SOCIAL SOVRANISTI SU MARTE

Come salvare il Paese dalla crisi economica e riconquistare la sovranità sistemica (economica, politica, istituzionale) perduta. È l’assillo che angoscia i sinistri d’Italia, divisi in almeno tre scuole di pensiero. Ci sono gli europeisti convinti («senza se e senza ma»), gli europeisti timidi e “articolati” (Europa sì, ma “laicamente”; Euro no, ma forse un altro Euro è possibile: «Un’altra economia per una nuova Europa», scrive oggi Guido Viale sul Manifesto) e, dulcis in fundo, gli antieuropeisti sostenitori dell’uscita del Bel Paese praticamente da tutto: dall’Europa, dall’Euro, dal libero mercato, dalla globalizzazione, dal Capitale finanziario.

E dal Capitale tout court? Sto parlando dei sinistri, comunque “declinati”, vi siete distratti? Non sto mica parlando di quei dottrinari, nonché settari, che favoleggiano l’uscita rivoluzionaria del mondo dal Capitalismo («campa cavallo!»), e che, sulla scorta di questa prospettiva che giustamente fa sorridere tutte le correnti della «sinistra» nazionale e internazionale, si muovono nel presente per sostenere la resistenza dei salariati e dei disoccupati contro ogni tipo di politica dei sacrifici, non importa se “declinata” a «destra» o a «sinistra». A differenza di chi scrive, i sinistri sono persone serie, con i piedi ancorati saldamente a terra, e soprattutto hanno a cuore le sorti del Paese. Come altre volte ho scritto, il massimo di “rivoluzionario” che questi personaggi riescono a immaginare è il Venezuela di Chávez o la Bolivia di Morales. Ma anche l’Argentina delle nazionalizzazioni non è da disprezzare, ha, come si dice, “il suo perché”.

Nazionalismo economico e protezionismo: è il mantra dei sovranisti, di «destra» come di «sinistra» – questi ultimi, infatti, rinfacciano ai sinistri che non vogliono rompere con l’europeismo di essere «più a destra» di molti «destri» dichiarati. È un vero peccato, a questo proposito, che il direttore del Giornale Sallusti, teorico di una guerra (politica, tanto per iniziare) contro «le manie egemoniche della Germania votata al Quarto Reich», sia un uomo di «destra», persino fisiognomicamente parlando. Tuttavia, quando il «Bene Comune» (altrimenti detto Stato Nazionale, o Paese, o Patria) chiama, le distinzioni politiche tendono a evaporare, sotto la pressione delle scelte irrevocabili. Il Fascismo ha molto da insegnarci, il Nazismo ancor di più.

A proposito di Guido Viale! Ecco cosa scrive oggi quello che sembra essere diventato lo stratega del «giornale comunista» sul terreno della guerra economica in corso: «Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo» (Il Manifesto, 25 07 2012). Insomma, un gigantesco scontro di interessi, nazionali e sovranazionali, di varia natura (economici e politici, in primis), che peraltro attraversa le stesse classi dominanti dei singoli paesi (anche la Germania è divisa in filoeuropei e antieuropei, e non certo per motivi ideologici); una guerra sistemica di vasta portata, dicevo, è interpretata banalmente come il fallimento di una «classe dirigente» incapace di sostenere le sfide che la globalizzazione capitalistica ha lanciato al mondo intero.

La verità è che come molti sinistri, Viale è nostalgico del mondo prima della caduta del muro di Berlino, e questo la dice lunga sulla natura delle sue ricette politico-economiche improntate a «più Stato, meno mercato». La sua apologia della vecchia Europa (capitalistica), celata maldestramente dietro un mito sempre più logoro (le cosiddette «conquiste» del movimento operaio), trasuda pensiero reazionario da tutti i pori, e concorre ad alimentare l’ultradecennale impotenza delle classi dominate.

La corrente ultrasinistra perora la causa della bancarotta pilotata dello Stato, per sciogliere «da sinistra» la scottante questione del debito sovrano, e sostiene la necessità di una rigorosa politica keynesiana, a partire dall’introduzione di misure protezionistiche, cosa che ovviamente postula il rafforzamento del Leviatano, il solo che può coordinare e implementare quel tipo di politica. I militanti di questo partito (acronimo: SS) hanno un’idea fissa: l’«uscita a sinistra dalla crisi», ossia la salvezza e il rafforzamento del Capitalismo nazionale.

Colgo, in questo obiettivo che fa tremare le vene ai polsi (sia detto senza retorica…), una contraddizione con la loro dichiarazione di fede sinistrorsa? Assolutamente no. I sinistrorsi che a vario titolo si riconoscono nella «gloriosa storia del PCI» hanno sempre avuto un debole per il Paese, ossia per la Nazione, insomma per lo spazio sociale dominato dall’italianissimo Capitale (soprattutto per quello statale e parastatale), e in ciò, ai tempi della «Prima Repubblica», essi si dimostravano molto più zelanti dei democristiani. Ricordo che ai tempi della mitica notte di Sigonella (ottobre 1985, il premier Craxi dice no nientemeno che al Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan) quelli di Democrazia Proletaria si presero una tremenda cotta per il cinghialone Bettino.

A chi gli ricorda che il protezionismo e tutta la politica economica e sociale che lo rende possibile evoca un cupo scenario da anni Trenta, con epilogo sanguinoso incorporato, i Social Sovranisti rispondono, a ragione, di non voler evocare nessuna guerra. Infatti, essi si limitano a stare sul terreno della guerra. Perché la guerra (sistemica) è in corso, come ormai tutti gli economisti mainstream e tutti i politici del mondo riconoscono. Essendo sinistrorsi, i Social Sovranisti fabbricano armi e proiettili keynesiani, statalisti, benecomunisti, decrescisti. Insomma, sparano sinistramente «da sinistra». Combattono «da sinistra» la guerra patriottica capitalistica, contro la Germania e i traditori che la puntellano e contro tutti i poteri finanziari che vogliono saccheggiare il Meridione d’Europa, per affermare il dominio incondizionato dei mercati.

A conti fatti, si sussurra in alcuni ambienti sovranisti, forse conveniva difendere il governo del puttaniere di Arcore contro i «poteri forti» sovranazionali. D’altra parte, i fatti parlano chiaro: «Quanto a occupazione, redditi popolari e del lavoro, servizi sociali stiamo sicuramente peggio [rispetto al governo Berlusconi]; il paese non si è allontanato di un centimetro dal baratro», ha scritto ad esempio il già citato Guido Viale sul Manifesto di qualche settima fa. Per non parlare dello «sfregio» che ha subito non solo la nostra sovranità nazionale ma anche lo stesso processo democratico, che si è dovuto piegare ai «diktat dei mercati».

Ai proiettili della speculazione finanziaria e dello spread i Social Sovranisti vorrebbero rispondere con i proiettili tratti dalla vecchia santabarbara keynesiana, certo, cambiando quel che c’è da cambiare, giusto per non confermare la nota tesi: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Una farsa che peraltro avrebbe tutti i caratteri della tragedia, a cominciare dalla ricordata impotenza politica e sociale delle classi dominate, afferrate dalle tenaglie del Dominio a un passo dalla possibile liberazione. Ma questa è tutta un’altra storia. Una storia buona per i dottrinari, per gli utopisti e financo per i “messianici”, non certo per i sinistrorsi con l’elmetto – oggi virtuale, domani chissà – in testa.