LETTERA DI UN ANTICAPITALISTA A GRETA THUNBERG

Immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente.

Cara Greta,

mi chiamo Sebastiano, vivo in Italia e fin dall’inizio ho seguito con molta simpatia la tua battaglia contro i cambiamenti climatici e la distruzione dell’ecosistema del nostro pianeta. Il tuo discorso alla Conferenza sul Clima (COP 24) di Katowice mi ha molto impressionato e ha ispirato la riflessione che segue, che ti consegno non per convincerti, non ne avrei le capacità, ma per esporti un punto di vista che forse non conosci sulla scottante questione che tanto ci sta a cuore.

Carissima,

chi ti scrive è un anticapitalista al quale, esattamente come te, «non importa risultare impopolare» ma che, a differenza di te, non si batte per la «giustizia climatica e un pianeta vivibile», ma per un pianeta libero da una potenza sociale che ormai da più di due secoli domina, sfrutta e devasta la natura e gli esseri umani: il Capitale. Ho capito pochissime cose di come va il mondo, e tra queste te ne segnalo una: il Capitalismo è necessariamente incompatibile con il rispetto della natura e dell’umanità. Dico necessariamente perché la prassi economica che devasta tanto l’ambiente naturale quanto quello sociale non deriva né dalla cattiva volontà dei decisori politici posti al servizio dello status quo sociale, come si rinfacciano a turno i partiti che si alternano al governo nei Paesi di tutte le nazioni, né dalla malvagità della cosiddetta élite che detiene le leve dell’economia, quanto piuttosto dalla stessa natura del Capitalismo. Rapporti sociali fondati sul dominio e sullo sfruttamento dell’uomo e della natura in vista del vitale profitto (vitale, beninteso, per la Società-Mondo della nostra epoca) non possono non generare disastri d’ogni tipo: “naturali”, sociali, esistenziali. Se le classi subalterne del pianeta si impossessassero, per un “miracolo” di qualche tipo, di questa eccezionale idea, e provassero ad agire di conseguenza, questa società potrebbe davvero avere i giorni contati, e la tua generazione, facendosi essa stessa speranza, praticando la speranza, potrebbe inaugurare una nuova storia. Sì cara Greta, sto parlando di rivoluzione.

«Per fare ciò dobbiamo parlare chiaramente, non importa quanto questo possa risultare scomodo»: così hai detto qualche tempo fa; è ciò che sto cercando di fare io con te, sapendo d’altra parte benissimo che difficilmente tu e i tuoi coetanei potrete capirmi, visto che da molto tempo un punto di vista autenticamente anticapitalista non trova spazio nella società, è bandito da essa, anche a causa della miserabile fine che hanno fatto i regimi falsamente “socialisti” o “comunisti” in ogni parte del mondo. Avevo pressappoco la tua età, cara Greta, quando studiando la storia del movimento di emancipazione degli oppressi e degli sfruttati, ho capito che ciò che in Unione Sovietica, in Cina e altrove veniva propinato all’opinione pubblica mondiale appunto come “socialismo reale”, non era altro che un reale Capitalismo (più o meno di Stato), per altro una forma particolarmente aggressiva (anche nei confronti dell’ambiente naturale) e oppressiva di Capitalismo. Ti scrivo queste cose perché per me è stato molto importante scoprire improvvisamente che davvero “un altro mondo è possibile”, che non è affatto vero che dobbiamo accontentarci di vivere nella società capitalista, la quale si sarebbe dimostrata migliore di quella cosiddetta “socialista”. Un mondo a misura di natura e di umanità, e quindi, necessariamente, un mondo che non conosce la divisione degli individui in classi sociali, un mondo le cui attività siano tutte orientate a soddisfare i molteplici bisogni umani, bisogni anch’essi umanizzati, cioè a dire liberati dalla coazione mercificante del Capitale. A una mente giovane e aperta come la tua forse potrebbe interessare l’utopia che si esprime nelle mie parole. Cos’è l’utopia? Per me è il mondo umanizzato che ancora non c’è, ma che potrebbe esserci.

Come dici tu, «immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente». È dunque possibile immaginare la fine del Capitalismo e la continuazione del mondo? Oggi è più facile immaginare esattamente  il contrario, e non a caso i guru del global warming presentano la lotta ai mutamenti climatici come un’assoluta priorità che deve unire gli uomini e le donne di tutto il pianeta al di là di ogni loro differenza di classe, di nazionalità, di religione e così via. È come se la Terra subisse l’attacco di una potenza aliena, extraterrestre! Niente di più falso, e di più strumentale, perché intorno al global warming da anni si gioca una furibonda lotta economica, scientifica e tecnologica tra Paesi, Continenti e imprese. La potenza aliena che tutto sfrutta, mercifica e inquina si chiama Capitale, e gli Stati di tutto il mondo sono al suo servizio.

Tu scrivi: «La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso. Noi dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza e se le soluzioni sono impossibili da trovare in questo sistema significa che dobbiamo cambiarlo». La penso esattamente come te, anche se diversamente da te io definisco Capitalismo «questo sistema», il quale, a mio avviso, non va semplicemente cambiato, reso “migliore”, ecologicamente “più sostenibile”, ecc., ecc., come da decenni predicano i “progressisti” di tutto il mondo; esso va consegnato senz’altro alla storia – o preistoria – dell’umanità.  Certo, «se solo lo volessimo veramente», si capisce. È praticando l’illusoria e ingenua politica del “male minore” e dei “piccoli passi” che siamo giunti a questo punto, mentre l’umanità ha bisogno di un pensiero davvero audace, giovane, rivolto al futuro.

Cara Greta,

come hai detto a Katowice, nel 2078 festeggerai il tuo settantacinquesimo compleanno, mentre chi ti scrive avrà lasciato questo pianeta già da un pezzo. «Se avrò dei bambini probabilmente un giorno mi faranno domande su di voi. Forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Non siamo venuti qui per pregare i leader a occuparsene. Tanto ci avete ignorato in passato e continuerete a ignorarci. Voi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il vero potere appartiene al popolo». Così hai detto quel giorno parlando dinanzi ai “cari leader” mondiali. Sul “potere al popolo” per questa volta sorvolo, magari ne parliamo un’altra volta; adesso ti invito piuttosto a non aspettare il 2078 per chiederti se la mia utopia non sia per caso meno incredibile e campata in aria della “rivoluzione ecologica” che ormai da decenni imperversa, tra alti e bassi, nel dibattito pubblico internazionale, soprattutto nei Paesi occidentali. Forse tra sessant’anni potresti scoprire che un Capitalismo a “emissioni zero”, a “economia circolare”, a “chilometro zero” e quant’altro, dopotutto non è meno disumano di quello che oggi inquina, saccheggia e distrugge mari, fiumi, terre, cieli e rapporti umani. Personalmente penso che “mettere in sicurezza” il pianeta lasciandolo nelle mani del Moloch chiamato Capitale, sia un’idea vecchissima e ultrareazionaria; un’idea che certamente non merita l’interesse e l’energia di una mente giovane, ribelle e sensibile ai problemi dell’umanità.

E qui metto un punto, Cara Greta. Ti ringrazio per l’attenzione che vorrai accordarmi, e ti saluto. Ciao, e buona lotta!

APPESI ALLE OPPOSTE “EVIDENZE SCIENTIFICHE”. Una questione di metodo a proposito di global warming.

Come orientarsi nel guazzabuglio delle opposte “evidenze scientifiche” che si confrontano sul cosiddetto global warming? Personalmente non sostengo un atteggiamento scettico sulla scottante questione, ma un atteggiamento critico orientato politicamente. Perché al di là di tutte le opposte “evidenze scientifiche” che ci vengono propinate da tutte le parti una cosa è sicura, almeno per chi scrive: la posta in gioco non è la salvezza del pianeta ma la salvezza del Capitalismo. Si può anche obiettare che le due cose non si escludono a vicenda e che anzi esse combaciano perfettamente, posta la dimensione planetaria assunta dall’economia capitalistica; l’obiezione, tutt’altro che infondata, ci aiuta quantomeno a comprendere i reali (storici e sociali) termini della “problematica”, liberandola da quella discussione metafisica nella quale è sequestrata.

Il catastrofismo apocalittico sul global warming, ad esempio, ci suggerisce, più o meno esplicitamente, di abbandonare le “vecchie” categorie che fanno capo a una concezione classista della società, la quale appare insignificante se guardata dalla prospettiva della salvezza del pianeta, senza la cui sopravvivenza non sarebbe possibile alcun tipo di futuro per la nostra specie e per ogni altra specie animale e vegetale. Ancor prima di essere capitalisti, lavoratori, disoccupati e quant’altro siamo anzitutto esseri umani, e in quanto tali abbiamo delle responsabilità nei confronti del nostro pianeta; lo dice anche la Bibbia: «Dio il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Genesi). Il 2 giugno il Presidente Mattarella ha detto che dobbiamo considerare il pianeta che ci ospita come la nostra vera Patria, provocando, a quanto pare, in Laura Boldrini un’estasi mistica senza precedenti. Non so perché ma tutti questi discorsi politically correct di stampo francescano sulla Terra non mi convincono affatto, anche perché il giardino dell’Eden non conobbe mai la maligna divisione classista degli uomini. Si scherza, Francesco, si scherza!

Essendo un anticapitalista radicale non solo non avrei alcun interesse a mettere in questione le tesi di chi pone in diretto rapporto, ossia in una stringente relazione di causa-effetto, le attività industriali (con la conseguente produzione/emissione di CO2 e di altri “gas serra”) con i cambiamenti climatici, ma avrei all’opposto tutti i titoli, diciamo così, per cavalcarle selvaggiamente, quelle tesi, al fine di dimostrare l’inevitabile insostenibilità ambientale, oltre che umana, della vigente società capitalistica, la quale nel XXI secolo ha appunto la dimensione dell’intero pianeta. Il fatto che l’economia basata sul profitto sia oltremodo deleteria per l’uomo e per la natura è una delle pochissime e durature verità che la mia indigente testa è stata in grado di assimilare fin da piccolo. E di questo devo ringraziare soprattutto l’alcolizzato di Treviri, la cui dottrina ha fatto da argine ai liquami ideologici che cercavano di penetrare da tutte le parti nella mia peraltro debole faglia intellettiva.

D’altra parte, come la stragrande maggioranza degli individui che formano la cosiddetta opinione pubblica mondiale anch’io non posso vantare un background di conoscenze scientifiche tale da consentirmi un autonomo potere discrezionale da esercitare nei confronti delle tesi che si confrontano nel dibattito internazionale sui cambiamenti climatici: essi sono dovuti alle “attività antropiche” o a cause naturali? Di più: ma è proprio vero che siamo dinanzi a significativi, cioè scientificamente apprezzabili, cambiamenti climatici? Quello che ho capito districandomi nella complessa “problematica” è che basta aggiungere o omettere una serie di dati considerati graditi/sgraditi per dimostrare la bontà di una tesi (il global warming è reale ed è provocato dalle attività umane ecologicamente insostenibili) e di quella opposta (ancora oggi i mutamenti climatici sono dovuti essenzialmente a cause naturali, a cominciare dall’azione del Sole sul pianeta). Ci si chiede da che parte stare obbligandoci a un atto di fede! E io da che parte mi schiero? Mi viene in mente una vecchia pubblicità: «Fa caldo, fa freddo, fa tiepido». Oggi qualcuno sulla stampa ha scritto che il riscaldamento è globale ma il freddo (soprattutto quello sociale, alleato dei “populisti” alla Trump *) è locale: insomma la confusione, nella testa di molti (a cominciare dalla mia!), è tanta.

Come ho detto, non sono in grado di elaborare sul global warming, come su altre questioni che richiedono una certa competenza scientifica, una mia autonoma posizione che possa definirsi, non dico scientifica, ma quantomeno seria, che non sia cioè solo il frutto del mio narcisistico bisogno di apparire un tuttologo agli occhi del mondo, che peraltro giustamente non si cura di me. Certo, la tentazione “tuttologa” c’è, ed è forte (si nutre anche della mia forte ostilità nei confronti della concezione specialistica dei problemi: solo i medici possono parlare di questo, solo i fisici possono parlare di quello, ecc.), ma cerco di resisterle.

Mi capita spesso di dare ragione all’una o all’altra tesi a confronto in materia di mutamenti climatici in ordine di lettura, di ascolto o di visione: mi convince la tesi “positivista” di chi dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la relazione tra emissioni di “gas serra” e riscaldamento del pianeta, e poi, solo dopo pochi minuti, mi lascio convincere dal “negazionista” che dimostra, sempre oltre ogni ragionevole dubbio e sciorinando la consueta messe di inoppugnabili “evidenze scientifiche”, che in realtà non esiste alcuna prova circa quella demoniaca correlazione. La cosa naturalmente vale a parti invertite. Com’è possibile? Chi ha dunque ragione? Qualcuno cerca forse di vendermi del cibo avariato spacciandolo per ottima e freschissima pasta alla Norma? Di sicuro le tesi a confronto non possono essere entrambe vere. Purtroppo, e come ho già confessato, non ho le giuste competenze per dare ragione a una tesi e torto all’altra, e così mi vedo costretto a costruire ponti politico-concettuali, non scientifici (quantomeno nell’accezione comune del concetto di scienza), da gettare in direzione della verità.

So ad esempio che il rispetto ambientale cui debbono attenersi le «attività antropiche» (secondo lo standard internazionale Anti-pollution) sono già da tempo entrate a pieno titolo nelle aggressive strategie concorrenziali delle grandi imprese multinazionali tecnologicamente più avanzate del pianeta: infatti, attraverso le politiche aziendali “rispettose” della sicurezza sul lavoro e dell’ambiente il grande Capitale mette fuori mercato la media e la piccola impresa, ma anche la stessa grande impresa che non riesce a tenere il passo con quelle aggressive e costose politiche “eticamente corrette”. Standard qualitativi e competizione/concentrazione capitalistica sono due facce della stessa medaglia. Lo “scandalo” Volkswagen scoppiato negli Stati Uniti nel 2015 si spiega anche con quanto appena detto. Sul terreno della competizione capitalistica globale anche le benemerite Organizzazioni Non Governative dedite alla salvezza del pianeta stanno dando un notevole contributo.

Vogliamo poi parlare del colossale giro d’affari che c’è dietro al movimento d’opinione mondiale che promuove il superamento delle tecnologie che consumano combustibili fossili? Tifo forse per il carbone, il petrolio e il gas naturale? Ma è proprio l’atteggiamento di tifoseria che contesto! Un atteggiamento a cui ci costringono i padroni del mondo, abbiano o meno essi un’anima “verde” o “nera”, che finanzino lobby del petrolio e del carbone piuttosto che quelle delle pale eoliche e dei pannelli fotovoltaici, ecc. Green o black, per me il Capitalismo ho sempre lo stesso colore, un colore che non mi è mai piaciuto e che, se possibile, mi piace sempre meno, soprattutto nella sua variante “ambientalista”, specchietto per allodole e per mosche cocchiere.

Leggo da qualche parte: «Bisogna decidersi a seguire i messaggi che ci vengono dalla scienza: nessuno ormai è in grado di contestare seriamente che il clima stia cambiando e che la componente antropica sia molto importante, in tale mutamento, benché anche in questo campo qualche “negazionista” ogni tanto si trovi». Perché criminalizzare come «negazionista», con evidente e odiosa allusione a chi nega lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, chi sostiene tesi contrarie al mainstream sul riscaldamento globale? «È indubbiamente difficile, quest’inverno, convincere la gente che la neve e il freddo degli ultimi giorni non sono che un’altra faccia dello stesso problema, e che tutti i veri scienziati concordano che la temperatura globale si sta alzando». E gli scienziati che sostengono la tesi contraria non sono «veri scienziati»? Posso sbagliarmi, ma nella tifoseria che sostiene il global warming c’è un di più di faziosità fanatica rispetto alla tifoseria opposta, forse perché il ciclopico compito di salvare (nientemeno!) la vita sul nostro pianeta può generare in qualche testa un eccesso di euforia ideologica. Ovviamente do per scontato che il solito zelota ambientalista mi metta fra i “negazionisti” – purtroppo non registrato sul libro paga della demoniaca lobby dei petrolieri.

Una volta Georges Sorel disse che le masse, per produrre eventi socialmente apprezzabili, non hanno bisogno di storia – né di scienza, potremmo aggiungere – ma di miti; ho come l’impressione che anche una certa concezione scientifica, messa al servizio della propaganda politica, possa annoverarsi fra i moderni miti.

A proposito di “negazionisti”! Secondo Antonio Zichichi, celebre fisico e divulgatore scientifico, nonché professore emerito del dipartimento di fisica superiore dell’Università di Bologna, «Occorre distinguere nettamente tra cambio climatico e inquinamento. L’inquinamento esiste, è dannoso, e chiama in causa l’operato dell’uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un’enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale. L’azione dell’uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, ad oggi, gli scienziati, come dicevo, non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future. Ma io sono ottimista» (Il Mattino). Beato lui! Scherzi a parte, tutto questo discorrere di climate change rischia di mettere in ombra ciò che è certo, ossia il terribile inquinamento del pianeta ad opera dell’economia basata sullo sfruttamento sempre più intensivo e scientifico di uomini e natura. E infatti, l’aspetto più comico, per così dire, del minacciato ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul contenimento delle emissioni (firmata da 195 paesi a Parigi nel dicembre di 2 anni fa) è che la Cina, il cui Turbocapitalismo ha distrutto nel volgere di pochi decenni fiumi, laghi, mari, cieli, boschi, animali e uomini (**), oggi venga annoverata, insieme all’Unione Europea, fra i Paesi-leader del “movimento ambientalista mondiale”! Il premier cinese Li Keqiang ha dichiarato: «Le relazioni tra la Cina e l’Unione Europea devono rimanere stabili e consolidarsi per rispondere all’instabilità di questo mondo. Ciò richiede uno sforzo instancabile da parte nostra». Come si fa a non commuoversi davanti a una siffatta prova di abnegazione nella difesa delle sorti del nostro amato Pianeta?

È appena il caso di ricordare che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso la Cina e l’India accusavano, a ragione dal loro capitalistico punto di vista, i Paesi economicamente e socialmente più avanzati di voler usare le politiche ambientali come una clava per azzoppare le loro ambizioni nazionali. Essi parlavano di «imperialismo ecologico» dell’Occidente – e, in parte, del Giappone. Oggi sono soprattutto i Paesi africani che rivolgono quell’accusa al cosiddetto Primo mondo: «il petrolio e il carbone forse creeranno problemi al pianeta fra un secolo, ma da noi la gente muore di fame oggi, e tutti i giorni». In effetti, come diceva quello, nei tempi lunghi siamo tutti defunti.

Che la vera posta in gioco sul global warming sia di natura economica (industriale, commerciale, tecnologica, scientifica) e geopolitica si evince bene dalla citazione che segue (ma potrei citare altri mille analisti economici e politici): «Premessa personale, per quello che vale. Metterò deliberatamente da parte le mie convinzioni, poiché sono un “ambientalista scettico”, per usare l’arcinota definizione che di sé diede nel 2001 in un famoso libro Bjørn Lomborg, secondo il quale moltissime delle assunzioni sul contributo umano agli andamenti climatici sono forzate e scientificamente non comprovate. Ma se la partita è politica, si può considerare il ritiro americano anche da un altro punto di vista. Cioè come una grande occasione per l’Europa, se seguendo l’impulso di Macron su questi temi decidesse essa di diventare il grande interlocutore di Cina e India. Nessuno può oggi prevedere come reagirebbero i due giganti asiatici al ritiro americano, visti i piani e costi enormi di contenimento delle emissioni e di decarbonificazione in teoria loro richiesti, ma che comunque moduleranno unilateralmente. Se Trump agisce per le vie brevi, facendo bocciare COP21 dal Senato che non l’ha mai ratificato, allora per l’Europa sarebbe necessario uno scatto di reni immediato. Sarebbe però un’ottima cosa: perché trascinerebbe con sé grandi accordi di cooperazione tecnologica e commerciale, energetica e anche di sicurezza comune. È un’idea non troppo utile negli effetti complessivi e molto onerosa se adottata unilateralmente. Ma è al contempo invece una piattaforma interessante, se l’Europa assumesse la decisione di rilanciarla a Cina e India per un grande negoziato comune, basato su strumenti di cooperazione e sostegno, per fare della sostenibilità ambientale in quei giganti mondiali una grande sfida comune tra Europa e Asia. Sarebbe la maniera più intelligente per rispondere a un’America che non crede affatto all’esistenza di un’Europa capace di farsi protagonista internazionale. Ma sarebbe una scommessa interessante dal punto di vista geopolitico, se non vogliamo rassegnarci al ruolo di vasi di coccio tra vasi di ferro» (Oscar Giannino). Anche un «ambientalista scettico» («È un’idea non troppo utile negli effetti complessivi»), un sostenitore senza se e senza ma del liberoscambismo più ortodosso, può dunque tranquillamente sostenere la “rivoluzione ambientale” propugnata da Al Gore e dalla sua benemerita (faccio della facile ironia) compagnia di giro assai politically correct sui temi della sostenibilità ambientale, della pace e la fame nel mondo e su altre magagne oggetto della filantropia progressista. Tra l’altro, la riflessione di Giannino si ricollega alla questione dell’Unione Europea come polo imperialista autonomo di cui scrivevo in un post precedente.

Il vincolo ambientale è un potente fattore di ristrutturazione tecnologica che non può non causare vincenti e perdenti in ogni strato della società: in alto, tra i capitalisti, e in basso, tra i lavoratori. Ed è esattamente ai perdenti della globalizzazione e della “rivoluzione ambientalista” che Trump si rivolge per costruire la sua base sociale-elettorale da mettere al servizio degli interessi di almeno una parte della classe dominante americana.

In una pausa del XIX Forum economico di Pietroburgo, il virile Putin ha fatto dell’ironia (anche lui!) sugli strali che sono piovuti addosso all’amico (?) Trump dopo le sue dichiarazioni sugli accordi “climatici” di Parigi: «Siamo grati al presidente Trump [perché adesso si possono addossare a lui tutte le colpe]. Pare che oggi a Mosca abbia nevicato, qui [a San Pietroburgo] piove, ora si può dare la colpa di tutto a lui, all’imperialismo americano». La battuta putiana coglie bene un aspetto della questione che ormai da vent’anni è oggetto di Conferenze internazionali, dibattiti scientifici, diatribe politiche, battaglie culturali, giganteschi finanziamenti: la fortissima carica ideologica che contraddistingue il movimento ecologista più organizzato e militante. Alcuni analisti attribuiscono questo fatto a quei “comunisti” che dopo la caduta del Muro di Berlino, presi dal più cupo sconforto ideologico, riversarono il loro viscerale “anticapitalismo” appunto sul movimento ecologista.

Le attività industriali causano il global warming? Benissimo! Cioè malissimo: urge la rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale! Le   attività industriali solo in minima parte sono responsabili del global warming? E chi se ne frega! In ogni caso urge la rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale, semplicemente perché il Capitalismo è insostenibile da tutti i punti di vista, a cominciare da quello squisitamente umano. Senza contare l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei mari e dei cieli che nessuno nega, così come nessuno nega la deforestazione e la desertificazione di intere aree del mondo dovute allo sfruttamento capitalistico delle risorse umane e naturali. In ogni caso, come scrive Giannino «la partita è politica», e in quanto tale ognuno è titolato a dire la sua sul global warming come su qualsiasi altra questione che tocca la nostra vita.

 

(*) «Non esageriamo con questa storia della reductio ad Hitlerum di Trump. Anche Hitler era un cialtrone, ma purtroppo per noi e per sei milioni di ebrei d’Europa era un cialtrone ben organizzato, e si appoggiava su cose vere come l’umiliazione tedesca dopo la guerra e in conseguenza dei gravami imposti alla Germania, aveva alle spalle l’invenzione del fascismo italiano, l’inflazione alla venezuelana della Repubblica di Weimar, il mito della razza e il mito del Reich. Trump cazzeggia su Pittsburgh» (Il Foglio). Si tratta del primo gesto di distensione dell’Elefantino nei confronti del fin qui disprezzato Trump?
(**) Rimando a un mio post del 2013 Sui villaggi del cancro in Cina, ossia la sostenibilità con “caratteristiche cinesi”.

Leggi anche:

Salvare il pianeta! Ma da quale catastrofe esattamente?; Aspettando il giorno del giudizio; Capitalismo e termodinamica. L’entropia (forse) ci salverà; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

LA “RIVOLUZIONE” DI NAOMI KLEIN NON CI SALVERÀ NEANCHE UN PO’

Il poetico inquinamento nel Celeste Capitalismo.

Il poetico inquinamento nel Celeste Capitalismo.

«Quando Al Gore divenne la voce dell’ambientalismo, disse esattamente questo: “Ecco quello che tu, consumatore, puoi fare. Vai in bici. Sostituisci le vecchie lampadine”. Gore aveva reso l’ambientalismo una moda: ma le mode passano. E quel modello, che continuava a considerarci come consumatori, non come membri di comunità, ha fallito. Per quanto importanti, i cambiamenti individuali da soli non bastano: sono le comunità che possono fare pressioni e ottenere risultati. Abbiamo perso. Ma i movimenti non sono lineari, e non sono morti: si reincarnano, e imparano dai loro errori. Il primo è stato quello di fidarsi di figure messianiche, affidare a loro il cambiamento e tornarsene a casa. È successo con Obama, ad esempio. […] Il nostro sistema economico e il nostro sistema planetario sono oggi in conflitto. O, per esser più precisi, la nostra economia è in conflitto con molte forme di vita sulla terra, compresa la stessa vita umana. Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile». Così parlò Naomi Klein.

Prima di correre ad accendere un cero a San Carlo Marx, per il supposto miracolo, il marxista ortodosso – che ha snobbato Il fondamentalismo del mercato secondo Naomi Klein postato da chi scrive lo scorso settembre – deve sapere che per l’eroina No-Global il nemico del pianeta e dell’umanità non è il capitalismo tout court, il capitalismo “nudo e crudo”, in sé e per sé, ma il «capitalismo deregolamentato», cioè a dire il capitalismo ultraliberista venuto fuori dalla “controrivoluzione” degli anni Ottanta. E deve altresì sapere, il marxista duro e puro di cui sopra, che quando straparla di «rivoluzione» la militante di successo allude a movimenti politici sinistrorsi del calibro di Syriza e di Podemos, in effetti quanto di più “radicale” possa presentarsi agli occhi dei cosiddetti “radical chic”, soprattutto se di successo.

«Il più importante errore dei movimenti», ammette oggi la scrittrice canadese, «è stato quello di avere detto molti “no” senza avere dei “sì” altrettanto convincenti. Alle persone non piace l’ingiustizia, la diseguaglianza, il riscaldamento globale: ma hanno paura dell’alternativa, se non è elaborata con cura. Podemos, in Spagna, è un partito nato da movimenti sociali; le 900 cooperative energetiche in Germania mostrano che le fonti alternative non sono favole. Questi sono dei sì, degli esempi tangibili» (Corriere della Sera, 1 febbraio 2015). Gran bella alternativa, non c’è che dire. Forse una rivoluzione ci salverà; di sicuro la “rivoluzione” che ha in testa Naomi Klein al massimo potrà aiutare il “sistema” a sviluppate tecnologie e strutture di potere in grado di supportare al meglio la necessità che fa premio su tutte le altre: la continuità dei rapporti sociali capitalistici.

A tal proposito suona assai significativo il passo che segue (tratto da Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, 2015): «Se un numero sufficiente di persone smettesse di voltarsi dall’altra parte e decidesse che il cambiamento climatico è una crisi degna di una risposta al livello di un piano Marshall, esso diverrebbe davvero una crisi e la classe politica dovrebbe rispondere in modo adeguato, sia rendendo disponibile le risorse per affrontarla, sia piegando quelle regole del libero mercato che si sono dimostrate così flessibili quand’erano in gioco gli interessi delle caste». L’analogia col Piano Marshall, la chiamata in causa della «classe politica» (possibilmente “di sinistra”) e la solita tirata contro «gli interessi delle caste»: tutto ciò, e altro ancora, la dice lunga sul miserabile concetto di “rivoluzione” in voga nella comunità progressista mondiale dei nostri inquinati tempi. Ridurre la disprezzata (ma del tutto incompresa) «logica del profitto» agli interessi di una generica «élite di potenti» significa alimentare confusione e mancanza di autonomia politica nei confronti delle classi dominanti in quei movimenti che in qualche modo contestano la devastante marcia del capitalismo. Devastante, si badi bene, in primo luogo per ciò che riguarda la vita del “capitale umano”, intrappolato nel buco nero della «logica del profitto», la cui essenza è radicata appunto nei rapporti sociali che rendono possibile lo sfruttamento sempre più scientifico dell’uomo e della natura.

«Bonificare le nostre democrazie dall’influenza corrosiva delle corporation» è una frase che può forse mandare in visibilio il militante di Syriza, di Podemos o di Cinque Stelle, ma che certamente desta una qualche perplessità in chi ha maturato un minimo sindacale di autentica concezione critico-rivoluzionaria. Un minimo, non di più. E certo sarebbe ridicolo tentare di spiegare ai guru del progressismo mondiale come la democrazia non sia che una delle forme politico-ideologiche che può assumere il dominio sempre più totalitario degli interessi capitalistici. Per quanto mi riguarda, infatti, si tratta piuttosto di bonificare le classi subalterne dall’influenza corrosiva del feticismo democratico. Lo so, arduo programma. Diciamo.

Scriveva qualche giorno fa Emanuele Salvato presentando ai lettori del Fatto Quotidiano l’ultimo libro della Klein: «Serve insomma una rivoluzione, come suggerisce il titolo del libro, per garantire una speranza all’umanità. Una rivoluzione ecologica e culturale. E serve un sacrificio: rinunciare a un po’ di benessere per non estinguersi». Confesso che la «rivoluzione ecologica e culturale» di cui parlano i progressisti mi spinge a pensieri che con il politicamente corretto non hanno nulla a che fare. Forse perché difetto di benessere e perché col tempo si è acuita la mia intolleranza nei confronti della parola “sacrificio”: altro che global warming!

Civettare con la “rivoluzione” senza mettere in questione la struttura di classe (altro che “caste” ed “élite di potenti”!) della società-mondo del XXI secolo significa fare del cinismo, che appare tanto più odioso quanto più la fraseologia pseudo rivoluzionaria dei professionisti dell’”anticapitalismo” ammicca alle speranze delle persone umanamente più sensibili.