzati del pianeta: vedi riconoscimento facciale), ed è quindi comprensibile che essi si facciano delle illusioni sulla democrazia di stampo occidentale, la quale usa metodi assai più sofisticati di quelli normalmente adoperati da Pechino per arginare, imbrigliare e soffocare l’antagonismo sociale, anche se l’uso del nodoso bastone quando occorre è tutt’altro che raro nei Paesi occidentali.

Un “terrorista” in piena azione a Hong Kong. Basterà il suo “delinquenziale” travisamento contro il riconoscimento facciale?
Gli ideologi della democrazia occidentale contestano al regime cinese l’uso del concetto di Stato di Diritto: «Quello cinese non è uno Stato di diritto ma uno Stato autoritario». Nella misura in cui ritengo il concetto di Diritto strettamente e inscindibilmente legato al concetto di Dominio (di classe), ritengo del tutto infondata la contrapposizione ideologica («a testa in giù») tra Stato di Diritto e Stato autoritario. Come ho scritto altre volte, il diritto equivale a forza, di più: il diritto è forza (materiale, politica, culturale, ideologica, psicologica, in una sola parola: sistemica). Scriveva Marx: «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro Stato di diritto» (Grundrisse).
Non sarò insomma io a contestare al regime cinese, come a qualsiasi altro regime di questo capitalistico mondo (a cominciare da quello italiano, visto che la mia nazionalità batte bandiera italiana), il Diritto di regolare con la forza i conti con il ribellismo sociale, prassi escrementizia che ovviamente mi troverà sempre all’opposizione, “senza se e senza ma”. A questo proposito devo confessare che mi fanno ridire (trattasi di eufemismo!) i discorsi di quei “comunisti” che sostengono la tesi secondo la quale solidarizzare con il movimento sociale di Hong Kong significa, «di fatto, oggettivamente» (sic!), indebolire la Cina e rafforzare gli Stati Uniti, come se il contrasto tra questi due Paesi non si dipanasse interamente sul terreno della contesa interimperialistica! Ovviamente le cose non stanno così per i sostenitori del «Socialismo con caratteristiche cinesi», degni eredi degli stalinisti che ai “bei tempi” dell’Unione Sovietica difendevano le ragioni dell’imperialismo russo contro le ragioni dell’imperialismo americano, ragioni che dal punto di vista autenticamente rivoluzionario erano disumane e ultrareazionarie in egual misura. Le classi subalterne, ovunque esse sono sfruttate e oppresse, hanno lo stesso nemico (il dominio sociale capitalistico) e possono contare solo sull’autonomia di classe: ogni tifoseria “campista” (campo occidentale o campo antioccidentale?) non è che un arruolamento dei subalterni negli eserciti che combattono quotidianamente la guerra sistemica globale/mondiale.
Il Global Times teme come la peste il regime change: «I manifestanti radicali mirano a costringere il governo centrale a rinunciare alla governance su Hong Kong, ad aderire al suffragio universale e riportare la città sotto il controllo del mondo occidentale. Lo status di centro finanziario internazionale della città, la sua industria marittima internazionale e il turismo sono la linfa vitale della sua economia, che è stata pesantemente colpita dalle rivolte. Se Hong Kong perde il suo status di centro finanziario internazionale, il declino della città è inevitabile. […] Il governo cinese non permetterà mai all’opposizione estremista e all’Occidente di trascinare Hong Kong nel campo anti-cinese, né permetterà alla città di scivolare nel caos a lungo termine o diventare una base per l’Occidente per sovvertire il sistema politico cinese». Ce n’è abbastanza da temere il bagno di sangue. Il sangue di giovani già bollati da Pechino come terroristi. «Decine tra blindati corazzati e camion per il trasporto truppe dell’Esercito sono stati piazzati in uno stadio di Shenzhen, la città cinese a ridosso di Hong Kong: lo riferisce il Daily Mail pubblicando le immagini satellitari del sito» (ANSA). Ecco, appunto!