GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA

Scrive Lucio Caracciolo: «L’eventuale presa di Tripoli da parte del generale Haftar non avrebbe conseguenze definitive, ma comunque i segnali in arrivo dall’ex colonia italiana sono allarmanti. Il rischio di uno scontro indiretto tra Russia e Turchia nel nostro cortile di casa». In effetti gli interessi in gioco per l’Italia nella partita libica sono a dir poco cospicui, e di molteplice natura: economici (leggi: petrolio, gas, infrastrutture), geopolitici, strategici – inclusa la sicurezza del Paese e la sua politica dei flussi migratori. Ma ciò che volevo far notare qui è la schiettezza che esibiscono i migliori servitori degli interessi (imperialistici) del nostro Paese: la partita libica si gioca interamente «nel nostro cortile di casa», ossia in una riserva di caccia che la geopolitica (incrocio tra storia, rapporti di forza tra le Potenze e la dislocazione geografica di un Paese) ha da molto tempo assegnato all’Italia. Un’area che include, oltre la sponda africana, una parte non piccola dei Balcani.

Soprattutto gli “amici” francesi e britannici non perdono di cogliere una sola occasione che possa in qualche modo ostacolare l’iniziativa italiana «nel nostro cortile di casa», e in questo la concorrenza è avvantaggiata, e di molto, dalla sua non disprezzabile dotazione militare. Soprattutto la Gran Bretagna, fresca di Brexit, sta investendo molto nella costruzione di nuove portaerei. Abbiamo visto all’opera il “vantaggio competitivo” anglo-francese nei confronti dell’Italia nel 2011, quando Parigi e Londra decisero di far saltare in aria il vespaio libico per decenni tenuto sotto stretto e violento controllo da Gheddafi, fino ad allora assai coccolato e “assistito” finanziariamente da tutti i governi italiani che si sono succeduti dal 1969 in poi, anno di ascesa al potere dell’ex dittatore di Tripoli – il quale non a torto si vantava di aver contribuito alla salvezza dell’italianissima Fiat nella seconda metà degli anni Settanta. «E adesso anche l’amico Silvio mi lascia nelle mani del nemico che vuole sgozzarmi!». Com’è noto, l’amico Silvio (Berlusconi, si capisce) fu costretto ad accettare obtorto collo (insomma, a subire) l’intervento “umanitario” anglo-francese.

«L’Italia ha perso terreno in Libia, non possiamo negarlo. Ma ora deve riprendersi il ruolo naturale di principale interlocutore, da sempre amico del popolo libico». Questo ha dichiarato il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio di rientro da una missione-lampo a Tripoli, Bengasi e Tobruk – a dimostrazione che come sempre Roma pratica la tradizionale politica estera italiana che consiste nel giocare di sponda con tutti gli attori in campo, per saltare sul carro del vincitore al momento opportuno; una strategia molto disprezzata dagli “amici” europei e che non sempre sortisce gli effetti desiderati dai furbi di casa nostra: a furia di infornare il pane della diplomazia in tutti i forni aperti (o che sembrano tali), Roma rischia di ritrovarsi senza petrolio, senza gas e senza un effettivo controllo politico-militare su quanto avviene nel suo immediato cortile di casa: una vera e propria sciagura nazionale.

Negli ultimi tre anni l’attivismo della Turchia nel suo ampio cortile di casa ha subito una notevole accelerazione, e a farne le spese potrebbero essere anche gli interessi “energetici” italiani: «Al centro delle tensioni tra la Turchia e l’Italia, come anche con altri paesi dell’Unione Europea tra cui Francia, Grecia e Germania, vi è lo sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque territoriali di Cipro: Ankara considera da sempre la parte meridionale dell’isola come secessionista, ma l’Eni italiana ha ottenuto da Nicosia concessioni per lo sfruttamento dei fondali. Già nel febbraio dello scorso anno la Turchia aveva bloccato nelle acque di Cipro la nave esplorativa italiana Saipem 12000, che non potendo lì operare era stata poi trasferita in Marocco. Da lì a poco erano giunte nell’area navi esplorative turche. In seguito le autorità di Ankara avevano disposto imponenti esercitazioni navali in prossimità delle acque di Cipro, e “Scopo dell’esercitazione – aveva spiegato il ministro della Difesa Hulusi Akar – è quello di mostrare la determinazione e la preparazione al fine di garantire la sicurezza, la sovranità e i diritti marittimi della Turchia”. […] Per dare seguito ai propri diritti di sfruttamento Roma ha inviato in questi giorni nell’area la fregata Federico Martinengo, classe Fremm, insieme ad altre nove unità navali al fine di dimostrare di essere in grado di tutelare i propri interessi, un esempio che a breve potrebbe essere seguito dai francesi e non solo» (G. Eddaly, Notizie Geopolitiche). La crisi cipriota rischia di saldarsi a quella libica con effetti imprevedibili e certamente non orientati alla “pace e prosperità”.

Da Limes

«A parole, Russia e Turchia sembrano voler appoggiare la ripresa di un dialogo, ma nei fatti danno supporto sul terreno a Haftar e Sarraj, forse col progetto di “spartirsi” poi la Libia, come avvenuto per la Siria» (L’Avvenire). I Paesi dell’Unione Europea lamentano la latitanza di Washington nella crisi libica, mentre gli americani non intendono fare il lavoro sporco se non sono sicuri di poter portare a casa un successo. «Non vogliamo più sacrificare uomini e dollari per conto degli interessi europei, magari per sentirci poi dire dagli stessi alleati della Nato che siamo i soliti imperialisti a cui piace recitare il ruolo dei poliziotti del mondo»: è la “filosofia” che ispira la politica estera americana negli ultimi trent’anni, e che si è delineata con maggiore nettezza già con la Presidenza Obama.

E in questo contesto assai “problematico”, che rischia di innescare avventure belliche di grandi dimensioni, ben oltre lo schema delle “guerre per procura”, cosa fa l’ONU? «L’ONU, poveretta, quando il conflitto si allarga non conta più niente» (Romano Prodi). Lo avevo sospettato! Nel «covo di briganti» (Lenin) chiamato ONU non si muove foglia che l’Imperialismo non voglia. E quando parlo di Imperialismo, alludo ovviamente in primo luogo alle Potenze mondiali più grandi: Stati Uniti, Cina e Russia, con l’Unione Europea che con affanno e tra mille contraddizioni cerca di darsi una consistenza politico-militare in grado di reggere il confronto con quei tre Paesi. La Gran Bretagna è costretta, almeno in questa fase, a consolidare la sua storica “relazione speciale” con gli Stati Uniti.

Monitorare la partita libica mi pare oggi più che mai importante per chi ha in odio una Società-Mondo che produce sempre di nuovo sfruttamento, oppressione e guerre, e per quel poco che vale annuncio che in caso di “precipitazioni belliche” offrirò alla Patria il mio più totale disfattismo, la mia più totale avversione nei confronti dei suoi interessi più o meno vitali.

PER UNA STRETTA DI MANO…

In fondo il (cosiddetto?) Premier italiano ieri, nella conferenza stampa di fine Conferenza, è stato sincero, e ha peraltro usato un espediente retorico che davvero rappresenta un minimo sindacale di autodifesa politica e di diplomazia: «Se la misura del successo è di dire che oggi a Palermo abbiamo trovato la soluzione a tutti i problemi della Libia, la Conferenza è un insuccesso». Ma chi poteva pretendere dal meeting di Palermo «la soluzione a tutti i problemi della Libia»? Solo uno sciocco, è evidente. I risultati vanno insomma commisurati con le aspettative, le quali devono essere sempre realistiche, soprattutto quando si tratta di problemi connessi con la geopolitica, in generale, e con la Libia in particolare. Questo, credo, sia il succo concettuale della dichiarazione di Conte.

Quali obiettivi si proponeva dunque di centrare il Governo italiano organizzando l’ambiziosa Conferenza di Palermo sulla Libia? In primo luogo si trattava quantomeno di pareggiare i conti con la Francia, la quale negli ultimi anni ha fatto di tutto per creare problemi all’imperialismo concorrente in Libia (e non solo), cioè all’Italia, che da parte sua ha sempre rivendicato per sé un ruolo, economico e geopolitico, di primissimo piano in quel disgraziato Paese, peraltro in gran parte una creazione artificiale di Roma – attraverso l’accorpamento di tre “macro-regioni”: Cirenaica, Tripolitania, Fezzan.

La volontà dell’Italia di segnare il goal del pareggio con la Francia si è materializzata con l’ormai “mitica” foto che racconta la stretta di mano tra Khalifa Haftar, “l’uomo forte della Cirenaica”, e il suo concorrente Fayez al-Serraj, l’uomo debole di Tripoli, alla presenza del sempre sorridente (pare su suggerimento dell’inquietante Rocco Casalino) Giuseppe Conte. Il generale Haftar ha giocato una partita tutta sua, spregiudicata al limite della sfacciataggine e della provocazione (in continuità del resto con la trazione libica: vedi l’ex rais Gheddafi, “il pazzo di Tripoli”). Non partecipando alla Conferenza («Non parteciperemo alla conferenza neanche se durasse cento anni. Non ho nulla a che fare con tutto questo») ma incontrandosi con le rappresentanze politico-diplomatiche dei Paesi che lo sostengono (Russia ed Egitto, in primis), e accreditandosi come soggetto chiave e imprescindibile nell’intrigo libico, Haftar ha certamente vinto la sua “personale” partita, cosa che costituisce di fatto,  “oggettivamente”, una sconfitta per al-Serraj, il quale ha dovuto anche subire il chiaro avvertimento lanciatogli dal rivale cirenaico: «Non si cambia il cavallo mentre si attraversa il fiume», dichiarazione che equivale a una dichiarazione di guerra differita nel tempo – si parla dell’aprile del prossimo anno. Per adesso rimani in sella, domani si vedrà! Il tempo sembra infatti giocare a favore di Haftar, che controlla con pugno di ferro la Cirenaica grazie al sostegno di russi, egiziani e francesi.

L’indebolimento di al-Serraj si può leggere anche seguendo il comportamento della Turchia, la quale ha abbandonato la scena della foto-opportunity finale per segnalare il suo “rammarico” e la sua “delusione” per come sono andate le cose a Palermo. Com’è noto, la Turchia sostiene attivamente l’uomo debole di Tripoli, anche attraverso quella Fratellanza Musulmana che invece è fortemente invisa all’Egitto, che appoggia Haftar, il quale a sua volta considera appunto la Fratellanza come un covo di terroristi al pari di al-Qaida. Per Stefano Stefanini (La Stampa) «sono i fratelli musulmani  il nuovo ostacolo alla stabilità della Libia». La verità è che dal 2011 la crisi libica crea “ostacoli” in quantità industriali ovunque e comunque la si guardi.

«La crisi libica», ha dichiarato il vicepresidente turco Fuat Oktay abbandonando il meeting palermitano, «non si risolverà se pochi continuano a tenere in ostaggio il processo politico per i loro interessi. Coloro che hanno creato le attuali condizioni in Libia non possono essere quelli che salvano il Paese». Verissimo. Solo che tra quei «pochi» bisogna menzionare la stessa Turchia, i suoi interessi geopolitici che si scontrano con quelli dell’Egitto e della Russia. Già da anni gli analisti geopolitici parlano di una riedizione dello storico scontro tra Impero Russo e Impero Ottomano. I tempi cambiano, le aspirazioni imperiali (oggi imperialistiche) dei Paesi rimangono e si rafforzano. D’altra parte è regola universalmente valida quella che vede il rappresentante degli interessi di un dato Paese vedere e denunciare solo gli interessi dei Paesi concorrenti, per cui il “vittimismo” del rappresentante turco non deve stupire.

La Russia conferma il suo ruolo di protagonista fondamentale nel grande gioco che coinvolge l’area del Medio Oriente e del Nord’Africa, e gli ammiccamenti di Roma rivolti alla numerosissima delegazione russa convenuta nel capoluogo siciliano vanno letti anche come segnali rivolti alla Francia e alla Germania, segnali intesi a comunicare a quei Paesi che l’Italia oggi può contare sul sostegno di Mosca, e non solo sulla Libia. Per Piero Ignazi (La Repubblica) «L’Italia all’estero gioca da sola», e sconta il suo ricercato isolamento da Bruxelles; l’esigenza di trovare delle sponde credibili nello scacchiere internazionale è dunque molto forte, e ciò espone il Paese al rischio di stringere alleanze molto pericolose.  La verità è che come sempre Roma cerca di giocare su diversi tavoli, e ciò è tanto più vero oggi, nel momento in cui lo scenario internazionale appare quanto mai fluido, confuso, di difficile interpretazione, se non per il breve (o brevissimo!) periodo. I tempi della geopolitica si sono fatti «interessanti», per dirla con il Presidente degli Stati Uniti, il quale ultimamente se l’è presa con Macron: «Il presidente francese Macron ha appena suggerito che l’Europa costruisca un suo esercito per proteggersi dagli Stati Uniti, dalla Cina e dalla Russia. Si tratta di un insulto. Forse l’Europa dovrebbe prima pagare la sua giusta quota alla Nato, che gli Stati Uniti sovvenzionano in gran parte!». Non c’è dubbio, si tratta davvero di tempi molto “interessanti”…

In conclusione, per gli interessi italiani la Conferenza di Palermo sulla Libia ha avuto successo o no? il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? La parola al Premier italiano: «A me spetta fare il Primo Ministro, non il notista politico. Lascio a voi valutare liberamente se la Conferenza è stato un successo o meno. È un incontro che ha fatto emergere un’analisi largamente condivisa da parte dei libici delle sfide da affrontare, le abbiamo messe a fuoco insieme, ne è nata un’analisi condivisa sui problemi e un’ampia condivisione da parte della comunità internazionale». Tradotto: l’esito della Conferenza va scoperto solo vivendo.

Aggiunta del 15 novembre 2018

Prime verifiche

Nuovi disordini a Tripoli. La Settima brigata occupa lo scalo internazionale. Per Francesco Semprini (La Stampa) «dietro l’azione alle porte della capitale, c’è la delusione per i risultati della Conferenza di Palermo». «Chiusi i lavori della conferenza di Palermo, la Libia torna protagonista in casa propria con una serie di azioni e reazioni corollario dei deboli teoremi formulati al vertice siciliano. È la Settima brigata a farsi sentire di nuovo dopo mesi di quiete seguita agli scontri che hanno travolto la capitale tra la fine di agosto e i primi di settembre. Si tratta dei cosiddetti “insorti” di Tarhuna», un gruppo sponsorizzato dalla Turchia. «Secondo alcune fonti i miliziani sarebbero appoggiati dalla brigata di Salah Badi, un deputato di Misurata diventato capo milizia, considerato da mesi un “cane sciolto” ma molto vicino agli islamisti armati e soprattutto vicinissimo alla Turchia. […] Una interpretazione che gira fra alcuni analisti libici è che però l’attacco della Settima Brigata (composta per buona parte anche da ex gheddafiani) possa essere stata una reazione al fatto che alla riunione di ieri mattina fra Haftar e Serraj erano presenti Egitto e Russia, ma non il Qatar. Secondo un analista “questa è la vera protesta della Turchia: hanno visto che Haftar stava guadagnando terreno politicamente, sostenuto dai loro avversari egiziani e con la copertura della Russia e dell’Italia. I turchi possono tranquillamente aver favorito chi ha voluto lanciare un segnale militare sul terreno”» (Rivista Africa).

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SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA

Al di là della sua caotica fenomenologia politica e militare, la questione libica si presta a una lettura abbastanza semplice: dal febbraio 2011, anno in cui le forze lealiste di Muammar Gheddafi furono spazzate via nell’ambito della guerra per procura voluta da Francia, Inghilterra, Egitto e Paesi Arabi, è in atto nella nostra “Quarta sponda” uno scontro interimperialistico che ha come obiettivo il controllo 1. delle risorse energetiche libiche (petrolio di eccezionale qualità e gas) e 2. della preziosa posizione strategica offerta dalla Libia. Sotto quest’ultimo aspetto, c’è da dire che anche la Russia e la Cina sono interessate al futuro della Libia, e si fanno avanti senza troppi scrupoli sostenendo in qualche modo questa o quella cosca libica che sembra poter sostenere i loro interessi. Il conflitto di questi giorni è insomma l’ultimo episodio di una lunga guerra per procura che fa leva sugli interessi delle fazioni libiche rivali che si contendono il potere economico e politico con ogni mezzo necessario.

Se le cose stanno così, non è difficile prevedere giorni ancor più terribili per il popolo degli abissi tenuto sotto sequestro nei lager libici per scopi economici e politici: «Attenta Italia, attenta Europa, possiamo spararvi contro tutti gli immigrati che vogliamo!». Decisamente la Libia è un posto sempre più sicuro…

In questo caotico contesto l’Italia, al contrario dei suoi numerosi e agguerriti concorrenti internazionali, ha moltissimo da perdere, sia in termini economici, sia in termini geopolitici che di sicurezza interna. Scrive Alessandro Orsini: «L’Italia sta per perdere quanto di più prezioso abbia nell’arena internazionale ovvero il suo rapporto privilegiato con la Libia. Esiste un modo più chiaro di dirlo: persa la Libia, gli italiani hanno perso tutto. Nel senso che hanno perso qualunque possibilità di essere influenti su un governo diverso dal proprio. È un modo ruvido, ma diretto, di chiarire che non conteranno più niente al di fuori dei propri confini. E siccome la sicurezza dell’Italia dipende, in larga parte, dalla Libia…» (Il Messaggero).

In effetti, non è esagerato dire che per il Capitalismo/Imperialismo italiano sono in gioco interessi vitali, almeno nel breve e medio periodo, e bastava ascoltare gli interventi di ieri del Ministro degli Esteri Moavero Milanesi e della Ministra della Difesa Elisabetta Trenta davanti alle Commissioni congiunte Esteri e Difesa di Senato e Camera, nonché il dibattito che ne è seguito, per rendersi conto di quanto cosciente della delicatissima  situazione sia la classe dirigente di questo Paese. Per l’occasione anche la locuzione “Quarta sponda” è stata abbondantemente sdoganata, e in un’accezione fortemente positiva, forse come non si sentiva dai tempi del Fascismo. Nientemeno! Moavero ha parlato addirittura di «un destino che lega la Libia all’Italia», e per questo egli vorrebbe convocare la Conferenza Internazionale di pace sulla Libia (il 10 novembre) in Sicilia, la regione italiana che si affaccia sul Mediterraneo meridionale e ne ammira il rigoglioso giardino – dove fioriscono in abbondanza petrolio, gas e pesci. Da parte sua, la Ministra della Difesa ha dichiarato che l’Italia cerca di difendere in Libia i suoi interessi industriali e strategici esattamente come sta facendo la Francia, e per questo si augura che la normale competizione tra due Paesi amici («anzi cugini») possa mantenersi su corretti binari, avendo entrambi cura di non farla deragliare in comportamenti ostili che li danneggerebbero in egual misura. «Tra amici e cugini si compete e si collabora». Un basso profilo diplomatico che si giustifica con gli attacchi antifrancesi venuti da diversi esponenti del Governo italiano nei giorni passati; una postura aggressiva (“sovranista” e “populista”) che in questo momento di delicate trattative internazionali evidentemente non sembra essere di grande aiuto per Roma.

«L’Italia ha e intende continuare ad avere un ruolo da protagonista in Libia», ha dichiarato la Ministra Trenta: su questo non avevo dubbi. E difatti continuo, nel mio infinitamente piccolo, a contrastare con le armi della critica (questo oggi passa il convento!) quel protagonismo: decisamente la nuova moda sovranista-populista non fa per me! La «sicurezza energetica» dell’Italia è cosa che non può suscitare alcuna preoccupazione in una testa autenticamente anticapitalista.

Da sempre in quel quadrante geopolitico l’Italia soffre molto l’attivismo politico-militare della Francia perché non può rispondere sullo stesso terreno, non avendo essa un peso politico-militare paragonabile a quello della rivale d’Oltralpe, la cui esibita grandeur peraltro è più fonte di ironia da parte dei suoi partners-competitors  che di preoccupazione. In ogni caso, in confronto alla Francia l’Italia rimane un nano politico, e non sarà certo il protagonismo velleitario di un Salvini a poter cambiare la situazione a favore dell’Italia. Tanto più che la Francia guarda con crescente interesse alla «scatola di sabbia» che Roma considera cosa sua per diritto geopolitico: «La Francia ha un duplice interesse da difendere in Libia. Il primo è connesso alla salvaguardia e al rinnovo di quell’enorme insieme economico che costituisce l’esposizione industriale di Parigi nel Golfo, ed in particolare negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita. Difendere le posizioni così tenacemente sostenute da Abu Dhabi è una priorità per Parigi, che in tal modo può guardare alla Libia anche attraverso una seconda lente di interesse, connessa al potenziale degli interessi economici un tempo oggetto di controllo quasi monopolistico da parte dell’Italia, e che con la crisi del 2011 sono stati invece rimessi sul piatto della delicata partita» (N. Pedde, Huffington Post). È vero che «negli ultimi anni di guerra civile, l’ENI, la più importante azienda energetica italiana, è stata l’unica società internazionale in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia, grazie soprattutto ad accordi con milizie locali che le hanno garantito sicurezza e protezione»; ma è anche vero che «dalla scorsa primavera Total, la principale azienda energetica francese, è tornata a muoversi nel paese, con acquisizioni e partecipazioni societarie che potrebbero portare la produzione francese in territorio libico a 400mila barili di greggio al giorno nei prossimi tre anni» (Il Post).

È un fatto che dal 2011 la tensione tra Roma e Parigi si è fatta critica, anche perché l’Italia da parte sua non ha nascosto crescenti ambizioni di espansione economica in un’area dell’Africa che Parigi considera di sua esclusiva pertinenza in grazia del suo passato coloniale. La competizione tra i due Paese dell’Unione Europea acquista un particolare significato alla luce della sempre più forte presenza economica della Cina nel continente africano, penetrazione economica (di merci e di capitali: il trionfo dell’Imperialismo nella sua accezione più “pura”) che presto o tardi avrà delle importanti ricadute sul terreno strettamente politico – e quindi militare.

«Nella Grande sala del Popolo di Pechino c’erano tutti, oltre 50 tra capi di Stato e di governo dei Paesi africani. E dal palco il padrone di casa Xi Jinping ha riservato loro un’accoglienza che più calorosa non si può. Il presidente cinese, nel discorso inaugurale del Forum di cooperazione Africa-Cina trasmesso oggi in diretta tv, ha promesso finanziamenti al continente per 60 miliardi di dollari, tra prestiti e investimenti per infrastrutture. […] Senza dubbio dietro al progetto “africano” di Xi ci sono soprattutto motivazioni interne: dare lavoro alle sue imprese (a cui sono affidati gran parte delle opere) e assicurare il flusso di materie prime di cui l’Africa è ricca. Ma per i partner africani alla ricerca di sviluppo i suoi miliardi sono benvenuti, per scelta o per necessità. Senza contare che la Cina non si immischia mai in questioni di politica interna» (F. Santelli, La repubblica). In diversi post ho avuto modo di sostenere come lo sfruttamento imperialistico dell’Africa da parte della Cina e il processo di sviluppo capitalistico dei Paesi del “Continente nero” sottoposti a quello sfruttamento non si contraddicono affatto e come siano piuttosto due aspetti della stessa realtà, due lati della stessa capitalistica medaglia. Già Marx aveva gettato luce su questa “dialettica” di sfruttamento e sviluppo analizzando il colonialismo del Regno Unito. Ma qui è meglio mettere un punto.

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INFERNO E POTERE

Lo stesso ambiguo atteggiamento tenuto da gran parte dei pacifisti a comando si inscrive, al netto dell’ipnotico effetto generato dalla Sfinge Abbronzata (Obama) e del solito riflesso condizionato antiberlusconiano (Gheddafi non era “amico del Cavaliere Nero?), in quest’esercizio di maestria politica che ha distinto le classi dirigenti di questo Paese dall’Unità in poi, ma anche prima (la politica preunitaria di Cavour lo testimonia ampiamente).

Nel Maggio 2001 l’allora Presidente della Commissione europea Romano Prodi spiegava quanto segue: «Nei rapporti fra gli Stati europei, lo Stato di diritto ha sostituito i brutali rapporti di forza […] Portando a compimento l’integrazione (europea), diamo al mondo l’esempio riuscito di un metodo per la Pace» (Discorso all’Institut D’Études Politiques di Parigi). Detto, fatto. Anzi no! In effetti, tutti gli eventi che si sono prodotti sullo scacchiere internazionale da allora in poi si sono incaricati di smentire la grigia speranza dello statista Italiano. Basti pensare alla spaccatura che si realizzò nel Vecchio Continente all’epoca dell’intervento militare in Iraq, nel 2003. Non poteva andare diversamente.

Lungi dall’aver liquidato i rapporti di forza, lo Stato di diritto continua ad essere essenzialmente una questione di rapporti di forza, sul versante interno, nei rapporti tra dominanti e dominati, e sul fronte esterno, nei rapporti tra gli Stati. L’attuale crisi internazionale, poi, sta letteralmente coprendo di ridicolo l’idea di un’Europa unita nonché «esempio riuscito di un metodo per la pace»: con le mosse e contromosse architettate dai francesi, dagli inglesi, dai tedeschi e dagli italiani, per fregarsi a vicenda, sembra di assistere ai vecchi film del genere colonial-imperialista. Ossia al «Grande Gioco» delle Potenze Europee dei tempi che furono, che evidentemente non sono affatto passati. Naturalmente «Grande Gioco» mutatis mutandis, cambiando quel che c’è da cambiare, che non è poco, soprattutto se pensiamo alle nuove Potenze mondiali che aspirano all’egemonia globale (economica, politica, tecnologica) del Pianeta. Eppure, nel loro piccolo, i Paesi «Alleati» non smettono di nutrire grandi ambizioni.

Soprattutto la Francia, in questo frangente, si sta distinguendo nella cara e vecchia politica del fatto compiuto, per ragioni che naturalmente non hanno niente a che vedere con l’umanitarismo dei nostri cugini d’oltralpe, sempre più sciovinisti e ammalati di grandeur man mano che la potenza sistemica del loro Paese declina. Lo smacco subito a Gennaio e a Febbraio dalla Francia nelle sue ex colonie nordafricane, ha certamente pesato sull’attivismo a tutto campo di Sarkozy.

Dal canto suo, l’Italia, entrata obtorto collo nella «Missione Umanitaria» perché è il solo Paese «Alleato» che rischia di uscire con le ossa spezzate dall’affaire libico, si barcamena nella sua tradizionale politica tesa ad ottenere il massimo possibile investendo il meno possibile (in termini di risorse economiche e di sangue). Politica classica di una piccola potenza che coltiva grandi – e storicamente non illegittime – aspirazioni, la quale non raramente postula l’ambiguità, l’opportunismo e financo il tradimento delle alleanze. È l’italico «machiavellismo» che da sempre le Potenze Europee ci rimproverano e che gli osservatori superficiali e provinciali di casa nostra non capiscono. Lo stesso ambiguo atteggiamento tenuto da gran parte dei pacifisti a comando si inscrive, al netto dell’ipnotico effetto generato dalla Sfinge Abbronzata (Obama) e del solito riflesso condizionato antiberlusconiano (Gheddafi non era “amico” del Cavaliere Nero?), in quest’esercizio di maestria politica che ha distinto le classi dirigenti di questo Paese dall’Unità in poi, ma anche prima (la politica preunitaria di Cavour lo testimonia ampiamente).

Scriveva Robert Kagan: «Ci sono ancora inglesi che ricordano l’impero, francesi che anelano alla gloire, tedeschi che aspirano a un posto al sole. Per il momento questi impulsi sono incanalati nel grande progetto europeo, ma potrebbero anche trovare espressioni più tradizionali» (Paradiso e Potere, 2003). Certo, c’è tutto questo; ma ci sono soprattutto gli interessi dei singoli Stati europei, e c’è il «grande progetto europeo» che si sta sempre più rivelando ciò che è sempre stato, e cioè il tentativo di mettere sotto tutela la Germania, e di realizzare una massa critica (politica, economica e militare) in grado di competere con le nuove Potenze Mondiali. La vocazione «pacifista» dell’Europa è un mito costruito sulle ceneri della Seconda guerra mondiale dalle armate americane e sovietiche. Per riprendere il titolo e capovolgendo il senso del libro di Kagan, l’Europa non è il «Paradiso», né il «Potere» (ossia l’Imperialismo in tutte le sue manifestazioni) riguarda solo gli Stati Uniti d’America. L’Inferno è dovunque.

TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO

L’odissea non è solo all’alba, ma ad ogni secondo che il Capitale manda in terra. E dappertutto.

Barack O'Bush

I pacifisti sono come ipnotizzati dalla sfinge Obama: come sarebbe stato tutto più semplice, se al suo posto ci fosse stato il bianco, petroliere, conservatore e guerrafondaio Bush, antropologicamente «imperialista»! E invece… Invece tocca farsi questa scottante domanda: è possibile che l’imperialismo non abbia né colore (oltre quello dei soldi e del petrolio) né ideologia (che non sia quella che emana dalla potenza sistemica di un Paese)? Oh, amletico dubbio!

Ci mancava la ciliegina sopra l’escrementizia torta tricolore di questi italianissimi giorni di festeggiamento, ed eccola arrivare, forse inaspettata – ma quanto opportuna! –, sotto forma di patriottismo bellico, l’espressione più violenta e verace della Sacra Unità Nazionale.

Per tranquillare le coscienze progressiste, il Presidentissimo Napolitano ha immediatamente fatto sapere che la Missione italiana in Libia si muove perfettamente dentro la cornice costituzionale dell’Articolo 11. Che sollievo! In effetti, basta chiamare la guerra «ingerenza umanitaria», peraltro esercitata sotto l’egida dell’ONU, questo brutto simulacro di «democrazia planetaria», e il gioco di prestigio è fatto. È dalla missione in Libano dell’’82 che l’Italia sposta truppe a destra e a manca, nel pieno rispetto della Costituzione «nata dalla resistenza» (appunto!), e solo gli ingenui possono credere alla natura pacifista del mitico articolo 11, peraltro impostoci – alla stessa stregua di Germania e Giappone – dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale.

"L'etica ha preso il sopravvento"

Il generale Franco Angioni, che della missione libanese del 1982 fu il primo comandante, e che oggi milita nei ranghi del partito democratico, ha dichiarato all’Unità del 20 Marzo che «l’etica ha preso il sopravvento». Finalmente! Quindi la missione internazionale in Libia sarebbe una questione di valori. E non c’è dubbio: di valori… di scambio.

A ragione il riluttante Bossi teme che i francesi e gli inglesi vogliono soffiarci il nostro gas e il nostro petrolio, senza contare il disastro che si annuncia con lo tsunami dei profughi di guerra: «con la scusa dell’intervento umanitario stanno tentando di mettercela in quel posto» (Il Giornale, 20 Marzo 2011). Oh, amabile schiettezza del reazionario che non si vergogna di apparire tale! Come sempre, bisogna ascoltare e leggere i politici che non hanno la fregola del politicamente corretto per apprendere qualche verità intorno a questo tristo mondo. E, detto per inciso, la parlamentare leghista eletta a Lampedusa non è affatto una stravaganza della pur bizzarra politica italiota. I giorni a seguire si incaricheranno di dimostrarlo, anche perché la sua politica leghista rischia di venir scavalcata a “destra” dai suoi compaesani.

Valentino Parlato ha giustamente osservato che in questa faccenda i valori etici stanno a zero, perché siamo in presenza di «un conflitto per il petrolio» (Il Manifesto, 20 Marzo 2011). Stimo assistendo, ha continuato il vecchio leader della sinistra dura e pura, «alla rinascita del famoso imperialismo». No, perché «rinascita»? In realtà, il «famoso» Imperialismo non solo non è mai uscito dalla scena (magari per far posto al più intellettualmente sofisticato e politicamente ambiguo «Impero» alla Toni Negri), ma si è col tempo espanso, radicato e rafforzato su scala planetaria sotto forma di economia capitalistica. Tutto il pianeta giace sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici. Il «fatto bellico», come diceva quello, non è che la continuazione del «fatto politico» con altri mezzi, e quest’ultimo, a sua volta e «in ultima analisi», si fonda sul «fatto economico», lungo una «filiera dialettica» di reciproche influenze di «struttura» e «sovrastruttura» che qui sarebbe fin troppo pletorico illuminare. Ma quando c’è di mezzi il petrolio, non c’è «filiera dialettica» che tenga!

Gli Stati non agiscono mai sulla base di considerazioni etiche o «umanitarie», o sulla scorta di coerenze politiche e – siamo seri! – ideali, ma unicamente su input di precisi interessi strategici di varia natura (economica, politica, militare, ecc.). Il fatto che oggi tutti i leader «alleati», da Berlusconi a Obama, da Sarkozy a Cameron, stiano mettendo in scena l’apoteosi dell’ipocrisia, ebbene questo non è nemmeno un buon argomento di polemica, talmente suona scontato. È la realpolitik degli Stati, di questi mostri a sangue freddo, bellezza!

Le stesse Organizzazioni Non Governative, che si stanno anche loro mobilitando in gran fretta per soccorrere le vittime degli «effetti collaterali», sono, loro malgrado, perfettamente integrate nel Sistema della competizione globale tra gli Stati, in tempo di «pace» come in tempo di guerra, perché il cattivo mondo ha estremo bisogno dei buoni di spirito, grasso – o balsamo – per i duri ingranaggi del dominio. Anche la prassi «umanitaria» delle ONG non è che la continuazione della guerra generale contro l’umanità portata avanti con altri mezzi. Ma non è un po’ esagerato mettere sullo stesso piano di responsabilità il militare che spara e il chirurgo che interviene sulle vittime della guerra? Domanda legittima. Il fatto è che non sono io ad operare questo cinico riduzionismo etico, ma la fin troppo astuta dialettica del dominio, che mi limito a illuminare, per poterla infilzare almeno sul piano della critica politica.

Certo, scrive Parlato, Gheddafi è sempre stato un feroce dittatore, e tuttavia poteva almeno vantare una funzione nel quadro dell’indipendenza nazionale del suo Paese, senza contare il fatto che noi italiani forse siamo sul punto in cui dovremo rimpiangerlo. Per il “comunista” del Manifesto gli interessi nazionali, della Libia e dell’Italia, sono dunque valori che conservano un grande significato. E ha ragione da vendere, sebbene sia una ragione ultrareazionaria. Valentino Parlato vive perennemente nel rimpianto: «forse sarebbe stato meglio morire democristiani e craxiani, anziché berlusconiani», si lamenta sovente. Forse ci conveniva lasciare Gheddafi al suo posto. Qualcuno lo conforti, compassionevolmente.

A proposito di interessi nazionali: il fascistissimo Padellaro ha scritto, sul Fatto del 20 Marzo, che bisogna cacciare immediatamente il puttaniere Berlusconi, perché senza riacquistare il prestigio nazionale che merita, l’Italia non potrà competere con la leadership anglo-francese. Nonostante quel che dice il Ministro La Russa, se il Cavaliere di Arcore rimane in sella dovremo consegnare le nostre chiavi di casa ai francesi e agli inglesi: che disdetta! Prego, provvedere con un bel colpo di Stato. L’Egitto, dopo tutto, insegna…