CRISI GRECA. PIÙ CHE PATHOS, PETHOS…

tsipras-merkel-schaeuble-688232Più che di Pathos, come titola oggi Il Manifesto a proposito della crisi greca, forse si dovrebbe parlare di Pethos, con rispetto parlando. Pare infatti che il piano fatto ingoiare stanotte dal Premier compagno Alexis Tsipras al Parlamento greco sia ancora più duro e “austerico” di quello rifiutato a fine giugno e allora giudicato inaccettabile dal «popolo greco». Secondo molti economisti liberisti-selvaggi il piano-Tsipras è talmente pesante sul versante fiscale, che qualora fosse accettato dai “poteri forti” europei e poi effettivamente implementato dal governo greco esso assicurerebbe alla Grecia anni di depressione economica. Mai prestare orecchio ai liberisti-selvaggi!

Come sempre il premio per la comicità involontaria tocca ai tifosi dell’attuale regime greco che militano nel noto “giornale comunista”: «Tsipras serra i ranghi di Syriza e nella notte chiede il sì del parlamento greco alla sua proposta prima dell’Eurogruppo di oggi. Atene resta con il fiato sospeso, la palla ora torna nel campo europeo, dove la mediazione di Hollande costringerà la Germania e i falchi a calare le carte sul debito». Già immagino Frau Merkel e il Kattiven Wolfgang Schäuble tremare al tavolo verde della trattativa. Molti sottovalutano la teutonica ironia del Super Ministro tedesco: Il ministro delle finanze tedesco, il falco Wolfgang Schäuble, non apprezza le ingerenze statunitensi e i consigli a stelle e strisce su come ristrutturare il debito greco. In una conferenza a cui prendeva parte anche il ministro francese delle finanze Michel Sapin, il tedesco ha gelato la platea con un intervento fra il serio e il faceto: “Ho detto al ministro delle finanze statunitense che noi accoglieremo nell’euro Portorico se loro accetteranno la Grecia nel sistema dollaro. Lui ha creduto che stessi scherzando”» (Euronews, 9 luglio 2015). Perché, non stava scherzando?

Riassumiamo: il «popolo greco» domenica ha votato No per produrre, con la sapiente mediazione del compagno Tsipras, gli effetti del Sì. Un successone per il «popolo greco» e per la sinistra mondiale – alla quale chi scrive è sempre stato estraneo, sia oltremodo chiaro! Insomma, per dirla con molti analisti politici, «tanto referendum per nulla». Per Federico Fubini l’orizzonte strategico (si fa per dire) del Premier greco è davvero striminzito: «Se non altro il suo obiettivo ormai è chiaro: quando arriva lunedì, essere ancora nell’euro. A che prezzo, e per quanto tempo, si vedrà» (Corriere della Sera). Martedì è un altro giorno, per mutuare la celebre battuta di un film-icona.

A proposito di «calare le carte»! Per Giuliano Ferrara si tratta di una “calata” di ben altro genere. «Non Podemos», gongola l’Elefantino dal Foglio; «no we can’t»: «Exit baby pensioni, exit iva speciale, exit mostruosa presenza dello stato nell’economia. L’esito forse fausto del negoziato sulla linea Grexit si chiama calata di brache per Tsipras. Cercasi uscita dignitosa per la brigata Kalimera». Sarà vero? sarà falso? Non saprei dire. D’altra parte Il Foglio ragiona, esattamente come Il Manifesto e gran parte della pubblicistica di estrema sinistra, con la logica delle opposte tifoserie, e chi ha la ventura di non parteggiare per una delle squadre capitalistiche che si contendono la vittoria (la Grexit? più Europa? l’euro? la dracma?, le statalizzazioni? le liberalizzazioni? l’alleanza con la Russia e la Cina? una più stretta collaborazione con gli Stati Uniti?) passa per un elitario che non vuole sporcarsi le mani con la «politica concreta» e che, «oggettivamente», fa il gioco della squadra avversaria.

Per mandare giù il rospo, Dimitri Deliolanes  fa oggi professione di moroteismo democristiano: «È giunta per Ale­xis Tsi­pras l’ora della poli­tica di governo, delle mano­vre non lineari allo scopo di por­tare la Gre­cia fuori dalla camera a gas a cui l’hanno con­dan­nata, per due set­ti­mane almeno, Schäu­ble e Dijs­sel­bloem. Il pre­mier mano­vra avendo il  soste­gno di un paese vivace e orgo­glioso, consapevole della sua forza ma anche dei suoi limiti. Per risol­vere il pro­blema subito, da lunedì» (Il Manifesto). Le «manovre non lineari» di Deliolanes suonano un po’ come le «convergenze parallele» di Aldo Moro. Vedremo fino a che punto resisterà la dottrina delle «manovre non lineari»; d’altra parte, la sinistra europea solo dopo decenni capisce (se lo capisce!) di aver detto e scritto assolute castronerie politiche su diverse e non secondarie questioni.

Detto per inciso, anche la sinistra di Syriza per adesso mostra di accettare, sebbene obtorto collo, la dottrina delle «manovre non lineari»; vedremo se martedì la fronda interna cavalcherà una nuova dottrina. «Abbiamo detto ad Alexis», dice  Stathis Kouvelakis, uno dei leader della Piattaforma di Sinistra, «che non possiamo accettare quello che di fatto è un terzo memorandum della Troika. Non siamo i socialisti e neppure Samaras. Non è giusto rinunciare ai punti fermi dell’accordo che firmammo a Salonicco prima delle elezioni» (Corriere della Sera). Certo, dopo tutto quel parlare di insuperabili «linee rosse»…  Le linee rosse si sono alla fine rotte o si sono fatte semplicemente «non lineari»? Mistero della Dea Dialettica!

Scrive Matteo Faini: «Quale che sia la nostra opinione sulla bontà delle proposte politiche del premier greco, in quanto a capacità negoziale questi si è rivelato un dilettante allo sbaraglio. Il primo ministro greco ha sbagliato tutto. Indire il referendum senza prima minacciare di farlo gli ha precluso la possibilità di ottenere un’offerta migliore dai creditori internazionali. A meno che non si trovi una soluzione all’ultimo minuto, a pagare le conseguenze della sua insipienza sarà in prima misura il popolo greco, in seconda battuta il resto d’Europa» (Limes, 9 luglio 2015). Dilettante allo sbaraglio o cinico genio della realpolitik («Tra una solu­zione brutta e una catastro­fica, biso­gna sce­gliere la prima»: ma va?), Yanis Varoufakis o Euclide Tsakalotos, “marxista irregolare” e cool o “marxista realista” che «porta le giacche di velluto stazzonate e i jeans tipici della sinistra» (ho sempre odiato il look ricercatamente scialbo della sinistra!), governo di “sinistra” o governo di “destra”: in ogni caso il «popolo greco» è chiamato dalle classi dominanti nazionali e internazionali a versare lacrime e sangue sull’altare della necessaria modernizzazione capitalistica del Paese.

L’ho sostenuto fino alla nausea: occorre uscire dallo schema borghese della scelta democratica dell’albero a cui impiccarsi. Come? Rifiutando l’orizzonte del cosiddetto bene comune nazionale (o sovranazionale: la Patria Europea di Jürgen Habermas e compagni, tanto per capirci), svegliandoci dall’ipnosi patriottica e democratica, passando dalle illusioni e dalle frustrazioni (nonché da un certo vittimismo meridionalista che personalmente, in quanto cittadino della Magna Grecia, conosco benissimo) a una più adeguata interpretazione dei fatti, con quel che ne segue, o potrebbe sperabilmente seguirne, sul piano politico. Ovviamente si tratta solo di un difficile inizio; ma se non iniziamo mai…

Gli “anticapitalisti” del genere di quelli che augurano alla Grecia un futuro chavista (sic!) o comunque socialsovranista (risic!) da decenni non fanno che portare acqua al mulino di questa o quella fazione borghese nazionale e mondiale. Per molti “rivoluzionari” sviluppare una mentalità da mosca cocchiera è un’assoluta priorità esistenziale, prima ancora che politica. Contenti loro! D’altra parte, chi sono io per, ecc., ecc., ecc.

Scrive Jacques Sapir: «Diciamo subito, c’è una cosa che terrorizza totalmente i leader europei: che la Grecia possa dimostrare che c’è vita fuori dell’Euro». Non c’è dubbio: fuori dell’Euro e dell’Unione Europea c’è vita, vita capitalistica. Per trovare vita umana bisogna invece uscire dal capitalismo. Vasto programma, come no!

Per adesso metto un punto. Domani è un altro giorno, si vedrà!

QUEL CHE RESTA DEL REFERENDUM

alexangela Il pezzo che segue è stato scritto ieri. Oggi aggiungo solo che, come scrivono il Wall Street Journal e il Financial Times, la crisi borsistica cinese, sintomo di sofferenze strutturali che probabilmente non tarderanno a manifestarsi in modi socialmente più devastanti («Ora che la bolla è lì lì per scoppiare, i piccoli investitori cinesi rischiano di perdere tutto, e il governo teme le conseguenze» (Il Foglio, 8 luglio 2015); il collasso borsistico di questi giorni a Shanghai e Shenzhen, dicevo, rischia di far apparire una ben misera cosa la crisi greca, una magagna che ha come suo centro motore «un Paese la cui economia vale quanto quella del Bangladesh». D’altra parte è anche vero che il peso geopolitico della Grecia è tutt’altro che irrilevante, ed è esattamente questa scottante materia prima politica che Tsipras sta cercando di valorizzare al massimo nelle trattative con i “poteri forti”, come peraltro non ha mancato di rimproverargli ieri all’Europarlamento il Presidente del Consiglio UE Donald Tusk. Come agirà (se agirà) lo sgonfiamento della bolla speculativa cinese sulla crisi greca: da classico deus ex machina in grado di risolvere una vicenda che appare altrimenti senza via di uscita, o come goccia che fa traboccare l’altrettanto classico vaso (di Pandora, certo)? Forse questa domanda sarà balenata ieri nella testa di più di un leader europeo. Ma forse anche l’immagine della tempesta perfetta si è fatta strada in alcuni ambienti della leadership mondiale. Non lo sapremo mai. Comunque sia, Mario Draghi aveva visto giusto quando un mese fa ci mise in guardia: rischiamo di addentrarci in una terra incognita. Rischiamo?

Crisi greca e Questione Tedesca
«Non sono tra coloro che danno la colpa agli stranieri: per tantissimi anni i governi greci hanno creato uno Stato clientelare, hanno alimentato la corruzione tra politica e imprenditoria e arricchito solo una certa fetta del popolo. Ci sono distorsioni del passato che devono essere superate, come la questione delle pensioni. Vogliamo abolire le pensioni baby in un Paese che si trova in una situazione disastrosa. Servono le riforme, ma vogliamo tenerci il criterio di scelta su come suddividere il peso. […] Se avessi voluto trascinare la Grecia fuori dall’euro non avrei fatto le dichiarazioni dopo il referendum, io non ho un piano segreto per l’uscita dall’euro». Così parlò Alexis Tsipras all’Europarlamento, deludendo non poco gli europarlamentari sovranisti (lepenisti, grillini, leghisti, ecc.) che volevano usarlo come Cavallo di Troia per espugnare l’euro e mettere nell’angolo il Quarto Reich Tedesco di Angela Merkel.

La crisi greca, ha detto il Premier greco, «è un problema europeo e non solamente di Atene, quindi la soluzione [deve essere trovata] a livello europeo». A ben vedere, la crisi greca come si configura oggi non è che un capitolo della Questione Tedesca, la quale è a sua volta parte integrante e fondamentale della Questione Europea, ossia della necessità/possibilità di fare del Vecchio Continente un polo imperialistico in grado di confrontarsi alla pari con gli altri poli imperialistici globali: ieri USA e URSS, oggi USA, Cina e Russia.

Sulla Pravda del 28 luglio 1984 si poteva leggere, dopo un duro attacco contro l’attivismo economico-politico della RFT in direzione della DDR, quanto segue: «Il problema tedesco rappresenta un capitolo chiuso e in proposito la storia ha detto una parola definitiva». Come sappiamo, «definitiva» solo fino a un certo punto… Radomir Bogdanov, esperto sovietico in cose americane, dichiarò nel settembre dello stesso anno sul Time che «C’è solo un modo per modificare i risultati della seconda guerra mondiale, ed è la terza guerra mondiale». Bogdanov sottovalutava il peso dell’economia nella geopolitica: «Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dall’Economico e si avvicina al puro e astrattamente ideologico, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zigzag. Ma se Lei traccia l’asse mediana della curva troverà che quanto più lungo è il periodo in esame, quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse corre parallelo all’asse dell’evoluzione economica» (Lettera di Engels a W. Borgius, 25 gennaio 1894). Con ciò il vecchio Engels intendeva dire che mentre sarebbe oltremodo sbagliato mettere in un deterministico rapporto di causa-effetto ogni singola azione politica (interna ed estera) con l’economia (globalmente considerata), occorre tuttavia prendere atto che la totalità, il complesso delle azioni politiche di un Paese si comprende nella sua reale essenza (nella sua razionalità) solo alla luce dei grandi interessi economici nazionali e internazionali. Proprio la Questione Europea dimostra quanto corretto sia questo approccio “materialistico-dialettico” alla geopolitica.

Scrive Oscar Giannini commentando le misure adottate da Mario Draghi dopo il referendum (o plebiscito, come sostengono i “puristi” della democrazia tipo Emma Bonino?): «In tali condizioni la BCE non ha potuto far altro che avanzare le lancette del conto alla rovescia, verso il default bancario greco. È un messaggio lanciato a Tsipras, perché non rifaccia il furbo menando il can per l’aia. Ma è altresì un messaggio per l’intera euroarea. Di tempo ne rimane pochissimo. Bisogna avere idee chiare e non perdersi in fumisterie. Altrimenti, fuori dal sistema internazionale dei pagamenti e impossibilitata a usare quello domestico, la Grecia avvamperà in un’ulteriore ondata di furore nazionalista, che però non la salverà da amarissime conseguenze. Altro che no all’austerità, i greci se la ritroverebbero moltiplicata nell’immediato. E l’euroarea “irreversibile” diverrebbe un ricordo nel museo della politica inconsapevole di che cosa implichino i suoi impegni: misure straordinarie volte a risolvere anche l’impensabile, se si crede a un obiettivo comune» (Istituto Bruno Leoni, 7 luglio 2015). Ma il punto è sempre il solito: qual è il comune obiettivo? Creare un’Europa in grado di competere con i giganti dell’imperialismo globale? Controllare strettamente e imbrigliare la potenza sistemica tedesca? Usare la Germania, «gigante economico e nano politico», per tirare acqua economica e politica al proprio mulino nazionale? Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi il cosiddetto «sogno europeo» ha dovuto fare i conti con quella complessa trama di interessi contingenti e strategici, ed è per questo che personalmente trovo spassosissimi quei sinistrorsi che oggi scoprono il progetto europeista dei «padri fondatori»: «Ci vorrebbero i Monnet, gli Schuman, gli Adenauer, i De Gasperi, e invece abbiamo la Merkel, Hollande, Cameron, Renzi!», scriveva Barbara Spinelli giusto un anno fa.

«La galoppante deriva europea nasce da un equivoco», scrive Lucio Caracciolo: «Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie. Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. […] Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo – la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare. […] La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica. Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea» (Limes, 7 luglio 2015). Che dire? Auguri! Lo so, proferiti da un disfattista anticapitalista nonché antisovranista (sia che si tratti della sovranità europea che della sovranità nazionale) quegli auguri non sono molto credibili; è come se in realtà avessi scritto: condoglianze!

Ho l’impressione che i sostenitori della «responsabilità nazionale ed europea» dovranno ancora per diverso tempo (almeno fin che dura il successo del “modello tedesco”) fare i conti con la riluttanza tedesca di passare dall’egemonia “soft” sull’Europa fondata economicamente a un’egemonia politicamente più impegnativa, finanziariamente più dispendiosa e, soprattutto, più gravida di rischi geopolitici. Sotto quest’ultimo aspetto occorre dire che le due guerre imperialistiche del Novecento sono, sul piano storico, ancora “freschissime”. Rimproverare alla Germania (e al Giappone) il suo attuale «nazionalismo economico» è ridicolo, come gran parte dei rimproveri che oggi gli europeisti rivolgono alla Germania «potenza riluttante»: «Per favore», sembrano dire i tedeschi ai cugini europei (i quali non perdono mai l’occasione di ricordare ai teutonici quanto brutti e cattivi essi sono stati nel secolo scorso), «non svegliate il nazionalismo politico che c’è in noi. Lasciateci lavorare in santa pace!». («Che poi veniamo a trascorrere le ferie e a spendere i nostri soldini  in Grecia e in Magna Grecia!»).

Il “riformismo” possibile
«”Io accetto le vostre proposte con qualche modifica per venderle al Parlamento e all’opinione pubblica, però in pubblico diremo che voi avete accettato il mio piano con qualche limatura. Ho esaurito il tempo, tra due giorni le banche collassano e andiamo in default quindi sono politicamente debole, più di così non posso accettare ma se c’è qualcuno che ci vuole spingere fuori dall’euro non dipende più da me”. Sono circa le sette del pomeriggio. Quando Alexis Tsipras finisce di parlare nello stanzone del Consiglio europeo [di ieri] cala il silenzio». Non so se questa ricostruzione fatta da Alberto D’Argento per Repubblica è veritiera; di certo essa appare verosimile, e tutt’altro che smentita dal succo del discorso odierno di Tsipras all’Europarlamento.

Secondo Giorgio Arfaras, che su Limes non smette di ricordarci le magagne strutturali del malandato e vetusto Capitalismo ellenico, «Sul bilancio pubblico e sul debito il governo di Tsipras e i creditori internazionali erano più vicini di quanto sembrasse anche prima del referendum» (Limes, 6 luglio 2015). Anch’io sono di questa idea. Ma allora, come si spiega l’improvviso “voltafaccia” di Tsipras? Probabilmente il Premier greco aveva paura di spaccare il suo partito, che ha cercato di ricompattare attraverso la drammatizzazione dello scontro. «Uno degli uomini più fidati di Alexis Tsipras riassume, sorseggiando un caffè in un bar di Monastiraki: “Abbiamo vinto il referendum, ricompattato Syriza e messo a tacere l’opposizione, che ci appoggia in tutto» (Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 8 luglio 2015). Il clima da ultima spiaggia che si è creato in Grecia potrebbe anche far ingoiare al Paese il rospo dell’«inaccettabile diktat» rifiutato solo ieri, magari in cambio di un riconoscimento politico delle ragioni del “popolo greco”, cosa che peraltro anche il Super Falco Wolfgang Schäuble non ha mancato di fare con la consueta teutonica schiettezza: «Rispettiamo l’esito del referendum ma, nel quadro delle regole dell’Eurozona, senza un programma non è possibile aiutare la Grecia. È chiaro però che la Ue ha anche una certa responsabilità verso la Grecia. Tutto dipende dal governo greco». Anche la Cancelliera ha dichiarato che la Germania non ha da chiedere nulla alla Grecia, e che tocca al governo di Atene avanzare nuove, sperabilmente chiare e definitive proposte. Per i tedeschi la palla dei “compiti a casa” è sempre nella metà campo degli altri: inutile chiamare in soccorso americani, russi e cinesi!

«La Süddeutsche Zeitung, di centrosinistra, aveva un commento sul «perché la Grecia deve abbandonare l’euro» (perché è sì una scelta costosa ma è quella più pulita). L’idea che la Grexit possa fare bene sia alla Grecia sia all’Europa – perché la prima sarebbe libera di fare le sue scelte e l’area euro avrebbe chiaro che deve rivedere alla radice la sua architettura – in Germania è ormai piuttosto diffusa» (Danilo Taino, Corriere della Sera, 8 luglio 2015).

Grecia e Magna Grecia
La Germania vorrebbe ripetere con la Grecia (e con il Portogallo e la Spagna) il successo dell’unificazione tedesca, mentre ha in orrore, giustamente dal suo punto di vista, l’insuccesso nazionale italiano: insomma, non vuole fare del Mezzogiorno europeo una replica su scala continentale del Mezzogiorno italiano, in larga parte sussidiato attraverso la spesa pubblica, con relativi alto parassitismo sociale e alta tassazione. E questo non per un breve tempo, ma per decenni, per oltre un secolo nel caso di specie, al punto da trasformare la Questione Meridionale in una sorta di fenomeno naturale: a Sud fa caldo e c’è la depressione economica!

Gli stessi leader leghisti, che pure hanno tifato per il Tsipras referendario, appena un secondo dopo il trionfo “epocale” e “rivoluzionario” (scusate, ma qui il sic! è d’obbligo) del NO, si sono affrettati a precisare che la Lega è contraria a continuare a finanziare a fondo perduto la Grecia spendacciona, così come non vorrebbe più far galleggiare una Magna Grecia (leggi Sicilia) strafallita sul liquido prodotto al Nord. Per i leghisti (ma anche per i grillini e per i sovranisti d’ogni tendenza politico-ideologica) il Paese di Tsipras e Varoufakis dovrebbe prendere con coraggio e sollecitudine la strada del Grexit, così da implementare il seguente programma “rivoluzionario”: rifiutare definitivamente di pagare un debito peraltro impagabile, ritornare al vecchio conio nazionale, implementare svalutazioni competitive a raffica, versare patriottiche lacrime e sangue sull’altare del bene comune nazionale, e poi, ricostruito un più sostenibile assetto economico-sociale, riaffacciarsi con dignità sulla scena europea. Soffrire, certo, ma sovranamente e in vista della luce in fondo al tunnel: un programmino che personalmente respingo al mittente.

Dosi massicce di austerità e in tempi ristretti: è questa austerità concentrata che debbono attendersi i greci in caso di Grexit? Già sento il sovranista di turno: «Anche tu a fare del terrorismo psicologico!». No: terroristica è la realtà sociale del Pianeta, Grexit o non Grexit.

Come si può capire anche dal libro di Alessandro Albanese e Giampaolo Conte L’odissea del debito. Le crisi finanziarie in Grecia dal 1821 a oggi (In Edibus, 2015), la storia della Grecia moderna è la storia del suo costantemente obeso debito pubblico contratto dallo Stato ellenico, il più delle volte non allo scopo di finanziare la modernizzazione del Paese, come è accaduto nel XIX secolo in diversi Paesi europei capitalisticamente “ritardatari”, ma soprattutto per puntellare interessi sociali costituiti e comprare con la leva dell’assistenzialismo statale la pace sociale e il consenso politico.

«Abbiamo scoperto – scrivono i due autori – che la Grecia non solo era già fallita altre volte, ma che l’indebitamento di fine Ottocento, analogamente a quello di fine Novecento e primi anni Duemila, aveva condotto all’istituzione di una commissione internazionale per controllare le finanze elleniche».

Sotto questo aspetto istruttivo può anche essere un articolo di Luciano Commenta, dal significativo titolo La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale, dal quale cito i lunghi passi che seguono:

«La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece. L’intellettuale descrive la storia della Grecia moderna come un susseguirsi di ambiziosi progetti quasi raggiunti, seguiti da clamorosi tracolli. Alle grandi spinte a uscire da uno stato di minorità in cui i greci non si sentivano di dover stare per storia e rango, hanno corrisposto altrettanti schianti per la discrepanza tra ambizioni e realtà. La presenza di un apparato pubblico molto più grande di quello che il paese potesse permettersi era evidente già nel 1907, quando la Grecia aveva un impiegato pubblico per ogni 10 mila abitanti, sette volte di più dell’Impero britannico. Ma nella ricostruzione di Kalyvas le criticità presenti sin dall’inizio della complicata storia della Grecia moderna emergono e degenerano negli anni 80, con la salita al potere del Pasok, il Partito socialista di Andreas Papandreou. Il Pasok è modellato dal suo leader per essere una macchina del consenso alimentata con risorse pubbliche, occupa lo stato e domina, tranne qualche parentesi di centrodestra, la politica greca fino ai giorni nostri. Il socialismo panellenico di Papandreou è caratterizzato da un’elevata dose di demagogia e da una politica economica non riconducibile al “tax and spend” degli altri partiti socialisti occidentali, ma al “spend and don’t tax” dei movimenti populisti: elevata spesa pubblica, bassa pressione fiscale e la differenza tra entrate e uscite la si copre facendo debito e stampando moneta. Il tutto viene condito con retorica marxista, terzomondista e anti occidentale. Concretamente l’azione politica si manifesta con la continua espansione dello stato: assunzioni pubbliche, nazionalizzazioni di imprese private fallite, protezionismo, aumento di salari e pensioni. Dal 1981 al 1990, dopo due mandati a guida Papandreou, la spesa pubblica sale dal 35 al 50 per cento del pil, i dipendenti pubblici aumentano del 40 per cento, il debito pubblico passa dal 28 per cento del pil del 1979 al 120 per cento del 1990, le continue svalutazioni della dracma portano inflazione a doppia cifra e affossano la competitività del settore privato. Si diffondono corruzione, clientelismo (l’89 per cento dei tesserati del Pasok lavora per lo stato), calano gli investimenti privati e quelli esteri, la produttività stagna, l’export si riduce. Anche Nuova democrazia, il partito di centrodestra fondato su basi di maggiore responsabilità fiscale, diventa una brutta copia del Pasok e governando allo stesso modo porterà la Grecia al default. George Papandreou, figlio di Andreas, vince anche le elezioni del 2009 con un programma keynesiano, promettendo – in piena crisi e con un deficit al 15 per cento – aumenti di salari e pensioni e blocco delle privatizzazioni. Pochi anni dopo a vincere è la sinistra radicale di Alexis Tsipras con un mix di populismo e keynesismo di Papandreou padre e figlio, “more of the same”. […] I greci hanno pensato di votare No all’austerity, il rischio sempre più concreto è che siano costretti a farla fuori dall’Euro». È la “democratica e sovrana” scelta dell’albero a cui impiccarsi di cui ho scritto in diversi post dedicati all’odissea greca.

saved_tjeerd_royaardsStallo! Stallo!
L’aereo europeo rischia dunque di precipitare, con quel che ne segue in termini di morti e feriti (per il momento ancora metaforici) come prevede la sceneggiatura di ogni disastro che si rispetti. «La Grecia», scriveva Larry Elliott sul Guardian del 6 luglio, «ha messo in evidenza le debolezze strutturali dell’euro, un approccio uniforme che non conviene a paesi tanto diversi. Una soluzione potrebbe essere la creazione di un’unione fiscale accanto all’unione monetaria. […] Ma questo richiederebbe proprio quel tipo di solidarietà che è stata drammaticamente assente queste ultime settimane. Il progetto europeo è in stallo». Come far uscire dallo stallo il malmesso aeroplano della linea UE? È la domanda che in queste ore tormenta gli autentici europeisti, già da sette anni alle prese con una grave crisi depressiva.

Mi si consenta una breve riflessione: l’unione fiscale di cui parla Elliott presuppone un salto di qualità politico nella dimensione del “progetto europeo” che è esattamente quello che soprattutto i Paesi del Mezzogiorno europeo non vogliono compiere, perché ciò li costringerebbe a una politica di riforme strutturali ancora più severa di quella fin qui adottata. L’aereo europeo, per così dire, si morde la coda: per superare lo stallo ci vuole «più Europa», ma «più Europa» significa, al netto del politicamente corretto europeista (vedi Barbara Spinelli e “compagni”, ad esempio), convergere più rapidamente possibile verso lo standard dell’area tedesca, cosa che postula nei Paesi disallineati del Mezzogiorno quelle “riforme strutturali” difficili da implementare senza scuotere il loro tessuto sociale, con le implicazioni elettorali e di tenuta sociale che tutti possono immaginare. È un vero e proprio circolo vizioso sistemico, per uscire dal quale la leadership europea deve abbandonare rapidamente la vecchia strategia, fatta di accomodamenti, rinvii, compromessi, lenti progressi. La crisi economica ha drammaticamente diminuito la portanza sulle ali dell’aeroplano, e in assenza di spinte contrarie alla forza di gravità la catastrofe è pressoché assicurata.

In un saggio dell’anno scorso il Ministro Padoan sosteneva che la crisi dell’euro non è solo una «crisi di modelli nazionali di crescita, diventati insostenibili», ma anche «una crisi di sistema, che mette in evidenza le gravi lacune istituzionali della moneta unica. […] Che fare? Rinunciare a salvare l’euro, dando così ragione a chi negava che ci fosse spazio per la sua nascita, non essendo ritenuta l’Europa un’area valutaria ottimale, o cercare faticosamente di guidarlo, lasciando il tempestoso mare aperto, verso porti sicuri? Nei quali non sarà però facile trovare approdo se non si comprende appieno che la sua salvezza, indispensabile per il rafforzamento dell’unità europea, richiede soprattutto maggiore integrazione e nuove istituzioni, cosa che a sua volta presuppone cessioni di sovranità» (Diversità e uguaglianze: le due anime dell’unione, cit. tratta da Economia italiana, 2014/3). Vallo a dire ai leader di Francia, Italia e Spagna terrorizzati dalla concorrenza sovranista-populista!

Scrive Thomas Piketty: ««In effetti in Germania quelli che pensano di rifondare l’Europa in senso democratico sono in numero maggiore rispetto ai francesi in prevalenza legati all’idea di sovranità. Inoltre il nostro presidente continua a sentirsi prigioniero del referendum fallito del 2005 sulla costituzione europea. Hollande non capisce che la crisi finanziaria ha cambiato molte cose. Dobbiamo superare gli egoismi nazionali. […] Quelli che oggi vogliono cacciare la Grecia dall’eurozona finiranno nella pattumiera della storia. Se la cancelliera vuole garantirsi il suo posto nella storia, così come fece Kohl con la riunificazione, deve impegnarsi a trovare una posizione comune che risolva la questione greca e dare vita a una conferenza sul debito che ci permetta di ricominciare da zero. Ovviamente con una disciplina di bilancio assai più severa che in passato» (Intervista rilasciata a Die Zeit, 6 luglio 2015). Ma è proprio questo il punto di caduta (la posta in gioco) nella crisi greca: come sanno tutti gli analisti geopolitici ben’informati, il fumo del debito greco nasconde l’arrosto delle regole che la Germania vuole imporre agli altri Paesi dell’eurozona, senza le quali ogni discorso europeista è una pia illusione. O si converge verso la Germania, o l’aeroplano europeo continuerà a volare basso rischiando continuamente di precipitare, ovvero di schiantarsi contro la prima seria montagna che gli si parerà dinanzi.

Oggi sul Foglio Claudio Cerasa ridicolizza gli italici «cuginetti di Tsipras» che, a differenza del coerente «compagno Krugman» che invita la Grecia a prendere con urgenza e senza prestare il cuore a inutili nostalgie europeiste la strada della Grexit, pensano che un’altra euro sia possibile. Nichi Narrazione Vendola, ad esempio, si è detto favorevole non solo all’immediata convocazione di una conferenza europea sul debito e sui trattati, secondo un’indicazione ormai diffusa nell’establishment economico e politico del pianeta (dal compagno Obama al compagno Xi Jinping, oggi peraltro impelagato nelle magagne borsistiche del Celeste Capitalismo), ma anche alla trasformazione della BCE in «prestatore di ultima istanza». Ovviamente al narratore pugliese sfuggono le implicazioni sociali (leggi più sacrifici per i salariati, i pensionati e la piccola borghesia del Vecchio Continente), politiche e geopolitiche (leggi egemonia tedesca) di una simile trasformazione. Secondo l’ex rifondatore dello statalismo, «Bisogna passare dai debiti pubblici nazionali al debito pubblico europeo»: roba da far scoppiare la Terza Guerra Mondiale! Gli europeisti sinistrorsi vogliono la moglie ubriaca e la botte piena, ossia il Capitalismo ma non le sue necessarie disumanità e contraddizioni – che essi interpretano come il frutto di errori politici e di cattiva volontà. A una «solidarietà europeista» che prescinda dai reali rapporti di forza fra i Paesi dell’eurozona può credere solo l’intellighentia progressista che partecipa alla competizione sistemica intercapitalistica credendo di partecipare alla “lotta di classe”, se non alla “rivoluzione”. Questo per dire quale concetto di “lotta di classe” e di “rivoluzione” hanno in testa certi personaggi che, ad esempio, criticano le mie analisi sulla crisi greca perché mancherebbero di concretezza politica (cosa che è certamente vera), mentre si tratta di “declinare” sul piano teorico e politico questa concretezza: si tratta di una concretezza interamente spesa sul terreno dello scontro interborghese e interimperialistico, o di una concretezza da ricercarsi sul terreno della lotta di classe anticapitalista e, quindi, antisovranista?

Scrive Raffaele Sciortino a proposito del referendum di domenica: «Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente [costituente: una parola magica nel sofisticato gergo sinistrorso dei nostri tempi]: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. […] Bisogna farci i conti [con il populismo sovranista], e non solo: imparare a sporcarsi le mani con i fenomeni di territorializzazione ambivalente delle resistenze. Più tempo perderemo ad arricciare il naso, e più saremo tagliati fuori dalle dinamiche reali. […] Il “populismo” può essere curvato nel senso di classe, con tutti i rischi del caso, se guardiamo alle esperienze, mai pulite anzi costitutivamente spurie, dell’America Latina, a evitare così derive lepeniste o peggio». Come se il populismo di “sinistra” alla Chávez fosse preferibile al populismo di “destra” alla Le Pen! Tra l’altro, anche nella posizione appena considerata troviamo lo status quo definito in termini puramente borghesi, ossia riferito agli Stati e alle Potenze. Checché ne pensi Sciortino, l’ordine (capitalistico) regna ad Atene.

Norma Rangeri si era fatta delle illusioni perfino sul compagno (ormai qui tutti sono diventati compagni: da Tsipras a Papa Francesco!) Mario Draghi, dal quale la direttora del Manifesto si aspettava un’apertura di credito nei confronti dell’eroe di Atene. Invece, contro le pie/ridicole illusioni di certi amici del “popolo greco” il Presidente della BCE ha mantenuto la rotta fissata da tempo: «La Banca centrale europea di Mario Draghi ha deciso di non nascondersi dietro ai governi che oggi si riuniranno a Bruxelles. Ieri, ha mandato un messaggio chiarissimo al governo e al sistema finanziario greco: o la situazione si sblocca per qualche magia, e Atene avanza proposte serie per affrontare la sua drammatica crisi, oppure non ci saranno più spazi per tenere in piedi le sue banche: evento che farebbe scattare l’inizio della sostituzione dell’euro con qualcosa di diverso in Grecia» (Danilo Taino, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2015). Cosa aveva detto Draghi nel 2012, all’apice della crisi degli spread? «La Bce farà tutto quanto è necessario [per salvare l’euro]». Appunto! Naturalmente Draghi ha voluto mandare un chiaro segnale anche all’asse Parigi-Berlino (ma soprattutto a Berlino), sollecitato a prendere atto della natura politica (e geopolitica) della crisi in corso.

Finisco citando un brano di un mio post scritto nel maggio del 2012 perché lo trovo di una qualche attualità, soprattutto dal punto di vista dell’odierna “psicologia di massa” dei tedeschi.

Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se…
Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partner? «Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!»

Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo i conti con la dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni (a partire dalla sfera economica) rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni.

TSIPRAS E LA “LOTTA DI CLASSE” SECONDO IL MANIFESTO

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Per Il Manifesto «torna la vecchia lotta di classe»: per Zeus, non me ne ero mica accorto! Mi son distratto un attimo… Ringrazio quindi i compagni del “Quotidiano comunista” della preziosa informazione. E tuttavia… Insomma, i dubbi si fanno presto strada. «Lotta di classe»: sarà vero? In che senso, poi, «lotta di classe?». Come al solito, il pessimismo e il sospetto mi fregano. Ma vediamo meglio la cosa.

Leggiamo: «La let­tera “io rinun­cio al mio cre­dito greco”, è una piccola-grande rispo­sta all’agguato di Ue e Fmi con­tro il governo di Syriza gui­dato da Tsi­pras. È il momento più dif­fi­cile per il nuovo ese­cu­tivo di Atene, democraticamente eletto solo 5 mesi fa dopo il disa­stro della destra e della Tro­jka che ha por­tato alla crisi umanitaria. Ora Tsi­pras ha pre­sen­tato un piano con­tro l’asfissia finan­zia­ria. Ma l’Ue, con rapido voltafaccia, dice ancora no: chiede il taglio delle pen­sioni e meno tasse alle imprese. Insomma, torna la «vec­chia» lotta di classe. Il mani­fe­sto sostiene l’iniziativa “io rinun­cio al mio cre­dito” e invita tutti i let­tori a sottoscrivere la let­tera, a ripro­durla e a moltiplicarla. Diciamo forte e chiaro: Atene non è sola». Non c’è dubbio. Ma non contate sul mio appoggio!

Infatti, a mio modesto avviso non stiamo assistendo alla vecchia «lotta di classe»,  né a una sua variante moderna o post-moderna: niente di tutto questo. Si tratta piuttosto di una lotta intercapitalistica che ha molto a che fare anche con i rapporti di forza geopolitici inter-europei e mondiali.  Spacciare per “lotta di classe” lo scontro interborghese (o intercapitalistico, oppure interimperialistico: chiamatelo come più vi aggrada, come suona meglio all’orecchio 2.0) è un classico del pensiero “comunista” da Stalin in poi. Sì, ho detto Stalin: il nonno dei vetero/neo/post “comunisti” ancora attivi in Occidente. E in Italia – come in Grecia – di “comunisti” ce ne sono ancora tanti in circolazione, come sa d’altra parte bene lo stesso Tsipras, alle prese con la Piattaforma sinistrorsa che monta la guardia a difesa delle mitologiche (dopo tutto siamo in Grecia!) Linee Rosse. Syriza, da movimento social-populista qual è, ha forse fatto al “popolo greco” promesse irrealistiche (anche in questo in perfetta continuità con il vecchio personale politico greco, il quale com’è noto ha usato anche la spesa pubblica e l’evasione fiscale come strumento di consenso elettorale/sociale)? È quello che pensano in tanti. Scrive Claudio Cerasa sul Foglio di oggi: «Fare gli anticapitalisti con i soldi degli altri funziona quando prometti, quando sei al comando del paese è un’altra storia. Funziona così. E anche Tsipras deve essersene accorto quando ha capito che – kalos kai Dragatos – l’unico modo per salvare il suo paese era proprio quello: stringere la mano all’Europa e agli orrendi capitalisti nemici del popolo». Com’è noto, per i “destri liberisti” basta un niente, un’Enciclica papale ad esempio, per parlare di “anticapitalismo”; però la battuta non è male.

Cito dalla Lettera di sostegno al governo borghese di Atene (alle prese non con la cattiveria del mondo, ma con le magagne di un Capitalismo, quello greco, praticamente da sempre obsoleto e parassitario, nonché con gli interessi capitalisticamente legittimi di chi a) presta i soldi, b) vuole intascare profitti e c) intende rafforzare ed espandere la propria egemonia sistemica, come la Germania: è il Capitalismo, Varoufakis!): «L’Europa senza la Grecia sarebbe come un adulto privato della sua infanzia. Cioè della sua memoria e delle sue parole». Che infantilismo d’accatto! Lo so, sono duro, ma come diceva il mio filosofo di riferimento «ogni limite ha una pazienza», o qualcosa del genere. Ma ci siamo capiti! C’è in corso una guerra sistemica intercapitalistica giocata sulla pelle del proletariato e della piccola borghesia declassata, e certi “comunisti” mi invitano a versare lacrime sulla Civiltà Occidentale: ma andate a quel Paese! Quale? Il solito!

Per quel che conta la mia opinione (e qui stendiamo il solito velo!), desidero comunicare ai creditori politicamente corretti del Paese che personalmente non rinuncio né al mio credito (avercelo, in tutti i sensi!*) né, tanto meno, al mio “istinto di classe”, il quale mi suggerisce in modo inequivoco di non piegarmi a nessuno degli attori che oggi si scontrano sulla scena internazionale; di non abboccare né all’amo della “destra” (rigorista o populista, europeista o sovranista, liberale o statalista) né a quello della “sinistra” (rigorista o populista, europeista o sovranista, liberale o statalista: magari sotto la forma particolarmente rognosa e chimerica del benecomunismo); di rifiutare di “scegliere” l’albero a cui impiccarmi.

La «lotta di classe» a cui ci invita Il Manifesto è la lotta che il Capitale fa ogni santo giorno agli individui in generale e ai nullatenenti in particolare. Spedire al mittente come velenosa robaccia ultrareazionaria la “solidarietà di classe” immaginata dal “Quotidiano comunista” (sic!) è, a mio giudizio, il minimo sindacale richiesto agli anticapitalisti di tutto il mondo da un pensiero autenticamente radicale. A ogni buon conto, io la penso così.

Non è necessario bere il vino di Marx per capire la natura ideologica (falsa) della democrazia (borghese) in generale e della democrazia (borghese) ai tempi del dominio totalitario e mondiale dei rapporti sociali capitalistici. Né bisogna essere particolarmente “marxisti” per comprendere che solo un’autentica lotta di classe può spezzare il legame politico, ideologico e psicologico che oggi (come da troppo tempo, ormai) incatena i nullatenenti al sempre più disumano carro del Dominio – comunque “declinato”: democrazia, fascismo, liberismo, “socialismo” (leggi: statalismo), ecc., ecc. Insomma: io no sto né con Tsipras, né con la Merkel, né con gli europeisti né con la Troika, né con gli Stati Uniti né con la Russia, né con l’Italia né con la Cina – a proposito: alcuni sovranisti particolarmente intelligenti e furbi pensano che l’egemonia economica e politica russa o cinese sulla Grecia o su qualche altro Paese del Meridione europeo sia preferibile e auspicabile: a queste cime dialettiche io non arriverò mai! E difatti sconto una certa solitudine politica, diciamo. Ma se la “dialettica” è questa…

Una piccola precisazione: quei “” vanno letti come dei “contro”. Per adesso sul sempre più scottante “caso greco” è tutto.

* «Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo. […] Entro il rapporto, non è il denaro che viene superato nell’uomo, ma è l’uomo stesso che viene trasformato in denaro, ossia il denaro si è personificato nell’uomo. La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro» (K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 12, Editori Riuniti). D’altra parte, «il denaro è solo un rapporto sociale oggettivato» (ibidem, p. 89). Una qualità assai misteriosa che i feticisti d’ogni genere  (compresi Papa e papisti proudhoniani) non riusciranno mai a capire.

ANIMALISTI AGNELLIAggiunta da Facebook, 27 giugno 2015

 YANIS VAROUFAKIS E LA CORDA DEMOCRATICA

La grande “scelta”: corda di destra, di centro o di sinistra?

Ultim’ora Huffington Post: «”Noi agiamo a nome dei greci. Se i greci ci diranno di firmare firmeremo, qualunque cosa questo richieda”. Lo ha affermato il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, in merito al referendum che si terrà sull’ultima proposta di aiuti dell’UE».

DA CHE PULPITO! Io e Syriza.

bertrams_thumbFacile criticare da sinistra il governo Tsipras digitando comodamente su una tastiera obiezioni che a volte rasentano la ricerca del classico pelo nell’uovo. Bisogna misurarsi con la concretezza dei processi sociali, senza cedere alla paura di sbagliare né allo spirito di fazione. La verità è che noi di sinistra siamo bravissimi a dividerci, per la felicità dei nostri nemici: questo, parola più, parola meno, il succo della critica che mi ha rivolto ieri un simpatizzante italiano di Alexis Tsipras che, bontà sua, ha letto i miei «settari» post sulla vicenda greca. La critica mi fa capire che la posizione politica dalla quale approccio la questione greca non è emersa con sufficiente chiarezza. Di questo mi rammarico, e di qui quanto segue.

Lungi da me criticare «da sinistra» (o «da destra», perché no?) l’attuale governo greco, e la stessa cosa vale naturalmente per l’opposizione antigovernativa degli stalinisti del KKE; rispetto a Syriza e al KKE io non sono né più “a sinistra” né più “a destra”, né più “radicale” né più “moderato”: mi colloco piuttosto su un terreno completamente diverso. È il terreno – oggi ridotto a deserto – della lotta di classe condotta senza alcun riguardo per i cosiddetti superiori interessi del Paese, Grecia, Germania o Italia che sia.  È il terreno dell’autonomia di classe, dell’internazionalismo antisovranista (ricordate? Proletari di tutto il mondo…) e della rivoluzione sociale – quella, sia detto contro ogni forma di superstizione democratica, che non prevede passaggi elettorali di sorta. È da questa peculiare prospettiva, che so essere grandemente minoritaria (lo so, concedo troppo all’ottimismo della volontà…), che cerco di evidenziare le contraddizioni di Tsipras e compagni a proposito del braccio di ferro sistemico con la Germania “rigorista” e con la famigerata Troica, pardon: con… Le Istituzioni.

Punto di vista che, ad esempio, non ha nulla a che fare con quello di Antonio Negri e Sánchez Cedillo, i quali infatti a proposito di Syriza e Podemos scrivono: «È qui che si coglie nuovamente come solo la sinistra – quella nuova sinistra che parte dalla radicalità democratica dei movimenti emergenti di lotta e si organizza su linee di emancipazione – possa affermare l’Unione europea non come strumento di dominio ma come obiettivo democratico [sic al cubo!]. Il controllo democratico [questo, tra l’altro, a proposito della superstizione di cui sopra] del governo della moneta europea. È questa, oggi, la presa della Bastiglia [la prima volta come tragedia, la seconda come… Toni Negri!].  […] Ancora una volta è dall’Europa ed in Europa che nasce un progetto di libertà, di eguaglianza, di solidarietà – un progetto che possiamo chiamare antifascista, perché ripete la passione e la forza delle lotte di Resistenza» (EuroNomade, 23 febbraio 2015). Un altro Capitalismo europeo (magari “comunale”) è dunque possibile? Non saprei, e comunque non sono interessato alla costruzione, magari solo dottrinaria (purtroppo sono un proletario non cognitivo), di capitalismi di diverso conio. L’evocazione resistenzialista è però, come si dice, tutto un programma.

Per chi scrive le «lotte di Resistenza» rappresentarono per l’Italia la continuazione della guerra imperialista con altri mezzi nelle mutate circostanze determinate dai bombardamenti “democratici e antifascisti” anglo-americani. Su questo punto la penso come Giulio Sapelli (e ciò conferma peraltro la mia completa estraneità alla “sinistra”): «La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all’Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana» (Storia economica  dell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, 2008). Chi si muove sul terreno degli interessi nazionali non può che apprezzare la tradizione resistenzialista. Ecco perché dal mio punto di vista antinazionale il richiamo di Negri alla Resistenza, che lo conferma come un epigono più o meno “postmoderno” della tradizione “comunista” del nostro Paese, si colloca concettualmente e politicamente dentro l’orizzonte del Dominio. Mito resistenzialista e mancanza di autonomia di classe sono le facce di una stessa medaglia. Ma questo la “sinistra”, greca o italiana che sia, non può capirlo. Non per mancanza di intelligenza, ma appunto perché essa si muove sul terreno delle compatibilità capitalistiche, magari con l’illusione che le rivoluzioni semantiche (ad esempio, chiamare Le Istituzioni la vecchia Troica, o Comune il vecchio Capitalismo di Stato) possano sostituire le rivoluzioni sociali che tardano a venire.

A mio parare – e non so se si tratta di un’opinione di “sinistra” o di “destra”, né la cosa ha per me una seppur minima importanza – Syriza è un soggetto politico borghese “a tutto tondo” che 1) è riuscito a intercettare il malessere degli strati sociali più azzannati dalla crisi economica, operazione quanto mai preziosa ai fini della continuità dello status quo sociale, e che 2) può mettersi alla testa di un reale processo di modernizzazione del capitalismo greco*. Di qui, il suo muoversi su un terreno pieno di insidie, che la leadership di Syriza cerca di padroneggiare come può alternando pose populiste e atteggiamenti assai più inclini alla realpolitik: «Il governo greco torna alla realtà», ha detto ad esempio la Cancelliera di Ferro. Persino il perfido Wolfgang Schaeuble, che di solito ama vestire i panni del poliziotto cattivo, ha invitato i suoi compagni di partito a dare credito, per l’ultima volta, al ritrovato realismo dei colleghi ellenici. E allora si capisce come la concorrenza sovranista e demagogica del KKE a “sinistra”, e di Alba Dorata a “destra”, debba rendere molto problematico il compito di Tsipras e di Varoufakis.

Il termine borghese adoperato sopra per caratterizzare la natura politica di Syriza va qui declinato non in termini volgarmente sociologici (persino un partito fatto interamente di operai può benissimo praticare una politica squisitamente borghese), ma storico-politici: borghese è il soggetto politico che fa gli interessi particolari o generali del Capitale, funzione che non esclude affatto (anzi!) il protagonismo di quel soggetto nella lotta intercapitalistica, ossia nella contesa fra fazioni borghesi che ha come obiettivo il potere materiale, politico e ideologico sull’intera società. Come la storia dimostra ampiamente e sempre di nuovo, le fazioni borghesi tendono a coalizzarsi fra loro solo quando il nemico comune, interno o esterno, li costringe a un’azione comune. È in questi casi critici che il concetto di interesse generale assume il significato più proprio. Tutto questo, beninteso, sempre al netto della coscienza che il soggetto politico borghese ha di sé, coscienza che si ricava dalla fenomenologia di quel soggetto: fraseologia, simbolismo, miti e via di seguito. Se dovessimo rimanere alle parole, dovremmo ad esempio definire comunista il KKE o la stessa “sinistra” di Syriza, e con ciò attirarci le giuste ire di Zeus Marx: non sia mai!

«Alexis Tsipras è ancora una volta nel mirino dell’ala sinistra del suo partito. Dopo le bordate contro l’accordo con l’Eurogruppo sparate dall’ex partigiano e oggi eurodeputato di Syriza, Manolis Glezos, che ha parlato di “vergogna” e ha chiesto scusa ai greci “per aver partecipato a creare questa illusione”, ieri è toccato a un altro grande vecchio della politica – ma anche della cultura – greca, Mikis Theodorakis, esprimere il suo disagio verso la sinistra al governo che nei confronti dell’Europa a guida tedesca sembra un “insetto che finisce accidentalmente nella rete del ragno incapace di reagire ed essere salvato”» (La Stampa, 24 febbraio 2015). Queste critiche “da sinistra” all’operato del governo greco non solo le lascio volentieri ai populisti sovranisti che invocano l’Unità Patriottica Nazionale Antitedesca, secondo il nodo modello resistenziale, ma le combatto “senza se e senza ma” per il loro contenuto politico-ideologico sommamente reazionario.

Non so se, come scriveva ieri sul Manifesto Dimitri Deliolanes, «Anche Nostro Signore è deluso dal gio­vane Tsipras»; purtroppo non godo di simili Alte frequentazioni. Posso però dire, per quel pochissimo che vale la mia opinione, che a me il giovane Tsipras non ha provocato alcuna delusione. Solo dagli amici mi attendo delusioni e tradimenti.

 

* «La Grecia non ha industria e ha servizi forniti solo da micro imprese, come i tavernieri e gli albergatori, presso le quali la raccolta delle imposte è inefficace. L’unico settore sviluppato, quello della marina mercantile, vede le navi battere bandiera dei paradisi fiscali. Inoltre la Grecia non ha Guardia di Finanza e non ha il catasto. Ha, insomma, una base imponibile debole. Non puoi avere un sistema fiscale svedese se non hai una base fiscale. Strutturalmente, le entrate sono il 35% del Pil, le uscite il 45 per cento. Visto che le entrate promesse in passato non sono mai arrivate, tutti sanno che le promesse sul recupero di soldi dalla sola evasione fiscale non sono credibili». Così Giorgio Arfaras, economista del Centro Einaudi. Per Arfaras, la sola via d’uscita credibile, perché sostenibile, per la Grecia sarebbe quella di creare le condizioni per un vero sviluppo, «quelle che l’austerity non è in grado di ottenere» (Linkiesta, 21 febbraio 2015).

Il comparto marittimo (un settore che occupa 250mila persone e che genera il 7% del PIL nazionale) mette bene in luce le magagne del capitalismo greco (quando parlo di capitalismo non mi riferisco, il più delle volte, solo alla struttura immediatamente economica di un Paese, ma al suo sistema sociale complessivo: politica, cultura, welfare, ecc.). Stiamo parlando di 4.707 super-navi (il 16% del mercato globale, per un valore di circa 105 miliardi) su cui sventola la bandiera biancazzurra degli armatori ellenici. E soprattutto parliamo di profitti miliardari macinati ogni anno, quasi esentasse, dalle 50-60 famiglie degli Onassis ellenici. Come ricorda Ettore Livini, «A intaccare i loro diritti ha provato anche Antonis Samaras. Salvo innestare subito una brusca retromarcia e venire a patti. Limitandosi nel 2012 — quando Atene era a un passo dal default — a concordare un “tassa temporanea d’emergenza” come contributo alla crisi nazionale. Quasi 500 milioni in 5 anni che gli industriali del Pireo hanno pagato senza batter ciglio. “Sono loro che costruiscono gli ospedali nelle isole. Ogni giorno le loro ricchissime Fondazioni danno da mangiare a 50mila persone nel paese”, spiega un portuale all’imbarco del traghetto per Aegina. Buonismo a buon mercato che ha consentito ai tycoon di dribblare senza problemi di coscienza miliardi di tasse» (La Repubblica, 24 febbraio 2015). Naturalmente se il governo Tsipras riuscirà a ristrutturare il rapporto fiscale con gli armatori sarà tutto il sistema che gira intorno alla Marina Mercantile greca che subirà notevoli cambiamenti, intaccando anche gli interessi di molti lavoratori, pensionati e assistiti dal welfare più o meno convenzionale oggi garantito dagli armatori. È la “riforma strutturale”, bellezza! Una “riforma”, detto en passant, imposta in primo luogo dalle esigenze di ammodernamento del sistema capitalistico greco: i famigerati “compiti a casa” Tsipras e soci dovranno farli in primo luogo per conto della competitività sistemica del loro Paese, anche se gli inevitabili costi sociali verranno poi addebitati ai cattivi lupi tedeschi, i quali, secondo i patrioti ellenici, non avrebbero perso l’antico vizio…

«Tsipras, in sostanza», scrive Livini, «ha fatto una grande scommessa su se stesso e sulla sua capacità riformatrice: se riuscirà a mandare in porto davvero la parte di programma più gradita alla Ue (lotta a corruzione, evasione fiscale, burocrazia, sprechi) libererà le risorse per mantenere le promesse fatte agli elettori. E a quel punto la mezza sconfitta di oggi diventerebbe una vittoria tonda». Intanto, la Borsa di Atene promuove l’intesa di ieri fra i ministri delle Finanze della zona euro guadagnando quasi il 10%. La “rivoluzione capitalistica” in Grecia si è messa in marcia?

Groucho-Fratelli-MarxAggiunta da Facebook

LA PRIMA VOLTA COME FARSA, LA SECONDA COME MACCHIETTA. E LA TRAGEDIA? LASCIAMOLA ALLE COSE SERIE, PER FAVORE!

Scrive Ettore Livini su Repubblica di oggi: «Le sei pagine di “ambiguità costruttiva” (copyright dell’autore Yanis Varoufakis) prive di numeri e cifre approvate dall’ex Troika hanno regalato una giornata da incorniciare ai mercati (+10% la Borsa ellenica) ma non hanno placato i mal di pancia della sinistra nazionale sul ritorno sotto mentite spoglie del memorandum e della Troika e la mezza marcia indietro — obbligata viste le forze in campo — su alcune promesse elettorali. “Siamo partiti da Marx e siamo arrivati a Blair” scherzavano (ma non troppo) ieri alcuni uomini dell’ala più radicale di Syriza».

Ciò dimostra, a mio modesto avviso, non che Alexis Tsipras ha tradito il Tragico di Treviri, ma che gli «uomini dell’ala più radicale di Syriza» hanno in testa un “marxismo” ridotto a macchietta.

LA MARCIA DEL DEMOFASCISMO SULL’ACROPOLI

grelezLa Disordinata riflessione su Antifascismo e anticapitalismo di qualche giorno fa ha suscitato presso qualche lettore questo tipo di perplessità: «Bene l’anticapitalismo. Ma perché essere indifferenti nei confronti del fascismo? Perché non combatterlo, magari sul terreno che esso predilige, ossia la violenza?». La perplessità è benvenuta perché mi permette di chiarire un punto importante riguardante la scottante faccenda.

Lungi dal condividere qualsiasi forma di indifferentismo per ciò che riguarda i fenomeni sociali in generale, e il fenomeno fascista in particolare, sono piuttosto fra i cultori della materia, se così posso esprimermi, nel senso che da sempre cerco di studiare la genesi storico-sociale del fascismo, per capirne le cause lontane e immediate, materiali e ideologiche, politiche e psicologiche.

Ad esempio, la psicologia di massa del fascismo (come peraltro quella della democrazia e dello stalinismo) mi intriga assai, soprattutto in quanto sintomatologia delle contraddizioni sociali e, cosa che a me interessa particolarmente, dell’impotenza delle classi dominate, ridotte appunto alla condizione di masse manipolate sotto ogni rispetto: da quello organico a quello spirituale, da quello somatico a quello psicologico.

Trovo molto istruttivo leggere Mein Kampf di Hitler, non per cercarvi le patologiche perversioni del noto vegetariano assetato di sangue giudaico, ma per capire il momento storico che l’ha trasformato nel «tamburino» della potente tendenza sociale che gli stava dietro: «l’irresistibile supremazia del potenziale industriale» (W. Adorno, Minima moralia). Sotto quest’aspetto, consiglio di leggere I due volti della Germania, un interessantissimo libro scritto nel 1932, alla vigilia dei noti eventi, dal giornalista americano H. R. Knickerbocker.

Quando la crisi capitalistica si acuisce, il conflitto sociale, sempre latente in questa società piena di antagonismi d’ogni sorta, si radicalizza, e alla fine trova la sua espressione politico-ideologica, magari attraverso un sindacato, come accadde in Polonia nei primi anni Ottanta con Solidarność, oppure in guisa di movimento politico-ideologico neonazista, come sta accadendo oggi in Grecia e in altri Paesi del Vecchio Continente. In ogni caso la materialità del processo sociale trova sempre la sua fenomenologia politico-ideologica, e il pensiero critico-radicale, per mantenersi all’altezza della complessità sociale, non deve mai perdere i nessi che legano la fenomenologia alla sua essenza.

Ad esempio, e così ci avviciniamo al focus della questione, quel pensiero non può farsi distrarre dal folcloristico razzismo della Lega Nord al punto da perdere la strada che conduce alla sua radice materiale, al suo momento genetico: il peculiare sviluppo capitalistico italiano, dal 1861 in poi, naturalmente nel suo necessario rapporto con i processi storico-sociali mondiali – vedi la geopolitica del Vecchio Continente post-muro di Berlino e l’ulteriore accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica. Oggi è facile cogliere il rapporto che insiste fra il gap sistemico Nord-Sud del Paese e le “istanze” leghiste, ma vent’anni fa si correva il rischio di passare per filo-leghisti se si metteva in primo piano nell’analisi del fenomeno in questione, non gli sguaiati slogan antimeridionali di Umberto Bossi e dei suoi verdi accoliti, ma lo sviluppo ineguale del Capitalismo dentro e fuori i confini nazionali, con tutte le conseguenze, anche d’ordine psicologico (“sentirsi” più tedeschi o più tunisini a ragione della ricchezza prodotta e consumata), a esso necessariamente correlate. Chi non voleva correre il rischio di passare per un “legista oggettivo”, nei primi anni Novanta doveva fare un solenne giuramento antileghista, che postulava di individuare nei rozzi Lumbard il nemico numero uno dell’umanità. Poi venne Berlusconi… E poi arrivò anche Monti…

anazzSostenere che il fascismo non è che una delle forme politico-ideologiche del Dominio sociale capitalistico, non significa rimanere disarmati dal punto di vista politico nei confronti dei movimenti fascisti – parlo di quelli veri, non di quelli immaginari. Significa piuttosto contrastarli, con tutti i mezzi necessari, non nel nome della democrazia, o per “ripristinare” la democrazia, ossia l’altra faccia della cattiva medaglia, ma in quanto espressione degli interessi delle classi dominanti, o di una parte di essi. Questo significa respingere alla radice l’idea, ultrareazionaria, secondo la quale dinanzi al fascismo la lotta di classe “pura” deve fare un passo indietro: si tratta invece di spingerla due passi in avanti, proprio perché quel fenomeno ci testimonia la radicalizzazione del conflitto sociale, con tutto ciò che la cosa presuppone e pone. Non si abbandona, di fatto, il terreno classista proprio quando il processo sociale ci sfida apertamente confermando la tesi secondo la quale al peggio non può esservi fine, nel Capitalismo.

L’antifascismo interclassista, alla partigiana, tanto per intenderci, per un verso non estirpa le radici sociali del fascismo, e per altro verso consegna le classi subalterne nelle mani delle fazioni capitalistiche vincenti, che magari sono le stesse che prima hanno aizzato il cane fascista contro i lavoratori, i disoccupati, gli immigrati e via di seguito. Proprio l’antifascismo interclassista del PSI rafforzò politicamente e ideologicamente il movimento fascista nella sua fase genetica, mentre indebolì fortemente la capacità di resistenza del proletariato agli attacchi demofascisti  della
borghesia liberale ed ex liberale del Bel Paese.

Il problema non è, in primo luogo, il cane, ma la mano che lo tiene saldamente al guinzaglio, e che lo usa quando c’è bisogno di “lavorare sporco”. E del cane, che ne facciamo? Occorre difendersi dai suoi morsi, è ovvio, ma senza dimenticare la potenza sociale che la malabestia serve. Solo in questo modo la difesa diventa un attacco, per dirla con il maestro di Wing Chun Ip Man.

arAltro che Insieme in Europa per la democrazia, come recita l’appello dei politici e degli intellettuali antifascisti radunati oggi ad Atene! Piuttosto insieme in Europa e nel mondo contro il Capitalismo, contro la sua crisi e contro il Leviatano posto a sua difesa, qualunque sia la sua contingente coloritura politica: democratica, fascista, neostalinista – in Grecia i nipotini di Stalin sono ancora molto forti, e la crisi rischia di irrobustirli ulteriormente. È su questa base che, a mio avviso, occorre lavorare per la costruzione di un associazionismo di classe “a 360 gradi”: politico, “economico”, culturale e quant’altro; il solo in grado di togliere dall’attuale stato di impotenza gli strati sociali subalterni e di rispondere adeguatamente all’associazionismo antiproletario del tipo di quello promosso ad esempio in Grecia da Alba Dorata.

Ovviamente su questo terreno ci si scontrerà anche con i fascisti. Ma su questo terreno, non su quello della democrazia o della «difesa dei diritti dell’uomo» (oscena ideologia che cela la reale disumanità della Civiltà capitalistica: vedi, come Eccezione che rivela la Regola, l’ennesima “strage degli innocenti” di ieri a Newtown), ossia sul terreno delle classi dominanti.

Proprio l’antifascismo interclassista può diventare un eccellente cemento ideologico per tenere insieme gli strati sociali più azzannati dalla crisi (occhio soprattutto ai ceti medi in via di rapida proletarizzazione), i quali, in mancanza di un’alternativa autenticamente anticapitalistica, rischiano di venir reclutati, tragica coazione a ripetere, dagli opposti ma socialmente convergenti eserciti: di qua i fascisti, di là gli antifascisti. In mezzo, schiacciata come sempre, la possibilità dell’emancipazione di tutti e di ciascuno.

IL PIANTO GRECO DI CARLO FORMENTI

«Con la scusa di “risanare” un territorio urbano che le esauste casse delle amministrazioni locali (falcidiate dai tagli dei governi neoliberisti) non riescono più a curare, industrie e società finanziarie globali allungano gli artigli sugli spazi pubblici che, una volta trasformati in proprietà privata, non vengono più presidiati e difesi dalla polizia ma da guardie armate assoldate dai nuovi padroni. Così lo spazio pubblico si restringe e si restringono anche i diritti di fruizione che tradizionalmente lo regolavano, sostituiti dall’arbitraria volontà dei proprietari fatta valere con la forza». Questo scriveva ieri Carlo Formenti sul blog di MicroMega, commentando la «durissima polemica sulla privatizzazione degli spazi pubblici» in corso in Inghilterra, anch’essa alle prese con la crisi economica che “travaglia” l’intero Occidente.

Denunciare la disumana potenza espansiva del Capitale, il suo sempre più incalzante totalitarismo sociale – che, a volte, indossa i panni del totalitarismo politico, l’eccezione che, per dirla con Carl Schmitt, spiega la regola e se stessa –, è il minimo sindacale che ci si deve aspettare da un pensiero che si vuole critico. Ma Formenti non esercita la critica, bensì la lamentela, anzi: l’indignazione, per citare articoli alla moda. Egli fa l’apologia di un Capitalismo rispettoso dei «diritti di fruizione», del contratto sociale e dei beni pubblici, e con ciò stesso mostra tutta la sua – inconsapevole, e perciò ancora più disarmata – subalternità nei confronti dell’ideologia dominante, la quale, come diceva Quello, è l’ideologia della classe dominante. Necessariamente. E l’ideologia ancora dominante, anche nella patria del modello «liberista-selvaggio» tanto disprezzato dai progressisti, è quella che vuole l’economia essere rispettosa dei «diritti umani», dei lavoratori, dell’ambiente e balle speculative dello stesso tenore. E se non lo è, a cagione dei soliti cinici operatori economici (i vampiri dell’Alta Finanza in testa!), ovvero a causa di politici corrotti e/o incapaci, potrebbe esserlo, di più: dovrebbe esserlo.

Non mi stancherò mai di ripetere che nella società capitalistica in generale, e in quella del XXI secolo in particolare, ossia nella fase totale del Capitale (un concetto che ingloba tanto la sua dimensione geosociale quanto la sua dimensione esistenziale: tutti noi!) il bene comune è una menzogna, dietro la quale si cela la realtà di rapporti sociali interamente orientati al massimo e immediato profitto. Come ho scritto nel mio modesto lavoro “economico” criticando i teorici del benecomunismo, oggi «non esiste alcun “Comune”, perché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o “globale”) appartiene con Diritto – ossia con forza, con vio­lenza – al Capitale, privato o pubblico che sia. Il Capitale non si appropria arbitrariamente “il Comune”, non lo “privatizza”, ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasfor­mare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia» (Dacci oggi il nostro pane quotidiano).

Come dimostra Marx (vedi Il segreto dell’accumulazione originaria, Il Capitale, I, cui peraltro fa riferimento lo stesso Formenti all’inizio del suo pezzo), parlare di proprietà comune  (e, per estensione, di Comune, bene comune, bene pubblico) dopo il XVIII secolo è un puro anacronismo, almeno in Inghilterra e nelle metropoli del Capitalismo mondiale. Si desidera illudere se stessi e la gente che esiste, nel XXI secolo, un Comune da difendere con le unghie e con i denti dall’assalto del «neoliberismo» e dalla «cupidigia del capitalismo post moderno»? Accomodatevi! Di certo non sarò mai con i nostalgici del Capitalismo del bel tempo che fu – quando, detto di passata, esisteva ancora il «socialismo reale», il quale, dopo tutto, non era poi così male, a parte qualche piccola magagna…

«Da noi, intanto, il governo dei “tecnici” ci ha appena comunicato che, per risanare i buchi del pubblico bilancio, metterà in vendita i pezzi pregiati del nostro patrimonio pubblico, sia a livello dei beni dello stato centrale, sia a livello dei beni del governo locale: beni mobili e immobili, beni demaniali, partecipazioni in imprese municipalizzate e quant’altro finiranno nelle mani di privati che ne faranno ciò che vorranno (li trasformeranno cioè in fonti di profitto ignorando interessi e diritti dei comuni cittadini)». Nella società capitalistica comanda la totalitaria legge del profitto: che scandalo!

La crisi economica ha reso evidente quello che le briciole materiali e “spirituali” dei tempi cosiddetti grassi nascondevano, e cioè il fatto che tutto quello che in qualche modo entra in conflitto con le esigenze dell’accumulazione capitalistica deve venir spazzato via. È solo una questione di tempo. Tutti i diritti particolari devono fare i conti con questo diritto universale, il quale sta scritto nella prassi, nel linguaggio della vita reale, sempre per civettare con l’ubriacone di Treviri, non certo sui libri sacri che cianciano di «diritti umani», contratti sociali, beni comuni, e luogocomunismi di identico vile conio. Ad esempio, un Welfare che non si armonizza più con il processo che sempre di nuovo crea la ricchezza sociale deve necessariamente confessare il proprio fallimento. agli inizi degli anni Ottanta la Thatcher in Inghilterra e Reagan negli Stati Uniti si limitarono a ratificare un dato di fatto. Oggi ci risiamo.

Tra l’altro, e a dimostrazione di quanto dinamici, fluidi e transitori siano i rapporti di forza intercapitalistici, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso spettò all’Inghilterra assumere i panni della cicala dispendiosa, del Paese infetto e reietto – vedi l’odierna Grecia. Nel 1976 Stati Uniti e Germania Federale accusarono la spesa pubblica inglese di ostacolare la ripresa del ciclo economico, e intimarono il governo di Sua Maestà a procedere sulla via del «rigore economico», ossia delle privatizzazioni e del taglio della spesa pubblica. Datevi una mossa con la spending review! Nel dicembre di quell’anno Londra, dopo aver assicurato gli “alleati” circa la sua volontà di voler mettere la testa a posto, ricevette dal FMI un prestito di 3,9 miliardi di dollari. Chiudo la breve digressione “storica”.

Allora bisogna prendere atto della maligna natura del Capitale, e del Leviatano che ne è il cane da guardia, senza fiatare? Tutt’altro! Prendere coscienza della reale natura della potenza sociale che ci tiranneggia, sia durante i boom economici, sia nel corso delle crisi economiche, tanto nel seno della forma democratica del dominio sociale, quanto in quella dittatoriale; assumere questa radicale consapevolezza significa capire con che cosa abbiamo a che fare e scoprire le straordinarie potenzialità sociali che pulsano nel ventre del Dominio.

Il problema non è «il neoliberismo all’assalto dei beni pubblici», ma il Capitale (il rapporto sociale capitalistico) all’assalto dell’intero spazio esistenziale degli individui. È con questa consapevolezza che dobbiamo approcciare il terreno delle lotte parziali, le quali, hegelianamente, lasciano intravedere scenari di più vasta e ambiziosa portata. A patto che si abbandoni la miseranda prospettiva della difesa di uno status quo (il vecchio Welfare, il vecchio «patto sociale» ecc.) che il processo sociale mondiale (vedi l’ascesa capitalistica della Cina, dell’India, del Brasile e via discorrendo) ha reso obsoleto ormai da decenni, e a cui la crisi economica ha inferto l’ultimo colpo, forse il decisivo.

Dopo l’esito delle elezioni in Grecia Formenti appare sconsolato, depresso, pessimista fino al “qualunquismo”: «Tanto, come dimostra il caso greco, la casta neoliberista attribuisce al voto popolare lo stesso valore della carta igienica con cui si pulisce il lato B. Il tutto nell’assordante silenzio delle forze politiche che hanno ancora la faccia tosta di definirsi “di sinistra”. Fino a quando permetteremo loro di abusare della nostra pazienza?». Casta neoliberista versus forze del progresso: ecco in quali ideologici (falsi) termini il Nostro ha interpretato il rito democratico della “fatale” domenica. Peraltro, non la «casta neoliberista» ma l’ormai ultrasecolare prassi capitalistica – nell’accezione sociale, e non meramente economica, del concetto –  si è incaricata di attestare la funzione igienica delle elezioni. Ci vuole davvero molta pazienza nell’esercizio della critica, la quale il più delle volte si risolve nel trattamento chimico di ciò che «il lato B» ama rilasciare a testimonianza di una buona digestione.

MORIRE PER L’EURO O PER LA DRACMA?

Il pratico è un uomo abituato alla quotidianità, al modo in cui le cose funzionano di solito. Ma quando le cose non vanno, allora c’è bisogno del pensatore, dell’uomo che possiede una qualche dottrina sul perché le cose solitamente funzionano. È ingiusto suonare il violino mentre Roma brucia, ma è del tutto legittimo studiare la teoria dell’idraulica, mentre Roma brucia (Chesterton, Sull’ideale, cit. tratta da Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt).

Oggi in Grecia la Moltitudine è chiamata a decidere se desidera versare lacrime e sangue per conto della famigerata Troika transnazionale piuttosto che per la miserabile classe dirigente nazionale; se vuole continuare a sopravvivere sotto l’Euro o sotto la Dracma, se è preferibile il dominio sociale capitalistico espresso in una moneta sovranazionale piuttosto che in una nazionale, se le conviene nuotare nel mare agitato di un Capitalismo competitivo (modello tedesco o modello anglosassone: scegliere, prego!), ovvero galleggiare in un Capitalismo assistito dal Leviatano – che poi presenta i conti dei pasti ritenuti, a torto, gratuiti. Ecco in che cosa si risolve la prassi democratica: i dominanti chiedono ai dominati in quale forma essi desiderano venir sfruttati, comandati e, a volte, mandati al macello. Oggi la lana, domani la carne.

Per mettere in riga gli ellenici la teologia politica tedesca ricorda che «Se c’è una punizione deve esserci anche una colpa». Vero. Si tratta di dare un nome a questa Colpa.

USCIRE DALL’EURO O DAL CAPITALE? LA “PROVOCAZIONE” È POSTA

Ieri, nel corso del suo intervento al convegno sulle piccole e medie imprese organizzato dai Radicali Italiani a Padova, Emma Bonino ha dichiarato quanto segue: «Quando parliamo di equità non dobbiamo dimenticare che a novembre del 2011 eravamo sull’orlo del baratro. La prima misura di equità è stata salvare il Paese dal fallimento, perché il suo fallimento avrebbe implicato una maggiore sofferenza per tutti, a cominciare dai più deboli». Concordo in pieno con questa affermazione, o, meglio, ne condivido il concetto generale.

Infatti, nell’ambito della vigente società la salute di un Paese, ossia dello status quo capitalistico, molto spesso fa la differenza fra la sopravvivenza “dignitosa” e la miseria più nera di gran parte dei suoi cittadini. Solo in un caso il fallimento di un Sistema- Paese ha il benigno significato della promozione di nuovi e più avanzati rapporti sociali: in caso di rivoluzione sociale. In questo caso non solo i «più deboli» non ne sarebbero danneggiati, ma anzi se ne avvantaggerebbero grandemente, essendo peraltro essi stessi i protagonisti assoluti di quel catastrofico evento.

La rivoluzione sociale, quando non è una frase vuota buona da spendere nei salotti benecomunisti, non può darsi che come fallimento di un Paese, come catastrofe, anzi: come feconda catastrofe, nella misura in cui essa “getta” le fondamenta di un edificio sociale superiore. (E mi scuso per la vetusta metafora “strutturalista”, che forse mi deriva da mio padre: un muratore!). Per questo Carlo Cafiero ha potuto scrivere che «L’operaio ha fatto tutto; e l’operaio può distruggere tutto, perché può tutto rifare».

Alla vigilia del “fatale” voto in Grecia i teorici della bancarotta «qui e subito», nel seno degli odierni rapporti sociali, e quelli che pongono il falso dilemma: uscire o non uscire dall’euro? uscire o non uscire dall’Unione Europea? farebbero bene a riflettere sul reale significato politico delle loro posizioni “rivoluzionarie”. Soprattutto dovrebbero chiedersi se la vera, ancorché oggi puramente teoretica, domanda da porsi non sia piuttosto la seguente: uscire o non uscire dal Capitalismo?

Chi pensa che l’uscita del Paese (Grecia? Spagna? Portogallo? Italia?) dall’Unione Europea e/o dall’euro sia “oggettivamente” un passo nella giusta – anticapitalistica? – direzione inganna se stesso e chi è disposto a concedergli fiducia. Il sovranismo politico ed economico, come quello espresso in Grecia soprattutto dai partiti della “sinistra radicale” (da Syriza al KKE) è il veleno che una parte della classe dominante europea sta cercando di inoculare nelle vene delle classi subalterne, sempre sensibili ai richiami del nazionalismo, soprattutto in tempi di crisi economica. Come ho scritto altrove, il sovranismo è un’opzione tutta interna alla contesa intercapitalistica, tanto sul fronte interno, quanto su quello esterno. Il fatto che, come informava ieri, gongolando, Il Manifesto, la campagna elettorale di Syriza si è chiusa al canto di Bella ciao la dice lunga sul socialnazionalismo di questa formazione politica. Evidentemente c’è un «invasor» da cacciare fuori dalle amate sponde nazionali.

Il Capitale, in tutta la sua maligna dimensione sociale e in tutta la sua portata internazionale, e non la falsa alternativa fra economia nazionale e integrazione economica sovranazionale, è il vero problema, ed è precisamente a partire da questa radicale consapevolezza che bisogna organizzare le lotte contro la politica dei sacrifici, tanto nella sua configurazione rigorista (o “tedesca”) quanto nella sua variante progressista e sovranista. Senza alcun riguardo per la salute del Paese. Fuori da questa prospettiva valgono solo le ragioni del Capitale, nazionale e internazionale, così ben rappresentate da Emma Bonino, non a caso la più onesta, intelligente e meritocratica dei leaders italioti.

Dimenticavo: la “teoretica” non è separata da un abisso dalla prassi; ovvero: essa getta ponti sull’abisso.

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.

PENSAVO FOSSE IL MALE MINORE. INVECE MI STAVO ADATTANDO AL PEGGIO!

Ieri il primo ministro greco Lucas Papademos ha dichiarato che il suo governo ha «scelto il male per evitare il peggio». Le sue disperate parole mi hanno fatto ricordare quanto disse una volta lo scrittore Arthur Feldmann, riflettendo sulla sorte della comunità ebraica di Vienna: «Il prezzo che di solito paghiamo per sopravvivere è la nostra vita». Un prezzo davvero caro. Fin troppo.

 Non è forse venuto il momento di revocare in dubbio la logica del «male minore»? Non è forse questa miserabile logica la più potente arma ideologica nelle mani delle classi dominanti? Che succede quando la gente “impazzisce” e si mette in testa che tutto il bene possibile deve cessare, qui e subito, di essere una mera utopia? «Cos’è che ritarda la presagita età dell’oro, in cui la verità ridiventa favola e la favola verità?» (F. W. J. Schelling, Le età del mondo). Nient’altro che la vigenza del Dominio.