LA TRAGEDIA DEL POPOLO CURDO. E LA NOSTRA

Qualche giorno fa Adriano Sofri ricordava sul Foglio un vecchio proverbio curdo: «Solo le montagne sono amiche dei curdi». A giudicare dalla storia, passata e recente, del popolo curdo (un popolo disperso, com’è noto, in ben quattro nazioni: Turchia, Siria, Iraq e Iran) (*) quel proverbio si limita a registrare un’amara verità.

Mi permetto di sintetizzare la secolare tragedia del popolo curdo nei termini brutali che seguono: per sopravvivere esso è stato costretto a stringere alleanze con Potenze mondiali e regionali, secondo l’antica massima che sentenzia: «Il nemico del mio nemico è mio amico»; salvo poi subire dolorosi “tradimenti” da parte delle nazioni che lo hanno prima usato, anche come esercito nelle cosiddette guerre per procura, e poi abbandonato al suo destino di popolo indesiderato e pericoloso – anche per le idee democratiche e progressiste che animano la sua lotta per l’autodeterminazione nazionale (**). Minacciati dal macellaio di Ankara, alleato degli imperialisti americani ed europei, oggi i curdi sono costretti ad allearsi con il nemico di ieri, cioè con il macellaio di Damasco sostenuto dall’imperialismo russo e dagli iraniani. Il fatto che nei giorni scorsi i leader curdi abbiano implorato gli americani di non ritirarsi dal confine turco-siriano e poi, a “tradimento” statunitense consumato, gli europei a sostituirli prontamente nell’opera di “pacificazione”, la dice lunga sul carattere tragico della vicenda curda. Tra l’altro ciò testimonia come sia risibile parlare di “sovranità nazionale” nel XXI secolo, e non alludo solo alla sovranità nazionale ancora oggi negata ai curdi.

«Donald Trump ha di fatto abbandonato al proprio destino le milizie curde che sono state il principale alleato degli Usa nella lotta contro i terroristi dell’ Isis. Così facendo ha posto Putin nelle vesti di arbitro tra il regime siriano e i curdi, costretti a bussare alla porta di Damasco per non essere schiacciati dalla macchina bellica turca. L’accordo favorisce prima di tutto Putin. Senza il sostegno del Cremlino Assad probabilmente non sarebbe neanche più al potere e le aree controllate da Damasco di fatto lo sono anche da Mosca. Assieme ai soldati siriani potrebbero infatti entrare a Kobane anche quelli russi. D’altronde Putin è però in ottimi rapporti pure con il leader turco Erdogan e l’asse Mosca-Ankara non può che uscire ulteriormente rafforzato da questa complessa situazione. Turchia e Russia stanno dalla parte opposta del fronte, ma assieme all’Iran (altro alleato di ferro di Damasco) formano il trio di Astana e da tempo trattano amichevolmente per spartirsi le zone di influenza in Siria. Non è un caso che Erdogan abbia telefonato a Putin poco prima di aprire il fuoco» (G. Agliastro, La Stampa). Ovviamente a pagare a carissimo prezzo questa complessa partita a scacchi geopolitica è la popolazione civile, massacrata e cacciata di casa, colpita in tutti i modi nel contesto di una condizione già molto difficile e precaria. Un abisso politico e umano mi separa da chi oggi versa lacrime sulla “ritirata”, sull’”impotenza”, sulla “vigliaccheria” e sul “tradimento” dell’Occidente mentre assiste al – momentaneo – successo delle Potenze considerate “politicamente scorrette” nei salotti buoni della politica e della cultura occidentali. Per quanto mi riguarda, divido il mondo solo in dominanti e dominati, sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi; tutto il resto è squallida propaganda al servizio dello status quo sociale (da non confondersi con quello geopolitico) nazionale e mondiale. Ciò che mi preoccupa è piuttosto la perdurante impotenza delle classi subalterne, incapaci di un pensiero indipendente e di una iniziativa autonoma, e ciò è anche dimostrato dal consenso che l’operazione Fonte di Pace (notare il cinismo orwelliano) sta ottenendo in Turchia, a dimostrazione che il veleno nazionalista non smette di svolgere la sua odiosa funzione. Il macellaio Recep Tayyp Erdogan, fino a qualche settimana fa in declino nei sondaggi, oggi sembra essere in netta ripresa, tanto più che l’opposizione parlamentare (non legata ai curdi) ha di fatto accettato l’intervento militare in Siria.

Il “tradimento” da parte di qualche Potenza internazionale o regionale è dunque un concetto che i curdi conoscono benissimo e da molto tempo. È sufficiente leggere un solo articolo pubblicato in questi giorni sull’invasione turca della Siria per rendersi conto dei tanti “tradimenti” che il popolo curdo ha dovuto subire nell’ultimo secolo, a partire dal Trattato di Sèvres del 1920 che ridefiniva i confini della Turchia dopo lo sfaldamento dell’impero ottomano. Allora i curdi non solo non ottennero l’agognato Stato nazionale promesso loro da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, i padroni del mondo uscito dalla Prima carneficina mondiale; ma dal 1923 (Trattato di Losanna) essi dovettero subire i rigori  nazionalistici dei quattro Paesi (Turchia, Iran, Iraq e Siria) individuati dalla “comunità internazionale” come legittimi padroni dell’area rivendicata dai curdi. In un secolo quell’area ha conosciuto una “sofisticata” opera di ingegneria etnica che si è sostanziata  in deportazioni e pulizie etniche realizzate sulla pelle dei curdi e di altri popoli privati di patria e di diritti.

Scrive Elena Zacchetti (Il Post): «La situazione in Siria si complicò alla fine del 2014. Il governo statunitense, allora guidato da Barack Obama, non voleva impegnarsi con le proprie truppe di terra e aveva bisogno di alleati che combattessero al posto suo. I curdi siriani si erano dimostrati molto abili in battaglia ed erano interessati a recuperare i territori del nord della Siria abitati in prevalenza da curdi, e in quel momento sotto il controllo dell’ISIS. Speravano inoltre che avere l’appoggio di un paese così potente e importante li potesse aiutare nella loro causa per la creazione di uno stato curdo, o per lo meno di un territorio in Siria con grande autonomia dal governo centrale. […] Soltanto ad agosto [2019] Stati Uniti e Turchia avevano firmato un accordo per “stabilizzare” il confine meridionale turco, che prevedeva la creazione di una “safe zone”, una “zona cuscinetto”, che avrebbe dovuto dividere le forze turche da quelle curde. Tra le altre cose, l’accordo prevedeva che i curdi siriani si ritirassero dagli avamposti di confine, di fatto rinunciando a un’importante linea di difesa in caso di attacco turco. In cambio, il governo statunitense avrebbe garantito ai curdi protezione e sicurezza. Alla fine di agosto i curdi avevano iniziato a ritirarsi. Il problema è che, dopo avere garantito sicurezza e protezione ai curdi siriani, e dopo che i curdi siriani di conseguenza si sono ritirati, gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro». Mai fidarsi degli imperialisti! «Gli americani ci avevano garantito la loro protezione, e invece ci hanno abbandonati con la loro ingiusta decisione di ritirare le loro truppe alla frontiera turca»: mai fidarsi delle garanzie offerte dagli imperialisti (americani, europei, russi o cinesi che siano)!

Lo so, la mia è una facile battuta che non tiene conto dei reali rapporti di forza che insistono sul terreno; ma essa intende solo illuminare il quadro della situazione, nel cui seno i curdi possono ritagliarsi un margine di manovra assai ristretto, e sempre contando sul sostegno di qualche Potenza “amica”. Non dimentichiamo che nel 1991, alla fine della Prima Guerra del Golfo, gli Stati Uniti di George Bush lasciarono nelle mani di Saddam Hussein non meno di due milioni di curdi che li avevano sostenuti nella guerra sperando in un’autodeterminazione che arriverà solo nel 2003, con la formazione del Kurdistan iracheno. Si trattò di una vera ecatombe, con migliaia di persone, in maggioranza vecchi e bambini, uccisi ogni giorno dall’esercito iracheno. Nel 1988 questo esercito massacrò non meno di 100mila curdi con un attacco chimico a Halabja; allora gli europei fecero finta di niente, perché l’Iraq era impegnato in una sanguinosissima guerra contro l’Iran komeinista.

Ma ritorniamo alla guerra di questi giorni. Come accade sempre in questi casi la cosiddetta opinione pubblica internazionale lamenta l’impotenza dell’Onu. Ma l’Onu non è affatto impotente: essa è esattamente quello che deve essere, e cioè uno strumento politico-ideologico al servizio degli interessi di grandi, medie e piccole potenze, le quali se ne servono quando occorre per meglio perseguire i loro obiettivi nel quadro della contesa sistemica (economica, scientifica, militare, ideologica) planetaria. Nell’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo non voglia! Naturalmente sono le Potenze maggiori a determinare l’azione (o inazione) di quella escrementizia entità politico-diplomatica, la quale è a tutti gli effetti «un covo di briganti» (Lenin). Secondo Macron l’offensiva di Ankara in Siria può scatenare «conseguenze umanitarie drammatiche». Invece quella scatenata dalla Francia (e dall’Inghilterra) in Libia nel febbraio 2011 ha portato pace, serenità e prosperità per tutti…

Scriveva Alberto Negri sul Manifesto di qualche giorno fa: «Il cartello del Rojava, “fabbrica democratica” al confine turco-siriano, adesso dice: “Chiuso per tradimento americano”». Mi chiedo fino a che punto si possa legittimamente parlare di “tradimento” nell’ambito del “grande gioco geopolitico”, ossia in riferimento alla contesa interimperialistica. Forse non bisognerebbe usare certe categorie morali in contesti dominati dal principio degli interessi e della potenza.

La tragedia dei curdi siriani nelle parole di Lorenzo Cremonesi (Il Corriere della Sera), inviato a Derek: «Stanno qualche ora in fila, attendono pazienti. Salvo poi venire ricacciati indietro con i bambini, le valigie troppo grandi, le mogli troppo coperte che sudano copiosamente sotto il sole ancora caldo di metà ottobre, l’aria secca, le sporte di vestiti pesanti. “Partono adesso quelli di noi che in passato hanno combattuto contro il regime di Bashar Assad, oppure i giovani renitenti alla leva. Non vogliono essere costretti nelle unità di punizione dell’esercito nazionale siriano, mandate subito a combattere e morire in prima linea contro i turchi”, confida un quarantenne dall’aria distinta. Lascia capire di essere un alto esponente dell’intelligence di Rojava. […]  In realtà, sul campo si notano cambiamenti importanti. L’altra sera a Qamishli erano sparite le consuete pattuglie curde che si muovono nei quartieri controllati dai fedeli al regime di Bashar. Damasco ha sempre negato qualsiasi forma di autonomia curda e nulla lascia credere abbia cambiato politica. Tutt’altro. Per la prima volta dal ritiro dopo lo scoppio delle rivolte nel 2011, i suoi soldati tornano a marciare per le strade del Nordest siriano. Nulla lascia credere che smetteranno di farlo. Uno degli articoli in discussione nell’accordo contempla che le unità curde vengano assorbite in quelle dell’esercito regolare. Inoltre su tutti gli edifici pubblici dell’intera Rojava dovrà sventolare la bandiera nazionale. Una mossa non solo simbolica. Il regime espande la sovranità. Non sono pochi adesso i curdi che iniziano a mettere in dubbio il valore del tributo di sangue pagato dalle loro forze armate nella guerra contro Isis: oltre 11.000 morti e quasi il doppio di feriti. Un numero enorme, specie se si pensa che Rojava conta in tutto meno di 60.000 effettivi tra combattenti uomini e donne. “Valeva la pena perdere tanti soldati alla luce del tradimento americano?”, si chiedeva ieri un giovane giornalista della televisione locale. Lo smarrimento è palpabile. Il futuro un’incognita inquietante. Rispondeva disilluso un suo collega: “Possiamo dire che abbiamo vissuto otto anni inebrianti di libertà, almeno saranno un punto fermo nei libri della storia del popolo curdo. Ma li stiamo perdendo”».

Quando la Nazione va in guerra, la Nazionale saluta militarmente. Questi sì che sono autentici patrioti! Altro che pezzi di mErdogan! O no?

(*) «Se il Kurdistan fosse unito politicamente potrebbe essere lo Stato più ricco del Medio Oriente, considerate le materie prime di cui dispone – dal petrolio alle risorse idriche. Il petrolio infatti viene estratto in tutti e quattro i paesi “curdi”. […] Sempre con riguardo al petrolio, l’area curda è coinvolta nel “grande gioco” in atto nelle repubbliche centrasiatiche. Con l’implosione dell’ex Urss è salita alla ribalta geopolitica l’Asia centrale, soprattutto per i ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale del Mar Caspio. In gioco c’è lo sfruttamento degli stessi da parte delle grandi multinazionali, ma soprattutto lo sfruttamento dei diritti di passaggio degli oleodotti e dei gasdotti» (M. Franza, Limes, 1999).
(**) In uno scritto del 2014 esprimevo tutto il mio apprezzamento e il mio sostegno politico (peraltro non richiesto da nessuno…) alla lotta democratico-nazionale del popolo curdo, allora soprattutto alle prese con i tagliagole del cosiddetto Califfato Islamico. Ciò naturalmente non mi impediva di prendere una posizione critica nei confronti di chi in Europa straparlava “da sinistra” circa «un nuovo modello socialista» a proposito del Rojava. Sul Manifesto Alberto Negri ha definito l’azione dei progressisti curdi a Rojava come «l’unico esperimento di governo della regione che ricordi uno stato laico europeo»: non c’è dubbio. Cosa abbia però a che fare il “socialismo” con la lotta democratico-nazionale dei curdi è qualcosa che può avere un senso solo nella testa dei teorici del “Socialismo del XXI secolo”, i quali sono sempre alla ricerca di “socialismi originali”, forse per mitigare la nostalgia nei confronti dei “socialismi realizzati”.

 

Aggiunta del 16/10/2019

IL MADE IN ITALY CHE UCCIDE I CURDI

Da Nexquotidiano:

«Agusta A129 Mangusta: l’elicottero italiano che guida l’offensiva della Turchia in Siria. C’è anche un po’ di “orgoglio” italiano nell’offensiva della Turchia in Siria. E riguarda gli elicotteri da combattimento prodotti in patria ma creazioni del made in Italy: la versione avanzata dell’Agusta A129 Mangusta prodotto da Leonardo, che i nostri militari hanno usato in Somalia, Iraq e Afghanistan».

Scrive Gianluca Di Feo su Repubblica:

«Sono macchine micidiali. Piccole, veloci, robuste ma zeppe di apparati hi-tech. Scoprono gli obiettivi con un radar e un sistema infrarossi, a cui non sfugge nulla neppure di notte, nemmeno nei boschi. Hanno una torretta con un cannone a tre canne rotanti: per puntarlo basta che il pilota guardi il bersaglio, l’arma segue il suo occhio e spara 500 colpi in meno di un secondo. Possono lanciare 76 razzi che trasformano il terreno in un inferno. O guidare missili che sbriciolano i bunker. Cabina, motori e trasmissioni sono blindati – un Mangusta italiano in Afghanistan ha incassato cento pallottole senza problemi – e c’è un congegno per deviare i rari missili terra-aria dei guerriglieri. Per i curdi fermarli è quasi impossibile».

ASPETTANDO I MISSILI…


Tieniti pronta Russia, i missili
arriveranno (Donald Trump).

Come diceva quello, la situazione è assai confusa, ma in compenso non è – mi si consenta una piccola variante – eccellente, tutt’altro, almeno se considerata dal punto di vista di chi è costretto a subire un processo sociale mondiale fondato su interessi che nulla a che fare hanno con il benessere, la libertà e la felicità degli individui. E difatti la sola certezza che mi sento di poter esternare in questo momento, mentre in tutto il mondo si parla di guerra economica (vedi la controversia sui dazi) e di guerra militare (vedi la Siria), riguarda l’irriducibile e irriformabile natura disumana di questa società mondiale, una società che trasuda violenza, odio e precarietà esistenziale da tutti i suoi pori. Ieri ho scritto un post sulla crisi siriana per dire la mia sulla vicenda, e che solo adesso ho la possibilità di pubblicare. Ciò che però adesso m’importa dire, per quel che vale, è che al di là delle analisi più o meno puntuali e intelligenti (e quindi non sto parlando delle mie “analisi”!) intese a penetrare nella complessità e contraddittorietà delle questioni geopolitiche, politiche, militari e quant’altro, ciò che davvero ha senso è conquistare questo semplice concetto: dal punto di vista umano e delle classi subalterne non esiste una sola ragione valida per schierarsi con questa o quella Potenza, con questa o quella Nazione (soprattutto con la propria!), con questa o quella fazione capitalistica, con questo o quel partito, di governo o di opposizione. Oggi, come sempre, in gioco ci sono solo interessi di potere (economico, politico, militare ecc.), e dal mio punto di vista quegli interessi non valgono un solo capello – uno solo dico! – cresciuto sulla testa di un solo individuo.

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Ultim’ora! Mentre scrivo aerei militari da ricognizione degli Stati Uniti sono decollati dalla base americana di Sigonella per raggiungere la regione Mediorientale. Il Premier turco ha dichiarato che, «gas o non gas, Assad se ne deve andare per consentire una soluzione politica della crisi. Assad ha massacrato un milione di civili siriani, e ciò non è accettabile». È invece accettabile il massacro dei curdi da parte della Turchia. Mi viene in mente la favola raccontata da Platone (Fedro): «Un lupo, vedendo un pastore che mangiava carne di pecora, disse: “solleveresti un gran clamore se lo facessi io”». Non so chi legge, ma io vedo in azione solo lupi affamati di bottino. E mi scuso con i lupi in carne ed ossa per l’odiosa analogia! Intanto Israele minaccia il regime siriano: «Cancelleremo la Siria dalle carte geografiche se permetterà all’Iran di attaccarci». Dalla Casa Bianca trapela quanto segue: «Gli Stati Uniti stanno ancora valutando ciò che è avvenuto a Douma. Niente è ancora stato deciso ma il Pentagono ha offerto al Presidente una serie di opzioni militari». Come colpire duramente, molto più che in passato, Bashar al Assad senza scontrarsi direttamente con l’esercito russo? Pare che al Pentagono non sia stata ancora trovata la soluzione a un problema che, com’è facile capire, non è di poco momento. Le “destre unite” del nostro Paese si dichiarano indisponibili a votare un intervento militare italiano contro la Siria e contro la Russia; «Il senatore di Forza Italia, Paolo Romani, esorta il centrodestra ad “alzare la voce sull’assurda minaccia di rappresaglia rispetto al presunto utilizzo di armi chimiche in Siria e chieda al governo di dissociarsi da tali inopportune eventuali azioni. Non è possibile – prosegue – immaginare che Assad nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere abbia utilizzato armi chimiche che avrebbero scatenato la reazione internazionale. Oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida. Auspico, pertanto, che il governo si dissoci”» (il Giornale.it). Forse nemmeno su Contropiano si leggono difese così accorate e puntuali del regime di Damasco!

Il Premier Gentiloni, non ancora scaduto, dice che l’uso dei gas contro la popolazione da parte del regime di Damasco va certamente condannato e duramente sanzionato dal diritto internazionale, e che tuttavia «dobbiamo lavorare per la pace»: che sant’uomo! Il Partito Democratico accusa Matteo Salvini e «l’ammucchiata di destra» di voler portare l’Italia fuori dal tradizionale quadro di alleanze internazionali: sarà il compagno Salvini a guidare il “Nuovo Movimento per la Pace”? Certo è che per la Mummia Sicula ospitata al Quirinale la crisi siriana è un forte argomento da far valere nelle prossime consultazioni politiche con i partiti in vista della formazione del nuovo governo.

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Come spiegare l’improvvisa accelerazione della crisi siriana? Ciò che mi sento di dire con una certa sicurezza è che l’ipotizzato uso di gas da parte del macellaio di Damasco non c’entra niente.

Per gli Stati Uniti si tratta di rintuzzare l’espansione geopolitica della Russia in un’area strategicamente importante come rimane indubbiamente il Medio Oriente; una Russia che, come dimostra il suo attivismo in Europa (vedi la crisi ucraina ma non solo), non vuole retrocedere dal rango di potenza mondiale conquistato nella sua precedenza configurazione politico-istituzionale – naturalmente alludo all’Unione Sovietica, crollata miseramente alla fine degli anni Ottanta inizio anni Novanta. In questa legittima aspirazione il Paese oggi condotto con mano ferma da Vladimir Putin, un faro politico-ideologico per il fronte sovranista europeo (ieri Salvini ha dichiarato che non si fanno le guerre sulla base di un presunto uso di armi chimiche), è spalleggiato dalla Cina, ossia dalla potenza che contende agli americani il primato assoluto nella competizione capitalistica mondiale. Le merci e i capitali Made in Cina ormai dilagano dappertutto e ciò non può non irritare Washington, che difatti sta reagendo all’ascesa imperialistica di quel Paese mettendo in atto una serie di misure economiche e politiche il cui impatto potremo valutare nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Oggi colpire la Russia significa per gli Usa colpire anche la Cina, e viceversa. Con ciò non voglio affatto dire che gli interessi della Russia coincidono perfettamente e strategicamente con quelli della Cina; qui è il breve/medio periodo che importa prendere in considerazione.

Detto questo, non possiamo d’altra parte dimenticare che solo qualche settimana fa Trump aveva dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero presto abbandonato la regione siriana presidiata dal loro esercito (oltre duemila soldati), abbandonando così i curdi al loro triste destino, come peraltro sta dimostrando la campagna turca di sistematico annientamento dei curdi chiamata cinicamente ramoscello di ulivo. Certamente l’annunciato disimpegno americano ha irritato non poco l’Arabia Saudita, impegnata in un duro confronto con l’Iran nello Yemen, e Israele, la quale teme più di ogni altra cosa che Trump possa rinverdire la politica di appeasement con il regime iraniano di obamiana memoria. Non sono insomma da escludersi pressioni su Washington da parte degli alleati regionali, impauriti dalla prospettiva di perdere il sostegno militare statunitense.

Per Israele si tratta di reagire a una sfida esistenziale che ha nell’Iran la sua punta più affilata; com’è noto, Teheran si serve degli Hezbollah libanesi e dei palestinesi di Hamas, attivi nella striscia di Gaza, per controllare, colpire e logorare il regime israeliano, il cui “pacifismo” si sta peraltro esercitando in questi giorni anche sui palestinesi inermi. Come dimostra la “guerra dimenticata” nello Yemen, l’Iran è senz’altro la potenza regionale in ascesa nel quadrante Mediorientale, a spese soprattutto dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, della Turchia e, appunto, di Israele.

Secondo molti analisti basati in Medio Oriente, Mosca avrebbe consentito l’uso da parte dell’esercito regolare siriano di cloro o di agenti chimici ancora più potenti per accelerare la resa dei “ribelli” ancora presenti a Douma. Si tratta di «gruppi islamisti sostenuti dall’Arabia Saudita quali i qaedisti di Jabat Fatah al-Sham e soprattutto di Jaish al-Islam (“Esercito dell’Islam”), i quali hanno respinto gli accordi dei giorni scorsi, accettati da altri gruppi, di essere accompagnati con le loro famiglie in autobus nella provincia di Idlib, com’è stato per i combattenti della battaglia di Aleppo, ed anzi, hanno continuato a bombardare Damasco con i mortai» (Notizie Geopolitiche). È comunque un fatto che i “ribelli” di Douma hanno accettato di trasferirsi con le loro famiglie nel Nord del Paese: «Gradualmente la Siria mostra un nuovo assetto, certamente seguito all’incontro del 4 aprile ad Ankara tra il presidente russo Vladimir Putin, quello iraniano Hassan Rohai e quello turco Recep Tayyp Erdogan: a nord e per tutta la provincia di Idlib vi sarebbero gli oppositori con le popolazioni turcomanne, mentre i curdi sono respinti dall’esercito turco a est e il resto del paese sarebbe sotto il controllo di Damasco». Come sempre, è la violenza degli eserciti che disegna sul terreno le mappe geopolitiche, e le classi subalterne non possono far altro che subire gli interessi delle Potenze, grandi o piccole che siano, e i loro mutevoli rapporti di forza.

Non possono far altro, beninteso, fin quando esse rimarranno inchiodate politicamente, ideologicamente e psicologicamente al carro del Dominio. La tragedia planetaria che viviamo non ha nulla a che fare con il destino cinico e baro, ed è spiegabile perfettamente in termini di interessi e di violenza di classe.

Leggo da qualche parte: «L’attacco chimico di Ghūṭa è un episodio occorso la mattina del 21 agosto 2013 durante la guerra civile siriana in cui alcune aree controllate dai ribelli nei sobborghi orientali e meridionali di Damasco, sono state colpite da missili superficie-superficie contenenti l’agente chimico sarin. Ribelli e governo siriano si accusano a vicenda di aver perpetrato l’attacco». È quindi dall’estate del 2013 che in Siria i diversi contendenti di una guerra sempre più feroce e internazionale usano “agenti chimici” per annientarsi a vicenda, senza mostrare alcun interesse per l’impatto che le armi “non convenzionali” hanno sui civili. In sette anni di guerra si contano circa 85 attacchi con armi chimiche. Del resto, le armi cosiddette convenzionali non sono affatto meno terribili di quelle dichiarate illegali dal diritto internazionale, che poi altro non è se non il diritto dei più forti di stabilire le regole del gioco. Un “gioco” che, come anche i bambini ormai sanno, ha il nome di contesa per il potere sistemico: economico, politico, militare, ideologico, psicologico. Con o senza l’uso di armi chimiche di qualche tipo, in Siria sono morti oltre quattrocentomila civili, e dunque perché indignarsi solo quando i media ci mostrano le conseguenze sulla popolazione civile di quelle armi?

A proposito di Diritto Internazionale, in un post del 2015 dedicato alle Barrel Bombs usate dal famigerato perito chimico di Damasco (parlo di Assad, ovviamente), mi chiedevo retoricamente: «Non sarà che all’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo (a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia?». Leninianamente parlando definivo l’Onu come «un covo di briganti». «Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica». Così scriveva tre anni fa Lucio Caracciolo su Limes, in un articolo che auspicava «una nuova Yalta», la sola che potrebbe mettere un po’ di ordine al tanto caos che “sgoverna” il Nuovo Ordine Mondiale post Guerra Fredda: «Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. L’obiettivo di qualsiasi ordinamento: la riduzione della complessità. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopolitica».

Naturalmente tutti i protagonisti del Sistema Mondiale del Terrore sostengono che «il dialogo è la sola via», ma intanto preparano o fanno la guerra, direttamente o per “procura”, con le armi che hanno a disposizione: dal gas nervino alla Massive ordnance air blast; dalle tecnologicamente arretrate (ma quanto efficaci!) barrel bombs ai più sofisticati e “intelligenti” Tomahawk. Mikhail Gorbaciov, l’ex statista odiato dai nostalgici dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda, si è detto «enormemente angosciato» per i recenti sviluppi negativi nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia, e dopo aver evocato la crisi dei missili a Cuba del 1962, ha caldeggiato un immediato incontro “pacificatore” tra Putin e Trump.  Intanto il Presidente americano si diverte a “bullizzare” il Presidente russo: «La Russia minaccia di abbattere tutti i missili sparati verso la Siria. Tieniti pronta Russia, perché stanno per arrivare, belli, nuovi e “intelligenti”! Non dovreste essere alleati di un animale assassino che uccide la sua gente con il gas e si diverte! Le nostre relazioni con la Russia sono peggiori di quanto non lo siano mai state, compresa la Guerra Fredda. Non c’è ragione per questo». E se si trattasse di una ragione chiamata Potere Mondiale? Avanzo una mera ipotesi, sia chiaro.

Insomma, osservo con disgusto estremo l’ennesima ipocrisia politico-diplomatica-mediatica intorno all’ennesimo massacro di civili siriani ottenuto con l’uso di gas. Da parte di chi? Da parte dell’«animale assassino» di Damasco, che si regge in piedi solo grazie all’appoggio della Russia e dell’Iran, e che in passato ha fatto largo uso delle citate Barrel Bombs, o dei suoi oppositori interni, appoggiati (con alterne vicende) dagli Stati Uniti, da Israele, dalla Turchia e dall’Arabia Saudita? Alle mie orecchie questa domanda suona del tutto priva di senso, sotto tutti i punti di vista. Non solo la guerra non è, in generale e notoriamente, un “pranzo di gale” e i nemici si combattono fra loro usando tutti i mezzi a loro disposizione, spessissimo prendendo scientemente di mira i civili per conseguire nel modo più rapido e “economico” possibile obiettivi strategici di grande importanza (lo abbiamo visto su una scala gigantesca in Europa e poi in Giappone nel corso del Secondo Macello Mondiale definito dai vincitori “Guerra di Liberazione”); ma in questa guerra c’è in gioco solo il Potere sistemico cui ho accennato sopra, e non un solo “valore” che sorrida alla vita delle classi subalterne. Non uno.

«I governi terroristi di Israele e degli USA sono un pericolo terribile per tutti noi e vanno fermati nel nome del futuro dell’umanità». Così ha scritto l’altro ieri Carlo Formenti, esponente di punta di Potere al popolo, sempre a proposito della “sporca guerra” siriana. Sottoscrivo! Ma un momento! Qualcosa non mi torna: e il regime siriano, dove lo mettiamo? E la Russia di Vladimir Putin? E l’Iran di Hassan Rohani? E la Turchia di Recep Tayyip Erdogan? Senza contare la Francia di Emmanuel Macron che sta cercando in tutti i modi di incunearsi fra le contraddizioni degli “alleati” della Siria per acciuffare qualcosa in termini di posizionamento geopolitico nella delicatissima regione Mediorientale. Per come la vedo io, terroristi e nemici dell’umanità sono tutti i carnefici in campo, comprese le forze che si contrappongono militarmente al regime di Assad solo per sostituirlo con un regime altrettanto reazionario. Inutile dire che si tratta di un terrorismo messo al servizio di enormi interessi economici, strategici, militari, politici. Certamente, il concetto di imperialismo sintetizza benissimo la questione.

Per taluni sedicenti antimperialisti esiste un solo imperialismo, quello americano-israeliano (sai la novità: è dai tempi di Stalin che la cosa va avanti!), mentre gli imperialisti concorrenti vanno in qualche modo sostenuti per rafforzare la lotta delle classi subalterne contro l’imperialismo. Che geniale astuzia dialettica! Ma non si tratta di “contraddizioni in seno al popolo”; non si tratta di “compagni che sbagliano”: si tratta piuttosto di personaggi orientati politicamente da un punto di vista ultrareazionario, ossia filo-capitalistico e filo-imperialista. Questi personaggi hanno sposato la causa del capitalismo (vedi il Venezuela di Maduro, ad esempio) e dell’imperialismo di certi Paesi (vedi Russia, Cina, Iran*) perché sono attratti da regimi forti e autoritari (purché ostili agli Usa e a Israele), meglio se fondati su un capitalismo di stampo statalista, che poi essi vendono al mondo e a se stessi, in tutta buona fede, come «Socialismo del XXI secolo». Purtroppo è il solo “socialismo” che questi sinistri personaggi conoscono e comprendono. Molte volte ho avuto modo di polemizzare con qualcuno di loro; c’è chi crede in buona fede di partecipare alla “lotta di classe concreta” come si dà nel XXI secolo, mentre in realtà si muove sul terreno della geopolitica, ossia dello scontro interimperialistico, e così si schiera con una fazione del Sistema Mondiale del Terrore in odio all’altra.

* Il fascio-stalinista Diego Fusaro, sempre più ridicola caricatura di se stesso, è arrivato a definire l’Iran «uno Stato eroicamente resistente al mondialismo imperialistico, e che, come tale, già da tempo è stato designato come bersaglio privilegiato da parte della monarchia del dollaro e delle sue colonie asservite (Italia in primis, ovviamente). […] La Sinistra del Costume, dal canto suo, anziché resistere e opporsi a queste pratiche in nome della leniniana lotta contro l’imperialismo, le legittima in nome dei diritti umani con bombardamento etico incorporato e della democrazia missilistica d’asporto. Dov’è finita, in effetti, la sinistra? Perché non lotta contro l’imperialismo, come fece Lenin? Perché non difende gli Stati resistenti al mondialismo capitalistico e anzi si adopera perché vengano invasi militarmente?». Lenin arruolato, si spera suo malgrado, nello scontro interimperialistico e nelle risibili beghe tra i diversi spezzoni della sempre più confusa, miserabile ed evanescente (speriamo!) sinistra italiana. Sinistra Sovranista e Populista, la quale assimila Lenin al virile Putin, ad Assad, a Rohani e ad altri “eroi dell’imperialismo” di simile escrementizio conio, versus «Sinistra dei Costumi», che ha sposato i valori della «Destra del Danaro»  e che «confonde l’internazionalismo con l’europeismo e il cosmopolitismo», che lotta «contro il burka e per la minigonna»: una bella partita, non c’è dubbio. Il fatto che la lettura che «l’ultimo marxista» (strasic!) Diego Fusaro fa del mondo sia perfettamente sovrapponibile a quella di Massimo Fini, ciò non solo non è paradossale o sorprendente, almeno per chi non si lascia abbacinare dalla fraseologia pseudomarxista del primo, ma è perfettamente coerente con la “concezione del mondo” (ultrareazionaria) dei due personaggi. Se mi occupo, sempre più controvoglia, di queste ridicole e miserabili cose è solo perché spero (mi illudo?) di poter convincere anche un solo militante della “sinistra”, più o meno estrema/radicale, che da quella parte c’è solo conservazione sociale, esattamente come a destra.

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LA RESA INCONDIZIONATA DEGLI AMICI DEL MACELLAIO DI DAMASCO
LA QUESTIONE SIRIANA E LA MALATTIA SENILE DEL TERZOMONDISMO
ANCORA SULL’INFERNO SIRIANO

C’È ANCORA QUALCOSA DA BOMBARDARE AD ALEPPO?

18-1-600x400«Qui giace Aleppo», scriveva ieri Libération, nella sua ennesima denuncia della pavidità esibita in questi anni dall’Occidente democratico, nonché inventore dei «diritti umani», nei confronti del ben più assertivo e spregiudicato Putin – che proprio ieri è stato scelto da Forbes, per il quarto anno consecutivo, come persona più potente del mondo: «Dal suo Paese, fino in Siria, passando per le elezioni americane, Putin continua a ottenere quello che vuole». Che soddisfazione per i tanti figli di Putin italiani che stravedono per il virile Vladimir, il quale sempre ieri ha ricevuto dal regime iraniano le «vivissime congratulazioni» per i successi militari russi mietuti a Palmira e ad Aleppo.

Aleppo come Grozny? Forse anche peggio, magari solo per confermare la macabra – ma quanto veritiera! – tesi secondo la quale il peggio non conosce misura. Aleppo. Una città che ha (o forse dovrei scrivere aveva) alle spalle una lunghissima storia; la città che fino al 2011 era considerata la capitale economica della Siria. Oggi di quella città non rimane che un cimitero di uomini e un deserto di edifici sventrati. La guerra di sterminio (o di “pulizia” politica, etnica e religiosa) organizzata e portata avanti con inaudita ferocia da Bashar al-Assad, con il decisivo apporto della Russia putiniana, dell’Iran e dei miliziani libanesi di holzebollha, sembra volgere al termine. Infatti, è rimasto ben poco da bombardare, da catturare, da fucilare, da torturare. «Ancora tre settimane fa», scriveva ieri Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera, «si parlava di 250.000 persone intrappolate nelle zone orientali. Ora sono ridotte forse a 50.000. Gli altri sono nelle mani del regime e tutto ciò inquieta, fa paura. Per molti aspetti una tragedia annunciata. Già all’inizio delle rivolte contro il regime nella primavera 2011 le manifestazioni pacifiche furono represse nel sangue con violenza inaudita e sproporzionata. Mosca e Damasco li chiamano “terroristi”. Ma sono di civili le grida di aiuto che giungono da Aleppo. “Ci massacrano. Aiutateci! Gli sciiti di Hezbollah e i miliziani di Assad selezionano gli uomini quando si arrendono con le loro famiglie. Li prendono, li picchiano e poi spariscono. Non sappiamo più nulla di loro. Ma sentiamo spari, tanti spari. Che li stiano già fucilando?”, ci diceva via Skype dal quartiere circondato di Salaheddin tre giorni fa Ismail Alabdullah, noto Casco Bianco (come vengono chiamate le squadre di soccorso che cercano i sopravvissuti tra le macerie). “Non so se potrò parlare ancora. Ci stanno bombardando”, diceva a sera tarda domenica. Ora il suo numero tace». Speriamo che sia solo «il suo numero» a tacere. Ma l’ottimismo qui ha davvero poco senso.

«Il dramma di Aleppo – scrive Alberto Negri sul Sole 24 Ore di oggi – è che i guerriglieri di Al Nusra tengono in ostaggio i civili e non intendono arrendersi alle condizioni del regime di Damasco. A loro volta le truppe di Assad non esitano a bombardare a tutto spiano anche i civili. Gli iraniani non vogliono mollare i jihadisti di Aleppo se non in cambio della fine dell’assedio degli sciiti di Fuaa e Kefraya nell’area di Idlib. La Russia e la Turchia (che con l’Iran si troveranno a Mosca il 27 dicembre)  fanno finta di negoziare per salvare la faccia: Putin non vuole passare come il macellaio di Aleppo ed Erdogan deve farsi perdonare di avere mollato i jihadisti che ha sostenuto fino a ieri contro Assad prendendo i soldi dalle monarchie del Golfo. Gli Stati Uniti […] hanno molto da nascondere e poco da dire di fronte alla sconfitta. Quasi ne uccide più l’ipocrisia che le bombe». Più che di ipocrisia io parlerei, più realisticamente e al di là dei soliti infantili piagnistei sui «grandi della Terra che non riescono a trovare un accordo per il bene della pace e dell’umanità» (e la coscienza è soddisfatta!), di guerra per il potere – politico, militare, economico, ideologico. E questo vale per tutti i protagonisti della carneficina, i quali da anni tengono in ostaggio il popolo inerme di Aleppo e dell’intera Siria. Analogo discorso ovviamente vale per la guerra nello Yemen. Un conto è il linguaggio della guerra, che dice sempre la verità (basta intenderla); un conto affatto diverso è il linguaggio della propaganda di chi difende e ricerca il potere per mezzo della guerra. Tutto il resto è… ipocrisia.

Il regime di Assad ha – per adesso, in attesa di una futura “soluzione diplomatica” del conflitto – salvato la pelle. «La vittoria del regime su Aleppo sarebbe un duro colpo per l’opposizione: Damasco avrebbe così il controllo delle quattro maggiori città del paese. Tuttavia, questo avvenimento non segnerebbe la fine del conflitto civile, cominciato nel 2011. Resta dubbia la capacità delle forze governative di mantenere il controllo dei territori riconquistati, nonostante l’intervento russo abbia consentito ad Assad di cambiare le sorti del conflitto e guadagnare terreno» (The Post Internazionale). La sorte del regime siriano è completamente nelle mani della Russia e dell’Iran, e la cosa appare evidente soprattutto ad Assad, che infatti teme di essere sacrificato, prima o poi, sull’altare di un accordo tra la Russia di Putin e l’America di Trump («l’equazione sconosciuta», secondo la definizione di Le Figaro), magari con l’intesa dell’Iran e della Turchia. In ogni caso, alla «guerra di liberazione» del macellaio di Damasco possono dar credito solo certi inquietanti personaggi che animano l’escrementizio “campo antimperialista”.

«I presidenti di Russia e Turchia, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, hanno discusso del conflitto in Siria e “in particolare dello sviluppo della situazione ad Aleppo” in una conversazione telefonica: lo ha riferito il Cremlino nella tarda serata di ieri, sottolineando che i due capi di Stato “hanno rimarcato la necessità di unire gli sforzi per migliorare la situazione umanitaria e facilitare il lancio di un vero processo politico in Siria”. Putin ed Erdogan hanno inoltre discusso della cooperazione tra Russia e Turchia, anche nel settore energetico» (ANSA). Insomma, la geopolitica e la geoeconomia macinano fatti, non si fermano davanti a niente e a nessuno, alla faccia di chi vede nell’inferno siriano (o yemenita) solo vecchi, bambini, uomini e donne affamati, assediati e uccisi: in guerra, per dirla con Diderot, «Di giusto, tutto sommato, basta avere la mira» (Il nipote di Rameau).

Non c’è dubbio, la Russia, l’Iran e il blocco sciita controllato da Teheran stanno portando a casa una bella vittoria sulla concorrenza geopolitica regionale e mondiale. I fascisti e gli stalinisti (camerati e compagni, ogni camuffamento “nuovista” è inutile dalle mie parti!) di casa nostra che negli ultimi cinque anni hanno sostenuto «la causa del Popolo siriano» (cioè, tradotto per chi non conosce il lessico del “Campo Antimperialista”, la causa del regime siriano) possono stappare con legittimo orgoglio qualche bottiglia di italianissimo spumante: quella vittoria – e il relativo bagno di sangue – è anche la loro vittoria. Gli si potrebbe obiettare che è facile “fare politica” con gli Stati e con gli eserciti – e che eserciti! – degli altri, ma bisogna pur concedere ai tifosi della squadra vincente qualche piccola soddisfazione.

Scriveva Lorenzo Declich lo scorso ottobre: «In questi ultimi tempi l’amore per Bashar al-Assad è riuscito ad allineare fascisti, alcuni comunisti, alcuni pacifisti, persino leghisti e – da ultimi – alcuni grillini. Ma com’è potuto succedere?». Non vorrei passare per quello che “la sa più lunga degli altri”, anche perché non è così, purtroppo; e tuttavia devo confessare che la cosa “paradossale” denunciata da Declich non mi sorprende affatto, tutt’altro. Come ho scritto negli ultimi post dedicati al cosiddetto populismo, gli estremi si toccano quando essi insistono sullo stesso piano – o terreno di classe, nella fattispecie. La metafora geometrica mi sembra abbastanza chiara. Fascisti e cosiddetti “comunisti” (in realtà si tratta di vetero o “post” stalinisti, gente che in ogni caso non ha nulla a che fare con l’autentico comunismo) condividono lo stesso terreno di classe (borghese/capitalista/imperialista), come sempre al netto di fraseologie “anticapitaliste” e “antimperialiste” che possono convincere solo qualche sprovveduto in materia di Capitalismo e di Imperialismo.

La tifoseria fascio-stalinista pro Assad e pro Putin, e lo stesso silenzio del cosiddetto Movimento Pacifista, così sensibile quando a bombardare e a massacrare in giro per il mondo sono stati gli Stati Uniti d’America, si spiegano benissimo con la tradizione antiamericana che nel nostro Paese è stata forte tanto a “destra” quanto – certo, soprattutto – a “sinistra”. Ancora prima della Seconda guerra mondiale molti fascisti, stalinisti e cattolici polemizzavano con lo stile di vita americano, e individuavano negli USA il cuore di quel demoniaco capitalismo «liberista-selvaggio» che ben presto avrebbe provocato il tramonto definitivo dei tradizionali valori prodotti dalla Civiltà europea. Mutatis mutandis, per certi personaggi siamo ancora a questo punto.

Per quanto riguarda l’attuale mutismo del “Movimento Pacifista”, mi limito a ricordare che è dagli anni Cinquanta che esso subisce la cattiva egemonia di partiti (a cominciare dal PCI di Togliatti) e di gruppi politici (la cosiddetta “estrema sinistra”) che nel pessimo mondo vedevano in opera un solo imperialismo – inutile specificare quale.

Scrive Marco Santopadre su Contropiano: «Ovviamente, al di là delle dichiarazioni di circostanza dei governi siriano e russo, sono numerosi i civili rimasti uccisi nelle ultime settimane sotto le bombe sganciate dai caccia o i colpi di mortaio sparati dai cosiddetti ribelli che hanno tentato di ritardare la loro sconfitta rifugiandosi negli edifici, nelle scuole, negli ospedali e nelle moschee. Quella siriana, d’altronde, è una guerra civile atroce, combattuta casa per casa, strada per strada. In una guerra del genere che coinvolge grandi città, non è pensabile che la popolazione civile non venga massicciamente colpita». Si sa, la «guerra civile» non è un pranzo di gala, «non è pensabile che la popolazione civile non venga massicciamente colpita»: cerchiamo di essere realisti! «Non posso andarmene da Aleppo perché faccio parte del personale medico e questo vuol dire che agli occhi del regime sono un terrorista», racconta un infermiere al quotidiano britannico The Guardian. È la «guerra civile», bellezza! E poi, perché rilasciare simili dichiarazioni a un quotidiano occidentale che fa parte del mainstream mediatico venduto ai poteri forti occidentali?

«Ma salta agli occhi», continua Santopadre, «la intollerabile partigianeria delle versioni diffuse dai media e dalle classi politiche occidentali. Se le conseguenze sui civili degli attacchi e dei bombardamenti su Aleppo o prima su altre città da parte delle truppe siriane o delle forze russe vengono fedelmente riportate e spesso anche amplificate, le vittime degli analoghi raid compiuti dai caccia statunitensi o francesi o britannici o dalle artiglierie turche vengono sistematicamente ignorate, e scompaiono dalle cronache. […] Se è vero che una parte della popolazione di Aleppo ha reagito con terrore e preoccupazione all’ingresso nei quartieri orientali delle truppe siriane e degli alleati russi, iraniani e libanesi, temendo ritorsioni per aver collaborato con i jihadisti o aver apertamente parteggiato per loro, è altrettanto vero che una parte consistente degli abitanti della seconda città del paese è scesa in strada a festeggiare la tanto attesa liberazione. Perché sostiene il regime, perché ritiene il regime il male minore rispetto al terrore jihadista, perché spera semplicemente che la Siria possa tornare presto alla normalità dopo anni di scontri feroci, di morti, di distruzioni. Ancora: è possibile dar credito alla versione secondo cui i bombardamenti russi su Aleppo causino sempre vittime tra i civili mentre quelli statunitensi su Mosul o Raqqa si limitino a eliminare, “chirurgicamente”, i capi di Daesh senza colpire coloro di cui i jihadisti si sono circondati per ritardare l’avanzata dei nemici?». In buona sostanza, secondo Santopadre per combattere la propaganda dei «media mainstream occidentali», che «occultano sistematicamente le notizie non conformi», bisogna prendere per buona la propaganda orchestrata dal regime siriano e dalla Russia (*). Come non inchinarsi dinanzi a questa stringente logica “antimperialista”? O si sta da una parte della «guerra civile», o si sta dall’altra: l’autonomia di classe non è nemmeno concepita in linea di principio. E ciò non mi stupisce affatto conoscendo certi polli.

Tra l’altro il nostro “antimperialista” non fa nemmeno un accenno al ruolo decisivo che il regime di Assad ha avuto all’inizio della crisi siriana deflagrata nel marzo del 2011, e «da subito tramutatasi in scontro armato indiretto tra un numero consistente di potenze locali e internazionali». Da subito? Scriveva Francesco Tronci nella sua interessante lettera al Popolo della sinistra: «Non c’era Daesh in Siria, non c’erano le armi, non c’era la guerra, non c’era neanche la richiesta di rovesciare il regime: i manifestanti chiedevano delle riforme, e solo dopo mesi di brutale repressione passarono dalla richiesta di riforme al chiedere la caduta di Assad. Non c’era perciò alcun elemento su cui fondare quella subdola propaganda che in seguito avresti usato contro la rivoluzione siriana. Non c’era niente di tutto questo, ma guarda caso non c’eri nemmeno tu. […]  Era il 2012 quando i governi d’Europa e il governo degli Stati Uniti, coloro che avevano i mezzi per supportare le forze progressiste, decisero di lasciare che la Siria bruciasse. Per anni i siriani hanno combattuto per la libertà contro questi barbari, per anni hanno chiesto un aiuto di base per assicurarsi che la libertà inizialmente conquistata nel 2011 dal movimento popolare pacifico potesse essere goduta fuori dalla portata della barbarie: di Assad e dei suoi barili bomba, dei gas mortali e del napalm; dell’Iran, con i suoi squadroni della morte, le sue milizie ed il suo costante flusso di soldi e armi; della Russia e della sua aviazione, dei suoi missili, i carri armati, il fosforo bianco e una diplomazia imperialista che consente il genocidio. Non arrivò nessuno ad aiutarli, nessuna solidarietà giunse in maniera organica dalla sinistra mondiale e da parte tua, popolo della sinistra, neanche quando la rivoluzione non aveva ancora imbracciato le armi e i manifestanti pacifici venivano massacrati dal regime, incarcerati, torturati». Sperare che l’imperialismo occidentale (europeo e americano) potesse correre in aiuto della «rivoluzione siriana» mi sembra quantomeno frutto di un pensiero politicamente ingenuo, né penso si possa parlare, in generale, delle cosiddette Primavere arabe nei termini di «rivoluzioni», cosa che ovviamente non implica (non ne vedo i minimi presupposti) sostenere i regimi contestati nelle piazze arabe né imputare al solito complotto targato USA-ISRAELE il malessere sociale della popolazione mediorientale. Sulla natura sociale delle Primavere arabe rimando ai miei post dedicati al tema (ad esempio: Si fa presto a dire “rivoluzione”, Teoria e prassi della “rivoluzione”. A proposito della “Primavera Araba”).  La lettera di Tronci è interessante soprattutto perché l’autore si sente parte di quel «popolo della sinistra» che sta dando un pessimo spettacolo «agli occhi della storia»: «Questa lettera che ho deciso di scriverti nasce da un moto impetuoso di indignazione e sconcerto.  […] Per questa ragione, popolo della sinistra, dovremmo tutti vergognarci». Naturalmente l’invito non mi riguarda, non avendo io mai fatto parte del «popolo della sinistra». Almeno questa vergogna mi sia risparmiata!

Scriveva il già citato Declich: «Possiamo discutere quanto vogliamo del comportamento degli americani in Siria, in Medio Oriente e nel mondo. Possiamo fare una storia dell’imperialismo americano, costellata di fatti terribili e intollerabili. Tuttavia dobbiamo aprire un altro capitolo, avendo sempre in mente che l’infamia di uno non cancella quella di un altro, e che non esistono imperialismi migliori degli altri. Esempio: radendo al suolo la Cecenia a partire dalla metà degli anni Novanta, Putin non ha combattuto contro l’imperialismo americano. Anzi, quando dovette finire il lavoro, all’inizio del nuovo millennio, lo si poteva vedere andare a braccetto con gli americani: tutto il mondo – e quindi anche i russi – diceva di fare la “guerra al terrore”. E ai russi fu dato semaforo verde in Cecenia. C’è chi, però, fa un ragionamento definito “campista”: si immagina che esista questo “Grande Imperialista americano” da sconfiggere, e che quindi tutti gli altri – cioè il campo opposto – siano i “buoni”, o che comunque servano la causa e dunque vadano bene. Nella realtà, però, questi campi non esistono». In realtà esiste un solo grande (quanto il nostro pianeta) e disumano campo: quello degli interessi economici, politici e geopolitici che fanno capo alle classi dominanti e ai loro Stati nazionali, piccoli o grandi che siano. «Non c’è più patria; da un polo all’altro non vedo nient’altro che tiranni e schiavi» (Diderot).

Solo dei servi sciocchi possono scindere – nella loro testa – il campo imperialista in Paesi “buoni”, o comunque “meno cattivi”, e Paesi decisamente “cattivi”, e decidere di appoggiare “tatticamente” i primi contro i secondi, credendo che questo sia il solo realistico modo di “fare politica”. Non c’è dubbio, così si fa politica: la politica delle classi dominanti, degli Stati, delle Potenze, degli imperialismi, grandi o piccoli che siano. La politica di chi si oppone all’imperialismo unitario (il campo che “ospita” la contesa interimperialistica) è ovviamente enormemente più difficile, e oggi essa appare perfino irrealistica, talmente forti sono le classi dominanti in tutto il mondo e tragicamente deboli le classi subalterne.

Non ho dunque messaggi di speranza per un “pronto riscatto” da comunicare al mondo? Oggi no. A volte è meglio non mettere nemmeno un po’ di zucchero nell’amara bevanda offertaci gentilmente dalla vita, e apprezzare per intero la condizione di impotenza politico-sociale che caratterizza la nostra, pardon: la mia esistenza.  (Non voglio coinvolgere nessuno nel mio pessimismo). Lo so che a Natale si può dare di più, ma pure  l’autoinganno ha i suoi limiti. Per acquistare un po’ di speranza a basso costo ci si può sempre rivolgere a Papa Francesco, o, male che vada, al “Campo Antimperialista”. Sic!

(*) Un solo esempio: «Chi chiede una tregua in Siria vuole in realtà “dare una possibilità” ai miliziani di respirare ed essere riforniti di armi, ha accusato senza mezzi termini il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov sostenendo che il blitz di Daesh a Palmira sarebbe stato reso possibile dalla tregua de facto concessa dalla coalizione internazionale a guida statunitense ai jihadisti di Mosul. Ieri il portavoce del ministero della Difesa russo, generale Igor Konashenkov, aveva dichiarato che ad Aleppo “nelle zone orientali sono state tenute come scudi umani dai terroristi più di 100 mila persone. Tutte queste, nel più breve tempo possibile, sono state evacuate dalla zona e hanno raggiunto le zone controllate dal governo siriano, ottenendo aiuto reale e cibo”» (M. Santopadre). Che brava gente! Altro che imperialismo russo!

IL PUNTO SULLA SIRIA E SUL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE

SYRIA-CONFLICT

La guerra contro il Califfato Nero è un mero pretesto politico, diplomatico e ideologico dietro il quale nascondere agli occhi della cosiddetta opinione pubblica internazionale la più classica delle competizioni interimperialistiche per il Potere: solo gli sciocchi e gli ingenui tardano a capire questa elementare verità che diventa sempre più evidente massacro dopo massacro, fallimento diplomatico dopo fallimento diplomatico – o gioco delle parti che dir si voglia.

«La Turchia si dice pronta ad affiancare l’Arabia Saudita in un’operazione di terra in Siria, se la Coalizione anti-Is appronterà questa strategia». Nel frattempo la stessa Turchia attacca i curdi, «che nell’area di Aleppo si battono contro l’Is», e, insieme all’Arabia Saudita, appoggia sempre più apertamente l’«opposizione democratica sunnita» che si batte contro il regime sanguinario di Assad. Mosca dichiara di voler intensificare, e di molto, i raid aerei per sradicare definitivamente lo Stato Islamico dalla Siria; lodevole – si fa per dire – intenzione che corrisponde in realtà a una promessa di morte consegnata all’opposizione armata siriana anti-Assad. Iraniani sul terreno e russi dal cielo: il macellaio di Damasco ha di che rallegrarsi, almeno per adesso. Bashar al-Assad sfoggia comunque il solito ottimismo: «Riconquisterò tutto il Paese ma potrebbe volerci molto tempo e un alto prezzo» – soprattutto in vite umane, si capisce.

Ancora più alto di quello già pagato dal disgraziato popolo siriano? Davvero il peggio non conosce limite. La martirizzata e inerme popolazione siriana è presa in mezzo dagli opposti interessi: c’è chi muore a causa di un raid aereo russo (ma anche le artigianali barrel bombs gettate sulla gente dagli elicotteri siriani fanno bene il loro sporco lavoro) o in seguito a una micidiale controffensiva terrestre dell’esercito “regolare” o delle milizie anti-Assad; c’è chi muore per fame, come gli internati nei campi di sterminio nazisti (Primo Levi lo aveva intuito: la radice del Male è ancora attiva; io dico: sempre più attiva), e ci sono le moltitudini che scappano dal teatro di guerra per andare a bussare alle porte della – cosiddetta – Fortezza Europa. Molti profughi, poi, sperimentano il mare d’inverno, o d’inferno, e muoiono in un macabro stillicidio che ormai non commuove più nessuno. La nostra soglia del dolore è molto adattabile alle circostanze, e l’etica deve fare i conti con la routine quotidiana.

obama-e-putin-in-siria-737216Intanto Washington continua a controllare la situazione a distanza di sicurezza (ma sempre più ravvicinata), lasciando agli alleati in loco il lavoro sporco; tuttavia un suo coinvolgimento diretto militare in Siria non è affatto scongiurato: «Il segretario di Stato Usa John Kerry in un’intervista a Orient Tv di Dubai avverte che se “il presidente siriano Assad non terrà fede agli impegni presi e l’Iran e la Russia non lo obbligheranno a fare quanto hanno promesso, la comunità internazionale non starà certamente ferma a guardare come degli scemi: è possibile che ci saranno truppe di terra aggiuntive». «Truppe di terra aggiuntive» a stelle e strisce? Il Presidente Obama assicura che non ci sarà un nuovo Iraq, ma sostiene anche che Putin e Assad devono smetterla di concentrare i loro sforzi nel tentativo, peraltro abbastanza riuscito, di annientare i «gruppi di opposizione legittimi». Ma su cosa si debba intendere per «gruppi di opposizione legittimi» e per «forze terroristiche» non c’è ovviamente comunanza di idee nei vari tavoli diplomatici e nelle Conferenze sulla “sicurezza e sulla pace”, le quali si esauriscano puntualmente in un nulla di fatto in attesa di poter ratificare i rapporti di forza creati sul campo. (Allora perché si tengono? Perché all’opinione pubblica e ai media bisogna pur vendere qualcosa: la propaganda non è un optional!). Come insegna la geopolitica di orientamento realista (la stessa che, ad esempio, in queste ore consiglia Roma a non polemizzare troppo con il Cairo), l’amico è per definizione legittimo, mentre il nemico facilmente viene rubricato come terrorista: il tutto si riduce dunque a questa realistica domanda: amico o nemico di chi?

Imminente sembra invece un intervento militare americano in Libia, in sinergia con gli alleati della Nato; l’operazione pare essere pronta fin nei dettagli e si tratterebbe solo di stabilire il momento più opportuno per renderla effettiva. Si parla comunque di pochi giorni. A quanto pare le aziende italiane presenti in Libia hanno già ricevuto l’ordine di rimpatriare il loro personale che si trova ancora presso i giacimenti. Per evitare discussioni con Roma, già scottata dall’intervento militare del 2011, all’Italia sarebbe chiesto solo l’uso logistico della base militare di Sigonella per i rifornimenti. Ma sul tipo di partecipazione militare dell’Italia nell’ambito di questa ennesima operazione “antiterroristica” rimangono diversi nodi da sciogliere. In ogni caso, il governo italiano rivendica un ruolo di primissimo piano nell’operazione, per i forti interessi economici che l’Italia vanta nel Paese africano, per la sua collocazione geopolitica e per il noto retaggio storico.

Il Premier russo Dmtri Medvedev ha dichiarato che le relazioni fra Russia e Occidente sono tornate al punto di «una nuova guerra fredda»; i leader dei Paesi dell’Est europeo un tempo “fraternamente” associati all’Imperialismo “sovietico” l’hanno subito corretto: dopo la Crimea e la Siria non si può più parlare di Guerra Fredda, ma piuttosto di Guerra Calda. Inutile dire che tutto questo parlare di nuova Guerra Fredda ha fatto venire i lucciconi agli occhi ai numerosi nostalgici del mondo precedente la caduta del Muro di Berlino: come sarebbe bello (per questi non invidiabili personaggi, s’intende) se il virile Vladimir si convertisse al “comunismo”!

«Siamo in una guerra perché il terrorismo ci combatte», ha detto il premier francese Manuel Valls dal pulpito della Conferenza di Monaco sulla Siria. No, siamo in guerra perché il Sistema Mondiale del Terrore da sempre terrorizza, sfrutta, saccheggia e massacra l’umanità e la natura. Come ho sostenuto altre volte, di questo sistema mortifero fanno parte tutte le nazioni, tutti gli Stati (eventualmente anche in guisa di Califfati Neri!), tutte le Potenze: grandi e piccole, globali e locali. Anche l’attivismo italiano in Africa e, ovviamente, in Libia deve essere letto alla luce di quanto appena scritto. Non dimentichiamo che i raid aerei francesi contro il regime di Gheddafi nel marzo 2011 ebbero come primo obiettivo gli interessi italiani in quel Paese che galleggia sul petrolio e sul gas, come peraltro non mancò di denunciare l’allora inascoltato e riluttante Premier Berlusconi, sbertucciato apertamente dalla Merkel e da Sarkozy. Ma allora i “pacifisti” osservarono il più assoluto silenzio, godendosi gli imbarazzi, le contraddizioni e le difficoltà del “puttaniere di Arcore”, amico dell’ex dittatore di Tripoli, oltre che di Putin.

Questo solo per dire che anche il Belpaese, nel suo piccolo, è parte organica del Sistema Mondiale del Terrore. Quando riflettiamo sul cosiddetto terrorismo di matrice islamica che viene a massacrarci in casa nostra, mentre beviamo una birra o ascoltiamo della musica, sforziamoci di allargare la nostra visuale fino ad abbracciare un terrorismo sistemico ben più grande, che lo comprende, e che ci dichiara guerra tutti i santi giorni.

«La minaccia», ha continuato il progressista Valls, «non diventerà minore. È mondiale. Ci saranno altri attacchi, attacchi su vasta scala, è una certezza. Questa fase di “iper-terrorismo” durerà a lungo, forse un’intera generazione, anche se dobbiamo combatterla con la massima determinazione». Di qui lo stato d’emergenza permanente dichiarato in Francia. Su questo punto rimando a un mio precedente post (Stato di diritto e democrazia). Ora, dal mio punto di vista ciò che appare più odioso non è tanto osservare i movimenti dei miei nemici (coloro che, a vario titolo, servono il Dominio), i quali dopo tutto fanno i loro interessi e il loro mestiere, secondo una logica del tutto comprensibile, sebbene spesse volte essa appare contorta nella sua fenomenologia politica; mi risulta assai più odioso constatare l’impotenza di chi subisce sulla propria pelle quegli interessi e quell’azione al servizio delle classi dominanti. Parlo della Siria, dell’Italia, della Francia, della Russia, della Cina: del mondo.

Il Manifesto l’altro ieri ha salutato Giulio Regeni con il solito invito, diventato ormai l’ennesimo luogo comune del politicamente corretto di marca sinistrorsa, a restare umani. Ma che “restiamo umani” d’Egitto! Piuttosto diventiamo umani. Devo essere sincero: la vedo brutta.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONFLITTO MEDIORIENTALE

SIRIA-DEFINITIVALa lettura dell’escalation politico-militare in atto in Medio Oriente fornita da tutti gli analisti di geopolitica, soprattutto da quelli specializzati in “trame” mediorientali, è sostanzialmente univoca e, a mio avviso, sostanzialmente corretta – rimanendo, beninteso, sul puro terreno della dialettica geopolitica. Si tratta, in primo luogo, dell’acuirsi di una tensione direttamente connessa alla lotta egemonica fra le due maggiori potenze regionali da sempre in irriducibile contrasto: Arabia Saudita e Iran. Siria, Iraq, Yemen: sono almeno tre i conflitti in corso nella regione mediorientale che vedono contrapposti, in modo sempre più scoperto, l’Iran e l’Arabia Saudita.

«Precipita la situazione tra l’Iran e l’Arabia Saudita a seguito dell’esecuzione della condanna a morte dell’ayatollah Nimr al-Nimr: gli aerei di Riyad hanno bombardato l’ambasciata iraniana a Sanaa, nello Yemen, paese dilaniato dalla guerra dopo il golpe degli sciiti houthi che ha portato al rovesciamento del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi. Per Rohani i sauditi “Non vogliono la stabilità e la pace nella regione per coprire i problemi interni e le politiche regionali fallimentari”. Difficilmente gli si potrebbe dare torto, se si pensa che dietro al conflitto siriano ci sono in primis le monarchie del Golfo, ma anche altri attori, che hanno tentato di strappare la zona di influenza ad Iran e Russia sostenendo anche economicamente non solo le opposizioni, ma anche i gruppi jihadisti cominciando da Jabat al-Nusra (diramazione di al-Qaeda in Siria) per arrivare all’Isis. Per lo Yemen la musica non cambia, salvo il fatto che lì le parti sono invertite, con le monarchie del Golfo in sostegno all’ancien régime, mentre gli iraniani stanno con gli insorti» (E. Oliari, Notizie geopolitiche).

La mattanza mandata in scena il 2 gennaio dal regime “moderato” saudita, aggravata dall’uccisione dell’ayatollah sciita Nimr Baqr al-Nimr, un «pio fedele» molto amato nel mondo sciita (è sciita il10-15% della popolazione saudita), ha certamente avuto il significato inequivocabile di una provocazione orchestrata da Riyadh contro gli alleati americani (in primis), gli europei (ai quali, come sempre, piace praticare anche in Medio oriente la politica dei “due – se non dei tre o quattro – forni”) e i russi, alleati di ferro di Teheran almeno dal crollo dell’ex unione Sovietica; ma si spiega anche con la necessità del regime di rafforzare il nazionalismo religioso saudita in un momento di acutissima, e potenzialmente devastante (per la monarchia regnante), crisi economica. Scrive Toby Matthiesen: «In tempi di crisi, la “minaccia sciita” viene usata per compattare attorno alla famiglia regnante il resto della popolazione, per la maggior parte composta da sunniti di diverse credenze» (Limes). Un classico nella gestione del conflitto sociale in ogni parte del mondo, a cominciare naturalmente dal civilissimo Occidente, il quale in fatto di intossicazione nazionalistica delle masse e di ricerca del capro espiatorio buono per l’occasione non ha mai avuto rivali. Il nazionalismo, a sfondo laico o religioso, è da sempre un veleno per le classi dominate e un’eccezionale riserva di stabilità sociale per le classi dominanti. «Fra tutte le forme di superbia», scriveva A. Schopenhauer, «quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale [o religioso, potremmo aggiungere]. Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione [o della religione] alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (Il giudizio degli altri, RCS).

Necessariamente lo scontro di enormi interessi strategici sopra evocato e lo stesso conflitto sociale interno ai Paesi del Medio e del Vicino Oriente devono assumere una parvenza religiosa, considerato il ruolo politico-ideologico che in tutta l’area geopolitica in questione ha da sempre giocato la religione. Ma non bisogna certo essere fan sfegatati di Carlo Marx per comprendere che la «guerra settaria» tra sunniti e sciiti da sempre esprime, copre, veicola e potenzia una lotta di potere “a 360 gradi”: dalla supremazia economica a quella politica, dall’egemonia ideologica a quella militare (vedi anche alla voce “guerre per procura”, con annesso  terrorismo)*. Scriveva Olivier Roy, studioso dell’Islam, dopo gli attentati terroristici di novembre a Parigi: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulmani”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità» (La Repubblica). Della cieca “radicalità”, della “radicalità” che non ha coscienza della radice sociale del problema, mi permetto di aggiungere. Per questo altre volte ho scritto che la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che se ne fa.

Secondo quanto scriveva il generale Carlo Jean nel 2001, «L’obiettivo principale di bin Laden non è quello di colpire l’America in quanto tale o per punirla per i torti fatti all’islam o in Palestina […] L’obiettivo principale è quello di sfruttare le frustrazioni delle masse islamiche, escluse dal benessere e dal potere politico nei loro paesi, per farle rivoltare contro i loro governi, amici dell’Occidente e prenderne il posto» (Limes, n. 4/2001). Esattamente questo significa usare la religione, o qualsiasi altra ideologia, a fini di potere. È facile vendere il Paradiso (peraltro popolato, a quanto pare, da vergini bellissime) a giovani che non hanno da perdere nulla (se non le famose catene) e che vivono in una condizione di tale disperazione, che la loro stessa vita è sottoposta a un forte processo di svalutazione, al punto che molti di essi gridano di non aver paura della morte, al contrario di noi occidentali, così attaccati ai beni materiali: «Noi amiamo la morte così come voi amate la vita, ecco perché non temiamo di trasformarci in bombe umane per colpire i miscredenti. Se il misericordioso Allah vuole, la vittoria è certa». (Forse, aggiunge il miscredente occidentale, il cui “scetticismo cosmico” fa peraltro inorridire anche i cosiddetti atei devoti e i teorici della morte dell’Occidente – molti dei quali tifano per il virile Vladimir Putin). L’etica del kamikaze è radicata nella cieca disperazione. Scriveva Hosokawa Hachiro, uno dei pochi piloti giapponesi sopravvissuti del «gruppo speciale d’attacco» (tokkotai) creato nell’ottobre del 1944: «Si trattava di veri e propri atti di disperazione militare. In varie situazioni di guerra gli uomini compiono azioni eroiche e disperate, sperando di ribaltare le sorti del conflitto. Di solito però sono azioni individuali. Ecco, forse per la prima volta nella storia militare la disperazione è stata organizzata in gruppo». Com’è noto, circa quattromila giovanissimi piloti giapponesi partirono per un viaggio di sola andata su aerei spinti più dai «venti divini» che dal carburante. Le classi dominanti hanno imparato bene a organizzare anche sul piano militare la disperazione delle masse giovanili.

Storicamente per la Persia lo sciismo, diventato religione ufficiale nel XVI secolo con l’Impero dei Safavidi, ha espresso la volontà del Paese, invaso nel VII secolo dopo Cristo dagli arabi islamizzati, di mantenere la propria autonomia nei confronti del mondo arabo sunnita e della Turchia ottomana.  «L’elemento caratterizzante dell’era safavide va piuttosto ricercato nel risorgimento nazionale del concetto di Iran, e quindi nella formazione di uno Stato che grosso modo corrisponde ancor oggi alla “moderna” nazione persiana, connotato fin dal principio da una sua caratterizzazione religiosa specifica – quella sciita duodecimana – e in netta contrapposizione con altri grandi Stati che caratterizzeranno il mondo islamico orientale sino ad epoche molto recenti, a iniziare a Occidente con l’impero ottomano, sino a Oriente, dove gli Uzbechi in Transoxiana e i Moghul in India produssero anch’essi questa “definitiva” delimitazione del proprio ambito “nazionale” » (M. Bernardini, Storia del mondo islamico (VII-XVI): il mondo iranico e turco, Torino, Einaudi). Secondo Alberto Zanconato, «Il conflitto attuale parte dall’Iraq, il Paese che nel 1980, ai tempi del regime di Saddam Hussein, attaccò l’Iran dell’ayatollah Khomeini in quella che molti a Teheran videro come una seconda invasione araba dopo quella del VII secolo.  Proprio il ricompattarsi del Paese contro questa minaccia consentì al nuovo regime, insediatosi solo da un anno e mezzo, di consolidare la sua presa sul potere. E a partire dal 2003, grazie all’attacco anglo-americano che abbatté il regime di Saddam, l’Iran ha guadagnato una forte influenza nel Paese vicino, grazie alla vicinanza con i nuovi governi sciiti a Baghdad e l’istituzione di forze paramilitari sciite coordinate da Teheran. In questo modo, grazie a George W. Bush, la Repubblica islamica è stata in grado di realizzare un sogno secolare, quello di stabilire una continuità geografica tra forze sciite sue alleate dal proprio territorio fino al Libano, attraverso l’Iraq e la Siria. Uno scenario che non può che inquietare lo schieramento a guida saudita e nel quale sono nate le guerre che stanno sconvolgendo la regione» (Ansa.it). Non c’è dubbio.

Le ultime mosse di Riyadh sembrano davvero dettate da uno stato di estrema debolezza e insicurezza del Paese, tanto sul fronte esterno quanto su quello interno. Sul fronte esterno: la Russia incrementa la sua presenza in Siria e rafforza la sua alleanza con l’Iran, potenza regionale sempre più in ascesa, mentre gli americani, che dal 1945 puntellano in ogni modo il regime saudita (nonostante la propaganda ufficiale “antiamericana” della monarchia saudita a uso interno e regionale), sembrano praticare una politica di appeasement nei confronti dell’odiato nemico persiano, come si è visto a proposito del programma nucleare iraniano. Da parte sua, Washington non fa niente per nascondere la sua irritazione per il “terrorismo petrolifero” organizzato dell’Arabia Saudita allo scopo di affogare nel petrolio lo shale oil a stelle e strisce. «L’Arabia Saudita, infatti, ha continuato a pompare petrolio ferocemente. Lo scopo della strategia del cartello OPEC è, ovviamente, quello di fare guerra agli Stati Uniti, sperando che il crollo dei prezzi del petrolio spinga questi ultimi fuori dal mercato, in modo tale da recuperare le quote di mercato perdute. […] La strategia di Ryad sta costando parecchio al Paese mediorientale. Secondo quanto riportato da Il Sole 24 Ore,  “Soltanto nel 2015 con la guerra dei prezzi sono stati bruciati dal Paese 150 miliardi di dollari”. Il deficit di bilancio dell’Arabia Saudita è salito a 98 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dalla BBC» (V. D’Onofrio, Notizie geopolitiche). Di qui, una spending review del bilancio statale saudita che rischia di mordere anche la media borghesia del Paese, peraltro piuttosto attiva nella timida “primavera” del 2011; allora il regime rispose somministrando agli oppositori l’esilio, il carcere e la pena di morte. Insomma, lo stesso trattamento che l’odiata Repubblica Islamica dell’Iran riserva ai suoi oppositori “terroristi”: tutto l’Islam è Paese, potremmo dire con un certo occidentalismo caro alle “destre” basate di qua e di là dell’Atlantico. Per non parlare del regime siriano, che nel marzo del 2011 decise di usare il pugno di ferro militare solo dopo alcune manifestazioni pacifiche di protesta, avviando una escalation di violenza che ha provocato circa 300 mila morti e milioni di profughi e sfollati. A tal riguardo, e solo en passant, occorre ricordare che il Califfato Nero, che nel 2010 appariva in ritirata sul fronte irakeno, approfittò proprio della violenza e del caos in Siria per riprendere l’iniziativa, sempre con il supporto finanziario e militare dell’Arabia saudita e del fronte sunnita nel suo complesso, Turchia compresa.

Scriveva Eleonora Ardemagni nel novembre 2013: «Le manifestazioni dei lavoratori stranieri in Arabia Saudita permettono di aprire una finestra su uno spaccato della Penisola arabica spesso trascurato: il rapporto fra i rentier-state e le comunità immigrate. […] La revisione della legge sul lavoro ha un obiettivo specifico: diminuire il tasso di disoccupazione fra i cittadini sauditi, stimato oggi al 12%. Nove dei 27 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita sono infatti stranieri, soprattutto africani del Corno, yemeniti e asiatici (pachistani e indiani su tutti). Il tentativo di “saudizzazione del lavoro privato”, a fronte di un settore pubblico ormai saturo, va incontro, però, ad almeno tre ostacoli. Innanzitutto, la riformulazione della normativa sta già producendo l’aumento del costo del lavoro, perché un lavoratore saudita costa più di un asiatico o di un africano.

Le nuove politiche del lavoro di casa Al-Sa‘ud potrebbero avere pesanti ricadute regionali. Il provvedimento sta infatti irrigidendo i rapporti fra il regno e  il vicino Yemen: lavorano in Arabia Saudita tra gli 800 mila e il milione di yemeniti. Le rimesse dei lavoratori provenienti dalla repubblica arabica rappresentano un’ancora di salvezza per la fragile economia di Sana’a. Anche se vi sono dati discordanti, gli yemeniti toccati dal provvedimento si attesterebbero fra i 300 mila e i 500 mila; solo negli ultimi dieci giorni 30 mila persone avrebbero oltrepassato la frontiera tra i due paesi per fare ritorno in Yemen. Manifestazioni di protesta si sono svolte già quest’estate a Sana’a e in altre città yemenite» (ISPI). Il conflitto in corso in Yemen va visto anche da questa prospettiva.

Per valutare i movimenti nella politica interna ed estera dell’Arabia Saudita non bisogna nemmeno sottovalutare lo scontro tutto interno al Consiglio per la cooperazione del Golfo (Ccg), che comprende, oltre quel Paese, che ne costituisce il centro motore (un po’ come la Germania nei confronti dell’Unione europea), il Bahrain, l’Oman, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait. Ebbene, il Qatar è sempre meno disposto ad accettare l’egemonia dell’Arabia Saudita, e la cosa si è manifestata da ultimo anche nella tempistica della rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran decisa Doha, ultima delle capitali del Consiglio a farlo. Gli attacchi di Riyadh ai «media ostili» stranieri (leggi Al-Jazeera) non si contano più. Scriveva la già citata Eleonora Ardemagni nel marzo 2014 (questa volta su Limes): «Il vincolo di solidarietà fra le monarchie della Penisola arretra dinanzi alla competizione per il rango politico, sia dentro l’organizzazione sia, più in generale, nella regione. I concetti di sovranità e di interesse nazionale tornano così in primo piano. Il tema della sovranità, oggi riproposto con forza dal Qatar, è in antitesi con il regionalismo monarchico a trazione saudita, che ha fin qui animato il processo decisionale del Ccg, inevitabilmente egemonizzato da Riyad. […] L’Arabia Saudita, con l’appoggio di Bahrein ed Emirati, ha avviato un’escalation diplomatica contro il Qatar, accusato di finanziare la Fratellanza Musulmana non solo in Egitto e Siria, ma anche all’interno della stessa Penisola».

L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata dalla famiglia al-Saud, al potere dal 1932. Salman bin Abdul Aziz al-Saud è salito sul trono nel gennaio 2015, in seguito alla morte del fratello Abdullah. Il Paese è il maggiore produttore ed esportatore di greggio al mondo; le esportazioni petrolifere costituiscono l’80-90% delle entrate statali, il 48% del pil della nazione e l’85% dei proventi delle esportazioni. Come accade per gli altri Paesi legati alla rendita petrolifera (dal Venezuela alla Russia), anche in Arabia Saudita la spesa pubblica è pianificata sulle stime degli introiti petroliferi, soprattutto nel settore pubblico, che ancora oggi gestisce quasi in monopolio l’industria petrolifera – attraverso la Saudi Aramco, la più grande impresa del Paese. Per superare la debolezza strutturale derivante dalla dipendenza dal prezzo del petrolio sul mercato mondiale, il governo saudita da qualche anno sta cercando di attuare politiche di privatizzazione e di diversificazione economica, soprattutto in campo energetico: produzione dei cosiddetti idrocarburi non convenzionali (shale gas/oil), costruzione di centrali atomiche in cooperazione con società statunitensi e giapponesi, realizzazione di “campi” idonei a catturare l’energia solare. Si parla anche della costruzione delle «economic cities», di «città integrate» realizzate con le infrastrutture tecnologicamente più avanzate del pianeta che dovranno svolgere la funzione di poli di sviluppo per l’insieme del Paese. Naturalmente la «modernizzazione capitalistica» non è ben vista da una parte della classe dominante del Paese e da settori interni alla stessa monarchia saudita, ossia da tutti quelli che temono di perdere potere sociale a beneficio di una borghesia più dinamica e moderna. È una dialettica interna a tutti i Paesi arabi e in parte anche all’Iran. Dall’Egitto alla Siria, la cosiddetta Primavera Araba ha mosso i suoi primi passi quando la lenta transizione dell’area del medio e del Vicino Oriente verso un’economia meno statalista, meno parassitaria, meno infiltrata dalla corruzione e più aperta ai flussi capitalistici internazionali ha iniziato a dare i suoi primi frutti sul terreno politico (timide aperture in direzione di riforme istituzionali di stampo “democratico”) e su quello delle contraddizioni sociali – la “modernizzazione capitalistica” non è un pranzo di gala! Ma mentre i progetti per una “rivoluzione economica” rimangono in gran parte ancora da implementare, ciò che ha avuto modo di concretizzarsi, almeno negli ultimi cinque anni, è stato un forte aumento della spesa militare; con una spesa pari a circa il 9% del Pil, secondo l’International Institute for Strategic Studies l’Arabia Saudita è il quarto Paese al mondo per spesa militare. Solo nel 2010 gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno sottoscritto un contratto per la fornitura di armi Made in Usa per un valore di oltre 60 miliardi. Anche Regno Unito e Francia fanno lucrosi affari con i “moderati” leader di Riyadh.

«Il Comitato No Guerra No Nato ricorda la guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli. Noi non mettiamo tutti sullo stesso piano. Questa guerra viene dall’Occidente. Il terrorismo viene dall’Occidente. La crisi mondiale viene dall’Occidente». Mi viene un malizioso sospetto leggendo una prosa che tanto ricorda la propaganda dei Partigiani della pace: per il Comitato di cui sopra la Russia e la Cina* (tanto per fare dei nomi) non fanno parte dell’odierno «sistema di guerra»? Per me sì. Che significa poi non mettere «tutti sullo stesso piano»? Per me, ad esempio, significa che, in quanto proletario italiano, debbo oppormi in primo luogo all’imperialismo italiano (trattasi dell’ABC in fatto di “internazionalismo proletario”, mi pare), cosa che ovviamente non mi impedisce di condannare tutti gli imperialismi del mondo, grandi, medi o piccoli che siano – vedi il concetto di imperialismo unitario**. Secondo Franco Venturini (vedi Il Corriere della Sera di oggi) l’orologio si è messo a correre sul fronte libico e l’Italia non deve perdere il treno, anche perché tutti i Paesi della coalizione anti-Isis le riconoscono una leadership naturale nell’ex colonia africana. Bisogna rendere operativa ed efficace questa leadership, prima che sia troppo tardi. Ne va, conclude Venturini, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana. Ecco, per me si tratta innanzitutto di opporsi agli interessi dell’imperialismo italiano in Libia e ovunque, ossia di contrastare la politica estera italiana – anche quella praticata da sempre dall’Eni.

Anche io sono contro la Nato (a tal riguardo posso “vantare” diverse manifestazioni e molti “campeggi antimilitaristi”, a partire da Comiso 1983), ma non certo nella prospettiva ultrareazionaria, quanto chimerica, di un’Italia «sovrana e indipendente» –  e magari pure “socialista”, come dicevano un tempo gli stalinisti d’ogni tendenza che egemonizzavano l’evocato movimento dei Partigiani della pace.

Scrive Fulvio Grimaldi: «Molte guerre vengono dimenticate: Jugoslavia, Afghanistan, Ucraina, le aggressioni israeliane a Libano e Gaza, addirittura qualcuno s’è scordato della Siria. La nonviolenza assurta a imperativo categorico e dogmatico getta indecenti ombre sulla resistenza di popolo in Siria, Iraq, ovunque si eserciti la criminalità imperialista». Anche qui è d’uopo la maliziosa domanda: Russia e Cina sono escluse dalla «criminalità imperialista»? E poi, che cosa si intende esattamente per resistenza del popolo siriano? Si allude forse al regime, supportato da Russia e Iran, del macellaio di Damasco, in arte Bashar al-Assad? In caso di risposta affermativa, l’allusione non sarebbe indecente ma escrementizia. A volte occorre abbandonare ogni eufemismo e ogni accortezza diplomatica.

* In questi giorni diventa operativa in Cina la “Legge Antiterrorista” emanata il 28 dicembre dall’Assemblea Popolare Nazionale, che prevede, fra l’altro, la possibilità per Pechino di inviare forze speciali in Siria per combattere lo Stato Islamico e le altre «organizzazioni terroristiche» (cioè tutti gli oppositori di al-Assad?). L’obiettivo è, secondo l’agenzia di regime Xinhua, quello di salvaguardare la sicurezza mondiale compromessa dai numerosi attentati in diverse parti del mondo. Non c’è dubbio: con L’esercito Popolare di Liberazione in giro per il mondo la “pace” è più sicura. Inutile dire che gli Stati Uniti non gradiscono nemmeno un poco l’attivismo “antiterroristico” cinese in Medio oriente: essi pretendono di operare in regime di monopolio in materia di “lotta al terrorismo”. Che pretese!

** Quando parlo di Imperialismo unitario intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964).

SALAMA KILA SULL’INFERNO SIRIANO

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«La sinistra ha in effetti continuato a interpretare le vicende siriane come un complotto dell’imperialismo americano contro le politiche di “resistenza” antistatunitense. A cosa è dovuto questo errore teorico? Perché di una teoria si tratta, per quanto possa aver condotto a una presa di posizione decisamente immorale» (S. Kila)

Voglio essere sincero fino alla brutalità e al settarismo più spinto (anche per giungere rapidamente al punto di caduta di questo breve post): l’”internazionalismo” di cui parlano molti “anticapitalisti militanti” si risolve in un antiamericanismo vecchio stile e in un antieuropeismo che strizza l’occhio a una prospettiva sovranista giocata in chiave antiglobal. Pura politica (e geopolitica) borghese, insomma. Borghese, ci tengo a precisarlo, nell’accezione ultrareazionaria che questo termine-concetto non può non avere nel XXI secolo, nell’epoca della Società-Mondo dominata dal Capitale. Insomma, non siamo più ai tempi del noto Manifesto di Marx ed Engels, quando nel cuore stesso dell’Europa la borghesia era “chiamata” dalla storia a recitare un ruolo rivoluzionario di eccezionale importanza, né ai tempi di Lenin, quando la politica comunista dell’autodeterminazione dei popoli ben si sposava con l’internazionalismo proletario (cosa che peraltro non impediva ai comunisti di allora di irridere ogni illusione circa l’autonomia reale delle piccole patrie nei confronti delle grandi potenze mondiali), e non siamo nemmeno negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, allorché la lotta di liberazione nazionale dei Paesi assoggettati al vecchio e al nuovo colonialismo ebbe anch’essa una connotazione storicamente progressiva, anche se la loro coloritura ideologica pseudo socialista (vedi la Cina maoista e molti altri Paesi asiatici e africani) andava ad alimentare l’acqua avvelenata del cosiddetto «socialismo reale» di marca stalinista. Oggi tutto il pianeta giace sotto il plumbeo cielo del rapporto sociale capitalistico, e la famosa (per alcuni famigerata) «Questione Nazionale» si dà, almeno nei suoi termini marxiani e leniniani, in forma del tutto marginale, residuale (il “classico” esempio è naturalmente quello palestinese), e certamente essa non riguarda la dialettica interna allo scontro interimperialistico fra Paesi di diversa potenza sistemica: l’ineguale sviluppo sistemico (economico, tecnologico, scientifico, militare), declinato sempre in termini dinamici e relativi, è infatti un dato ineliminabile della nostra realtà storico-sociale. Lo so, è facile passare dall’illusione delle piccole patrie all’illusione dei piccoli – ma quanto aggressivi, all’interno e all’esterno – imperialismi. Ma tant’è!

Per molti sinistri radicali, e così veniamo al punto, l’eroe del momento è il Putin che sostiene “sfacciatamente” il regime sanguinario di Bashar al-Assad in feroce lotta con gli altrettanto sanguinari soggetti nazionali e internazionali che gli contendono il potere sulla pelle di una popolazione sempre più stremata e ridotta a brandelli. Certi portatori d’acqua al mulino dell’imperialismo “più debole” (la Russia? la Cina? l’Iran?) si nascondono ancora dietro la teoria maoista del «Nemico principale», la quale (soprattutto nella sua traduzione occidentale) trasudava da tutti i pori conservazione sociale e violenza imperialista già al momento della sua elaborazione. Figuriamoci oggi, nell’epoca del dominio totale (o totalitario) del Capitale! Per questi personaggi l’autonomia di classe non è qualcosa che bisogna costruire qui e subito, nella dimensione nazionale come in quella internazionale (una distinzione, questa, sempre più “problematica”); non è la sola strada in grado di togliere le classi dominate dell’intero pianeta dalla condizione di subalternità nella quale si trovano, ma una locuzione che rimanda necessariamente a concezioni «dottrinarie e settarie» del conflitto sociale nonché a pratiche «minoritarie» incapaci di reale incisività. Naturalmente il problema, per un autentico anticapitalista, non è quello di essere incisivi “a prescindere” (magari sostenendo un imperialismo contro un altro imperialismo, una fazione borghese nazionale contro un’altra fazione, un «Piano B» tipo Varoufakis* contro un «Piano X» imposto da Tizio), ma di esserlo sul terreno della lotta di classe – che non pochi “comunisti” confondono con la lotta fra imperialismi di grande, media e piccola dimensione. Anche qui si può toccare con mano il maligno retaggio dello stalinismo (di qua il «Campo socialista», di là il «Campo capitalista»). Ma sulla sindrome della mosca cocchiera ho già scritto abbastanza nel recente passato.

È dunque sulla Siria che intendo richiamare l’attenzione del lettore, rinviandolo a un interessante articolo (La sinistra e la rivoluzione siriana) di Salama Kila, «uno scrittore e intellettuale palestinese. Per le sue posizioni contro il regime di Damasco è stato più volte arrestato, torturato ed infine espulso dalla Siria. Questo articolo è originariamente apparso sulla rivista Critica Marxista (n. 2-3/2015, Giugno 2015), che ringraziamo per la cortese concessione» (da Osservatorio Iraq). Già nel 2012 ho avuto l’occasione di richiamare l’attenzione sull’inferno siriano riportando un’analisi del conflitto sociale in Siria apparsa sulla stessa rivista.

Credo che la cosa possa essere di una qualche utilità, soprattutto nel momento in cui la guerra in Siria pare essere entrata in una nuova, più calda e “problematica” fase, sempre più connotata in senso schiettamente imperialista. Spero di ritornare quanto prima in modo più puntuale sulla guerra siriana, anche per mettere in luce l’interessante dialettica tra la “diplomazia armata” della Francia e la “diplomazia disarmata” dell’Italia, Paese che non vuole cedere ad altri la sua tradizionale zona di influenza in Medio Oriente e in Nord Africa: l’operazione-Gheddafi insegna!

Non condivido tutti i passaggi dell’articolo di Kila, ad esempio per ciò che riguarda la supposta natura «rivoluzionaria» delle cosiddette Primavere Arabe (d’altra parte, Marx definiva «rivoluzionario» il processo sociale capitalistico in quanto tale per la sua tendenza a rimodellare sempre di nuovo la “struttura” e la “sovrastruttura” della società: tutt’altro che raramente anche i movimenti sociali più “arrabbiati” rientrano in questo schema); ciò tuttavia non mi impedisce di cogliere e mettere in luce il maggior merito dell’articolo: mettere in luce «la “posizione immorale”, giacché arriva quasi a giustificare i crimini contro l’umanità commessi dal regime», di certa estrema sinistra “anticapitalista” e “internazionalista”. Buona lettura!

g5__700* Qualche giorno fa un mio amico mi metteva a parte della seguente riflessione: «Ma come fanno certi militanti dell’anticapitalismo radicale a nutrire illusioni perfino su personaggi ultrareazionari del calibro di un Lafontaine, di un Varoufakis, di un Fassina [e qui bisogna trattenersi dal ridere!], di un Melenchon, di un Corbyn?». Tsipras era incluso nell’elenco “anticapitalista” fino a qualche mese fa, prima del noto “tradimento” referendario; a me pare che il Compagno Papa possa prenderne degnamente il posto. Riprendo la lamentela dell’amico: «Come possono costoro credere che un simile personale politico al servizio, sebbene “da sinistra”, dello status quo sociale possa dare un qualche, anche minimo, contributo allo sviluppo della lotta anticapitalista? Davvero non riesco a capirlo. Solo un esorcista o un Freud potrebbe illuminarmi». A me, invece, basta e avanza il solito mangia crauti di Treviri. (Secondo la mia personalissima interpretazione, si capisce. Ma chi non interpreta, scagli la prima critica!).

In effetti è il mio amico a palesare, almeno ai miei settari occhi, un grave difetto concettuale: egli guarda infatti la faccenda da una prospettiva sbagliata, ossia puramente ideologica (se non addirittura semplicemente fraseologica: tipico dell’intellettuale in generale, e dell’intellettuale made in Italy in particolare); in altri termini l’amico prende sul serio lo sbandierato anticapitalismo degli “anticapitalisti militanti”, i quali più che farsi delle illusioni sui personaggi summenzionati ne condividono, nella sostanza, la concezione “dottrinaria”, la prospettiva politica, e magari anche i riferimenti alla storia passata e recente del “movimento operaio”: «Da Marx a Chávez». I «militanti dell’anticapitalismo radicale» di cui parla il mio amico concepiscono come “anticapitalismo” la lotta senza se e senza ma non al Capitalismo tout court ma piuttosto alla sua versione cosiddetta neoliberista (vedi i concetti di turbo-capitalismo, Capitalismo selvaggio, Finanzcapitalismo e via di seguito sfornati negli ultimi venti anni), e il “socialismo” che hanno in testa non supera di un millimetro la dimensione del Capitalismo di Stato. «Nazionalizzare le ferrovie, riaprire le miniere, imbrigliare banche, finanza e mercati, cantare Bandiera rossa, fare una dieta vegetariana, portare calze medio-basse con i bermuda, andare in bicicletta, tifare contro la Nato e per i palestinesi e finanche per Hamas» (Il Foglio, 15 settembre 2015). Questo programmino old style basta ad esempio a Giuliano Ferrara, e a gran parte dell’intellighentia occidentale di “destra” e di “sinistra”, per fare di Jeremy Corbyn l’ennesimo nipotino di successo di Marx. Ma forse è l’invidia che mi fa parlare! E poi chi scrive non è un «socialista e marxista senza complessi» come l’asciutto Corbyn – almeno secondo l’autorevole definizione del già citato Elefantino.

Limes, 1/10/2015

Limes, 1/10/2015

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