Come orientarsi nel guazzabuglio delle opposte “evidenze scientifiche” che si confrontano sul cosiddetto global warming? Personalmente non sostengo un atteggiamento scettico sulla scottante questione, ma un atteggiamento critico orientato politicamente. Perché al di là di tutte le opposte “evidenze scientifiche” che ci vengono propinate da tutte le parti una cosa è sicura, almeno per chi scrive: la posta in gioco non è la salvezza del pianeta ma la salvezza del Capitalismo. Si può anche obiettare che le due cose non si escludono a vicenda e che anzi esse combaciano perfettamente, posta la dimensione planetaria assunta dall’economia capitalistica; l’obiezione, tutt’altro che infondata, ci aiuta quantomeno a comprendere i reali (storici e sociali) termini della “problematica”, liberandola da quella discussione metafisica nella quale è sequestrata.
Il catastrofismo apocalittico sul global warming, ad esempio, ci suggerisce, più o meno esplicitamente, di abbandonare le “vecchie” categorie che fanno capo a una concezione classista della società, la quale appare insignificante se guardata dalla prospettiva della salvezza del pianeta, senza la cui sopravvivenza non sarebbe possibile alcun tipo di futuro per la nostra specie e per ogni altra specie animale e vegetale. Ancor prima di essere capitalisti, lavoratori, disoccupati e quant’altro siamo anzitutto esseri umani, e in quanto tali abbiamo delle responsabilità nei confronti del nostro pianeta; lo dice anche la Bibbia: «Dio il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Genesi). Il 2 giugno il Presidente Mattarella ha detto che dobbiamo considerare il pianeta che ci ospita come la nostra vera Patria, provocando, a quanto pare, in Laura Boldrini un’estasi mistica senza precedenti. Non so perché ma tutti questi discorsi politically correct di stampo francescano sulla Terra non mi convincono affatto, anche perché il giardino dell’Eden non conobbe mai la maligna divisione classista degli uomini. Si scherza, Francesco, si scherza!
Essendo un anticapitalista radicale non solo non avrei alcun interesse a mettere in questione le tesi di chi pone in diretto rapporto, ossia in una stringente relazione di causa-effetto, le attività industriali (con la conseguente produzione/emissione di CO2 e di altri “gas serra”) con i cambiamenti climatici, ma avrei all’opposto tutti i titoli, diciamo così, per cavalcarle selvaggiamente, quelle tesi, al fine di dimostrare l’inevitabile insostenibilità ambientale, oltre che umana, della vigente società capitalistica, la quale nel XXI secolo ha appunto la dimensione dell’intero pianeta. Il fatto che l’economia basata sul profitto sia oltremodo deleteria per l’uomo e per la natura è una delle pochissime e durature verità che la mia indigente testa è stata in grado di assimilare fin da piccolo. E di questo devo ringraziare soprattutto l’alcolizzato di Treviri, la cui dottrina ha fatto da argine ai liquami ideologici che cercavano di penetrare da tutte le parti nella mia peraltro debole faglia intellettiva.
D’altra parte, come la stragrande maggioranza degli individui che formano la cosiddetta opinione pubblica mondiale anch’io non posso vantare un background di conoscenze scientifiche tale da consentirmi un autonomo potere discrezionale da esercitare nei confronti delle tesi che si confrontano nel dibattito internazionale sui cambiamenti climatici: essi sono dovuti alle “attività antropiche” o a cause naturali? Di più: ma è proprio vero che siamo dinanzi a significativi, cioè scientificamente apprezzabili, cambiamenti climatici? Quello che ho capito districandomi nella complessa “problematica” è che basta aggiungere o omettere una serie di dati considerati graditi/sgraditi per dimostrare la bontà di una tesi (il global warming è reale ed è provocato dalle attività umane ecologicamente insostenibili) e di quella opposta (ancora oggi i mutamenti climatici sono dovuti essenzialmente a cause naturali, a cominciare dall’azione del Sole sul pianeta). Ci si chiede da che parte stare obbligandoci a un atto di fede! E io da che parte mi schiero? Mi viene in mente una vecchia pubblicità: «Fa caldo, fa freddo, fa tiepido». Oggi qualcuno sulla stampa ha scritto che il riscaldamento è globale ma il freddo (soprattutto quello sociale, alleato dei “populisti” alla Trump *) è locale: insomma la confusione, nella testa di molti (a cominciare dalla mia!), è tanta.
Come ho detto, non sono in grado di elaborare sul global warming, come su altre questioni che richiedono una certa competenza scientifica, una mia autonoma posizione che possa definirsi, non dico scientifica, ma quantomeno seria, che non sia cioè solo il frutto del mio narcisistico bisogno di apparire un tuttologo agli occhi del mondo, che peraltro giustamente non si cura di me. Certo, la tentazione “tuttologa” c’è, ed è forte (si nutre anche della mia forte ostilità nei confronti della concezione specialistica dei problemi: solo i medici possono parlare di questo, solo i fisici possono parlare di quello, ecc.), ma cerco di resisterle.
Mi capita spesso di dare ragione all’una o all’altra tesi a confronto in materia di mutamenti climatici in ordine di lettura, di ascolto o di visione: mi convince la tesi “positivista” di chi dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la relazione tra emissioni di “gas serra” e riscaldamento del pianeta, e poi, solo dopo pochi minuti, mi lascio convincere dal “negazionista” che dimostra, sempre oltre ogni ragionevole dubbio e sciorinando la consueta messe di inoppugnabili “evidenze scientifiche”, che in realtà non esiste alcuna prova circa quella demoniaca correlazione. La cosa naturalmente vale a parti invertite. Com’è possibile? Chi ha dunque ragione? Qualcuno cerca forse di vendermi del cibo avariato spacciandolo per ottima e freschissima pasta alla Norma? Di sicuro le tesi a confronto non possono essere entrambe vere. Purtroppo, e come ho già confessato, non ho le giuste competenze per dare ragione a una tesi e torto all’altra, e così mi vedo costretto a costruire ponti politico-concettuali, non scientifici (quantomeno nell’accezione comune del concetto di scienza), da gettare in direzione della verità.
So ad esempio che il rispetto ambientale cui debbono attenersi le «attività antropiche» (secondo lo standard internazionale Anti-pollution) sono già da tempo entrate a pieno titolo nelle aggressive strategie concorrenziali delle grandi imprese multinazionali tecnologicamente più avanzate del pianeta: infatti, attraverso le politiche aziendali “rispettose” della sicurezza sul lavoro e dell’ambiente il grande Capitale mette fuori mercato la media e la piccola impresa, ma anche la stessa grande impresa che non riesce a tenere il passo con quelle aggressive e costose politiche “eticamente corrette”. Standard qualitativi e competizione/concentrazione capitalistica sono due facce della stessa medaglia. Lo “scandalo” Volkswagen scoppiato negli Stati Uniti nel 2015 si spiega anche con quanto appena detto. Sul terreno della competizione capitalistica globale anche le benemerite Organizzazioni Non Governative dedite alla salvezza del pianeta stanno dando un notevole contributo.
Vogliamo poi parlare del colossale giro d’affari che c’è dietro al movimento d’opinione mondiale che promuove il superamento delle tecnologie che consumano combustibili fossili? Tifo forse per il carbone, il petrolio e il gas naturale? Ma è proprio l’atteggiamento di tifoseria che contesto! Un atteggiamento a cui ci costringono i padroni del mondo, abbiano o meno essi un’anima “verde” o “nera”, che finanzino lobby del petrolio e del carbone piuttosto che quelle delle pale eoliche e dei pannelli fotovoltaici, ecc. Green o black, per me il Capitalismo ho sempre lo stesso colore, un colore che non mi è mai piaciuto e che, se possibile, mi piace sempre meno, soprattutto nella sua variante “ambientalista”, specchietto per allodole e per mosche cocchiere.
Leggo da qualche parte: «Bisogna decidersi a seguire i messaggi che ci vengono dalla scienza: nessuno ormai è in grado di contestare seriamente che il clima stia cambiando e che la componente antropica sia molto importante, in tale mutamento, benché anche in questo campo qualche “negazionista” ogni tanto si trovi». Perché criminalizzare come «negazionista», con evidente e odiosa allusione a chi nega lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, chi sostiene tesi contrarie al mainstream sul riscaldamento globale? «È indubbiamente difficile, quest’inverno, convincere la gente che la neve e il freddo degli ultimi giorni non sono che un’altra faccia dello stesso problema, e che tutti i veri scienziati concordano che la temperatura globale si sta alzando». E gli scienziati che sostengono la tesi contraria non sono «veri scienziati»? Posso sbagliarmi, ma nella tifoseria che sostiene il global warming c’è un di più di faziosità fanatica rispetto alla tifoseria opposta, forse perché il ciclopico compito di salvare (nientemeno!) la vita sul nostro pianeta può generare in qualche testa un eccesso di euforia ideologica. Ovviamente do per scontato che il solito zelota ambientalista mi metta fra i “negazionisti” – purtroppo non registrato sul libro paga della demoniaca lobby dei petrolieri.
Una volta Georges Sorel disse che le masse, per produrre eventi socialmente apprezzabili, non hanno bisogno di storia – né di scienza, potremmo aggiungere – ma di miti; ho come l’impressione che anche una certa concezione scientifica, messa al servizio della propaganda politica, possa annoverarsi fra i moderni miti.
A proposito di “negazionisti”! Secondo Antonio Zichichi, celebre fisico e divulgatore scientifico, nonché professore emerito del dipartimento di fisica superiore dell’Università di Bologna, «Occorre distinguere nettamente tra cambio climatico e inquinamento. L’inquinamento esiste, è dannoso, e chiama in causa l’operato dell’uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un’enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale. L’azione dell’uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, ad oggi, gli scienziati, come dicevo, non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future. Ma io sono ottimista» (Il Mattino). Beato lui! Scherzi a parte, tutto questo discorrere di climate change rischia di mettere in ombra ciò che è certo, ossia il terribile inquinamento del pianeta ad opera dell’economia basata sullo sfruttamento sempre più intensivo e scientifico di uomini e natura. E infatti, l’aspetto più comico, per così dire, del minacciato ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul contenimento delle emissioni (firmata da 195 paesi a Parigi nel dicembre di 2 anni fa) è che la Cina, il cui Turbocapitalismo ha distrutto nel volgere di pochi decenni fiumi, laghi, mari, cieli, boschi, animali e uomini (**), oggi venga annoverata, insieme all’Unione Europea, fra i Paesi-leader del “movimento ambientalista mondiale”! Il premier cinese Li Keqiang ha dichiarato: «Le relazioni tra la Cina e l’Unione Europea devono rimanere stabili e consolidarsi per rispondere all’instabilità di questo mondo. Ciò richiede uno sforzo instancabile da parte nostra». Come si fa a non commuoversi davanti a una siffatta prova di abnegazione nella difesa delle sorti del nostro amato Pianeta?
È appena il caso di ricordare che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso la Cina e l’India accusavano, a ragione dal loro capitalistico punto di vista, i Paesi economicamente e socialmente più avanzati di voler usare le politiche ambientali come una clava per azzoppare le loro ambizioni nazionali. Essi parlavano di «imperialismo ecologico» dell’Occidente – e, in parte, del Giappone. Oggi sono soprattutto i Paesi africani che rivolgono quell’accusa al cosiddetto Primo mondo: «il petrolio e il carbone forse creeranno problemi al pianeta fra un secolo, ma da noi la gente muore di fame oggi, e tutti i giorni». In effetti, come diceva quello, nei tempi lunghi siamo tutti defunti.
Che la vera posta in gioco sul global warming sia di natura economica (industriale, commerciale, tecnologica, scientifica) e geopolitica si evince bene dalla citazione che segue (ma potrei citare altri mille analisti economici e politici): «Premessa personale, per quello che vale. Metterò deliberatamente da parte le mie convinzioni, poiché sono un “ambientalista scettico”, per usare l’arcinota definizione che di sé diede nel 2001 in un famoso libro Bjørn Lomborg, secondo il quale moltissime delle assunzioni sul contributo umano agli andamenti climatici sono forzate e scientificamente non comprovate. Ma se la partita è politica, si può considerare il ritiro americano anche da un altro punto di vista. Cioè come una grande occasione per l’Europa, se seguendo l’impulso di Macron su questi temi decidesse essa di diventare il grande interlocutore di Cina e India. Nessuno può oggi prevedere come reagirebbero i due giganti asiatici al ritiro americano, visti i piani e costi enormi di contenimento delle emissioni e di decarbonificazione in teoria loro richiesti, ma che comunque moduleranno unilateralmente. Se Trump agisce per le vie brevi, facendo bocciare COP21 dal Senato che non l’ha mai ratificato, allora per l’Europa sarebbe necessario uno scatto di reni immediato. Sarebbe però un’ottima cosa: perché trascinerebbe con sé grandi accordi di cooperazione tecnologica e commerciale, energetica e anche di sicurezza comune. È un’idea non troppo utile negli effetti complessivi e molto onerosa se adottata unilateralmente. Ma è al contempo invece una piattaforma interessante, se l’Europa assumesse la decisione di rilanciarla a Cina e India per un grande negoziato comune, basato su strumenti di cooperazione e sostegno, per fare della sostenibilità ambientale in quei giganti mondiali una grande sfida comune tra Europa e Asia. Sarebbe la maniera più intelligente per rispondere a un’America che non crede affatto all’esistenza di un’Europa capace di farsi protagonista internazionale. Ma sarebbe una scommessa interessante dal punto di vista geopolitico, se non vogliamo rassegnarci al ruolo di vasi di coccio tra vasi di ferro» (Oscar Giannino). Anche un «ambientalista scettico» («È un’idea non troppo utile negli effetti complessivi»), un sostenitore senza se e senza ma del liberoscambismo più ortodosso, può dunque tranquillamente sostenere la “rivoluzione ambientale” propugnata da Al Gore e dalla sua benemerita (faccio della facile ironia) compagnia di giro assai politically correct sui temi della sostenibilità ambientale, della pace e la fame nel mondo e su altre magagne oggetto della filantropia progressista. Tra l’altro, la riflessione di Giannino si ricollega alla questione dell’Unione Europea come polo imperialista autonomo di cui scrivevo in un post precedente.
Il vincolo ambientale è un potente fattore di ristrutturazione tecnologica che non può non causare vincenti e perdenti in ogni strato della società: in alto, tra i capitalisti, e in basso, tra i lavoratori. Ed è esattamente ai perdenti della globalizzazione e della “rivoluzione ambientalista” che Trump si rivolge per costruire la sua base sociale-elettorale da mettere al servizio degli interessi di almeno una parte della classe dominante americana.
In una pausa del XIX Forum economico di Pietroburgo, il virile Putin ha fatto dell’ironia (anche lui!) sugli strali che sono piovuti addosso all’amico (?) Trump dopo le sue dichiarazioni sugli accordi “climatici” di Parigi: «Siamo grati al presidente Trump [perché adesso si possono addossare a lui tutte le colpe]. Pare che oggi a Mosca abbia nevicato, qui [a San Pietroburgo] piove, ora si può dare la colpa di tutto a lui, all’imperialismo americano». La battuta putiana coglie bene un aspetto della questione che ormai da vent’anni è oggetto di Conferenze internazionali, dibattiti scientifici, diatribe politiche, battaglie culturali, giganteschi finanziamenti: la fortissima carica ideologica che contraddistingue il movimento ecologista più organizzato e militante. Alcuni analisti attribuiscono questo fatto a quei “comunisti” che dopo la caduta del Muro di Berlino, presi dal più cupo sconforto ideologico, riversarono il loro viscerale “anticapitalismo” appunto sul movimento ecologista.
Le attività industriali causano il global warming? Benissimo! Cioè malissimo: urge la rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale! Le attività industriali solo in minima parte sono responsabili del global warming? E chi se ne frega! In ogni caso urge la rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale, semplicemente perché il Capitalismo è insostenibile da tutti i punti di vista, a cominciare da quello squisitamente umano. Senza contare l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei mari e dei cieli che nessuno nega, così come nessuno nega la deforestazione e la desertificazione di intere aree del mondo dovute allo sfruttamento capitalistico delle risorse umane e naturali. In ogni caso, come scrive Giannino «la partita è politica», e in quanto tale ognuno è titolato a dire la sua sul global warming come su qualsiasi altra questione che tocca la nostra vita.
(*) «Non esageriamo con questa storia della reductio ad Hitlerum di Trump. Anche Hitler era un cialtrone, ma purtroppo per noi e per sei milioni di ebrei d’Europa era un cialtrone ben organizzato, e si appoggiava su cose vere come l’umiliazione tedesca dopo la guerra e in conseguenza dei gravami imposti alla Germania, aveva alle spalle l’invenzione del fascismo italiano, l’inflazione alla venezuelana della Repubblica di Weimar, il mito della razza e il mito del Reich. Trump cazzeggia su Pittsburgh» (Il Foglio). Si tratta del primo gesto di distensione dell’Elefantino nei confronti del fin qui disprezzato Trump?
(**) Rimando a un mio post del 2013 Sui villaggi del cancro in Cina, ossia la sostenibilità con “caratteristiche cinesi”.
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