Nella sua rubrica dedicata alla stampa e alla blogsfera cinese che tiene su Radio Radicale, Francesco Radicioni ha ospitato Gaia Perini, sinologa e docente di lingua e letteratura cinese all’Università di Bologna. Radicioni ha invitato la Perini ad analizzare il movimento di lotta hongkonghese anche alla luce dell’entrata ufficialmente in vigore, il primo luglio scorso, della nuova Legge sulla sicurezza nazionale, la quale estendendo a Hong Kong la legislazione e la prassi di controllo e repressione sociale in vigore sul continente cinese, rappresenta un brusco e forte giro di vite nella gestione della questione hongkonghese. Quella che segue è una trascrizione sintetica dell’interessante intervista. Mi scuso se nella sintesi ho sacrificato un po’ di chiarezza.
La narrazione del regine cinese è stata naturalmente caratterizzata da una forte propaganda filocinese che ha cercato di sminuire la portata del movimento di lotta attivo ormai da molto tempo a Hong Kong, il quale peraltro ha coinvolto 2 milioni di persone su una popolazione di 7,5 milioni, il che non è poco. Non si tratta certo di una “teppa” senza né capo né coda, come sostiene il regime, ma di un largo movimento che aspirava a un riconoscimento politico. Col tempo la sua criminalizzazione ad opera di Pechino è cresciuta: i manifestanti sono qualificati come violenti, rissosi, banditi, privi di principi morali, terroristi. L’accusa di terrorismo ci dice dell’incapacità del regime cinese di avere a che fare con il dissenso e rinvia al garbuglio di dinamiche tra centro e periferia che vediamo in azione ad esempio nello Xinjiang e in Tibet, e in questo senso si connette anche alla formazione della moderna nazione cinese, con il difficile passaggio dal vecchio Impero, dalla vecchia costituzione imperiale, al moderno Stato-Nazione che da cento e più anni la Cina ha abbracciato come propria forma istituzionale e politica. Ma non si è trattato assolutamente di un passaggio naturale, e comporta ancora forti tensioni sociali, non solo, a dire il vero, tra centro e periferia, ma anche nelle parti centrali del Paese. Veniamo al movimento hongkonghese.
I media occidentali e quelli cinesi hanno appiattito il movimento su due letture opposte: o movimento filo-democratico oppure movimento filo-terrorista, una rivolta fine a se stessa. Si tratta in realtà di un movimento estremamente composito che raccoglie la rabbia di molti gruppi e strati sociali. Al suo interno si possono individuare almeno tre grandi gruppi. C’è il fronte democratico che ha come suo modello l’Occidente, che lotta per i diritti umani, e che è la componente più conosciuta dalle nostre parti. C’è poi la gioventù radicale, giovani molto radicalizzati bardati di nero per non farsi riconoscere dalle forze di polizia. Il regime di Pechino ha parlato di “terrorismo nero” per screditare e criminalizzare questo gruppo, il quale si fa vettore consapevole di una grossa tensione sociale dovuta alle crescenti diseguaglianze di una società che almeno dal 2001, cioè dall’ingresso della Cina nel WTO, è stata sballottata tra due poli: da hub privilegiato dell’ingresso e dell’uscita delle merci cinesi verso il mondo occidentale, a centro iper finanziarizzato dove la ricchezza è raramente distribuita secondo criteri di equità, e che si vede scavalcato da questo gigante che è la Cina, la quale decide al posto della popolazione di Hong Kong. Questa gioventù radicalizzata che raccoglie gran parte della rabbia sociale comprende al suo interno un vasto insieme di idee e di riferimenti culturali, che vanno dall’anarchismo sino alle spinte nazionalistiche ed eventualmente xenofobe.
Come terzo gruppo ci sono poi i nativisti e localisti, che costituiscono una frangia senz’altro xenofoba che chiama locuste (*) i cinesi del continente, rivendica un’identità hongkonghese basata sul cantonese e che rigetta qualsiasi idea di una Cina come unione comunitaria di diverse realtà etniche e culturali.
Infine, ma da non sottovalutare assolutamente, anche per i numeri, occorre considerare gli operai e gli attivisti sindacali, i sindacalisti che in realtà erano attivi da ben prima, e che hanno sempre sfruttato questa loro posizione a Hong Kong per monitorare tutto il grande spazio industriale del Guandong, con i suoi grandissimi distretti industriali, per poterne scrivere e svolgere un’attività sindacale resa possibile appunto dalle maggiori libertà che hanno goduto a Hong Kong. Insomma, Hong Kong è stata anche la torre di guardia, il punto di osservazione privilegiato per l’attivismo sindacale, anche grazie alla sua prossimità geografica con il Guandong, cosa che rende possibile un’unità d’intenti con gli attivisti della Cina continentale. Va infatti detto che nel corso del 2019 sono state fondate 25 unità sindacali, delle Unions, da attivisti hongkonghesi e continentali, e molte altre sono nate all’inizio del 2020. Certamente la nuova legge sulla sicurezza nazionale mette il bavaglio agli attivisti sindacali, con conseguenze non felici sull’attivismo in genere, però d’altra parte, e paradossalmente, questo fatto potrebbe parificare la condizione degli operai della Cina continentale con la forza lavoro che si trova a Hong Kong, facilitandone l’unione.
È quello che ad esempio sostiene il collettivo Lau Xjan [non so se ho scritto correttamente il nome], il quale è molto attivo e che possiamo collocare nella prima linea della gioventù radicale. Questo collettivo spinge molto per un’internalizzazione delle lotte e del dissenso, e addirittura ricerca un’unione e uno scambio di strategie di lotta con il Black Lives Matter e con altri gruppi statunitensi che ovviamente sono critici nei confronti delle politiche degli Stati Uniti. E quindi non si direbbe che quel collettivo sia venduto agli interessi dell’imperialismo americano…
Sul profilo Facebook della sinologa qui citata leggo quanto segue: «Lettura lunga ma merita [si tratta di un post da lei linkato il 5 luglio], anche e soprattutto perché va ben al di là del tema del nazionalismo dei cinesi residenti all’estero, sconfinando in quel campo che almeno per la sottoscritta è una grande sfida, teorica e politica, ossia: come si costruisce un discorso sulla Cina contemporanea da una prospettiva di sinistra, lontana anni luce dall’anticomunismo viscerale della stampa mainstream anglosassone ma anche, parimenti distante dalle teorie dell’eccezionalismo cinese (你们老外不懂)e soprattutto in fuga dal tabellone del risiko geopolitico, o forse gioco dell’oca, in cui se non mangi la minestra di Pechino, puoi solo saltare dalla finestra di Washington…». Come sanno i miei – ahimè pochi – lettori a mio avviso è possibile avversare nel modo più radicale il regime (non il “popolo”, o la straordinaria cultura) cinese senza scadere necessariamente nell’anticomunismo e nel fiancheggiamento (“oggettivo”) dell’imperialismo occidentale, a partire ovviamente da quello americano. Questo soprattutto perché il regime cinese non ha mai avuto niente a che fare con il comunismo, neanche ai tempi di Mao Tse-tung, eroe della Rivoluzione borghese-nazionale culminata nell’Ottobre del 1949 con la proclamazione della cosiddetta Repubblica Popolare Cinese. Non c’è dubbio (almeno per chi scrive): la minestra cucinata a Pechino dal Partito-Stato (o Partito Capitalista Cinese) va gettata senza alcuna remora nella pattumiera, là dove sguazzano i tifosi del “socialismo con caratteristiche cinesi”.
(*) «È incontestabile il fatto che ai continentali sia stato affibbiato il nomignolo di “locuste”, per sottolineare il carattere predatorio e le modalità non del tutto pulite con cui costoro conducono i loro affari nella Regione a statuto speciale; tuttavia la natura stessa dell’insulto svela la sua radice economica e politica, più che etnica, suggerendo quindi come pure la più accesa intolleranza in realtà origini da circostanze storiche recenti, dai mutamenti socioeconomici avvenuti nell’ultimo ventennio, e non da fattori culturali di lungo corso. Gli abitanti di Hong Kong, infatti, appartengono prevalentemente alla stessa etnia cinese Han e solo una limitata (ancorché significativa) minoranza proviene da altri gruppi (Hakka, per esempio, o si pensi anche alla forza lavoro migrante giunta dalle Filippine e dall’Indonesia)» (G. Perini, Territorio, autodeterminazione e/o rivoluzione: dalla Pechino del 4 maggio 1919 alla Hong Kong del 2019).