A CHE PUNTO È LA GUERRA?

original-13683-1431346763-11L’ipotesi secondo cui la morale perde
di forza coercitiva con l’aumentare della
distanza si fonda sull’idea che è soprattutto
il vivo ricordo del delitto a tenere desta la
coscienza. Se il criminale si allontana a
sufficienza dal luogo del delitto, i sentimenti
morali non hanno più di che alimentarsi.
Ritter, Sventura lontana, 2004.

Dobbiamo chiederci che cosa era successo nelle
masse perché seguissero un partito i cui obiettivi
erano diametralmente opposti, sia dal punto di
vista oggettivo che soggettivo, agli interessi delle
masse lavoratrici.
Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, 1933.

Riprendo alcuni punti già toccati nel precedente post.

1. La seducente propaganda del Califfato. Partire dalla religione per comprendere la natura dell’attuale conflitto mondiale è il modo migliore per mettersi nelle condizioni di non capirci niente di essenziale. È oltremodo sciocco, ad esempio, credere che lo jihadismo che tanto attrae migliaia di disperati e di diseredati (e non faccio della stucchevole retorica sociologica: vedere, ad esempio, i tantissimi giovani proletari e sottoproletari tunisini che si arruolano sotto le nere bandiere del Califfato per guadagnarsi il pane quotidiano) si spiega con un’errata («aberrante», «irrazionale», «infondata») interpretazione del Corano, come sostengono soprattutto gli intellettuali occidentali devoti ai Sacri Lumi. In questa vicenda, come nelle altre analoghe, la religione è l’ultima cosa che occorre prendere in considerazione. Come ho già scritto, con la religione si può spiegare tutto, e il suo contrario. L’ideologia jihadista è messa al servizio di interessi che non hanno nulla a che fare né con Allah, né con le numerose e bellissime vergini che attendono i martiri che si immolano nel suo Misericordioso nome. Nel solo 2015 quegli interessi hanno causato la morte di circa 23.000 musulmani: si tratta, infatti, soprattutto di un conflitto interno al mondo musulmano. Sciiti contro sunniti? Ci risiamo! Anche qui non dobbiamo rimanere impigliati nella fenomenologia ideologica (o religiosa) della vicenda. Si tratta in primo luogo di una guerra, combattuta il più delle volte “per procura”, per stabilire nuovi rapporti di forza nel Vicino e Medio oriente (schematizzando: Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, da una parte; Iran, Siria e Libano dall’altra), così come in Nord Africa. La confessione religiosa, che ha una forte presa sulle masse, è indubbiamente un potente collante politico-ideologico-culturale, e come tale non va affatto sottovalutata; ma non è certo per affermare una certa lettura del Sacro Testo che, ad esempio, arabi e iraniani si sparano addosso – magari solo per interposte milizie armate. L’antagonismo confessionale cela insomma un antagonismo molto profano, diciamo così, sintetizzabile nel concetto di Potere: economico, politico, ideologico, psicologico, in una sola e più adeguata parola: sociale.

In un articolo apparso sul Courrier des Balkans del 9 giugno 2015, Jean-Arnault Dérens commentava la intelligente propaganda dello Stato Islamico rivolta ai giovani che vivono nei Paesi balcanici. «L’appello alla Jihad risuona nel deserto della interminabile transizione balcanica», scriveva Dérens. Un video di una ventina di minuti perfettamente girato, curato nei minimi particolari e costruito come un  video-gioco fa la storia dei Balcani; giovani dall’aspetto per nulla fanatico invitano altri giovani a seguirli sulla strada jihadista, e con un tono pacato suggeriscono ai coetanei ancora impigliati nella demoniaca cultura occidentale ad uccidere senz’altro «i miscredenti» ovunque essi si trovino e con ogni mezzo a disposizione: dalla bomba al veleno. Fate saltare automobili, avvelenate il cibo: Allah stesso lo vuole! Nel video lo Stato islamico viene rappresentato come un mondo pulito, dignitoso, privo di stress, attento ai bambini, ripresi a giocare in aree attrezzate. «Si presenta una nuova visione del mondo molto più allettante del sogno occidentale, un sostituto alle promesse di prosperità scomparse nel deserto dell’interminabile transizione balcanica, e allora si chiede giustamente ai moderati come rispondere a questo messaggio, come rispondere a chi non ha denaro, a chi non ha lavoro, a chi ha come alternativa il trafficare in droga o truccare automobili, oppure fare carriera in un partito politico corrotto o guadagnare qualche euro andando ad agitare le bandiere in qualche meeting politico; se questa è la realtà quello che propone il califfato può essere per molti giovani qualcosa che assomiglia alla vera vita, a una vita normale. Vivere velocemente e morire giovani non è molto nuovo come programma di vita; ci sono quelli che credono di guadagnarsi il paradiso ma anche quelli che hanno la convinzione che almeno avranno vissuto intensamente, di essere morti per una causa, e morire per una causa è sicuramente meglio che morire per niente, per una giovinezza senza prospettive, per un lavoro in nero senza documenti in Italia o in Germania, oppure finire in un centro di detenzione in Francia. Eppure questa vita tranquilla e degna che propone lo Stato islamico e le motivazioni economiche non sono quelle più importanti: chi ha vent’anni non è forse pronto a fare qualcosa per realizzare i propri sogni? Non è disposto a battersi per un ideale? E quali ideali restano nel triste deserto dell’interminabile transizione dei Balcani? Gli Imam possono naturalmente denunciare questa cattiva interpretazione del Jihad, i Governi possono cercare di fermare e arrestare chi vuole partire per andare a combattere all’estero, oppure arrestare coloro che delusi tornano a casa. Le anime belle possono indignarsi per il programma medievale dello Stato islamico ma questo continuerà a espandersi e attirare persone fino a quando non ci saranno dei nuovi sogni e nuovi progetti in grado di essere proposti ai giovani dei Balcani e non solo nei Balcani».

Molti giovani, scriveva Reich nel 1933, «erano fortemente impressionati dalla fisionomia esterna del partito di Hitler, dal suo carattere militare, dalla dimostrazione di forza, ecc. Fra i mezzi simbolici di cui si serviva la propaganda il più appariscente era senz’altro il simbolo della bandiera» (Psicologia di massa del fascismo). Diciamocelo: anche la bandiera del Califfato è un eccellente brand.

2. La natura della “Terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.«La capitale francese, vittima di un attentato disumano che non ha nessun legame con la religione, paga un prezzo altissimo alle politiche portate avanti dall’Eliseo in Medio Oriente e Africa». Così Limes sintetizza la posizione di padre Giulio Albanese, da sempre assai critico nei confronti della ”Grand France” di Hollande, la quale «non fa sconti a nessuno!». Scrive padre Albanese: «Simile violenza richiama alla mente la lamentazione di Carlo Levi: “La sola ragione della guerra è di non aver ragione (ché, dove è ragione, non vi è guerra); che le guerre vere ed efficaci sono soltanto le guerre ingiuste; e che le vittime innocenti sono le più utili e di odor soave al nutrimento degli dèi”». Ieri io, assai più prosaicamente, parlavo di «concime gettato sul terreno per fertilizzare gli interessi economici e geopolitici di Potenze grandi, medie e piccole». E concludevo: «La verità è che se noi non ci occupiamo dell’imperialismo, l’imperialismo si occupa di noi. Siamo tutti ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore».

A mio avviso questa guerra, come tutte le guerre che l’hanno preceduta e che probabilmente la seguiranno, ha una solidissima quanto disumana ragione: quella che, appunto, fa capo agli interessi sistemici delle classi dominanti, interessi che trovano una puntuale sintesi nella politica interna ed estera (una distinzione peraltro sempre più labile e “problematica”) degli Stati, piccoli e grandi, “tradizionali” e di nuovo conio, “simmetrici” e “asimmetrici”. Questi Stati rappresentano un micidiale strumento di difesa e di promozione di quegli interessi: tutto il resto è cinica propaganda politico-ideologica tesa a ingannare la gente, la quale purtroppo oggi si lascia ingannare con una facilità che fa spavento, almeno agli occhi di chi crede sia possibile, oltre che auspicabile, la fuoriuscita dell’umanità dalla maligna dimensione del dominio di classe, fonte di ogni sofferenza, di ogni ingiustizia, di ogni orrore.

3. Psicologia di massa del Dominio. Leggo sul Manifesto: «Una migliore intelligence può valere molto più che una compressione generalizzata di diritti e libertà. Oggi e nel futuro, una risposta al terrorismo la sinistra deve saperla dare, se non vuole essere travolta dalla richiesta popolare di sicurezza. Nessun appeasement, nessuna tolleranza, ma con punti fermi. Che sulle garanzie di libertà e diritti non si facciano passi indietro. Che i poteri di qualunque autorità non siano mai sottratti a limiti e controlli. Che in particolare il controllo di costituzionalità e quello giudiziario siano salvaguardati nell’ampiezza e nell’incisività. Che si perseguano politiche inclusive e dialogo interculturale con la comunità di fede islamica, per rafforzarne gli anticorpi contro il veleno del terrorismo». Troppo comodo: se vuoi il fine, devi accettare anche i mezzi! Oggi Arturo Diaconale scrive che l’Italia non ha bisogno di leggi speciali perché la legislazione d’emergenza nel Belpaese è già stata fatta negli anni Settanta, ai tempi della lotta contro il terrorismo condotta soprattutto, com’è noto, dai “comunisti” e dai democristiani. Almeno per quanto riguarda la repressione il nostro Paese è all’avanguardia. «Sbaglia chi si allarma temendo che l’esempio francese faccia scuola anche in Italia e da un momento all’altro possa spuntare qualcuno a Palazzo Chigi deciso ad imitare Hollande ed a chiedere una serie di leggi e poteri speciali per combattere il terrorismo islamico. Chi nutre questa preoccupazione compie un serio errore. Non perché nel nostro Paese non possa venire fuori un qualche imitatore del socialista autoritario francese. Ma perché per combattere il terrorismo degli islamisti da noi non c’è alcun bisogno di emanare poteri e leggi speciali. Da noi le leggi emergenziali ci sono già da lungo tempo. Questa legislazione emergenziale è in vigore dagli anni Settanta. E, sia pure provocando distorsioni nello Stato di diritto, ha ottenuto sicuramente una serie di buoni risultati» (L’Opinione). Ma si può sempre migliorare, caro Diaconale! La frecciata finale di Arturo: «Per una volta i cugini sono stati anticipati. Purtroppo nella corsa verso la deriva autoritaria!». Questi destri liberali, sempre a cianciare di «deriva autoritaria»! Basta con questo falso garantismo: lo Stato democratico va difeso, costi quel che costi! Per non parlare del nostro stile di vita… A proposito, se scrivo Abbasso la République (bourgeoise)! sono passibile di estradizione verso la Patria dei droits de l’homme? Meglio saperle prima certe cose!

Sembra che recenti sondaggi mostrano che la popolazione francese accetta di buon grado di perdere in termini di libertà personale per conquistare una maggiore sicurezza. Il Leviatano prima ci espone alla ritorsione del “nemico” (colui che gli contende una fetta di torta economica e geopolitica), e poi ci fa la grazia di proteggerci: che padre coscienzioso abbiamo avuto in sorte! E noi, come bravi bambini, abbozziamo e ringraziamo chi, dopo averci messo in pericolo per fare i suoi legittimi (è il capitalismo-imperialismo, bellezza!) interessi, poi fa di tutto per “difenderci” dal micidiale meccanismo di cui esso stesso è parte organica. Anzi, pretendiamo più protezione dallo Stato: più polizia, l’esercito a presidiare gli “obiettivi sensibili”, maggiori controlli all’ingresso degli immigrati, insomma più ordine. Che capolavoro! E che impotenza sociale! Io la chiamo, con scarsa originalità, psicologia di massa del Dominio. Come disse a suo tempo Wilhelm Reich, dobbiamo chiederci cosa è successo e cosa succede sempre di nuovo alle classi subalterne in particolare, e a tutti gli individui che vivono su questo pianeta in generale.

4. Chi sono i rivoluzionari? Ho letto da qualche parte, forse ancora sul citato “Quotidiano comunista”, che «La Marsigliese è l’inno dei rivoluzionari». In effetti, pare che lo stesso Lenin non resistette alla tentazione di cantarla insieme ai compagni di viaggio sul mitico treno piombato, mentre faceva ritorno in Russia per tentarvi il noto Grande Azzardo. Non bisogna dimenticare che allora in Russia la rivoluzione borghese era un evento auspicato e appoggiato anche dal proletariato d’avanguardia, per certi versi soprattutto da esso, visto la pavidità della debole borghesia russa, la quale giustamente temeva una radicalizzazione del processo rivoluzionario. Previsione azzeccata: dopo La Marsigliese giunse il momento dell’Internazionale! Chiudo la breve parentesi “storica” e mi chiedo: chi sono oggi i “rivoluzionari”? Forse Loretta Napoleoni, autrice dell’interessante saggio Lo Stato del terrore (Feltrinelli, 2014), dedicato all’economia del Califfato, conosce la risposta. Infatti, l’economista parla della guerra dell’Isis nei termini di una guerra patriottica di liberazione: «Chi nega questa definizione, e si trincera dietro la favola delle schegge di terroristi, o è in malafede o è un ignorante. L’Isis non è uno stato ideologico, ma il frutto di una lotta patriottica che grazie alla sua popolarità non fa fatica a trovare i soldi necessari. [Si tratta] di una guerra rivoluzionaria, antimperialista e nazionalista. Una guerra con la quale dovremo a lungo fare i conti» (www.ilmattino.it). Una guerra rivoluzionaria, antimperialista e nazionalista: quando ho letto per la prima volta questa “bizzarra” tesi, credevo di non aver capito bene quel che leggevo. Invece avevo capito benissimo. Ma chi sono io per…, lasciamo perdere! Oggi anch’io voglio affettare un atteggiamento polemico politically correct.

Per chi scrive, trattasi invece di una guerra ultrareazionaria (la posta in gioco, come si sa, è altissima: economica, geopolitica, ecc.) da tutte le parti in conflitto, e le cui vittime sono in primo luogo le classi subalterne ovunque esse si trovino a subire il dominio di classe: a Nord come a Sud, a Est come a Ovest, nel mondo cristiano come in quello musulmano, o buddista, induista, laicista, ateista. Ovunque e comunque! Poi, si sa, la guerra è “democratica”, e la bomba, più o meno intelligente, non fa alcuna distinzione di classe quando esplode in uno stadio piuttosto che in un bistrò, su un aereo di linea oppure sul tetto di una casa, di un ospedale, di una scuola. Come si vede, la paventata «favola delle schegge di terroristi» dalle mie parti non riscuote alcun credito. Quanto alla malafede e all’ignoranza non spetta certo a me dare giudizi su quel che scrivo. Accetto di buon grado, diciamo, il giudizio del lettore – purché sia a me favorevole, beninteso!

5. Carnefici e Mandarini. Scrivono Carlo Freccero e Daniela Strumia: «La guerra di oggi è una materia che non può essere razionalizzata perché affonda le sue radici nel caos. Ecco, secondo noi, il nocciolo della cosa è che questo caos ha ben poco di casuale. Non è soltanto la somma di una serie di errori che ci sono sfuggiti di mano. È una ben precisa strategia bellica. Pensiamo ai “teocon” e alle loro pretese di instaurare un secolo americano basandosi sulla superiorità bellica dell’America. Questa strategia, in Iraq, è risultata fallimentare, come già a suo tempo l’invasione americana del Vietnam. Gli Usa hanno concepito allora una nuova strategia più economica: la strategia del caos. Disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Si trattava di promuovere in modo più o meno occulto rivoluzioni locali in nome dei diritti umani: la Libia, le primavere arabe, la resistenza in Siria contro il crudele dittatore Assad. E poco importa se tutto questo veniva portato avanti con la collaborazione di alleati come l’Arabia Saudita o la Turchia che non eccellono sicuramente nella salvaguardia dei diritti umani. […] Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime. È normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi. Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa affermazione di Hillary Clinton: “l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano”. Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga?». (Il Manifesto). La riflessione qui proposta è interessante, non c’è che dire; peccato che sia anche un tantino limitata, diciamo così. Infatti, si ha l’impressione che Potenze sistemiche come la Cina e la Russia non abbiano avuto, e non hanno alcun ruolo nella contesa interimperialistica (concetto probabilmente sconosciuto agli autori dell’articolo), e che l’Europa non sia che una colonia degli Stati Uniti, tesi che non reggeva a un’analisi geopolitica seria già ai vecchi e “cari” (non pochi sinistri ne hanno nostalgia!) tempi del confronto bipolare USA-URSS. Nel suo piccolo, il movimentismo politico-militare francese in Africa (vedi l’attacco in Libia nel 2011) e in Medio Oriente non ha nulla a che fare con le evocate materie prime? «Da venerdì mattina l’aviazione francese sta martellando jihadisti e altri ribelli del Nord in avanzata verso la pur lontana capitale Bamako. In ballo ci sono il rango transalpino e l’accesso alle risorse strategiche»: questo, ad esempio, scriveva Lucio Caracciolo,  su La Repubblica del 13 gennaio 2013.

A mio modo di vedere l’attuale caos non è il risultato di una strategia pianificata a tavolino dagli Stati Uniti, i quali devono fronteggiare una reale caduta di potenza materiale e un reale indebolimento geopolitico (senza contare che la fiducia di Washington verso gli alleati non è granitica come prima), ma il prodotto altamente contraddittorio e conflittuale di tendenze sociali e geopolitiche già presenti nel vecchio mondo bipolare e che la fine della cosiddetta Guerra Fredda ha accelerato, mentre ne produceva di nuove.

Naturalmente questo discorso deve risultare incomprensibile a chi è abituato a ragionare dal punto di vista degli Stati, non importa se piccoli o grandi, se appartenenti a questa piuttosto che a quella “sfera di influenza”, se filoamericani o antiamericani, se filorussi o antirussi, ecc. Il punto di vista di classe mostra una geopolitica affatto diversa da come la immaginano gli intellettuali progressisti che fanno dell’antiamericanismo la loro bussola e il massimo di “radicalismo” concepibile e praticabile su questa Terra.

Vediamo l’atra faccia della medaglia: «Il mondo paga con il sangue le conseguenze della ritirata scellerata dell’occidente dai teatri di guerra. […] Oggi è chiaro che è il non intervento nei teatri di guerra che ha generato instabilità creando spesso le condizioni per la proliferazione del terrore. E si capisce bene dunque perché il Pacifista Collettivo preferisca fischiettare e fare un passo di lato per non ammettere che una forza politica che rinuncia alla difesa è una forza politica che rinuncia a difendere i suoi cittadini e dunque, cari Corbyn e Grillo, è una forza politica che, essendo in mutande, molto semplicemente è incapace di governare» (C. Cerasa, Il Foglio). Lascio queste beghe interborghesi ai difensori del vigente ordine sociale, non importa se “progressisti” o “conservatori”, liberali o statalisti, pacifisti o interventisti. A proposito: dov’è finito il «Pacifista collettivo?».

FRANCIA E GERMANIA AI FERRI CORTI. Il punto sulla guerra in Europa

hollande-versione-napoleone-213129Giusto un anno fa Hubert Védrine invitava caldamente i suoi compatrioti a farla finita con la «chimera», sempre meno sostenibile, della grandeur e immergersi con coraggio nel bagno del realismo. «Non esiste una missione della Francia. L’idea di una nostra missione speciale è retorica, serve per alimentare un credo di cui la gente ha bisogno. Noi coltiviamo sempre questa tendenza alla chimera, ma oggi la Francia non è più un paese determinante. So bene che questo punto di vista non è molto rappresentativo dell’opinione prevalente tra i miei compatrioti, ma non possiamo negare la verità. Se non guardiamo alle cose come sono, non riusciremo a orientarci in questo mondo» (H. Védrine, Finiamola con la missione universale, Limes, 5 giugno 2012).

Per molti versi le parole dell’intellettuale e politico francese ricordano il dibattito che negli anni Trenta attraversò l’intellighenzia e la politica d’Oltralpe circa «la missione universale della Francia» nel nuovo mondo creato dalla devastante crisi economico-sociale di quegli anni e dal consolidamento delle nuove potenze mondiali: Stati Uniti, Russia, Giappone. Anche allora la Germania, pur sconfitta nel primo macello mondiale e pur sconvolta dal terremoto sociale postbellico, funzionò per la Francia come imbarazzante termine di confronto per illuminare le proprie contraddizioni e i propri limiti strutturali e sistemici. Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy, l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: «Travail, Famille, Patrie» (R. Paxton, Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore). Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale i conti non tornavano.

prLa Francia ha perso il confronto sistemico con la Germania che va avanti, sotto la miseranda copertura del «progetto europeista», dalla fine della Seconda guerra mondiale, e la sua perdita di peso sul mercato mondiale, la sua crisi economico-sociale che rischia di farla scivolare verso Sud, verso la periferia dell’Euro, sono fatti che non possono più essere nascosti dietro il sempre più fantomatico asse franco-tedesco. Alla fine la potenza capitalistica tedesca ha avuto la meglio su tutte le illusioni europeiste e su tutti i calcoli politici fatti a tavolino a Parigi, a Berlino e a Bruxelles. Per dirla con il filosofo, la volontà di potenza del Capitale (non importa in quale guisa nazionale) trova sempre il modo di affermarsi.

I sondaggi di opinione pubblicati in Francia in questi giorni attestano il disastro politico di Hollande e del suo partito. Solo il raid aereo in Mali di inizio anno riuscì a dare un po’ di ossigeno alla sempre più asfittica popolarità del Presidente progressista. «La grandeur è una merce che si vende ancora bene a Parigi», scrivevo il 15 gennaio 2013: «Nel suo editoriale di ieri Libération faceva notare come nella Quinta Repubblica la guerra sia sempre stata una buona notizia per l’Eliseo, ed è un fatto che dopo l’intervento armato in Mali la destra di Marine Le Pen, in guerra contro il governo Hollande sui «temi eticamente sensibili», ha smorzato di molto i toni della sua polemica “passatista”. L’effetto di ricompattamento nazionalistico sotto il tricolore francese è stato immediato, e almeno per adesso sembra poter resistere alle prime cattive notizie che arrivano dal teatro di guerra. Dopo lo scorso venerdì lo scialbo Hollande sembra meno insulso, a dimostrazione che anche nel XXI secolo l’uso della forza ha un certo appeal» (Grandeur francese e mutismo pacifista). Ma per rimanere a galla il Presidente socialista non può certo bombardare mezzo mondo!

15569Tuttavia, come scriveva Riccardo Pennisi su Limes (26 febbraio 2013), «La gravità della situazione attuale sembra portare il presidente, più che sulla scia dell’unico e mitico predecessore socialista, François Mitterrand, su quella del generale Charles de Gaulle». Questo anche perché Hollande sta cercando di sfruttare al massimo tutte «le prerogative che rendono il capo dello Stato francese arbitro supremo della vita politica del paese», per preparare il terreno alla necessaria politica dei sacrifici. Il decisionismo, evidentemente, non è mai abbastanza.

Il tentativo di attribuire all’«intransigenza egoista» di Angela Merkel, come recita il famigerato documento del partito socialista francese reso pubblico il 26 aprile, i fallimenti economici e politici della Francia è a sua volta miseramente fallito.  «Non c’è niente di più irresponsabile che trasformare Angela Merkel e la politica estera della Germania in un capro espiatorio per le difficoltà del nostro paese», ha scritto Le Figaro del 29 aprile, e secondo Le Monde «questo giochino non è soltanto infantile, ma anche molto pericoloso». Il tedesco Der Spiegel ha scritto, sempre il 29 aprile, che «A un anno dall’inizio della sua presidenza i rapporti tra Francia e Germania si sono deteriorati più di quanto pensassero i pessimisti nei due paesi. Berlino e Parigi sono in disaccordo su tutte le decisioni politiche per superare la crisi». È illusorio, oltre che ridicolo, credere che la Germania possa azzoppare la propria capacità capitalistica, come di fatto chiedono a Berlino Hollande e gli atri leader del Mezzogiorno europeo, solo per consentire alla Francia e agli altri paesi in crisi di non porre mano alle dolorose «riforme strutturali» che rischiano di colpire lucrose rendite di posizione e di scatenare vasti movimenti di opposizione sociale.

La guerra sistemica europea non è un pranzo di gala, e il rancido dibattito tra cosiddetti «rigoristi» e cosiddetti «sviluppisti» non riesce più a celare la vera posta in palio (l’egemonia economico-politica in Europa), né la natura sociale (capitalistica) degli interessi che oppongono i diversi paesi dell’Unione europea. Rispetto a questi interessi le classi dominate del Vecchio Continente hanno tutto da perdere e niente da guadagnare.

GERMANIA 4 EUROPA 0?

Dopo il pane anche il circo!

Dopo il pane anche il circo!

Ubaldo Villani-Lubelli scopre le non poche magagne sociali che affliggono la Germania e se ne esce con una considerazione che la dice lunga sulla comprensione della società capitalistica da parte dell’intelligenza borghese: «Da un sistema sociale ed economico considerato un modello, ci si sarebbe aspettato una distribuzione più equa della nuova ricchezza» (La Germania non è un paese per poveri, Limes, 10 aprile 2013). Ora, proprio perché la società tedesca ha i problemi denunciati da Villani-Lubelli essa può in effetti venir considerata come un buon modello di sistema capitalistico, visto che quei problemi rappresentano un lato della stessa medaglia. L’astratta richiesta di una «distribuzione più equa della ricchezza» non tiene conto della natura sociale, appunto capitalistica, del modello tedesco, come di ogni altro modello esistente su questo pianeta, e accompagna da sempre i piagnistei dei riformatori sociali, quelli che, per dirla col solito ubriacone di Treviri, accettano il Capitalismo salvo piagnucolare sulle sue necessarie contraddizioni. Chi accetta la causa e ne ricusa “solo” gli effetti indesiderati e imprevisti, merita il disprezzo di coloro che quegli effetti sperimentano sulla propria pelle. «Lo scopo che si proponeva in primo luogo il genio sociale che parla per bocca di Proudhon, era di eliminare quanto c’è di cattivo in ogni categoria economica, per avere solo il buono» (K. Marx, Miseria della filosofia). Separare il «lato buono» della prassi capitalistica (espressa nelle categorie dell’economia politica) da quello «cattivo»: è l’eterna chimera riformista.

La Germania è dunque «un modello imperfetto»: questa l’epocale scoperta che dovrebbe afflosciare gli entusiasmi di non pochi economisti, sindacalisti e politici nostrani: da Romano prodi a Fabrizio Barca, da Tremonti alla Camusso, che fino a qualche mese fa individuavano nell’«economia sociale di mercato» di quel Paese «l’unica alternativa credibile ai modelli di crescita americano e cinese». Gira e rigira ho sempre tra i piedi la risibile terza via!

Il governo tedesco non solo non nasconde all’opinione pubblica europea i non pochi problemi sociali che la Germania deve affrontare per rendere più solida e meno contraddittoria la sua performance economica, ma piuttosto li mette bene in mostra, in qualche caso li enfatizza, per dimostrare alle «cicale» del Sud che le «formiche» teutoniche non navigano nell’oro, e che quindi non ha alcun senso nutrire risentimenti nei loro confronti: nel Paese che mezza Europa detesta si lavora duro per un tozzo di pane! E se qualche briciola avanza, la si regala ben volentieri a chi nella Patria Europea ne ha più bisogno. Come si fa a non apprezzare cotanta generosità? Perché nelle capitali europee del Sud si fa tanto scandalo intorno alla richiesta di Berlino di poter controllare il destino dei suoi generosi aiuti?

Secondo uno studio pubblicato dalla Banca centrale europea, «i tedeschi sarebbero i più poveri d’Europa, con una ricchezza media inferiore a quella degli spagnoli, degli italiani e addirittura dei greci e dei ciprioti. È bastato questo perché lo Spiegel titolasse sulla “Menzogna della povertà. Come i paesi europei in crisi nascondono la loro ricchezza”. Il tutto accompagnato dall’immagine di un vecchio su un asino mentre getta banconote al vento. “È giusto il salvataggio dell’euro quando la gente dei paesi che riceve i fondi è più ricca dei cittadini dei paesi che li danno?”, si chiede il settimanale, per il quale è necessario “un dibattito su una nuova divisione degli aiuti”» (Eric Maurice, L’equivoco della povertà, Presseurop, 19 aprile 2012). Altro che mettere in discussione la politica dell’austerity, signor Barroso! Anche perché in Germania il Partito del ritorno al Marco cresce in argomenti e in consensi, e la Cancelliera di ferro non può prospettare al proprio elettorato un’Unione europea che non veda la Germania nel ruolo di potenza egemone. Anche nel calcio!

Potenza a tutto campo...

Potenza a tutto campo…

«Difficile resistere a un’egemonia che altrove, nell’economia, nella politica, nel condizionamento delle scelte dell’Unione europea, è chiara e che nel calcio nessuno ha voluto vedere fino a martedì e mercoledì sera. […] È come prendere a schiaffi il mondo e dire: scansatevi, è il nostro momento. […] I gol sono lo specchio che riflette la realtà di un calcio che è la rappresentazione plastica del dominio tedesco sull’Europa. È come se un paese intero abbia deciso di prendersi lo sport più popolare del mondo, nel continente in cui è più popolare di ogni altra cosa. Perché questo dominio è voluto, cercato, faticato (Beppe di Corrado, Adesso al dominio tedesco in Europa non manca più niente, Il Foglio, 26 aprile 2013). Dopo il pane, la Germania ci toglie dunque anche il circo: che cattiveria!

Crescita della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, impoverimento delle classi medie, accelerazione nel processo di concentrazione della ricchezza sociale, con la nota polarizzazione classista («reddituale») che necessariamente ne segue, crescita della precarizzazione del lavoro («si tratta dei cosiddetti mini-job che coinvolgono circa 5 milioni di persone e che non sono altro che occupazioni flessibili») con relativa netta riduzione del salario («appena 450 euro»), aumento dei senza-tetto e via di seguito. Questi i dati sensibili riportati da Villani-Lubelli nel suo articolo, che egli mette in relazione, come d’altra parte fanno molti anche in Germania, con la famigerata Agenda 2010, l’Agenda “riformista” più amata (chiedere a Mario Monti) e odiata (chiedere allo scialbo Hollande) dagli statisti europei: «Il dibattito sulle disparità sociali si incrocia, inevitabilmente, con quello sul decimo anniversario dell’Agenda 2010, quel complesso programma di riforme avviato dal governo Schröder nel 2003. Marc Brost, giornalista tedesco della Zeit, ha evidenziato come sia proprio l’Agenda 2010 alla base delle disparità sociali di oggi: da una parte ha modernizzato la Germania, dall’altra ha diviso il paese in ricchi e poveri, precari e lavoratori stabili». Non si è mai contenti!

Intanto ieri Le Figaro accusava Hollande di inettitudine nei confronti della grave crisi economica che sta investendo la Francia (sul Financial Times del 23 aprile Gideon Rachman ha parlato di «crisi di regime», e ha esortato i francesi a «non indulgere in sogni di ghigliottina»): «Nonostante non voglia ammetterlo, il governo non crede nemmeno un po’ alla tiritera presidenziale sulla riduzione della disoccupazione per quest’anno».  Nel suo editoriale il quotidiano francese chiede l’impiego di «grandi mezzi contro la disoccupazione […] anche se dovessero andare contro la dottrina socialista»: taglio del costo del lavoro, soppressione delle 35 ore, nuova concezione del Welfare, a cominciare dai sussidi di disoccupazione e dal trattamento pensionistico. «Tutti provvedimenti […] che i paesi europei più solidi hanno adottato da tempo». Inutile dire che Le Figaro allude alla Germania «socialista» di Schröder. C’è «socialismo» e «socialismo». E poi c’è «lo sperimentalismo democratico» di Fabrizio Barca, terza via (ancora!) tra liberalismo (Stato minimo) e socialdemocrazia (Stato massimo). Evidentemente dal Bel Paese non ci si può aspettare di meglio.

rompicRiporto una parte del post pubblicato il 5 gennaio 2013 dedicato all’Agenda 2010.

A suo tempo il progressista Gerhard Schröder, con la sua Agenda (lacrime e sangue) 2010, portò lo scalpo dei lavoratori tedeschi (in attività, in mobilità, in disoccupazione e in pensione) sull’altare degli interessi generali della Germania, vale a dire della classe dominante tedesca, e ancora più precisamente: del sistema capitalistico tedesco colto nella sua totalità (la potenza sociale che cura i cittadini dalla culla alla bara), com’è corretto fare se non si vuol perdere il filo conduttore della politica dei governi e dei partiti devoti alla Patria. Secondo Paolo Valentino «Schröder aveva varato la più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck» (Intervista all’ex Cancelliere socialdemocratico, Corriera della Sera, 31 maggio 2012). Detto di passaggio, a ulteriore conferma della dimensione sociale, e non meramente ideologica o nazionale dei problemi sul tappeto, allora Schröder trovò per così dire ispirazione dall’Agenda Blair, scritta sulla pelle dei sudditi salariati di sua Maestà dall’ex campione del progressismo europeo, poi caduto rapidamente in disgrazia a causa dell’intervento armato in Iraq della coalizione dei “volenterosi”.

«È d’obbligo riconoscere», scriveva il cancelliere socialdemocratico nel 2002 su Handelsblatt, «che i tempi della ridistribuzione di guadagni in crescita sono finiti. Oggi non si possono più soddisfare nuove richieste e rivendicazioni. Se vogliamo preservare un solido benessere e uno sviluppo sostenibile venendo incontro a nuove esigenze di giustizia, dovremo invece ridimensionare molte rivendicazioni e anche sopprimere prestazioni che mezzo secolo fa potevano essere giustificate ma che hanno perduto oggi il loro carattere pressante … A fronte della realtà demografica siamo giunti alla conclusione che il finanziamento delle pensioni non può più essere garantito in via esclusiva da un sistema a ripartizione e da contribuzioni calcolate in base al reddito da lavoro». Salari, mercato del lavoro, redistribuzione del reddito, sanità, pensioni: le «riforme strutturali» dell’Agenda Schröder spaziavano in ogni comparto dell’Azienda Tedesca, allora ancora impegnata a digerire il grosso pasto della riunificazione. Con il solito sciovinistico compiacimento, soprattutto i cugini francesi parlarono della Germania come della «malata d’Europa», una vecchia e arrugginita locomotiva incapace di portare “a tutto vapore” il treno europeo dentro la nuova dimensione della globalizzazione segnata dall’ascesa delle nuove potenze capitalistiche mondiali. Il Paese teutonico appariva ai francesi così mal ridotto, da spingerli a far circolare la «generosa proposta» di una condivisione franco-tedesca del seggio francese nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

«In Germania, però, hanno riflettuto sui propri problemi e trovato le soluzioni», dice Oscar Giannino; «Innanzitutto hanno abbassato le spese e le imposte, che erano altissime. Poi si sono reinventati il welfare, troppo costoso e concentrato sulle emergenze sociali. Infine hanno mutato il loro orizzonte produttivo, in ciò favoriti da contratti dei lavoratori più aziendalisti rispetto ai nostri. Dobbiamo fare tesoro di questi insegnamenti e capire quali sono le ragioni che ci stanno portando nel baratro» (Il giornale di Vicenza, 29 novembre 2012). È L’Agenda Giannino, la quale suggerisce all’Italia di guardare alla Germania malata d’Europa del 2001-2002: «la soluzione dei nostri problemi è praticamente scritta».

Nel 2002 la crescita del Pil tedesco si aggirava intorno allo 0,5 per cento, mentre la disoccupazione faceva registrare l’inquietante cifra di quattro milioni. Com’è noto, soprattutto in Francia s’inclina a vedere in ogni disoccupato tedesco un potenziale nazista, o quantomeno un potenziale “nemico della pace”. Pure preoccupanti erano le cifre raggiunte dal lavoro nero: «Secondo i calcoli dell’Istituto di ricerca economica applicata di Tubinga, negli ultimi 12 anni la quota di occupazione illegale è cresciuta di quasi il 40 per cento, interessando una produzione di merci di circa 350 miliardi di euro, pari al 16,5 per cento del Pil» (Rassegna sindacale, n.43, novembre 2002). In effetti, puntando sulla maggiore flessibilità del lavoro possibile, la riforma del mercato del lavoro messa a punto nel 2002 da una equipe governativa coordinata dal Ministro dell’Economia Wolfgang Clement in pratica non fece che legalizzare e razionalizzare un dato di fatto. D’altra parte è questo il reale significato delle “riforme sociali”, in Germania come dappertutto: ratificare, legalizzare, disciplinare e assecondare i fenomeni sociali che appaiono strutturali e irreversibili, almeno nel medio periodo.

Ad esempio, il cosiddetto mini-job (lavoro part-time da 400 euro al mese netti) è il nome nuovo che sta per lavoro giovanile sottopagato e precarizzazione del lavoro. Va da sé che al giovane è richiesto di non essere troppo schizzinoso. È vero che il Welfare tedesco è ancora abbastanza generoso da compensare, ovviamente fino a un certo punto, il declino secco dei salari, ma è soprattutto vero che il circolo vizioso della fiscalità generale è sempre in agguato, è una spada di Damocle che minaccia continuamente l’accumulazione capitalistica, come ben sanno le cosiddette cicale d’Europa. Il grasso accumulato nel corpo sociale è una risorsa scarsa per definizione, e comunque il suo formarsi presuppone un sistema sociale altamente produttivo, come in effetti è stato finora quello tedesco.

Il «reddito di sostentamento minimo, condizionato alla partecipazione a misure di formazione e di inserimento professionale», come si legge a pagina 18 dell’Agenda Monti, è concepito proprio all’interno di una strategia volta ad innalzare la produttività sistemica dell’Azienda Italia (dalla fabbrica al laboratorio scientifico, dalla pubblica amministrazione alla gestione della cosiddetta industria culturale del Paese, e via di seguito), e com’è noto tutti i partiti che si candidano a governare il Paese convergono su questo punto cruciale. Per questo Monti ha ragione quando dice che i sacrifici non ce li chiede innanzitutto l’Europa (leggi Germania), ma il Sistema Paese, la sua capacità di competere in un mondo sempre più veloce e aggressivo sul lato della “concorrenza totale”: basti pensare, non dico alla Germania o al Giappone, ma alla Polonia e alla corea del Sud. Le “società-formiche” d’Europa appoggiano la riforma strutturale delle “società-cicale” solo nella misura in cui l’improduttività e l’inefficienza dei sistemi sociali di queste ultime rischiano di distruggere risorse create altrove (indovinate dove?), ma è chiaro che soprattutto con i Paesi vocati alla manifattura d’esportazione, com’è indubbiamente ancora l’Italia, l’impegno “riformista” delle formiche è destinato quanto prima a mostrare il risvolto concorrenziale della faccenda.

L’esigenza di una maggiore integrazione economica idonea a creare attorno al nucleo forte del capitalismo tedesco una massa critica continentale in grado di sostenere con successo la guerra mercantile con i grandi colossi mondiali, per un verso, e, per altro verso, il cozzare di diversi e molte volte contrastanti interessi nazionali facenti capo ai diversi Paesi dell’Unione: queste due faglie sistemiche che continuamente si toccano, non smettono di generare tensioni e contraddizioni. Chi vede in Monti non più che un servo sciocco della Merkel e dei “poteri forti” basati a Bruxelles e a New York, reitera l’insulso errore di chi vedeva nell’Italia democristiana (e poi craxiana) la serva sciocca degli Stati Uniti, sottovalutando in tal modo la capacità delle classi dominanti del Bel Paese di perseguire obiettivi schiettamente nazionali pur in un contesto geopolitico centrato sugli USA. D’altra parte, “destra” e “sinistra” non hanno mai smesso di contendersi la palma d’oro del nazionalismo più genuino. Ma non divaghiamo!

Se il 27 febbraio 2012 Andrea Tarquini può scrivere che nel settore automobilistico tedesco «la classe operaia è già in paradiso», visti i record storici dell’export e degli utili delle multinazionali tedesche dell’auto, cosa che ha permesso ai lavoratori del comparto una pingue partecipazione agli utili e allettanti rivendicazioni salariali «appoggiate dal governo conservatore della cancelliera Angela Merkel», è perché dal 2003 quei lavoratori hanno “accettato” di lavorare molto di più a parità di salario. Un forte aumento di produttività (leggi sfruttamento) sostenuto anche dal sindacato collaborazionista IgMetall. La cosiddetta partecipazione agli utili dell’impresa, un salario differito e subordinato al buon andamento dello sfruttamento operaio, fa seguito alla lunga e dura politica di moderazione sindacale. Scomodare il paradiso quando si parla di “capitale umano” è quantomeno blasfemo…

«Adesso [i capitalisti dell’auto] dovranno vedersela comunque con la IgMetall che si dice “pronta a lottare per un aumento del 6,5 per cento, secondo il principio della solidarietà”. Con il governo alle spalle» (Premi senza precedenti per i metalmeccanici tedeschi, La Repubblica.it, 27 febbraio 2012). Si scrive solidarietà, si legge collaborazione. La Trimurti sindacale di casa nostra ne sa qualcosina. La classe operaia, in Germania come altrove nel capitalistico mondo, ha sempre alle spalle il governo, i padroni e i sindacati responsabili: l’allusione politicamente scorretta a certe pratiche sessuali mi sembra abbastanza chiara!

«Grandi aspettative sono riposte nella riforma del mercato del lavoro, secondo le proposte della commissione Hartz, che comporterà più lavoro temporaneo, minore protezione contro i licenziamenti del personale anziano, più stretto collegamento tra gli Uffici del lavoro e quelli dell’assistenza pubblica, meno oneri per i lavori a bassi salari. La durata media della disoccupazione poi, grazie a un collocamento più efficiente, dovrà diventare più breve» (Rassegna sindacale, n.36, 8 ottobre 2002). Aumento della produttività e della flessibilità (ma sarà poi quella “buona”, sarà abbastanza flexsecurity?): non sembra di leggere qualche passo dell’Agenda Monti-Fornero? O Biagi-Ichino-Fornero-Monti: fate un po’ voi.

Il 12 dicembre 2011 il Corriereberlinese rendeva di pubblico dominio questa sconvolgente scoperta: «Nonostante la sua ricchezza e la sua potenza economica, la Germania campione mondiale nelle esportazioni [vede] aumentare il gap tra ricchi e poveri più che in altri paesi industrializzati». Perché nonostante? Piuttosto grazie alla sua ricchezza e alla sua potenza, perché come diceva il barbuto di Treviri, la ricchezza a un polo e la miseria (assoluta o semplicemente relativa la sostanza non cambia) al polo opposto si presuppongono vicendevolmente. Ma a essere particolarmente significativa è la frattura salariale che si è realizzata tra l’“aristocrazia operaia” (i lavoratori impiegati soprattutto nelle multinazionali della metallurgia, della chimica e dell’elettronica) e i lavoratori di “fascia bassa” – quelli impiegati nel terziario a basso contenuto tecnologico, nei servizi alla persona e nelle piccole e medie imprese manifatturiere, le quali non di rado, anzi sempre più spesso, servono il processo produttivo delle multinazionali di cui sopra, cosa che in parte ne spiega lo straordinario successo ottenuto in questi anni di grave crisi internazionale. «Negli ultimi dieci anni, la disparità retributiva tra coloro che guadagnano bene, i Gutverdienern, e i lavoratori a basso livello di stipendio, i Niedriglöhnern, si è allargata considerevolmente. Nel 2008, il 10 per cento di coloro che stavano in cima alla scala dei lavoratori meglio pagati guadagnava in media 57.300 euro, otto volte di più di quello che guadagnava il 10 per cento di coloro che stavano in fondo alla scala dei lavoratori meno pagati, con uno stipendio di 7400 euro. Negli anni ’90 il rapporto tra gli stipendi di queste due categorie di lavoratori, afferma l’OCSE, era di sei a uno» (Aumenta anche in Germania il divario tra ricchi e poveri, Corriereberlinese).

Sempre il Corriereberlinese informava che il segretario generale dell’OCSE Angel Gurria concludeva la sua inquietante analisi degli squilibri sociali in Germania perorando la causa di «un’ampia strategia per una crescita compatibile socialmente». Il Capitalismo a basso “impatto” ecologico e sociale è un odioso mantra che non smette di irritare il pensiero che afferma l’assoluta incompatibilità tra il vigente regime sociale e condizioni semplicemente umane di esistenza. Non c’è modo di abituarsi a certi insulsi luogocomunismi, soprattutto quando affettano pose “umanistiche”.

Dichiara Schröder, critico dell’Agenda Merkel per l’Europa: «Io [nel 2003] avevo appena realizzato l’Agenda, oltre 20 miliardi di euro di tagli e una severa riforma del mercato del lavoro. Ma non potevamo strozzare ulteriormente l’economia. Così abbiamo chiesto un margine più ampio nel rispetto dei criteri [di Maastricht]. Poi ho perso le elezioni, la signora Merkel ne ha approfittato, l’economia è ripartita, ma questa è un’altra storia. La lezione di allora è che un Paese come la Grecia ha bisogno di più tempo» (Intervista all’ex Cancelliere…, Corriere della Sera). C’è un piccolo, quasi trascurabile particolare che tuttavia contribuisce a spiegare le contraddizioni e certe insopportabili “ingiustizie” maturate negli ultimi anni nell’ambito della politica comunitaria: Grecia e Germania hanno pesi specifici diversi. La potenza capitalistica non è acqua fresca: «non stiamo mica a pettinare le illusioni degli europeisti spinelliani», direbbe l’autore dell’Agenda Bersani.

GRANDEUR FRANCESE E MUTISMO PACIFISTA

francia_mali_aereo_500Distratti forse dall’epocale tornata elettorale che ci sta dinanzi, gli italici pacifisti non si sono ancora accorti dell’iniziativa schiettamente imperialistica intrapresa in Africa dalla Francia progressista di Hollande in assoluta continuità con quella “neobonapartista” guidata da Sarkozy. «Da venerdì mattina l’aviazione francese sta martellando jihadisti e altri ribelli del Nord in avanzata verso la pur lontana capitale Bamako. In ballo ci sono il rango transalpino e l’accesso alle risorse strategiche» (Lucio Caracciolo, La Repubblica, 13 gennaio 2013).

Si è ripetuto, a grandi linee, lo schema libico: mentre Stati Uniti e Germania consigliavano un approccio prudente per “mettere in sicurezza” il cosiddetto Stato fallito maliano, la Francia ha invece premuto sull’acceleratore della crisi per ottenere un coinvolgimento militare diretto “occidentale”, appellandosi alle solite urgenze connesse ai “diritti umani”, alla salvezza delle vite umane e, dulcis in fundo, alla vitale necessità di sradicare la mala pianta del terrorismo fondamentalista da quelle lontane – ma evidentemente non troppo – plaghe. Come ex potenza coloniale la Francia sente di avere degli “obblighi morali” verso i Paesi un tempo assoggettati alla sua politica di sfruttamento economico e di oppressione politica, insomma alla sua opera di civilizzazione capitalistica. Non si tratta di un’operazione di gendarmeria, ha detto Hollande, ma di un intervento fraterno e umanitario. Come non credergli…

francafrique_500Per il Paese d’Oltralpe si tratta naturalmente di puntellare una sua importante riserva di caccia, o ciò che resta di essa, collocata in un contesto geopolitico sempre più importante, soprattutto in grazia delle materie prime custodite nel ventre dell’area  che si estende dal Sahara al Sahel (non solo petrolio e gas, ma anche uranio e metalli preziosi), e sempre più caldo, anche per l’affollamento di potenze che cercano di portare a casa più bottino possibile. Ultimamente è la Cina che sta rafforzando la sua presenza sistemica (economica e politica) un po’ ovunque nel Continente africano. «In Mali la Cina si è insediata nei settori delle costruzioni e dell’industria leggera, dal tessile allo zucchero e ai farmaci. Tanto che nel 2008 l’interscambio commerciale tra i due Paesi, che hanno alle spalle 59 anni di relazioni diplomatiche, ha raggiunto quota 230 milioni di dollari … Affascinata dalla Cina, però, l’Africa deve tutelare la sua economia interna e non dimenticare di guardare al futuro per evitare di ritrovarsi sempre più dipendente, in questo caso dalla Repubblica Popolare (Alessia Virdis, Limes, 26 febbraio 2009). Per molti Paesi africani il capitalismo cinese sta diventando la strada obbligata verso la modernità e lo sviluppo economico, ed è evidente che l’attivismo economico-politico della Cina non sempre si “armonizza” con gli interessi “occidentali”. Anche per questo l’iniziativa francese è supportata, almeno in questa fase, dagli Stati Uniti.

Attraverso l’uso della forza militare, i francesi cercano anche di reagire alla loro sempre più manifesta debolezza sistemica (con conseguente appannamento del già declassato «rango Transalpino»), e ciò ha un grande significato sia sul terreno della politica estera, soprattutto nel loro rapporto con i tedeschi (secondo il Corriere della Sera del 13 gennaio «In Europa non mancano i malumori, in particolare a Berlino, dove il ministro degli Esteri Guido Westerwelle ha escluso l’invio di truppe in Mali e lanciato un appello per una “soluzione politica” della crisi»); sia su quello della politica interna, la quale deve fare i conti con un quadro sociale sempre più “mosso” dalla crisi economica. Sembra addirittura che non pochi giovani francesi di origine araba si siano spostati nel Maghreb islamico per unirsi ad Al Qaeda, la quale nuota come un pescecane nel mare del fondamentalismo jihadista creato dal disagio sociale, dalla miseria e dalle lotte per il potere economico e politico in atto in tutto il mondo islamico.

Va da sé che la religione in tutto questo processo ha una funzione politico-ideologica di rilievo solo nella misura in cui serve ed esprime interessi del tutto materiali, che con la sfera del sacro non hanno nulla a che vedere. In gioco non c’è la salvezza delle anime, il paradiso ricco di giardini lussureggianti e di vergini bellissime o la purezza del Verbo, ma l’accesso alla più prosaica ma vitale rendita petrolifera, ma anche al salario, al cibo, alle medicine, all’acqua, ai telefonini, alle antenne paraboliche e così via. Vuoi in chiave di progresso (capitalistico), vuoi in chiave di conservazione (dei poteri e degli interessi costituiti e consolidati), la religione si presenta in questo contesto analitico alla stregua di un formidabile strumento di lotta politica.

La grandeur è una merce che si vende ancora bene a Parigi. Nel suo editoriale di ieri Libération faceva notare come nella Quinta Repubblica la guerra sia sempre stata una buona notizia per l’Eliseo, ed è un fatto che dopo l’intervento armato in Mali la destra di Marine Le Pen, in guerra contro il governo Hollande sui «temi eticamente sensibili»,  ha smorzato di molto i toni della sua polemica “passatista”. L’effetto di ricompattamento nazionalistico sotto il tricolore francese è stato immediato, e almeno per adesso sembra poter resistere alle prime cattive notizie che arrivano dal teatro di guerra. Dopo lo scorso venerdì lo scialbo Hollande sembra meno insulso, a dimostrazione che anche nel XXI secolo l’uso della forza ha un certo appeal.

san obamaE i pacifisti europei? Forse siamo alle prese con il loro solito strabismo “geopolitico”, per cui solo se il missile intelligente è targato Stati Uniti o Israele assistiamo a una manifestazione di spontanea indignazione, con immediata convocazione piazzaiola. Certo, se il «Grande Satana» è in guisa repubblicana, bianca e petrolifera l’indignazione pacifista viene ancora meglio…

DAL NOBEL DI OSLO AL TAPIRO DI BRUXELLES

Il punto sulla guerra in Europa

Il summit europeo di Bruxelles ha mostrato, a quanti ancora nutrivano qualche dubbio in merito, la gravità dei contrasti che dividono l’area economicamente forte dell’Ue, capeggiata dalla Germania, dalla sua area economicamente più debole, che oggi ha nella Francia la sua espressione politica più decisa, se non la più coerente e autorevole. Il prestigio gallico è in caduta libera almeno da mezzo secolo, in compagnia di quello inglese, e la scenata mediatica di giovedì scorso tra la Merkel e Hollande non è certo bastata a invertire il trend.

L’Italia, seconda potenza industriale del Continente (un dato che non bisogna trascurare nell’analisi dell’attuale tensione intereuropea), benché azzoppata da cospicue e annose magagne sistemiche, sta cercando di ritagliarsi un discreto spazio di manovra giocando sulla tradizionale “dialettica” che corre lungo l’asse Parigi-Berlino. Sotto quest’aspetto bisogna riconoscere a Mario Monti un’abilità diplomatica davvero notevole, in linea peraltro con la migliore politica estera italiana, fatta di quei giri di valzer che tanta nausea hanno provocato nei decenni soprattutto agli “amici” del Bel Paese. Appena si apre una contraddizione tra Germania e Francia, Monti corre subito a vestire i panni del «grande mediatore» nonché «facilitatore di accordi», e compare, alternativamente, dinanzi alla cospicua Merkel o al cospetto dello scialbo Hollande anche quando non richiesto. Quando, in sede di conferenza stampa, il premier italiano ha dichiarato, per compiacere i francesi senza inimicarsi troppo i tedeschi, che l’Europa non ha bisogno di «nuove cintura di castità», sembrava quasi crederci. Il fine sarcasmo di Monti batte di molte lunghezze il rozzo battutismo berlusconiano, questo è sicuro. Ma la specialità del bocconiano sta soprattutto nel saper vendere come mezzo pieno un bicchiere che appare a tutti desolatamente vuoto, e per di più crepato in modo imbarazzante. E qui ritorniamo all’inquietante (dal punto di vista degli europeisti, beninteso) vertice di Bruxelles.

«Così nel giro di quattro mesi la storia della crisi è tornata ad essere quella di sempre, per la quale la responsabilità di tutto è nel debito di Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. Purtroppo la posizione dei Paesi più solidi, che vede ogni radice del male europeo nei debiti meridionali, frena il processo» (Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2012). Questa lettura dei fatti mi appare assai superficiale, oltre che viziata dal solito vittimismo “mediterraneo”, quello che tanto irrita i «Paesi più solidi» dell’Ue, i quali proprio perché più forti hanno tutto l’interesse a spingere verso un controllo più stringente delle politiche fiscali dei Paesi più deboli. Si scontrano interessi sistemici diversi, tutti legittimi dal punto di vista delle classi dirigenti nazionali, tutto qui. Il processo di unificazione europea non è un pranzo di gala, e soprattutto deve avere una Prussia e un Piemonte, ossia un centro di gravità (economico, tecnologico, scientifico, politico) e una forza che unifica. Tramontata storicamente la via francese – napoleonica – all’unificazione, rimane in piedi solo quella tedesca: dal panzer al marco, dalla Wermacht al Made in Germany. La potenza economica della Germania ha reso possibile un evento (la riunificazione tedesca) che nella storia lontana e recente ha presupposto l’irruzione della guerra tradizionale, a dimostrazione della natura fondamentalmente economica dei rapporti tra gli Stati nella società moderna – e “postmoderna”. La cosa può suonare assai politicamente scorretta agli intellettuali progressisti tipo Habermas e Bauman, i quali, dall’alto della loro Scienza non smettono di denunciare la «mediocrità dei leader europei», ma il processo sociale se ne infischia delle pie illusioni coltivate dai teorici del capitalismo dal volto umano e kantiano: la pace perpetua non è di questo mondo (capitalistico).

Detto en passant, quando il liquido Zygmunt Bauman perora la causa di una Confederazione europea capace di contrastare le forze della globalizzazione che agiscono in modo «spudoratamente sovranazionale» (vedi l’intervista rilasciata oggi dall’intellettuale polacco al Corriere della Sera), non fa che svelare il contenuto reale, imperialistico nella sua più intima essenza, del «sogno europeo». Come creare in Europa un’area capitalistica capace di reggere il confronto con le altre aree (America, Asia, Africa) capitalistiche del pianeta? Il sovranismo dei Paesi europei deve fare i conti con questa sempre più vitale dilemma.

L’oggettiva ironia del premio Nobel per la pace conferito all’Ue non poteva trovare una conferma più puntuale del Summit del 18 ottobre. Dal premio pacifista di Oslo al Tapiro di Bruxelles, in pochissimi giorni: un vero shock per l’europeista senza se e senza ma, già depresso da tre anni di disillusioni. Ma «l’ipocrisia artificiosa, approssimativa e deresponsabilizzante del tortuoso esercizio dialettico che si è svolto a Bruxelles», come ha scritto Bruno Waterfield sul The Daily Telegraph, cela giganteschi interessi nazionali e capitalistici che difficilmente può cogliere il pensiero di chi crede nella primazia della politica (possibilmente radicata su istituzioni democratiche) e della buona volontà.

«Paradossalmente, la cessione di sovranità, da alcuni tanto invocata, da altri molto temuta, rischia di essere percepita in questo caso come un nuovo tipo di accentramento delle responsabilità e delle competenze. Con la Germania, tanto per cambiare, a tenere i fili delle marionette» (Paolo Lepri, Il Corriere della Sera, 19 ottobre 2012). Di qui, da un lato il modello di federalismo competitivo vagheggiato per l’Europa da Berlino, e dall’altro il sovranismo sempre più anoressico – più che anacronistico – di Parigi, che cerca di rispondere con la politica (militarismo compreso) alla netta superiorità capitalistica della Germania. Da questo punto di vista il progressista Hollande non fa che continuare la politica del conservatore Sarkozy, necessariamente. L’altro giorno Le Figaro scriveva, giustamente, che «nel braccio di ferro in corso tra Parigi e Berlino sul futuro dell’unione monetaria qualunque cosa dica l’Eliseo, Angela Merkel è in una posizione di forza».

La «solidarietà» invocata dal Presidente Francese in opposizione al rigorismo fiscale della Cancelliera di Ferro non è che un espediente retorico volto a nascondere la difficile posizione francese. Nell’attuale guerra sistemica europea la Francia non solo non può opporre alla Germania un potente esercito (leggi sistema industriale), ma rischia essa stessa di precipitare nel girone infernale dei Paesi sottoposti alla sorveglianza speciale dell’area tedesca: Grecia, portogallo, Spagna, Italia. «Se la crisi si aggravasse, la Francia potrebbe andare incontro allo stesso destino dell’Italia ed essere presa d’assalto dai mercati finanziari. Se si mitigasse, potrebbe ugualmente andare incontro allo stesso destino dell’Italia, dato che i mercati scoprirebbero che le condizioni di salute dell’economia francese non hanno nulla da invidiare a quelle della Penisola» (Arnaud Leparmentier, Le Monde, 17 settembre 2012). La richiesta fatta alla Germania da François Hollande di abbandonare la politica dell’austerity interna attraverso un aumento dei salari e un allentamento dei cordoni della borsa pubblica è particolarmente risibile e la dice lunga sul gap di competitività che separa i due Paesi leader dell’Unione. La Merkel, a ragione, ha risposto che l’allineamento di produttività deve avvenire con una corsa ascendente degli altri Paesi, non attraverso un livellamento di stampo dirigista.

Intanto la Confindustria tedesca concorda (a Bolzano) con quella italiana sul fatto che «l’Europa deve essere il cuore del manifatturiero a livello internazionale», e che «serve più produttività e più innovazione». I lavoratori tedeschi e italiani sono avvertiti.

CHI AIUTA, CONTROLLA!

Bastava scorrere i titoli dei quotidiani tedeschi di sabato e domenica per capire come il problema del «rigorismo» e dell’«egoismo» tedesco non ha il nome Merkel, o quello di un qualsiasi Pinghen Pallinen basato a Berlino. Come i leader europei sanno benissimo (ma fingono di non sapere, in chiave di politica interna, per additare il perfetto capro espiatorio a lavoratori, disoccupati e contribuenti fiscali sempre più arrabbiati), quel problema ha dietro di sé i più che legittimi interessi della Germania e dell’area che fu (e sarà?) del Marco. Nello stesso partito della Cancelliera cresce la fronda dei “duri e puri” che non vogliono arrendersi al «Mezzogiorno spendaccione». È bastato un “cedimento” puramente formale alle ragioni delle «cicale» per infiammare lo spirito “rigorista” dei tedeschi, i quali non vogliono nemmeno sentir parlare della necessità di pagare i pasti ai greci, agli spagnoli, agli italiani, ai portoghesi: «padroni fiscali a casa nostra!» Oppure? Oppure occorre creare gli strumenti politici per controllare da presso i soldi tedeschi che finiscono nelle scassate casse del Sud. Chi aiuta, controlla!

Analogamente, il problema «dell’egoismo localistico» in Italia non è la Lega: esso fa capo agli interessi sociali dell’area più forte e dinamica del Paese che quel movimento ha espresso in tuti questi anni. Bossi o non Bossi, Maroni o non Maroni, con rispetto parlando, la Questione Settentrionale non solo rimane intonsa, ma con l’approfondirsi della crisi economica internazionale si aggrava e si aggroviglia. A tutti i livelli (mondo, Europa, Italia), per capire la dialettica politica e i sentimenti della cosiddetta opinione pubblica bisogna monitorare i rapporti di forza materiali (fra i continenti, gli stati, le regioni, le classi) e lo stato dell’economia.

Christian Rickens ha scritto su Der Spiegel che «La concessione di Merkel è più che compensata da una vittoria diplomatica che ha messo a segno poco prima della riunione: alla fine della scorsa settimana è riuscita a far firmare al presidente francese il suo patto fiscale, che è molto impopolare a Parigi, in cambio del suo supporto al “patto per la crescita” da 130 miliardi di euro. È difficile esagerare la disparità dell’accordo. Il “patto per la crescita” è fatto di poco più che promesse e sogni che non si realizzeranno mai. Anche se non causerà nessuna crescita in Europa, non costerà nemmeno altri soldi alla Germania». Ciò, fra l’altro, spiega il profilo stranamente basso esibito da Hollande durante il “fatale” Summit europeo.

Ieri Rampini (La Repubblica) mostrava in quali sconsolati termini i quotidiani americani valutino la crisi sistemica del Bel Paese, alle prese con problemi fin troppo vecchi: gap Nord-Sud, obsolescenza della pubblica amministrazione, debito pubblico, scarso dinamismo del Capitale privato, anch’esso avvezzo da tempo immemorabile all’assistenzialismo statale, materia prima per i teorici del «socialismo di Stato». Sempre Ieri Wolfgang Münchau ha scritto sul Financial Times che nella sostanza dopo il Vertice del 28-29 giugno niente cambia in Europa, e ciò vale soprattutto per l’Italia, il cui successo in chiave antitedesca è un mito che il bravo premier italiano cercherà di capitalizzare in chiave di politica interna, in primo luogo per rafforzare la spending review, osteggiata da chi nel Bel Paese ha cospicui e radicati interessi a mantenere lo status quo nella spesa pubblica. A cominciare dal sindacato collaborazionista (parastatale), CGIL in testa. La Germania è stata “sconfitta”, la politica dei sacrifici continua. Anzi: si inasprisce.

IL PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA (3)

Quando la Germania va bene, di solito sei mesi dopo i suoi soldati marciano per gli Champs Elysèes (Gerard Baker, Financial Times, 17 ottobre 2002).

L’assedio alla Germania si fa di giorno in giorno più stringente, e il cannoneggiamento politico-diplomatico del Paese si inasprisce anche sul fronte extraeuropeo. Bordate prima mai viste arrivano dagli Stati Uniti e dalla Cina, i cui governi devono vendere alle rispettive opinioni pubbliche il capro espiatorio che spieghi il rallentamento delle loro economie. «La crisi in Europa frena la nostra economia, e la responsabilità maggiore di questa crisi va addebitata alla Germania». Un discorso semplice semplice, alla portata di tutti, che ha trovato sul fronte europeo un consenso generale. Peccato che sia falso, almeno nella parte che attribuisce le responsabilità di “ultima istanza”.

Giusto per non perdere visibilità e dimostrare l’esistenza in vita della Francia, Hollande ha ricordato all’amico Obama che «la crisi economica è partita dagli Stati Uniti: non ci risulta che la Lehman Brothers fosse un Istituto finanziario europeo». Un minimo sindacale di grandeur celato sotto un sottilissimo strato di “spirito europeista”. Assai significativamente la Casa Bianca, spalleggiata dal Fondo Monetario Internazionale, ha “suggerito” agli europei di abbandonare il dogma rigorista del pareggio di bilancio e di «spendere a debito», illuminando così involontariamente la causa principale della bolla speculativa scoppiata in America nel 2008. Cosa che, tra l’altro, dimostra quanto sia infondata la distinzione tra «economia reale» e «economia finanziaria», due sfere necessariamente e inestricabilmente interconnesse. Che su questa intima relazione si dà la possibilità della più sfrenata e “immorale” speculazione, ebbene questo è un fatto che può turbare solo la coscienza dei buoni di cuore.

Scriveva ieri Antonio Polito: «Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l’una all’altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi»(Il Corriere della Sera, 5/06/2012). Già, tutti sono europeisti e solidali, con i soldi degli altri!

Giustamente Polito sostiene che nemmeno la Germania assiste a cuor leggero allo sfaldamento dell’eurozona, e che sarebbe pure disposta a fare qualche sacrificio per salvare paesi «irresponsabili e spendaccioni» come Grecia e Spagna; ma non a tutti i costi, non senza porre delle precise condizioni. Legittimamente. «Nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation . È impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi». È, questo, il punto nevralgico dell’attuale guerra europea. È, per dirla con Polito, «il rompicapo della Sovranità», il quale chiama in causa la germanizzazione dell’eurozona, ossia il convergere di tutti i partner provvisti della stessa moneta verso il modello sociale tedesco.

Mentre il popolo greco muore di fame Lei si diverte! Che cattivona!!

Senza la centralizzazione della politica monetaria e fiscale non ci sarà mai quella “comunitarizzazione del debito” richiesta a gran voce dai buoni di spirito della “solidarietà europea”, e la prima presuppone un travaso di potenza che farebbe pendere il Vecchio Continente dal lato della potenza egemone sul piano dell’economia e della demografia. Parlo della Germania, ovvio. E qui il nazionalismo delle «patrie europee» trova un eccezionale alimento. «Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse? Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c’è bisogno di ricordare che fu il “sovranista” popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l’Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe». È dai tempi del Trattato di Roma che la Francia «fiacca la costruzione dell’Europa e ne limita le ambizioni» ( J-J Servan-Schreiber, La sfida americana, 1969). Oggi tutti i quotidiani francesi unanimemente concordano su questo punto: è il sovranismo francese il vero ostacolo alla realizzazione di un’Europa federale. Il motivo è semplice, e ruota intorno al travaso di potenza cui accennavo sopra.

Detto di passata, e in sfregio alla ridicola grandeur dei cugini d’oltralpe, il «regime del disonore» di Vichy (1940-1944) trovò l’appoggio di chi allora in Francia riconobbe il dato di fatto richiamato da Polito: potenza tedesca e debolezza francese. «L’abuso delle buone cose – annotava Paul Valéry nei suoi diari nel giugno 1940 – ha portato la Francia alla sventura … Noi siamo vittime di ciò che siamo».

All’Europa unita e felice!

La lettura dei fatti data da Polito mette in ridicolo chi oggi contrappone il «vecchio sogno europeista dei padri fondatori» (Churchill, Jean Monnet, Adenauer, de Gaulle, De Gasperi), all’incubo del sempre più imminente crollo dell’edificio europeista generato dall’egoismo e dalla miopia degli attuali leader europei, a partire – naturalmente – da quelli tedeschi. Quale Europa emergerà dalla crisi, si chiede ad esempio Adriana Cerretelli: «Quella equilibrata e solidale delle origini, cui sarebbe facile delegare nuovi poteri, o quella del più forte che impera oggi?» (Il Sole 24 Ore, 5/06/2012). Ma il mito della vecchia e cara Europa dei «padri fondatori», diffuso soprattutto nell’opinione progressista del Vecchio Continente – con qualche diramazione statunitense: vedi Jeremy Rifkin e lo stesso Obama –, mostra tutta la sua inconsistenza ad un’analisi storica appena più seria, e soprattutto non viziata da pregiudizi ideologici. Cerco di dimostralo in tutti i post dedicati alla «Questione tedesca come Questione europea», ad esempio in Se deraglia la locomotiva tedesca.

Scrive la Cerretelli: « La grande Germania, dice Schmidt, sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner. Ormai guarda con beata indifferenza a sacrifici e risentimento dei greci, all’orgoglio ferito degli spagnoli in difficoltà, al sofferto sì degli irlandesi non per convinzione ma per paura di perdere i fondi Ue. Segue con fastidio, osservandole dall’alto in basso, le manovre della nuova Francia e dell’Italia per rimettere in moto la crescita europea. Nell’attesa, lucra allegramente sui guai altrui finanziandosi gratis sui mercati e facendo shopping europeo a prezzi di saldo. Se non cambia, questa Europa a una dimensione, tutta e solo tedesca, è destinata al collasso. Politico, economico, democratico. Alle rivolte popolari. C’è meno di un mese per convincere la Merkel ad ascoltare anche le ragioni altrui, a ritrovare un po’ di spirito europeo, una visione strategica del futuro. In breve, a evitare di far del male a sé e agli altri». Signori, la guerra è servita!

Detto en passant, George Soros è più ottimista: dà all’Europa altri tre, quattro mesi di vita. A meno che «la Germania non rinsavisca». La pressione politica e psicologica sui «maledetti crucchi» rischia di farsi parossistica, e certamente è dal ’45 che sulla Germania non si riversava un simile carico di ostilità e di imprecazioni. L’ex (?) stalinista greco Manolis Glezos, ieri eroe della resistenza antinazista e oggi eroe della resistenza antimerkel basata a piazza Syntagma, non smette di ricordare a «Frau Merkel» che la Germania «ci deve un sacco di soldi. Siamo l’unico Paese europeo a non essere stato risarcito dalla Germania per i danni di guerra: parliamo di centinaia di miliardi di euro» (intervista a Vittorio Zincone pubblicata su Sette del Corriere della Sera, 18/05/2012). Il vecchio Glezos conclude così la sua invettiva antinazista, pardon, antitedesca: «Prendano i loro soldi e vadano al diavolo». Un invito a nozze per Frau Merkel…

A proposito del concetto a me caro di «Germania come Potenza fatale»: «Qualche giorno fa non sono stato in grado di dare una risposta univoca a una domanda molto semplice: “Quando la Germania diventerà finalmente un Paese normale?” Ho risposto che in un futuro prossimo la Germania non diventerà un Paese “normale” a causa del nostro enorme e peculiare fardello storico e della posizione centrale e soverchiante che il nostro Paese occupa a livello demografico ed economico in un continente molto piccolo, ma articolato in una compagine variegata di Stati nazionali (Helmut Schmidt, Il Sole 24 Ore, 5/06/2006). Non è che «il passato non vuole passare», secondo il noto e abusato stilema. È che la storia continua. Semplicemente. La storia, non l’idea che i buoni di spirito si fanno di essa.

Il PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA (2)

Mario Deaglio parla di «miope rigorismo tedesco». Il noto filantropo George Soros rincara la dose: «La Germania deve convincersi che un’austerità fine a se stessa è ottusa e non porta da nessuna parte» (La Repubblica, 12/05/2012). Tanto per il primo quanto per il secondo l’alternativa al «dogma della disciplina di bilancio» esiste, e si chiama – indovinate? – «crescita». Non so perché, ma la cosa non suona nuova ai miei orecchi…

Crescita e sviluppo: un mantra stucchevole e «surrealista», per dirla con Le Figaro, dietro il quale si nasconde, come osservava lo scorso venerdì Le Monde facendo le pulci alle illusioni keynesiane di Hollande, il ritardo sistemico dei paesi che stanno perdendo la guerra della competitività totale con la Germania. Se il modello del nuovo Presidente francese è Mitterrand, ragionava Le Monde, non c’è da essere allegri. La politica della spesa pubblica non solo non porterà la Francia fuori dalla crisi, ma aggraverà piuttosto la sua situazione debitoria ed economica. Intanto Hollande inizia a riposizionarsi sullo scacchiere interno e internazionale, e con la scusa dei «diktat tedeschi» inizia a preparare l’opinione pubblica francese a una ritarata che da “tattica” potrebbe rivelarsi subito – e rovinosamente – strategica. Già mi pare di sentire le insulse grida dei suoi fans europei: «Hollande, anche tu ti stai vendendo alla Germania!» Prevedo una ripresa dell’indignazione generale.

Tutti a dare consigli alla «cinica e ottusa» Germania: «aumenta la capacità di spesa dei lavoratori tedeschi, diminuisci la loro competitività, lasciali andare a fare i turisti nel Mezzogiorno d’Europa, allenta il morso della disciplina e abbandona la paura dell’inflazione». Sono tutti “operaisti”, con i lavoratori degli altri paesi…

Come altre volte ho scritto, lungi dall’essere ottusa e «fine a se stessa», la politica «rigorista» tedesca si spiega semplicemente con i legittimi interessi del Capitale tedesco e della società tedesca colta nella sua totalità. Che la Germania non voglia perdere la battaglia della competitività sistemica, e che essa veda come il fumo negli occhi un cospicuo trasferimento della sua ricchezza a favore delle «cicale» meridionali, e magari della Francia, ebbene questo fatto può suscitare irritazione solo presso i sognatori del federalismo europeo e i nazionalisti, a partire dalla loro configurazione progressista (alludo ai socialnazionalisti).

Che nel Vecchio Continente spiri un’arietta sovranista densa di – potenziali – nefaste conseguenze, lo si è potuto cogliere, quasi con sorpresa, nella conferenza stampa della Presidenza del Consiglio di ieri, quando l’ineffabile Monti ha dichiarato che con i sacrifici l’Italia si è sottratta al destino di colonia nelle mani di istituzioni politico-finanziarie sovranazionali. Questo anche per rispondere alle accuse di «servilismo» nei confronti della Germania e dei «poteri forti» della finanza mondiale che gli sono stati rivolti da “destra” e da “sinistra”.

La Germania, ovviamente, è ben cosciente delle gravi conseguenze politiche e sociali immanenti alla sua tetragona strategia, al punto che la Bundesbank ieri ha lasciato trapelare la possibilità di più alti salari per i lavoratori del Paese, e una politica monetaria meno aggressiva nei confronti dell’inflazione. Ma siamo sul terreno della diplomazia, arma insostituibile in ogni guerra che si rispetti. Al contempo, la banca centrale tedesca ha fatto sapere, attraverso canali «non ufficiali», che la fuoriuscita della Grecia dall’eurozona non deve spaventare più di tanto gli investitori europei e mondiali. Ci si porta avanti col lavoro…

D’altra parte, la Merkel ha sempre dichiarato che il problema che affligge le «cicale» meridionali non è la spesa pubblica «in sé», in quanto tale, ma la sua pessima qualità, ossia la sua consistenza largamente improduttiva e parassitaria. E qui viene nuovamente in prima linea la madre di tutti i problemi: come liberare capitali, pubblici e privati, dall’obeso sistema fiscale per orientarli verso l’accumulazione capitalistica in grande stile? Chi contrappone ideologicamente il pubblico («buono») al privato («cattivo»), politiche keynesiane a politiche liberiste, mostra di non aver compreso il reale funzionamento dell’economia basata sul profitto, né la natura dell’odierna crisi economica.

Prendere coscienza di ciò (altro che «prendere le armi», come farneticano i “nuovi terroristi”!) significa orientare il pensiero che vuole essere radicale verso pratiche politiche all’altezza della situazione.

Vedi anche:

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IL PUNTO SULLA GUERRA