RENZI E TOGLIATTI

togliatti-renzi-288659Secondo Emanuele Macaluso, interpellato ieri da Aldo Cazzullo per Il Corriere della Sera, «I vecchi comunisti hanno per Renzi una diffidenza quasi antropologica. Parlare del nuovo segretario come di un altro Berlusconi è una sciocchezza. Renzi non ha interessi privati, è una persona rispettabile. Ma appartiene a un’era politica del tutto nuova, in cui il livello culturale è drasticamente crollato. La sinistra storica era fatta di personaggi complessi. Togliatti era un intellettuale di livello europeo, un uomo che teneva testa a Stalin». Teneva testa a Baffone?

Nel remoto 1992 scrissi per una modestissima rivista della mia città un “pezzo” sul libro Palmiro Togliatti di Giorgio Bocca; a perenne ricordo dell’«intellettuale di livello europeo», in arte Il Migliore (degli stalinisti), ne cito alcuni passi.

(…) Ma ritorniamo al Togliatti di Bocca: «Lo stalinismo vero di Togliatti è di tipo ideologico, tale da farlo apparire a certuni come lo stalinista perfetto, capace di razionalizzare e ideologizzare anche gli aspetti irrazionali o ancestrali dello stalinismo».

Emerge nel libro di Bocca la responsabilità del perfido Ercoli in rapporto a tutte le nefandezze perpetrate a Mosca ai danni dei suoi oppositori politici, non importa se russi, italiani, polacchi o spagnoli. Nel somministrare condanne e nel fabbricare calunnie Palmiro-Ercole non tiene in nessun conto il passaporto dei suoi avversari, e in questo rivela il suo profondo spirito… “internazionalista”. Nel terrore egli è persino “democratico”: fa fuori, indifferentemente, anarchici, trotskisti (o presunti tali), bordighisti, e persino stalinisti “anomali”; il solo criterio che lo guida è quello della lotta a qualsivoglia tipo di opposizione politica al regime staliniano. «È lui a spiegare che ora processi e condanne vanno intesi come atti di legittima difesa, non solo della rivoluzione e del socialismo, ma della democrazia e della pace». Attaccare il sempre più ferreo e antiproletario regime staliniano significava dunque mettere a repentaglio anche la democrazia e la pace nel mondo: questo sommo abominio non giustifica forse la Siberia e la fucilazione? Nicchio…

Grazie a lui la piccola comunità di comunisti italiani rifugiatisi in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire dalle grinfie fasciste fu decimata attraverso processi farsa. Inutile forse ricordare sotto quale accusa quei militanti caddero: spie del trotskismo, e quindi oggettivamente servi del fascismo e dell’imperialismo. (…)

C’è nel Togliatti di Bocca il leader “comunista” che si appella (1936) «ai fratelli in camicia nera»; c’è il capo dell’Internazionale che si schiera a favore del patto russo-tedesco del ’39, e che poi fa marcia indietro – alla coda dei padroni moscoviti – quando le divisioni tedesche attaccano il Sacro suolo della Madre Russia. E c’è naturalmente il Togliatti democratico-badogliano del «partito nuovo», della Resistenza, del CLN. Bocca tende a opporre il Togliatti democratico all’Ercole stalinista, riconducendo il secondo al retaggio gramsciano, perché, osserva giustamente il Nostro, il «partito nuovo», maturato a Salerno nel ’43, ha la sua origine a Lione nel 1926 (Terzo Congresso del PC d’Italia). Egli però sbaglia quando crede di trovarsi di fronte alla proverbiale doppiezza togliattiana. In realtà «i due Togliatti», quello stalinista e quello democratico, il servitore scrupoloso dello Stato Russo e il geniale interprete degli interessi nazionali del Bel Paese, vanno considerati le due facce della stessa escrementizia medaglia. Tra il “comunista” Ercole e lo statista nazionale Togliatti ci fu assoluta e “organica” continuità».

imagesMacaluso ha ragione quando sostiene che il PCI non è morto con Renzi: «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima». Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci* e continuata con mezzi più sbrigativi da Palmirone. L’evocata «sinistra storica» gronda stalinismo da tutte le parti.

* Scrive Giorgio Galli nella sua Storia del PCI (Bompiani, 1976) a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. Quando infatti la sinistra [Bordiga ecc.] osserva che se ha dovuto organizzarsi in corrente è perché gli organi del partito funzionano da centro di coordinazione della corrente gramsciana, tocca a Longo, dirigente della Federazione giovanile sino a pochi mesi prima su posizioni di sinistra e che ora svolge un ruolo di punta nella campagna contro Bordiga, replicare che, anche in fase congressuale, “vi deve essere una centrale che ordina e dei compagno costretti, dalla disciplina, a ubbidire ” […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia [sia da stalinista che da statista l’amnistia sarà per Palmiro una sorta di destino… ], torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (pp. 112-118).

La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora è parte di quella vicenda segnata dall’accecamento ideologico, dalle falsificazioni più pacchiane e dalle sopraffazioni più odiose, in Italia come in Russia – vedi la tragica storia dei comunisti italiani che si rifugiarono in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire alla persecuzione fascista.

ELOGIO DELL’UTOPIA. CONTRO ROBERTO SAVIANO

Roberto Saviano ha letto il saggio di Alessandro Orsini su Gramsci e Turati (Rubettino, 2012), ed è rimasto folgorato sulla via del Riformismo. Dico subito che nei confronti di quelli che individua come «comunisti rivoluzionari» (stalinisti, maoisti, castristi, antiamericani, brigatisti, ecc.) lo scrittore di successo ha facile gioco, quando ne denuncia l’abissale inconsistenza politica e teorica. Peccato che questi personaggi d’accatto non abbiano mai avuto nulla a che fare con il comunismo (di Carlo Marx), né con una posizione minimamente critico-radicale. Lungi da me difendere Marx, il quale si difende benissimo da solo; o, men che meno Gramsci, le cui posizioni politiche e dottrinarie (radicate nello stalinismo ascendente e nello storicismo italiano, più che nel «materialismo storico» del bevitore di Treviri) peraltro non ho mai condiviso. Colgo piuttosto questa occasione per esporre il mio punto di vista su questioni di “scottante attualità”: vedi il dibattito sull’uso della violenza politica nella lotta politica. Lo faccio riportando alcuni brani tratti dal mio saggio di filosofia politica L’Angelo Nero sfida il dominio.

Scrive Saviano: «Ma l’odio per i riformisti, – spiega Orsini – è il pilastro della pedagogia dell’intolleranza. Dal momento che i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato tanto peggio tanto meglio. (Elogio dei riformisti, 28 febbraio 2012, La Repubblica.it).

Risponde L’Angelo Nero:

Non si tratta di preferire, «cinicamente», lo stato di eccezione, il quale almeno non permette al dominio di celarsi dietro il velo di Maya della democrazia, dello «Stato di Diritto» (come se lo Stato, qualsiasi forma di Stato, non fosse, «in sé», Diritto e di Diritto!), della legittimità costituzionale, e via di seguito; si tratta piuttosto di rendersi conto di quanto sia cinica la dialettica del processo sociale quando questo si svolge, almeno per l’essenziale, alle spalle degli uomini. Da sempre, il «tanto peggio, tanto meglio!» è qualcosa che arride alla classe dominante o a una delle sue fazioni in lotta contro le altre. Per le classi dei dominati il peggio è ogni giorno che Dio – o chi per Lui – manda in Terra. Per questo quel maligno principio non entra mai nei calcoli del pensiero che cerca di spingere gli uomini verso il migliore dei mondi possibili.

Scrive Saviano: «Gramsci Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato … La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo».

Risponde L’Angelo Nero:

Nei confronti degli esaltati ideologi della violenza, concepita come un momento decisivo, dirimente, del processo storico, ho sempre nutrito un forte sospetto, e financo una franca ostilità. Non perché in generale ricusi alla violenza la sua oggettiva funzione in quel processo, e giudico indigente sul piano della teoria e della prassi chi prova a negare questo inconfutabile dato di fatto (che tuttavia va compreso in tutta la sua dolorosa verità, e non accettato acriticamente); piuttosto perché ho sempre visto in chi avverte il bisogno di sfoggiare un atteggiamento aggressivo una debolezza teorica, politica e psicologica di fondo, celata appunto dietro frasi e pose iper rivoluzionarie, ossia pseudorivoluzionarie. È tipico del pensiero debole e superficiale affettare pose muscolose e falsamente radicali. La psicoanalisi, oltre che filosofia, sa di cosa parlo. …

Bisogna dunque diffidare di chi pone costantemente in evidenza la necessità della violenza nella lotta politica, e che mostra di non aver compreso la sua funzione ancillare nei confronti dell’elaborazione teorica e politica cui è chiamato ciò che definisco il Soggetto Storico della Rivoluzione. Chi affetta un approccio apologetico e superficiale con il problema della violenza nello scontro politico, ed esibisce un impaziente desiderio di menar le mani, mostra tutta la sua inconsistenza esistenziale, e probabilmente coltiva una certa indifferenza per coloro che dovranno sperimentare il suo «manganello rivoluzionario». …

Proprio perché rappresenta una questione di grande significato storico, sociale e politico, il tema della violenza merita quindi di venir approcciato in termini critici e problematici, e sottratto alla speculazione “filosofica” dell’intellighenzia radical-chic, intimamente intrisa di idee piccolo-borghesi. La violenza da sempre è stata monopolizzata dalle classi dominanti, e quando si è trattato di versare sangue in nome della patria, della civiltà, della democrazia, della libertà e persino della «Rivoluzione», alle classi dominate, usate come meri strumenti di offesa e di conquista, è stato richiesto il maggior contributo. Questo solo fatto credo basti a giustificare l’atteggiamento critico, serio e vigile che propongo.

Disporre della vita degli altri a cuor leggero, seppure per conto della «causa rivoluzionaria», non solo rinnova la coazione a ripetere del dominio sociale borghese, ma getta un’inquietante ombra sull’intera concezione del mondo dei “rivoluzionari”, i quali in quella guisa mostrano di non essere per niente tali. Solo la classe dominante può permettersi il lusso di sorvolare – ma sempre fino a un certo punto – sulla contabilità dei morti e dei feriti, anche perché il più delle volte essi provengono dalle classi subalterne. Ma il soggetto che ha come obiettivo «supremo» la costruzione della Comunità mana, deve avvertire tutta la pesantezza, la sofferenza e la drammaticità della cosa.

Non si tratta, insomma, di rigettare sul piano della teoria e della prassi la violenza, ma piuttosto di assumerne coscientemente tutta la portata storica, sociale, «esistenziale», così che nel calcolo dell’efficacia rivoluzionaria possa contare anche il problema di come spargere meno dolore possibile. Questa «economia di violenza e di sofferenza» non deve riguardare solo gli appartenenti alle classi dominate, ma anche il nemico di classe, perché l’obiettivo fondamentale da perseguire non è la vendetta nei suoi confronti, né la sua sofferenza (che comunque si dispiegherebbe oggettivamente, soprattutto nel caso in cui la rivoluzione sociale fosse vincente), ma la conquista del potere e la costruzione della nuova società. …

La violenza politica deve vivere dunque nell’oggettività delle cose, e il Soggetto della rivoluzione deve ben guardarsi dal far «calare dall’alto» la sua stringente necessità sulle classi subalterne, trattandole in tal guisa alla stregua di meri strumenti di una lotta mortale della quale esse non possono capire il significato. Bisogna piuttosto trasformare le anonime e informi «masse» in classi sociali coscienti della posta in palio. Più che la violenza, è lo sviluppo della «coscienza di classe» in strati sempre più vasti della classe subalterna che connota il processo rivoluzionario, se è veramente tale e non l’ennesima lotta tra fazioni borghesi. …

Scriveva Lukàcs nel 1919 (Tattica e etica): «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa». Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male.

In altre parole, per il punto di vista critico-radicale il problema della violenza non costituisce una questione di principio ma di consapevolezza storica, coscienza cioè che la prassi rivoluzionaria deve necessariamente immergersi nella colpa della violenza. Il Soggetto di quella prassi non solo non oblitera il carattere colpevole – nel ristretto senso qui delineato – della violenza cui esso stesso è costretto a ricorrere, ma ne fa consapevoli tutti i protagonisti dello scontro sociale, affinché ogni atto sia commisurato alla posta in gioco. Come lo psicanalista cerca di desublimare gli istinti repressi e deformati che si agitano nel subconscio e nella stessa prassi del paziente, analogamente il Soggetto rivoluzionario – qualunque significato si voglia attribuire a questo concetto – deve aiutare i protagonisti del processo storico a chiamare con i loro autentici nomi i sentimenti che li spingono a battersi (odio, invidia, rabbia, paura, speranza, desiderio, amore, ecc.), in modo che la responsabilità storica e sociale delle loro azioni possa venire alla luce, giorno dopo giorno, errore dopo errore, eccesso dopo eccesso. Questa è la sola etica della responsabilità che riesco a concepire.

Scrive Saviano: «I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica. I riformisti – spiegava Turati – sono realisti e tolleranti. Realisti perché credono che non sia possibile costruire una società in cui siano banditi per sempre i conflitti. Tolleranti perché rifiutano il perfettismo».

Risponde L’Angelo Nero:

Una volta Proudhon disse che «siamo nati perfettibili, ma non saremo mai perfetti» (Filosofia del progresso, 1853); per quanto mi riguarda, non si tratta di fabbricare l’Uomo Perfetto, secondo un’antica e infantile utopia, ma di rendere possibile il respiro all’individuo umanizzato. La perfezione, per dirla con la “saggezza popolare”, non è di questo mondo; l’umanità invece può esserlo: voilà tout!

«DESTRA» O «SINISTRA»? SOTTO. MOLTO SOTTO!

Dopo aver letto il mio post sull’ultradecennale politica collaborazionista della Cgil, un amico su Facebook mi ha scritto quanto segue:

«Non sono proprio sicuro che si possa liquidare 50 di storia del movimento operaio nel modo descritto nell’articolo. Non ci trovo niente di nuovo, né di proficuo, nell’attaccare “da sinistra” il PCI, il sindacato, Togliatti etc.».

Ecco la mia risposta, che pubblico anche sul Blog per far comprendere meglio il mio punto di vista sulla «sinistra» italiana:

Una storia abbastanza oscura

Non ho inteso «liquidare 50 anni di storia del movimento operaio», nel senso che ciò che tu definisci Movimento Operaio io l’ho sempre (almeno dal 1978: sì, sono “diversamente giovane”…) considerato parte integrante della storia e della prassi capitalistica, non anticapitalistica. In questo senso è sbagliato dire che faccio una critica «”da sinistra”», con o senza le virgolette. Se vogliamo usare vecchi ma ancora fecondi concetti (basta non usarli ideologicamente o per sentito dire, e men che meno «a pappagallo»), diciamo che la mia critica è «di classe», ossia elaborata a partire dal punto di vista critico-radicale che inchioda tanto la «sinistra», quanto la «destra» borghese – nell’accezione storico-critica, non sociologica, del termine.

D’altra parte, definire di «sinistra» (sempre borghese) l’azione politica del PCI da Togliatti in poi (senza ovviamente dimenticare l’adesione di Gramsci al nuovo corso stalinista(*): «la verità è rivoluzionaria», diceva Quello, prima di finire mummificato), anche su questo si possono esprimere seri e fondati dubbi. Basta pensare alla vera e propria idolatria statalista del togliattismo (versione italica dello stalinismo, come il maoismo lo fu per quella cinese), che lo rendeva più simile al Fascismo che alla tradizione “libertaria” del riformismo. Non a caso molti ex militanti e dirigenti fascistissimi finiranno, dopo aver sostituito la camicia nera con quella rossa, il teschio sepolcrale con la falce e martello (a dimostrazione che l’abito non fa il monaco), nel PCI, sentendosi perfettamente a casa loro, mentre pochissimi prenderanno la strada che portava al PSI. E non a caso molti militanti di «sinistra» oggi simpatizzano per Tonino “Manette” di Pietro e per il Fascio Quotidiano. Che dire poi, di quotidiani che si dicono «Comunisti» (vedi Il Manifesto e Liberazione), e che implorano lo Stato Capitalistico (Carletto Marx, non ridere!) di salvarli dal fallimento editoriale? Il defunto Montanelli parlava di Togliatti nei termini di un «rivoluzionario parastatale»: ecco, appunto! Di qui peraltro si evince la maggiore intelligenza storico-politica degli esponenti della «destra» borghese, i quali almeno non hanno mai preteso di parlare in nome del «Comunismo» e del «Movimento Operaio».

Ecco perché da tempo non mi definisco più «comunista» o «marxista»: per non collaborare anch’io all’inflazione di parole svilite, corrotte e private del loro autentico significato fino al parossismo (in Cina non c’è  forse il «Socialismo di Mercato»? e nella Corea del Nord non c’è «l’ultima dittatura comunista»? e Marco Rizzo non è «il più comunista degli italiani»?). Ho preso le distanze dal nome della cosa per meglio capirne e sviscerarne il concetto: per questo forse troverai strana o ambigua, o calata da un altro pianeta, questa mia riflessione. E non a torto. Infatti, rispetto alla «Sinistra», anche a quella più «estrema», sono un vero e proprio Alieno. Se mi vuoi far visita, mi trovi nella prospettiva chiamata PUNTO DI VISTA UMANO. Non cercarmi né a «sinistra» né a «destra», ma in basso, molto in profondità. Lì mi troverai, intento a rosicchiare le radici del Dominio Sociale Capitalistico. Non riuscirò a spezzarle, è chiaro; ma che goduria provarci!

***

NOTA:

(*) Difficile, se non impossibile, rintracciare anche solo un barlume di verità nella storiografia ufficiale scritta dagli intellettuali «organici» al PCI. Come scriveva Angelo Tasca, «Gli storici del partito non si lasciano scappare una verità neanche per sbaglio» (I primi dieci anni del PCI, p. 131, Laterza, 1971). Per quanto riguarda Gramsci, ecco cosa scriveva il gramsciano Paolo Spriano nella sua “classica” opera sulla storia del PCI: «L’unico riferimento a Stalin che contengano i quaderni suona appoggio di massima per lui nella controversia con Trockij. Sostanzialmente né in questi anni né dopo emerge un dissenso di Gramsci dagli orientamenti o meglio dallo sviluppo storico del movimento comunista quale concretamente si manifesta in URSS e nell’internazionale, qualcosa che muti la scelta di fondo a favore della maggioranza del PCI russo operata nel 1926» (Storia del PCI,IV, p. 275, L’Unità Einaudi ed., 1990).  Certo, se poi si vuol dire che il leader sardo si compromise con lo stalinismo meno di Togliatti, si può sostenerlo, a patto che non si dimentichi che il primo si trovò nelle patrie galere fin da 1926, e il secondo a Mosca, alle dirette dipendenze di Baffone, che ne fece un «comunista» più realista del re, più stalinista di Stalin. Non pochi comunisti italiani scappati in Russia negli anni Venti, e refrattari allo stalinismo trionfante, ne faranno la dura esperienza. Nei gulag siberiani, per lo più. Passare dalla mitologia alla storia significa mettersi nelle condizioni di comprendere meglio il presente.