CRISI GRECA. PIÙ CHE PATHOS, PETHOS…

tsipras-merkel-schaeuble-688232Più che di Pathos, come titola oggi Il Manifesto a proposito della crisi greca, forse si dovrebbe parlare di Pethos, con rispetto parlando. Pare infatti che il piano fatto ingoiare stanotte dal Premier compagno Alexis Tsipras al Parlamento greco sia ancora più duro e “austerico” di quello rifiutato a fine giugno e allora giudicato inaccettabile dal «popolo greco». Secondo molti economisti liberisti-selvaggi il piano-Tsipras è talmente pesante sul versante fiscale, che qualora fosse accettato dai “poteri forti” europei e poi effettivamente implementato dal governo greco esso assicurerebbe alla Grecia anni di depressione economica. Mai prestare orecchio ai liberisti-selvaggi!

Come sempre il premio per la comicità involontaria tocca ai tifosi dell’attuale regime greco che militano nel noto “giornale comunista”: «Tsipras serra i ranghi di Syriza e nella notte chiede il sì del parlamento greco alla sua proposta prima dell’Eurogruppo di oggi. Atene resta con il fiato sospeso, la palla ora torna nel campo europeo, dove la mediazione di Hollande costringerà la Germania e i falchi a calare le carte sul debito». Già immagino Frau Merkel e il Kattiven Wolfgang Schäuble tremare al tavolo verde della trattativa. Molti sottovalutano la teutonica ironia del Super Ministro tedesco: Il ministro delle finanze tedesco, il falco Wolfgang Schäuble, non apprezza le ingerenze statunitensi e i consigli a stelle e strisce su come ristrutturare il debito greco. In una conferenza a cui prendeva parte anche il ministro francese delle finanze Michel Sapin, il tedesco ha gelato la platea con un intervento fra il serio e il faceto: “Ho detto al ministro delle finanze statunitense che noi accoglieremo nell’euro Portorico se loro accetteranno la Grecia nel sistema dollaro. Lui ha creduto che stessi scherzando”» (Euronews, 9 luglio 2015). Perché, non stava scherzando?

Riassumiamo: il «popolo greco» domenica ha votato No per produrre, con la sapiente mediazione del compagno Tsipras, gli effetti del Sì. Un successone per il «popolo greco» e per la sinistra mondiale – alla quale chi scrive è sempre stato estraneo, sia oltremodo chiaro! Insomma, per dirla con molti analisti politici, «tanto referendum per nulla». Per Federico Fubini l’orizzonte strategico (si fa per dire) del Premier greco è davvero striminzito: «Se non altro il suo obiettivo ormai è chiaro: quando arriva lunedì, essere ancora nell’euro. A che prezzo, e per quanto tempo, si vedrà» (Corriere della Sera). Martedì è un altro giorno, per mutuare la celebre battuta di un film-icona.

A proposito di «calare le carte»! Per Giuliano Ferrara si tratta di una “calata” di ben altro genere. «Non Podemos», gongola l’Elefantino dal Foglio; «no we can’t»: «Exit baby pensioni, exit iva speciale, exit mostruosa presenza dello stato nell’economia. L’esito forse fausto del negoziato sulla linea Grexit si chiama calata di brache per Tsipras. Cercasi uscita dignitosa per la brigata Kalimera». Sarà vero? sarà falso? Non saprei dire. D’altra parte Il Foglio ragiona, esattamente come Il Manifesto e gran parte della pubblicistica di estrema sinistra, con la logica delle opposte tifoserie, e chi ha la ventura di non parteggiare per una delle squadre capitalistiche che si contendono la vittoria (la Grexit? più Europa? l’euro? la dracma?, le statalizzazioni? le liberalizzazioni? l’alleanza con la Russia e la Cina? una più stretta collaborazione con gli Stati Uniti?) passa per un elitario che non vuole sporcarsi le mani con la «politica concreta» e che, «oggettivamente», fa il gioco della squadra avversaria.

Per mandare giù il rospo, Dimitri Deliolanes  fa oggi professione di moroteismo democristiano: «È giunta per Ale­xis Tsi­pras l’ora della poli­tica di governo, delle mano­vre non lineari allo scopo di por­tare la Gre­cia fuori dalla camera a gas a cui l’hanno con­dan­nata, per due set­ti­mane almeno, Schäu­ble e Dijs­sel­bloem. Il pre­mier mano­vra avendo il  soste­gno di un paese vivace e orgo­glioso, consapevole della sua forza ma anche dei suoi limiti. Per risol­vere il pro­blema subito, da lunedì» (Il Manifesto). Le «manovre non lineari» di Deliolanes suonano un po’ come le «convergenze parallele» di Aldo Moro. Vedremo fino a che punto resisterà la dottrina delle «manovre non lineari»; d’altra parte, la sinistra europea solo dopo decenni capisce (se lo capisce!) di aver detto e scritto assolute castronerie politiche su diverse e non secondarie questioni.

Detto per inciso, anche la sinistra di Syriza per adesso mostra di accettare, sebbene obtorto collo, la dottrina delle «manovre non lineari»; vedremo se martedì la fronda interna cavalcherà una nuova dottrina. «Abbiamo detto ad Alexis», dice  Stathis Kouvelakis, uno dei leader della Piattaforma di Sinistra, «che non possiamo accettare quello che di fatto è un terzo memorandum della Troika. Non siamo i socialisti e neppure Samaras. Non è giusto rinunciare ai punti fermi dell’accordo che firmammo a Salonicco prima delle elezioni» (Corriere della Sera). Certo, dopo tutto quel parlare di insuperabili «linee rosse»…  Le linee rosse si sono alla fine rotte o si sono fatte semplicemente «non lineari»? Mistero della Dea Dialettica!

Scrive Matteo Faini: «Quale che sia la nostra opinione sulla bontà delle proposte politiche del premier greco, in quanto a capacità negoziale questi si è rivelato un dilettante allo sbaraglio. Il primo ministro greco ha sbagliato tutto. Indire il referendum senza prima minacciare di farlo gli ha precluso la possibilità di ottenere un’offerta migliore dai creditori internazionali. A meno che non si trovi una soluzione all’ultimo minuto, a pagare le conseguenze della sua insipienza sarà in prima misura il popolo greco, in seconda battuta il resto d’Europa» (Limes, 9 luglio 2015). Dilettante allo sbaraglio o cinico genio della realpolitik («Tra una solu­zione brutta e una catastro­fica, biso­gna sce­gliere la prima»: ma va?), Yanis Varoufakis o Euclide Tsakalotos, “marxista irregolare” e cool o “marxista realista” che «porta le giacche di velluto stazzonate e i jeans tipici della sinistra» (ho sempre odiato il look ricercatamente scialbo della sinistra!), governo di “sinistra” o governo di “destra”: in ogni caso il «popolo greco» è chiamato dalle classi dominanti nazionali e internazionali a versare lacrime e sangue sull’altare della necessaria modernizzazione capitalistica del Paese.

L’ho sostenuto fino alla nausea: occorre uscire dallo schema borghese della scelta democratica dell’albero a cui impiccarsi. Come? Rifiutando l’orizzonte del cosiddetto bene comune nazionale (o sovranazionale: la Patria Europea di Jürgen Habermas e compagni, tanto per capirci), svegliandoci dall’ipnosi patriottica e democratica, passando dalle illusioni e dalle frustrazioni (nonché da un certo vittimismo meridionalista che personalmente, in quanto cittadino della Magna Grecia, conosco benissimo) a una più adeguata interpretazione dei fatti, con quel che ne segue, o potrebbe sperabilmente seguirne, sul piano politico. Ovviamente si tratta solo di un difficile inizio; ma se non iniziamo mai…

Gli “anticapitalisti” del genere di quelli che augurano alla Grecia un futuro chavista (sic!) o comunque socialsovranista (risic!) da decenni non fanno che portare acqua al mulino di questa o quella fazione borghese nazionale e mondiale. Per molti “rivoluzionari” sviluppare una mentalità da mosca cocchiera è un’assoluta priorità esistenziale, prima ancora che politica. Contenti loro! D’altra parte, chi sono io per, ecc., ecc., ecc.

Scrive Jacques Sapir: «Diciamo subito, c’è una cosa che terrorizza totalmente i leader europei: che la Grecia possa dimostrare che c’è vita fuori dell’Euro». Non c’è dubbio: fuori dell’Euro e dell’Unione Europea c’è vita, vita capitalistica. Per trovare vita umana bisogna invece uscire dal capitalismo. Vasto programma, come no!

Per adesso metto un punto. Domani è un altro giorno, si vedrà!

GRECIA. LA POSTA IN GIOCO

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Scritto oggi

La situazione è talmente confusa che la stessa tenuta del referendum previsto per il 5 luglio non è data per scontata nemmeno in Grecia, anche se a questo punto la frittata appare ormai fatta, cotta e servita. Si tratta di capire per chi essa si rivelerà più indigesta o persino avvelenata. In un’intervista rilasciata alla BBC, il Super Ministro Yanis Varoufakis ha dichiarato che «un accordo con i creditori della Grecia è sicuro al cento per cento», a prescindere dall’esito del referendum di domenica. Anche se, ha aggiunto il sofisticatissimo Varoufakis, la vittoria del No darebbe al governo di Atene più forza contrattuale mentre la vittoria del Si lo indebolirebbe e comunque sancirebbe la sua personale sconfitta politica, cosa che ne determinerebbe le immediate dimissioni. Anche Tsipras aveva detto qualche giorno fa di non essere un uomo per tutte le stagioni. Staremo a vedere. Nel frattempo, i convocati al referendum “epocale”, bombardati da tutte le parti da ogni sorta di informazione, più o meno credibile e/o verificabile, appaiono sempre più confusi e frastornati, vittime di una  propaganda interna e internazionale sempre più gridata e minacciosa. La verità è che informazione e disinformazione si rincorrono, si accavallano, si intrecciano, si fondono in una sola ciclopica menzogna messa in piedi contro i dominati, chiamati a schierarsi in uno dei due fronti che si fronteggiano. All’ombra di questa menzogna leggo l’ennesimo sondaggio, di qualche ora fa: «Il 74% dei greci vuole che il paese resti nell’eurozona: lo evidenzia il sondaggio della Alco per il quotidiano Ethnos, che ha invece mostrato una sostanziale spaccatura a metà degli elettori ellenici su cosa votare al referendum di domenica. Secondo l’indagine statistica, il 15% vorrebbe tornare ad una moneta nazionale, mentre l’11% non sa o non risponde» (ANSA).

«In Grecia non c’è un referendum tra euro e dracma», ha detto Nichi Narrazione Vendola, «ma un referendum tra l’austerità che ha impoverito milioni di europei e una Europa solidale». È la menzogna declinata da “sinistra”, dai sostenitori del Capitalismo dal volto umano, tutti schierati per il NO. L’austerità sotto l’euro e sotto il controllo dei vecchi creditori e dei vecchi “poteri forti” (con al centro la Germania); l’austerità sotto la dracma e sotto il controllo di nuovi creditori e di nuovi “poteri forti” (con al centro la Russia e/o la Cina?): lo spazio di “agibilità democratica” del popolo greco in realtà sembra estendersi nei limiti di queste due poco rincuoranti opzioni. Padella o brace: fate la vostra scelta! Il Partito dei sacrifici è unico, o “trasversale”, per usare il gergo politichese. Salvare la baracca capitalistica greca costerà carissimo alle classi subalterne greche, in ogni caso, e non a caso il “compagno” Tsipras ha usato il mese scorso parole che ricordano la Seconda guerra mondiale: «Amiamo la pace, ma quando ci dichiarano guerra siamo capaci di combattere e vincere». Lacrime e sangue, per la Patria! Chi mi conosce sa cosa penso della Patria, comunque e ovunque “declinata”.

«Per adesso la Grecia è mantenuta in vita artificialmente dall’azione decisa di Mario Draghi e la sua Banca centrale europea, grazie all’erogazione di liquidità che continua a pompare soldi nelle banche greche. Ma il deflusso di capitali dalle banche greche è sempre più veloce e il panico si è diffuso nel Paese. Le code agli sportelli bancari sono state lunghissime nell’ultima settimana e il governo ha deciso di porre per i prelievi dai bancomat un limite giornaliero di 60 euro. Anche il bancomat del Parlamento greco è andato in sofferenza e gli stessi parlamentari di Syriza hanno dovuto subire una lunga attesa nel ritiro del denaro contante. La borsa rimarrà chiusa fino a dopo il referendum e in Grecia il clima è diventato irrespirabile» (Panorama, 8 luglio 2015). Una situazione da tempi di guerra che molti non credevano possibile nell’Europa del XXI secolo. Mai dire mai! D’altronde lo stesso Mario Draghi, normalmente assai parco di immagini suggestive, aveva detto che la questione greca (che è a tutti gli effetti una questione europea) rischia di farci entrare in una «terra incognita». «Ad Atene e Salonicco è come in tempo di guerra, mentre nelle zone rurali si vive meglio. Quasi tutti hanno un orto, è più facile trovare latte e formaggio. La fame e la miseria si sentono nelle grandi città» (Viki Markakis, Linkiesta). Una volta si diceva: «anello debole della catena capitalistica». Molti guardano solo l’anello debole, e dimenticano o non vedono la catena, che si estende da Atene a Berlino, da Roma a Parigi, da Mosca a Washington, da Pechino a ovunque nel capitalistico pianeta. E difatti il peripatetico di Treviri diceva: Proletari di tutto il mondo, unitevi! «La parola dignità torna spesso [nella comunità greca che vive a Roma]. I greci sono un popolo orgoglioso della propria identità, non fanno nulla per nasconderlo. “Siamo un paese patriottico” spiega Trianda. “Da noi sui confini della nazione non si discute”» (Linkiesta). Ecco! Lo ammetto, il mio “internazionalismo” è patetico.

Intanto un altro teutonico, il Super Ministro Wolfgang Schäuble, vola nei sondaggi di popolarità: oltre il 70% dei tedeschi intervistati dagli istituti di sondaggio appoggiano la sua linea intransigente, cosa che inquieta la stessa Angelona Merkel, la quale vuole ancora usare la carota, insieme al bastone, per riportare a casa la pecorella greca.

Riprendendo le posizioni di Paul Krugman sulla Grexit («La Grecia dovrebbe votare No e il governo ellenico dovrebbe tenersi pronto, se necessario, a lasciare l’euro»), Federico Fubini ha evidenziato un dubbio che serpeggia fra i socialisti europei (nel senso del PSE): «Per la verità Krugman non è il solo premio Nobel newyorkese e liberal, nel senso del progressismo cosmopolita americano, a offrire il suo sostegno incondizionato a questo governo greco. […] Ieri l’ex ministro delle Finanze greco George Papaconstantinou ha preso carta e penna e ha scritto al New York Times: “Non è esagerato dire che la Grecia oggi sta scivolando verso un nuovo totalitarismo e un No al referendum sarebbe un passo in quella direzione. I progressisti non dovrebbero dargli sostegno”, ha scritto. E lo spagnolo Angel Ubide, consigliere speciale del candidato premier socialista Pedro Sanchez, ha notato qualcosa di simile in un articolo per il Peterson Institute di Washington, criticando l’infatuazione dei liberal americani per Varoufakis e il premier Alexis Tsipras: per Ubide, il loro appoggio fa parte di una “Proxy war”, combattuta sulla pelle dei più poveri fra i greci, per affermare una certa idea molto americana sull’insostenibilità di fondo dell’euro» (Il Corriere della Sera, 3 luglio 2015). Syriza e Podemos come (oggettivi) “amici del Giaguaro”? come (oggettivi) utili idioti al servizio dell’imperialismo americano, da sempre ostili al progetto di una Grande Europa a egemonia tedesca? Il sospetto è lanciato (dai socialisti europei, non dal sottoscritto)!

Se di «lotta di classe» si deve parlare a proposito del referendum di domenica, ebbene si tratta della lotta che il Capitale (la cui dimensione internazionale è sempre più evidente) fa ai nullatenenti e agli strati sociali della piccola e media borghesia risucchiati in un processo di rapida e violenta proletarizzazione.

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Scritto ieri

Dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per Renato Brunetta, Matteo Salvini e Beppe Grillo: vasto, composito e frastagliato appare il partito italiano che tifa per Tsipras, l’ultimo eroe della dignità nazionale prodotto dal Mezzogiorno d’Europa, in vista dell’epocale referendum del 5 luglio – nei riguardi del quale qualche politologo non particolarmente amante della popolarità fa osservare con qualche malignità che non raramente democrazia fa rima con demagogia (1). (E questo, aggiungo io, soprattutto in tempi di acuta crisi sociale). «Tutto, davvero tutto mi divide da Tsipras», ha dichiarato ieri in Parlamento Brunetta, «ma egli oggi rappresenta la risposta di libertà al dominio tedesco e alla burocrazia europea, e per questo io sto dalla sua parte». Detto en passant, l’altro giorno il politico di notevole statura internazionale aveva parlato della necessità di contrastare a ogni costo «l’imperialismo tedesco e la burocrazia di Bruxelles», cosa che pare abbia fatto sussultare non poco le anime dannate di Lenin e Trotsky, ancora in attesa di credibili eredi.

Democrazia e libertà versus dominio e burocrazia: di questo si tratta nella sempre più ingarbugliata, e per molti versi davvero tragicomica, vicenda greca? Democrazia o dispotismo economico-burocratico: è questa la posta in gioco nel Vecchio Continente? Certamente è questo che cercano di venderci i tifosi di «Atene la rossa» (strasic!).

Riferendosi al partito che tifa per Tsipras molti analisti politici hanno parlato nei giorni scorsi di contraddizioni e paradossi; la mia lettura è diversa. Quell’accozzaglia politica che si è coagulata intorno al governo greco dimostra che il mondo del conflitto sociale non si divide, in radice, tra destri e sinistri, ma piuttosto tra anticapitalisti e sostenitori a vario titolo dello status quo sociale – appartenenti alle più disparate, e non raramente disperate, correnti politico-ideologiche: si va dai “comunisti” più o meno vetero/post, ai fascisti più o meno vetero/post, dai sovranisti, agli europeisti, dai liberisti più o meno “selvaggi”, ai benicomunisti di stampo francescano piuttosto che negriano, e via di seguito. Non a caso il virile Putin fa stragi di cuori tanto nell’estrema destra quanto nell’estrema sinistra. E ciò non a dimostrazione del fatto che, in fondo, fascisti e comunisti sono ugualmente attratti da modelli politici e personali autoritari (senza contare la loro comune adorazione feticistica per lo Stato come imprenditore unico), né che oggi le “grandi ideologie” sono ormai tramontate; ma a conferma che i cosiddetti “comunisti” non sono mai stati davvero tali, bensì non più che zelanti servitori del dominio sociale capitalistico. Ma non divaghiamo!

L’illustre economista nonché premio Nobel Joseph Stiglitz si schiera risolutamente (ma no c’era da dubitarne) con il No al prossimo referendum greco: «Un sì alla nuova austerity vorrebbe dire depressione quasi senza fine», mentre «un no aprirebbe invece per lo meno la possibilità che la Grecia, con la sua tradizione democratica, possa essere padrona del suo destino». A parte la balla colossale, in questi giorni ripetuta ossessivamente a destra e a manca, sulla «tradizione democratica» della Grecia, sulla Grecia come «culla della democrazia e della civiltà occidentale»: come se il tempo che ci separa da Pericle, da Socrate e da Aristotele fosse passato invano!; a parte questa demagogia pro-greca d’accatto, come si può credere davvero che un Paese come la Grecia «possa essere padrona del suo destino» nel Capitalismo globalizzato del XXI secolo? (2) Ma davvero si vuol vendere all’opinione pubblica greca e internazionale questa mastodontica menzogna? Pare di sì.

Naturalmente i primi a non crederci, in questa balla speculativa, sono Tsipras e Varoufakis, i leader «dell’esperimento politico bolscefighetto» di Atene (la definizione purtroppo non è mia, ma di Fabio Scacciavillani) (3), i quali infatti stanno cercando di far pesare sul tavolo delle trattative con i “poteri forti” internazionali la delicata posizione geopolitica del Paese, strizzando l’occhio ora alla Russia, ora alla Cina, vedendo l’effetto che la cosa fa a Berlino, a Washington e ad Ankara. La posta in gioco geopolitica, più che economica, è stata messa nel cono di luce con il consueto realismo da Robert Kagan sul Wall Street Journal Europe di ieri. Come la moglie Victoria Nuland (vicesegretario di Stato per l’Europa, particolarmente ostile alla Russia e contrariata da certi atteggiamenti ambigui esibiti dai partner europei sulla questione ucraina), Kagan ha preso molto sul serio l’accordo di cooperazione e finanziamento firmato dal governo greco con la Russia il 18 giugno.

Anche Silvio Berlusconi, a suo tempo vittima del «colpo di Stato» ordito dall’asse franco-tedesco (i sorrisini complici della Merkel e di Sarkozy lo tormentano ancora: altro che Ruby rubacuori!) con la complicità del Presidente Napolitano (Brunetta docet!), oggi fa interessanti considerazioni geopolitiche sulla crisi dell’Unione Europea, anche nel tentativo di agganciare la posizione centrista di Renzi e per questa via smarcarsi dal populismo antieuropeo di Salvini e Meloni. Dopo tutto egli si considera ancora uno stimato leader del Partito Popolare Europeo.

Ma ritorniamo a Stiglitz: «Atene ha la chance di avere un futuro che, anche se non sarà prospero come il suo passato, sarà più ricco di speranza rispetto alla tortura senza scrupoli del presente». Capito classi subalterne greche? Dovrete comunque affrontare duri sacrifici, ma in compenso vi si offre l’occasione di essere più ricchi non in termini di euro (che trivialità, nevvero Santo Padre?) ma di speranza: quasi mi commuovo! Però subito mi riprendo: scusatemi la trivialità, please. La «tortura senza scrupoli del presente» si chiama Capitalismo, e questo ad Atene, a Berlino, a Roma, a Washington, a Mosca, a Pechino e altrove nel mondo. Ed è precisamente questa tortura, questo dominio sociale che ha ormai le dimensioni del pianeta, che ha generato la crisi economica internazionale esplosa nel 2007, la quale ha impattato duramente soprattutto in quei Paesi del Mezzogiorno d’Europa travagliati da decenni da gravi magagne strutturali, gestite soprattutto con la leva della spesa pubblica. D’altra parte nessun politico “meridionale” era – ed è – così elettoralmente masochista da intaccare interessi consolidati, rendite di posizione e parassitismi sociali di varia natura. «Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis sono passati da rivoluzionari a difensori di sprechi e privilegi» (Panorama, 1 luglio 2015). Ora non esageriamo: quando mai la strana coppia di Atene è stata rivoluzionaria?

Ma, prima o poi, i nodi vengono al pettine, soprattutto quando le “formiche” si rifiutano di essere generose con le “cicale”, per riprendere uno stilema polemico interborghese molto in voga qualche anno fa. Detto di passaggio, le “formiche” nordiche votano esattamente come le “cicale” meridionali, come ha fatto rilevare ieri con teutonica malignità la Cancelliera di Ferro parlando al Bundestag. È la democrazia (borghese, e nella «fase imperialista» del Capitalismo!), bellezza! (4).

Chi oggi sostiene che i creditori della Grecia sono moralmente colpevoli per aver consentito a quel Paese di vivere per molti anni al disopra, molto al disopra dei propri mezzi (organizzando persino un’olimpiade nel 2004 e vincendo addirittura un Campionato europeo di calcio nello stesso anno: che bei tempi!) o è in malafede oppure non capisce assolutamente nulla di come funziona il capitalistico mondo. In ogni caso quel personaggio politicamente corretto, sicuramente devoto a Francesco, dice e scrive moralistiche balle.

A proposito dell’evocato compagno Papa! «Se fossi greca? Al referendum di domenica voterei No». È quanto dichiara al Fatto Quotidiano Naomi Klein, «giornalista e scrittrice canadese icona dell’anti-capitalismo del XXI secolo». Anche qui devo dire di non aver nutrito dubbi di sorta, lo giuro. Tutta l’intellighentia che piace vota No. Ora, per capire la natura dell’anticapitalismo (sic!) venduto dalla Signora No Logo in giro per il mondo è sufficiente leggere la sua risposta alla domanda, abbastanza scontata, di Andrea Valdambrini («Papa Francesco come leader del movimento anti-capitalista?»): «Sì, lo è. È una voce importante che ricorda al mondo come non può esistere economia senza la morale. Le persone e il bene del pianeta vengono prima dei profitti». Non c’è dubbio: di questi tempi basta pochissimo per accreditarsi presso l’intellighentia progressista occidentale come «leader del movimento-anticapitalista». E questo certamente non testimonia a favore delle mie capacità! Nella mia più che modesta critica all’Enciclica francescana avevo comunque citato anche Naomi Klein fra i punti di riferimento “dottrinari” del Santo Ecologismo elaborato dal Papa.

Non c’è dubbio che ultimamente il Vaticano, una delle più antiche e potenti agenzie politico-ideologiche al servizio dello status quo sociale planetario, si è di molto rafforzato.

Il populismo di Syriza pare essersi ficcato dentro un cul-de-sac; qualunque sia l’esito del referendum, usato dai capi di quel partito come strumento di pressione politica da far valere nelle trattative  dei prossimi giorni e come comodo alibi per pagare il minor prezzo politico possibile in caso di capitolazione (ad esempio, nel caso vincessero i Sì), appare chiaro che rischiano di venir risucchiati nel vortice della disillusione e della disperazione quella consapevolezza politica e quella combattività che in qualche modo, scontando i limiti di una situazione sociale che depone a sfavore delle classi subalterne in tutto il mondo, si sono fatte strada negli ultimi anni in certi strati del proletariato e della stessa piccola borghesia azzannata dai morsi della crisi.  L’«esperimento politico bolscefighetto» di Tsipras e company può costare molto caro a chi in buona fede si è fidato della loro proposta politica tutta interna alla dialettica interborghese – la quale, com’è noto, può arrivare fino al bagno di sangue (5). Il 30 giugno il quotidiano greco I Kathimerini, schierato per il Sì e molto critico nei confronti del Premier greco («Tsipras sta sfruttando la disperazione della popolazione, ritenendo che una buona parte di essa sia disposta ad accettare qualsiasi cosa, perfino un ritorno alla dracma), paventava la possibilità che «la gente [possa cadere] preda di forze distruttive». Quando la catastrofe incombe e la “coscienza di classe” latita, le «forze distruttive» sono sempre in agguato, pronte a vendicare le offese degli ultimi: non è la vichiana storia che si ripete, si tratta piuttosto della coazione a ripetere del Dominio sociale capitalistico. Del resto, dal mio punto di vista anche Syriza è, nella sua qualità di partito borghese, parte organica delle «forze distruttive», e distruttive nel peculiare significato che tali forze non solo saccheggiano le condizioni di esistenza dei nullatenenti, ma ne annichiliscono anche la capacità di reazione, anche attraverso l’illusionismo democratico. Sotto questo aspetto, sbaglia di grosso chi individua solo in Alba Dorata il nemico da combattere, secondo la vecchia e falsa alternativa tra fascismo e democrazia.

Certo, per una volta potrei affettare un po’ di ottimismo (tanto non costa nulla e si fa sempre bella figura) e dire di sperare che la disillusione possa convertirsi presto in crescita politica. Certamente se fossi in Grecia lavorerei in quel senso. Nel mio infinitamente piccolo, si capisce. E soprattutto senza coltivare, per me e per gli altri, false speranze. Finisco ricordando la mia posizione sul referendum del 5 luglio: si tratta a mio avviso di rifiutare tutte le opzioni vendute alle classi subalterne come le sole ricette in grado di salvarle da una miseria ancora più nera di quella che stanno sperimentando oggi, ossia per legarle più strettamente al carro dei sacrifici («avete scelto voi!»), che comunque esse dovranno fare, non importa se nel nome del “sogno europeista” o in quello, altrettanto reazionario e disumano, del “sogno” sovranista.

(1) «La paura aiuta i demagoghi populisti che la coltivano di mestiere, se non lo si fosse ancora capito. Che Tsipras sia stato un demagogo a ricorrere al referendum chiedendo la fiducia dei greci a lui, non dovevamo scoprirlo certo all’ultimo momento. I populisti demagoghi fanno così, e chi non lo è e non sa mettere in conto le loro mosse perderà» (Oscar Giannino). Ma anche il fronte del Sì, a quanto pare, sa ben giocare con le paure: «Com’è possibile convincere anche queste persone a votare una cosa contro il proprio interesse? Facile, si crea un clima di terrore, paventando l’uscita dall’euro, dall’Europa, il fallimento e il disastro economico e sociale del paese, la perdita di tutti i propri soldi ecc. in caso di vittoria del “no”. In questo sporco lavoro aiutano molto le tv private greche che a ciclo continuo trasmettono servizi che hanno lo scopo di terrorizzare il popolo greco, molte volte riciclando in maniera forviante fotografie ed immagini del passato e magari provenienti da altri paesi. […] L’esempio del primo ministro Matteo Renzi è eclatante, ha dichiarato: “Sarà un referendum tra la Dracma e l’Euro”. In questo carosello di dichiarazioni non è solo, ma ben inserito in un fronte che fa di tutto per terrorizzare il popolo greco. In tanti hanno fatto dichiarazioni in cui la vittoria del “no” coincide con l’uscita dall’euro e dall’Europa. Cosa, che non è vera ed è proprio il più accanito nemico del governo greco a dichiaralo pubblicamente, infatti proprio il ministro delle finanze tedesco W. Schäuble ha dichiarato ieri che anche con la vittoria del “no” la Grecia resterà nell’’uro e si continuerà a trattare» (http://sopravvivereingrecia.blogspot.it/). Il Blog qui citato coltiva un’alta opinione della democrazia diretta referendaria che personalmente non condivido. Come non condivido il suo giudizio sulla dichiarazione di guerra referendaria firmata da Tsipras il 26 giugno: «è di una fierezza rara».

(2) Scrive Paolo Guerrieri: «L’eurozona non è una piccola economia aperta, ma il secondo spazio a livello mondiale per dimensioni di reddito, prodotto e di ricchezza accumulata. […] Per vincere la crisi economica è necessaria più Europa. Non sarà facile in un’era di euroscetticismo crescente. Ma è un dato di fatto che gli Stati nazione europei non hanno più gli strumenti adeguati per governare le loro economie, perché troppo piccole nella nuova economia-mondo. E se vogliamo un rilancio del modello europeo di economia sociale di mercato questo sarà possibile solo in un’ottica europea. Ma bisogna fare presto, prima di vedere definitivamente compromesse le prospettive future dell’intero progetto di integrazione europea» (È fondamentale un cambio di passo in Italia e in Europa, in  Economia italiana, 2014/3). Rimane inteso che questo progetto non può che avere la Germania, ossia lo spazio capitalistico sistemicamente più forte, più strutturato e più dinamico d’Europa, come proprio centro-motore. Hic Rhodus, hic salta!

(3) «Il plebiscito farsa, ultimo rifugio dei demagoghi, rappresenta il capolinea dell’esperimento politico bolscefighetto quale che sia il risultato. […] Quelli che lamentano una moneta senza basi politiche vivono fuori dalla realtà e ignorano la Storia: è sempre l’economia a determinare la politica. Senza la zavorra greca l’euro è economicamente e dunque politicamente più forte» (F. Scacciavillani, Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2015).

(4) Cito da un mio post del 5 giugno: Com’è noto, anche il Ministro tedesco Schäuble si è pronunciato in termini positivi circa la possibilità di sottoporre il piano di riforme che sarà concordato tra Atene e l’ex Troika a un referendum popolare: «Se il governo greco pensa di dover tenere un referendum, allora lasciamogli tenere un referendum – ha dichiarato Schäuble –. Potrebbe essere una misura perfino utile per il popolo greco per decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario o se vuole qualcosa di diverso» (Corriere della Sera, 12 maggio 2015). Elettori greci, preparate la corda: da tutte le parti vi si vuol… consultare. Della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti.

(5) E qui viene sempre utile ricordare Schopenhauer: «Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri, pp. 31-32, RCS, 2010). Ecco la merce nazionalista venduta il 26 giugno da Alexis Tsipras al “popolo greco”: «Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci. Per la sovranità e la dignità del nostro popolo». Segue ovazione e orgasmo da parte dei sovranisti, non importa se di “destra” o di “sinistra”, di tutto il mondo. E magari qualche socialsovranista ha in passato urlato (evidentemente a pappagallo) lo slogan: Il proletariato non ha patria! «Se gli levi anche quella…». Mi rendo conto. E allora, più Patria per tutti! Così va bene? Sono stato abbastanza “amico del popolo”?

DRAGHI DOCET!

Mario Draghi hearing at European parliament committee

Mi improvviso agenzia stampa e sintetizzo, con parole mie, l’intervento fatto questo pomeriggio da Mario Draghi davanti alla Commissione Affari Economici e Finanziari del Parlamento Europeo. Inutile dire che i Parlamentari europei hanno approfittato dell’occasione per bombardare il Presidente della BCE con domande sulla Grecia: «Ci sarà la Grexit?», «stiamo facendo tutto il possibile per evitare la Grexit?», «è sostenibile l’uscita della Grecia dalla zona-euro?», «che ne sarà dell’euro e dell’Unione Europea?», «dove stanno i torti e dove le ragioni?». Il Presidentissimo se l’è cavata, a mio modesto avviso, da par suo, ossia esibendo intelligenza politica, competenza economica, assoluta mancanza di retorica; soprattutto, egli non ha concesso nulla al “vogliamoci bene” tanto praticato nell’italico Palazzo. A questo punto il “bizzarro” di turno è autorizzato a darmi del draghista: non mi offendo mica.

Sulla Grecia, tema scottante del giorno, Draghi ha svicolato con la solita destrezza («Abbiamo bisogno di un accordo forte e complessivo con la Grecia, che produca crescita, sia socialmente equo e finanziariamente sostenibile»: che bella quadratura del cerchio!) , lasciando sul tappeto un solo concetto chiaro: «La palla è nella metà campo della Grecia». Intanto Tsipras e Varoufakis continuano a “fare melina”; forse sperano in un loro improvviso e bruciante contropiede. I compagni tifosi sono pronti a festeggiare il goal ellenico.

La politica monetaria, ha osservato Draghi, non può fare quello che può fare solo una politica economica orientata alle riforme strutturali, le sole che possono creare le condizioni per una vera e duratura crescita in quei Paesi che oggi soffrono di bassa produttività sistemica, alta tassazione, alto indebitamento pubblico, diffusa corruzione, un mercato del lavoro obsoleto (non competitivo), un welfare finanziariamente e socialmente insostenibile (vedi anche trend demografico), ampio parassitismo sociale – la locuzione è mia, il concetto del Presidente della BCE. La politica monetaria (vedi quantitative easing) può certo dare un contributo alla ripresa ciclica dell’economia (lungo un arco di due anni), ma non può certo creare i fattori strutturali che la determinano e la sostengono: è sbagliato chiedere o attendersi  da quella politica ciò che essa non può dare. Tradotto in volgare: il tanto decantato Q E non può fare miracoli.

Così com’è sbagliato, ha continuato Draghi, far finta di non sapere quel’è il mandato istituzionale della BCE: la stabilità dei prezzi e della moneta unica. Molti leader politici che hanno paura di assumersi la responsabilità di misure economiche impopolari usano la Banca Centrale come una sorta di capro espiatorio, e l’accusano di voler fare politica a tutto campo, di voler mettere becco su tutto, quasi a voler commissariare la politica; altri vorrebbero invece che fosse essa a togliere dal fuoco castagne fin troppo scottanti, e così l’accusano di troppa timidezza politica e di scarsa lungimiranza politica. Ma alla BCE compete solo una politica monetaria!

Continuare poi a presentare come esigenze opposte la sostenibilità finanziaria e la crescita, l’equità sociale e la ricerca della produttività, gli investimenti pubblici (purché produttivi!) e la libera iniziativa privata è indice di scarsa conoscenza dei meccanismi economici. Naturalmente occorre diminuire la disoccupazione, aumentare i salari e difendere il potere d’acquisto delle pensioni; ma come si ottengono questi risultati? Allargando i cordoni della spesa pubblica finanziata con la tassazione? «Io non credo, e anche il caso greco dimostra che quella non è la via da seguire». Come mai il livello medio della disoccupazione nella zona euro si è mantenuto relativamente alto (intorno al 9%) anche prima della crisi internazionale? E come mai la crescita economica dell’Unione Europea è stata bassa, sempre come dato medio, anche prima del 2007? La crisi economica internazionale ha semplicemente reso evidenti le magagne strutturali che tengono “imballato” il motore capitalistico europeo. Ripeto: le parole sono mie, i concetti sono del Presidentissimo.

Come usciamo da questo cul de sac? «Chiedetelo ai governi dei Paesi europei! Io non posso che ripetere il solito mantra: servono le riforme strutturali!» Dalle mie parti si dice: Tre peli ha il porco!

ANCORA DUE PAROLE SULLA GRECIA

grexit-678176Su cortese segnalazione di un mio amico ho appena finito di leggere un post rigorosamente socialsovranista a firma Daniela Di Marco, il cui titolo (Se questa è Syriza siamo messi male) lascia trasparire abbastanza chiaramente una certa delusione da parte dell’autrice intorno alla reale portata sociale e politica dell’esperimento tentato dall’attuale governo greco. Un governo che, sia detto en passant, chi scrive giudica alla stessa stregua di quelli che l’hanno preceduto, e nei confronti del quale l’anticapitalista autentico non ha alcun motivo per nutrire illusioni di sorta, e contro il quale, quindi, egli non potrebbe lanciare accuse di “alto tradimento” senza sprofondare nel ridicolo. Naturalmente le cose stanno in modo affatto diverso per il “progressista radicale” (vedi, ad esempio, il “quotidiano comunista” Il Manifesto) e per il sovranista, soprattutto se di “sinistra”.

Il post qui richiamato dà conto del «Sesto incontro di economia dal titolo Che succede in Grecia?» che ha avuto luogo a Casale Alba 2  «(periferia est di Roma)» il 7 giugno scorso. La Di Marco non ha apprezzato né l’atteggiamento («estremamente spocchioso, settario, maleducato a tratti») di Argyrios Argiris Panagopoulos, un rappresentante di Syriza, né, tanto meno, le sue posizioni politiche circa la sostenibilità sociale dell’euro e dell’eurozona. «Con fare sprezzante, invece di rispondere alle domande e alle obiezioni, ha accusato i compagni no-euro di “essere dei visionari, di proporre salti nel buio, di giocare sulla pelle dei greci, degli illusi che pensano ancora di fare il socialismo e di issare la bandiera rossa sulla Bce… Noi non abbiamo né un Piano B, né C, né D, resteremo nell’Unione europea e porremo fine all’austerità”. Sorvoliamo per carità di patria sugli epiteti che ha usato verso quelle forze di sinistra che in Grecia sono per uscire dalla gabbia europea…». Posso sbagliarmi, ma a me pare che il “compagno” Panagopoulos ce l’ha con la variegata galassia post-stalinista, sulla cui concezione “socialista” (in realtà si tratta di un nazionalismo economico che cerca di mettere insieme, in maniera più o meno abborracciata, statalismo e keynesismo, con ciò che ne segue sul piano delle scelte politico-istituzionali) qui preferisco stendere un velo abbastanza pietoso. Insomma, gli epiteti del “compagno” Panagopoulos non sfiorano la mia modestissima persona. E di questi sconsolati tempi è già qualcosa.

Adesso arriviamo rapidamente al passo che intendo porre all’attenzione del lettore, soprattutto per chiarire la mia posizione sulla questione greca: «Ormai è chiaro che questa Unione Europea è irriformabile, che l’unica alternativa è uscirne, abbandonare l’euro, e, se sacrifici debbono essere fatti, che il popolo li faccia per se stesso, per riconquistare sovranità, democrazia e diritti, tornare a scegliere del proprio futuro». In primo luogo «questa» Unione Europea ancorché «irriformabile» è soprattutto un’entità sociale capitalistica, e come tale essa va considerata se si vuole comprendere la reale portata della posta in gioco e la natura dello scontro interborghese che interessa non solo l’Europa – e non a caso Tsipras strizza l’occhio alla Russia e alla Cina, sapendo di mettere di pessimo umore gli Stati Uniti, che difatti a loro volta premono sul Fondo Monetario Internazionale e sulla Germania in vista di «soluzioni equilibrate e sostenibili per tutti i partner».

In secondo luogo, e in strettissima connessione con l’assunto di cui sopra, si fa della politica ultrareazionaria quando si chiama «il «popolo» (concetto squisitamente borghese chiamato a cancellare la natura classista della società) a sacrificarsi per i supposti superiori interessi nazionali. I proletari non hanno Patria, né quando si tratta di prendere le armi contro «lo straniero»*, né quando si tratta di salvare l’economia nazionale dal disastro.  Come ho scritto in altri post, il discorso apologetico intorno alla sovranità nazionale, alla democrazia e ai diritti suonava falso (ideologico, apologetico)all’anticapitalista occidentale ai tempi di Lenin, figuriamoci come esso debba suonare all’orecchio dell’anticapitalista attivo (si spera!) nel XXI secolo, in questa epoca storica dominata totalitariamente e sempre più scientificamente e capillarmente dalla “bronzea legge” del profitto.

Altro che «se sacrifici debbono essere fatti»! La parola d’ordine autenticamente classista – o critico-radicale – è invece questa: Non accettare alcun sacrificio! E ancora: Organizziamoci in modo autonomo contro gli interessi del capitale (“nazionale” e internazionale)! Non cediamo alle sirene elettorali/referendarie che intendono legarci sempre più strettamente al carro del Dominio! Rifiutiamo tutte le opzioni capitalistiche: europeiste, sovraniste, liberiste, stataliste (ecc., ecc., ecc..)

Oggi tutti (anche il cattivo Wolfgang Schäuble) vogliono portare «il popolo greco» al patibolo elettorale, affinché esso possa “scegliere liberamente” a quale causa immolarsi: a quella della (sempre più chimerica) “sovranità nazionale” o a quella dell’Unione Europea (necessariamente a trazione e a guida tedesca: i rapporti di forza capitalistici non sono un’opinione)**. Un’alternativa del Dominio che va respinta al mittente, qualunque esso sia (di “destra”, di “sinistra”, di “sinistra radicale”), e che la cosa oggi appaia, e sia in realtà, impresa quasi impossibile da tentare, ebbene ciò non la rende meno adeguata alla situazione. Viviamo infatti in tempi disperati, sotto ogni rispetto.

Chi pensa che l’uscita dall’Unione Europea possa facilitare l’uscita dal Capitalismo («o quantomeno dal Finanzcapitalismo!») è, nel migliore dei casi, un povero illuso. Per come la vedo io, l’alternativa anticapitalista non è euro sì/euro no, UE sì/Ue no: un’alternativa, questa, tutta interna allo scontro interborghese, nazionale e internazionale; l’alternativa si pone piuttosto in questi termini: o lavoriamo politicamente per l’autonomia di classe oppure come classe subalterna non verremo mai fuori dal buco nero dell’impotenza politica, concettuale, psicologica, esistenziale.

 

* A proposito! Continua l’ossessione di Krugman per la guerra: «Un’uscita forzata della Grecia dall’euro provocherebbe enormi rischi a livello economico e politico. Eppure, l’Europa sembra incamminata come una sonnambula proprio verso quel risultato. Sì, ammetto che la mia allusione al recente ottimo libro di Christopher Clark sulle origini della Prima guerra mondiale intitolato “The Sleepwalkers” (I sonnambuli) è intenzionale. In quello che sta accadendo si avverte una sensazione che ricorda da vicino e chiaramente il 1914, la sensazione che arroganza, risentimento e mero errore di calcolo stiano conducendo l’Europa verso un baratro dal quale avrebbe potuto e dovuto tenersi lontana» (La Repubblica, 8 giugno 2015). A Krugman, come a molti altri scienziati sociali progressisti, manca il concetto fondamentale per capire lo scontro intercapitalistico che sovente “sbocca” nella carneficina: Imperialismo.

** «Posso pure ristrutturare il tuo debito, posso accordarti un grosso sconto sugli interessi che maturano dal tuo debito, posso perfino cancellarlo, ma tu in cambio devi piegarti alla mia politica economica. Insomma, io ti consento ancora di galleggiare ma tu devi iniziare a nuotare. Insomma, fa con diligenza i compiti a casa e vedrai che col tempo tutto si aggiusta». È questo, in estrema e brutale sintesi, il discorso che Angela Merkel apparecchia ormai da molti anni al governo greco, di qualunque coloro politico esso sia. Tsipras, «un conservatore un po’ incendiario» secondo la non infondata definizione di Giuliano Ferrara, e Varoufakis si ostinano a ripetere in guisa di mantra che «il problema non è economico, ma politico». Infatti! Come non smette di ricordare, nei termini che la sua funzione gli consente, anche Mario Draghi: «Occorre governance sulle riforme strutturali», perché «le riforme strutturali svolgono un ruolo cruciale nell’eurozona e i loro risultati non sono solo nell’interesse di un Paese, ma in quello dell’Unione nel suo complesso. Le riforme hanno bisogno di una forte titolarità nazionale e di accordi sociali profondi, ma devono prevedere pure un organismo sovranazionale che renda più facile inquadrare i dibattiti nazionali. La persistenza delle differenze crea il rischio di squilibri permanenti, così da giustificare il fatto che le riforme siano disciplinate a livello comunitario». In questi termini si esprimeva il Presidente della BCE il 9 luglio 2014.
Smentendo la Bild, che dava ormai come cosa certa la Grexit, la Cancelliera di Ferro ha dichiarato che «Dove c’è la volontà c’è la strada ma la volontà deve venire da tutte le parti, quindi è importante continuare a parlarci». Non c’è dubbio: come dicono da mesi Tsipras e Varoufakis è tutta una questione di volontà politica…