L’ARMATA BRANCAMADURO

– Andate al fronte, compañeros? Attenti alle fucilate! – E tutti si misero a ridere. Le sentinelle esclamarono:
– Addio! Non ammazzateli tutti! Lasciatene qualcuno per noi!
(J. Reed, Messico insorto).

«Vamos a matar, compañeros! La Brigata Maduro è pronta per partire per il Venezuela a difendere il regime chavista che, in un colpo solo, ha esautorato il Parlamento controllato dall’opposizione e ha affidato al presidente Nicolás Maduro i pieni poteri militari, economici, sociali, politici e civili. La dittatura si fa legge. Persino papa Francesco si è schierato contro Maduro. La Brigata Maduro, come ci ha raccontato Fabrizio Caccia sul Corriere, è folta: Gianni Minà, Fausto Bertinotti, Nichi Vendola, Gianni Vattimo, i parlamentari del M5S Manlio Di Stefano e Ornella Bertorotta, aperti sostenitori della rivoluzione bolivariana, e soprattutto il filosofo da talk Diego Fusaro, che si è auto-attribuito la patente di “intellettuale scomodo” (un altro!), in lotta per l’emancipazione umana. “Se Marx, Gramsci e Lenin fossero vivi – questo il pensiero del marxista immaginario e immaginifico – ora sarebbero qui a difendere il comunista e patriota Maduro dall’aggressione americana che, come nel Cile del ‘73, punta ad abbattere un governo che resiste al capitalismo globalizzato”. Vamos a matar, compañeros! Su minima&moralia Raffaele Alberto Ventura ha spiegato bene come la chiacchiera fusariana consista sempre “nel montaggio semi-aleatorio di un pugno di moduli argomentativi preconfezionati, di formule declamatorie”. Se Marx avesse le ruote… Quando il gioco si fa Maduro, i duri e puri cominciano a giocare» (A. Grasso, Il Corriere della Sera, 6 agosto 2017).

I chávisti con caratteristiche italiote hanno dunque la rara capacità di trasformare persino un Aldo Grasso qualunque in un gigante del pensiero politico-sociale. Complimenti! D’altra parte, come diceva quello: tutto è relativo!

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Su Libération del 29 maggio è apparso l’interessante e breve editoriale di Laurent Joffrin che riporto interamente per mantenere desta l’attenzione sulla gravissima crisi sociale che scuote il Venezuela. L’editoriale ha come titolo En arriére, con esplicita allusione alla sinistra chávista francese ed europea che ancora oggi difende il ridicolo – questo però appartiene al mio modestissimo bagaglio “dottrinario” e politico – mito del «Socialismo del XXI secolo», ultimo rifugio per stalinisti e maoisti bisognosi di un lifting ideologico. So che più di un lettore avrà cura di mettermi nel fetido mazzo dei «grandi potentati della stampa internazionale, che agiscono su ordini precisi di Usa e Unione Europea» (Luciano Vasapollo, estimatore della «repressione pacata e lungimirante dell’esercito e della polizia bolivariana»), ma la cosa non mi turba più di tanto.

«L’esperienza del Venezuela, tanto decantata nella sinistra radicale in Francia e altrove, si conclude in un disastro. Mentre detiene le maggiori riserve di petrolio del mondo, il paese è indietro di diversi decenni, con gli standard di vita che precipitano, un’inflazione a tre cifre e una drammatica crisi alimentare. I venezuelani devono ora sopportare interminabili code per il cibo o per trovare farmaci. Una parte della popolazione, soprattutto nelle classi inferiori, non ha abbastanza da mangiare. Le proteste, che non provengono tutte da destra, si moltiplicano. Il piano del governo si propone di salvare il regime mettendo il suo destino nelle mani dell’esercito e delle milizie violente legate al partito chavista. Ora si teme l’istituzione di un regime semi-dittatoriale che ricorda quelli legati alla tradizione latino-americana che credevamo superata. I difensori della “rivoluzione bolivariana” attribuiscono la crisi alla caduta dei prezzi del petrolio, la risorsa principale del paese. Questo fattore ha ovviamente un grande peso, ma non è l’unico. Dopo il successo iniziale, reso possibile principalmente dalla distribuzione delle entrate petrolifere, unica ed elementare misura economica, il regime ha completamente fallito l’obiettivo di diversificare il suo sistema produttivo e, sulla base di un’ideologia dogmatica, ha aumentato in proporzioni irragionevoli l’intervento dello Stato nell’economia. Come sempre in questi casi, l’economia si è vendicata. I produttori, grandi e piccoli, sono stati scoraggiati, la corruzione amministrativa è cresciuta e la redistribuzione ha preso una piega sempre più clientelare. Ora è il popolo venezuelano, che il populista Chávez si vantava di difendere, che paga crudelmente il prezzo».

Per Carlo Formenti in Venezuela e nel resto dell’America Latina è in atto una «controrivoluzione», il che mi fa pensare a una precedente rivoluzione in quegli esotici luoghi che evidentemente non ha avuto il garbo di attirare la mia eurocentrica attenzione: mi son distratto un attimo! Formenti appartiene a quel partito filo-chávista che nemmeno immagina possibile l’esistenza di un’alternativa tra il tifare per il regime di Caracas e il tifare per la fazione opposta, e che pensa che chi non si schiera apertamente dalla parte del primo porta acqua, quantomeno “oggettivamente”, al mulino della “destra liberista-selvaggia” venezuelana e, ovviamente, al gigantesco mulino dell’Imperialismo a stelle e strisce, pronto a distruggere qualsivoglia presenza scomoda che si agiti nel suo cortile di casa. Per molti sostenitori delle ragioni di Nicolas Maduro, reprimendo il movimento politico-sociale che imperversa nel Paese il Presidente venezuelano non sta facendo niente di diverso rispetto a quello che farebbero le democrazie occidentali se si trovassero alle prese con un simile fenomeno. Verissimo! Dalla mia bizzarra prospettiva il regime apertamente autoritario (bastone) e il regime democratico (un’alternanza di scheda elettorale e di bastone) sono due facce della stessa medaglia, due diversi – e complementari/sinergici – modi di gestire le contraddizioni e i conflitti sociali. Ma perché sostenere il diritto alla repressione di questo o quel regime? Ah! Dimenticavo: in Venezuela si tratta di arginare una controrivoluzione in atto…

Scrivevo in un precedente post dedicato alla crisi sociale venezuelana: «Si può essere contro il regime cosiddetto chávista senza per questo sostenere, neanche un po’, chi gli si oppone rimanendo sullo stesso terreno di classe? Per me la risposta è di un’ovvietà disarmante: certo che si può! Anzi, dal mio punto di vista si deve. Quando parlo di “terreno di classe”, usando una vecchia espressione che tuttavia riesce ancora a toccare la sostanza della realtà sociale del XXI secolo, intendo ovviamente riferirmi alla natura capitalistico-borghese del regime venezuelano e degli oppositori politici che da anni cercano di prenderne il posto, anche correndo il rischio di pagare un prezzo assai salato in termini di sangue versato». Ma chi sono io per impartire lezioni di “autonomia di classe” a intellettualoni del calibro di Vasapollo  e Formenti?

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Un moderno Paese capitalista può vivere solo esportando petrolio o altre (poche) materie prime? Diciamo, per economia di pensiero, che in quel caso più che di una vita si dovrebbe piuttosto parlare di una stentata sopravvivenza, strettamente dipendente dalle oscillazioni del ciclo economico mondiale. Il regime politico di quel Paese potrebbe mantenersi a galla a una sola condizione, ossia alla condizione che il prezzo del petrolio sul mercato mondiale sia sufficientemente e costantemente alto. In questo caso quel regime potrebbe usare una parte della pingue rendita petrolifera per crearsi una base sociale con cui puntellarsi. Infatti, anche il regime più totalitario di questo mondo sa che per svolgere bene e con continuità la propria funzione al servizio dello status quo sociale non può contare solo sul bastone, ma deve anche ricercare il consenso politico-ideologico da parte delle cosiddette masse, un’impresa che, come testimonia la storia passata e recente, è tutt’altro che impossibile. Insomma, sto parlando del Venezuela, e del suo regime “diversamente socialista” che tanto piaceva – e, a quanto pare, continua a piacere – a una parte non piccola del mondo sinistrorso di casa nostra.

L’export del Venezuela dipende per il 95% dal petrolio, che costituisce oltre la metà delle entrate pubbliche; negli ultimi due anni il bilancio pubblico del Paese è stato calibrato su un prezzo del greggio pari a 60 dollari al barile, mentre solo intorno ai 100 dollari al barile Caracas può scongiurare un definitivo deterioramento della sua già drammatica situazione debitoria. Come ricorda Alessandro Giberti (Lettra43), Chávez «ha provato a distruggere il sindacato operaio (Ctv). Ne ha inventato un altro (la Unt), e ha proposto una legislazione che proibiva la negoziazione collettiva e gli scioperi nel settore pubblico e petrolifero», confessando con ciò stesso il lato forte e, al contempo, debole del suo regime. Ieri il Presidente Maduro ha annunciato il «terzo aumento del salario minimo nel corso dell’anno in Venezuela. Un incremento del 60% per tutti i lavoratori statali e per i pensionati La decisione è stata presa per fronteggiare una crisi economica devastante e l’ondata di proteste» (TgCom24). Per implementare le sue «politiche redistributive» Chávez poteva contare sui cospicui dividenti petroliferi garantiti da un alto prezzo del petrolio, una condizione favorevole che ha voltato le spalle al suo successore. Sono i limiti del “socialismo petrolifero” – a dire il vero molto petrolifero e per niente socialista. Scherzi a parte, la “modernizzazione” della struttura economica del Paese (ma la cosa riguarda quasi tutti i Paesi latinoamericani) rimane un nodo decisivo che qualsiasi governo/regime è chiamato a sciogliere; mi rendo conto, è più facile a dirsi che a farsi, soprattutto perché l’impresa crea fortissime tensioni sociali nonché la messa in discussione di fortissimi interessi economici e politici, ponendo così le premesse per l’ennesima avventura “rivoluzionaria” guidata dall’ennesimo Salvatore della Patria – o caudillo che dir si voglia.

Con il rapido declino del prezzo del petrolio, del gas e, più in generale, delle materie prime è entrata in crisi anche l’«Alternativa Bolivariana per i Popoli della Nostra America» (ALBA), la creatura geopolitica voluta dall’ambizioso Chávez e nata a Cuba nell’aprile del 2006 (primi firmatari Venezuela, Bolivia e Cuba). La “Rivoluzione Bolivariana” ha insomma esaurito la… benzina… Pardon, volevo dire la spinta propulsiva, per riprendere una celebre formula  berlingueriana riferita – nientemeno! – alla Rivoluzione d’Ottobre.

Per fidelizzare almeno una parte dell’Esercito, il regime chávista ha militarizzato diverse attività economiche, e molti analisti ritengono che ormai Nicolás Maduro sia ostaggio delle Forze Armate, che la sua permanenza al potere, cioè, dipenda unicamente dal loro appoggio. «Con Maduro c’è l’esercito e il suo peso politico, e lo scorso 17 aprile ha fatto avere al presidente il proprio sostegno “incondizionato”». Si tratta di vedere fino a quando e a quale prezzo questo sostegno rimarrà «incondizionato». In un articolo pubblicato su Liberazione (allora organo di Rifondazione Comunista, se ricordo bene) del giugno 2007, la giornalista A. Nocioni notò come «tra i fedeli del Presidente» Chávez ci fossero  «molti ufficiali amici e pochi civili»; il Comitato Bolivariano La Madrugata di Firenze si sentì in dovere di precisare quanto segue: l’articolo fa «una lista di generali in diversi posti chiave dello Stato venezuelano, ma chi conosce la realtà delle attuali forze armate in Venezuela sa che non c’è alcuna dittatura militare. L’esercito adesso è attivo in ogni missione sociale governativa, esercito come ente sociale che si è unito al popolo in quella che si chiama unità civico-militare. Un esercito differente da quello che conosciamo in America Latina, composto da gente di ogni classe, non di casta, che segue un indirizzo umanista» (da Il Pane e le rose). Molto commovente e, soprattutto, convincente. Diciamo… Anche da questa presa di posizione in difesa del caudillo di Caracas si comprende quanto capillare sia in Venezuela la presenza dei militari.

La scorsa settimana il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato, buon ultimo e certamente leccandosi i metaforici baffi, che «il Venezuela è un disastro»: difficile dargli torto. «Quando nel 2006 ero venuto a seguire le elezioni vinte da Chavez contro Rosales, nelle “favelas” di Caracas la logica [del regime] reggeva ancora, grazie al boom del greggio che consentiva di finanziare l’assistenzialismo, la corruzione, e pure la sopravvivenza del castrismo a Cuba, anche se nel frattempo la struttura produttiva del Venezuela veniva lentamente smantellata. Col prezzo del petrolio crollato da oltre 100 dollari al barile a meno di 30, però, l’ illusione è finita. Oggi un ingegnere, se va bene, guadagna cento dollari al mese, e se ha figli fatica a garantire loro il pane. Ammesso che lo trovi, perché persino i generi alimentari di base vengono importati dal Messico o dai paesi vicini. Al supermercato si fanno i turni, nel senso che puoi andare a fare la spesa solo nei giorni in cui il numero finale della tua tessera sociale corrisponde con quello autorizzato a mettersi in fila. L’inflazione è al 150%, ma alcuni la stimano oltre l’800%» (P. Mastrolilli, La Stampa, 29 aprile 2017). Il piano di nazionalizzazioni voluto da Chávez (e venduto al mondo come «transizione al socialismo») ha fallito tutti i suoi obiettivi, mettendo in ginocchio la già fragile struttura industriale venezuelana. La violenza, “comune” e politica, impazza nel Paese, facendo del Venezuela uno dei luoghi più pericolosi del pianeta, probabilmente insieme al Brasile, anch’esso sprofondato in una grave crisi sistemica: economica, politica, istituzionale, sociale. Si parla di 80 persone uccise ogni giorno dalla delinquenza venezuelana: una vera e propria guerra incivile di vaste proporzioni, espressione di un degrado sociale davvero impressionante.

La Russia di Putin sta cercando di puntellare finanziariamente il regime di Caracas, ma può farlo solo entro precisi limiti, perché anche Mosca deve fronteggiare la crisi sociale derivata dal crollo del prezzo del petrolio. Su questo punto rimando al post Oro nero bollente. La Cina come al solito agisce con prudenza e discrezione, ma simile al ragno è pronta a papparsi la preda che finisce dentro la sua tela finanziaria.

Ovviamente il regime di Caracas attribuisce la catastrofica situazione del Paese all’azione antipatriottica della destra volta a implementare «il piano destabilizzante ordito dall’imperialismo statunitense, con la finalità di imporre, attraverso la forza e il ricatto, un governo al servizio della sua egemonia nel continente, smontando i processi di liberazione nazionale iniziati in America Latina agli inizi di questo secolo, sovvertendo i cambiamenti progressisti che hanno permesso ai lavoratori e lavoratrici e al popolo in generale, di stabilire diritti e conquiste sociali negati storicamente da governi che rispondevano, assolutamente, agli interessi della grande borghesia associata in condizioni di subordinazione all’imperialismo nordamericano». Ho appena citato un documento redatto da un sedicente Partito Comunista del Venezuela, il quale chiama «il Grande Polo Patriottico alla più ampia unità d’azione antimperialista». Lo spauracchio del nemico esterno che minaccia la sacra indipendenza della patria mostra ancora la sua maligna efficacia nell’opera tesa a compattare le classi subalterne a difesa dello status quo.

«I proletari non hanno patria», diceva il comunista di Treviri; e lo dico anch’io, nella mia pochezza politico-dottrinaria, s’intende. Ma un conto è dirlo… Ancora nel XXI secolo, nell’epoca del dominio totalitario e globale del Capitale sull’uomo e sulla natura la carta nazionalistico-patriottica si rivela, per le classi dominanti, vincente, ovunque. Come scrisse una volta Karl Kraus, «Il nazionalismo è un fiotto di sangue in cui ogni altro pensiero annega». A proposito di nazionalismo mi piace citare spesso anche Schopenhauer: «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale. […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze». Le classi dominanti sanno bene come solleticare il miserabile orgoglio nazionale dei «poveri diavoli», e lo fanno puntualmente tutte le volte che se ne presenti l’occasione per oliare il meccanismo del controllo sociale. Ecco perché ciò che un tempo si chiamava internazionalismo proletario rimane non un astratto principio da sbandierare per esibire una – ridicola – purezza ideologica, salvo poi contraddirlo nella prassi (magari con la scusa che “fare politica” significa scendere a compromessi con la realtà e perle “dialettiche” di simile conio), bensì un’imprescindibile investimento politico.

Si può essere contro il regime cosiddetto chávista senza per questo sostenere, neanche un po’, chi gli si oppone rimanendo sullo stesso terreno di classe? Per me la risposta è di un’ovvietà disarmante: certo che si può! Anzi, dal mio punto di vista si deve. Quando parlo di «terreno di classe», usando una vecchia espressione che tuttavia riesce ancora a toccare la sostanza della realtà sociale del XXI secolo, intendo ovviamente riferirmi alla natura capitalistico-borghese del regime venezuelano e degli oppositori politici che da anni cercano di prenderne il posto, anche correndo il rischio di pagare un prezzo assai salato in termini di sangue versato. Nell’ultimo mese si parla di 32 manifestanti antichávisti uccisi: «Nel paese continuano ad operare i “colectivos”, bande di estremisti che sostengono il regime e che attaccano i manifestanti dell’opposizione arrivando a sparare al volto» (Notizie Geopolitiche). Lo squadrismo con caratteristiche “bolivariane” non scherza! L’esercito, la polizia e la milizia paramilitare “socialista” (o “patriottica”) naturalmente non fanno mancare il loro prezioso contributo repressivo sul terreno della lotta contro il neoliberismo e l’imperialismo.

Beninteso faccio dell’ironia; vorrei che i lettori cogliessero il mio intento denigratorio nei riguardi della “Rivoluzione Bolivariana”, o “Socialismo del XXI secolo” che dir si voglia, la cui natura sociale, politica e ideologica è organica alla tradizione “populista” o “caudillista” dell’America Latina. «Cos’hanno in comune le storie politiche dei Paesi del Sud America? Qual è, se c’è, il tratto distintivo della via latino-americana all’esercizio del potere? La risposta è semplice: la presenza, più o meno costante, della figura del capo invincibile, del condottiero semi-divino, della guida di un intero popolo verso la terra promessa. E non è un caso se proprio a queste latitudini è stata coniata la parola che riunisce tutti questi concetti in uno solo: caudillismo. Gli esempi si sprecano: Hugo Chavez, Evo Morales, Daniel Ortega in Nicaragua, per molti versi anche Rafael Correa in Ecuador. E prima di loro, Juan Domingo Peron in Argentina, Alvaro Obregon, Lazaro Cardenas e Porfirio Diaz in Messico, Getulio Vargas in Brasile, Augusto Pinochet in Cile, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, Manuel Noriega a Panama, Alberto Fujimori in Perù, Fulgencio Batista e Fidel Castro a Cuba sono i primi di una lista che arriva a contare tranquillamente una cinquantina di nomi. In terra latina, deve esserci qualcosa di così particolare che, anche in tempi storici in cui è praticamente impossibile instaurare sistemi politici fondati sul più completo assolutismo, l’arrivo in questo o quel Paese di un nuovo caudillo è sempre una possibilità concreta. Hugo Chavez, il pilastro del Venezuela della rinascita bolivariana, è caudillo in tutto e per tutto, in modo addirittura caricaturale» (A. Giberti, Lettra43). Per chi scrive il fenomeno “caudillista”, che ha nella propaganda dal forte contenuto demagogico il suo tratto distintivo (caratteristica eccellente quando si tratta di controllare masse costantemente in subbuglio), va ricondotto ai suoi reali – e marxiani – termini strutturali, in senso sociale (stratificazione delle classi, composizione economica della sfera produttiva: agricoltura, industria leggera, industria pesante, ecc.), storico (ritardo capitalistico dei Paesi sudamericani) e geopolitico (l’egemonia imperialistica statunitense sull’intero Continente Americano), termini che naturalmente si trovano in intima relazione tra loro, e che qui non è il caso di indagare più a fondo.

Parlavo poco sopra di «ovvietà disarmante» circa la natura sociale (ultrareazionaria) del chávismo; la cosa appare però meno ovvia, meno scontata, agli occhi del sinistrismo mondiale che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso individuò nel tenente colonnello Hugo Chávez il suo Nuovo Messia del «socialismo dal volto umano», dopo i rovesci patiti sul fronte del “socialismo reale”. In realtà Chávez fu l’ennesimo “uomo della provvidenza” chiamato dal processo sociale a controllare/imbrigliare/incanalare le forti tensioni sociali e politiche generate dalla crisi economica. Scrive Pedro Castro, docente all’Universidad Autónoma Metropolitana di Città del Messico e studioso di caudillismo: «Nel nostro continente destra o sinistra da questo punto di vista è sempre stata la stessa cosa. Sono le condizioni, oggettive e soggettive di un Paese, che determinano il caudillismo. In America latina la povertà economica (condizione oggettiva) ha sempre prodotto delle speranze altissime. Le masse si aspettano molto e quando riconoscono qualcuno che potrebbe risolvere loro il problema gli si concedono totalmente». Crisi sociale, povertà e assenza di coscienza di classe: sono le condizioni “oggettive” e “soggettive” che rendono possibile il successo dell’uomo della provvidenza.

Come sempre, è stato il sinistrismo italiota a vincere la medaglia d’oro nella gara apologetica del «Nuovo Socialismo» o «Socialismo del XXI secolo». Alcune perle italo-cháviste chiariranno il concetto.

«Se la scelta è tra la democrazia, imperfetta, europea e nordamericana, ormai soffocata dal peso del denaro che domina le campagne elettorali e la democrazia imperfetta di Chávez e di Castro, scelgo quest’ultima, in nome della solidarietà con i più deboli e dello sforzo, che vedo qui all’opera, di costruire una società più giusta, anche se spesso non più ricca» (G. Vattimo, La Stampa, 25 luglio 2005). Il noto filosofo qui ci regala un saggio di “socialismo” concepito come miseria generalizzata: miseria della filosofia, ci verrebbe da dire scopiazzando il noto ubriacone tedesco. Il “simpatico” Gianni Minà, chávista della prima ora, fu attratto soprattutto dal «militarismo progressista» messo in campo dal compagno Chávez, il quale offriva almeno alle masse diseredate «l’illusione di poter fare una politica sconveniente agli Stati Uniti e alle multinazionali dell’energia» (Il Manifesto, 13 maggio 2002). Alla prova dei fatti il «militarismo progressista» di marca chávista si sta dimostrando all’altezza della situazione: la sua efficacia repressiva è degna di ammirazione – da parte dei chávisti italiani (vedi Il manifesto), beninteso.

«Ho una profonda simpatia per quel laboratorio chiamato “rivoluzione bolivariana”, un’esperienza che ha fatto invecchiare la stella di Cuba, perché Chávez, questa è la profonda verità, riesce dove Fidel ha fallito» (N. Vendola, Corriere della sera, dicembre 2012). Chissà come avranno reagito i castristi fondamentalisti dinanzi alla dichiarazione del noto narratore. In un’intervista rilasciata al quotidiano argentino Página 12, l’allora leader di Sinistra, Ecologia e Libertà, si disse «invidioso dell’America Latina e delle sue rivoluzioni: quelle guidate dal presidente venezuelano Hugo Chávez, dal il presidente boliviano Evo Morales e dagli altri leader di sinistra». Sono invidie che lascio volentieri ai chávisti con caratteristiche italiote.

«Hugo Chavez è la spiegazione del perché, in tutta l’America Latina, la parola socialismo ha ancora un profondo significato, mentre in Europa lo ha perduto quasi del tutto». Quando un personaggio che trasuda stalinismo da tutti i pori come Giulietto Chiesa straparla di «socialismo», non si può che sghignazzare. Ma continuiamo la citazione (Il Fatto quotidiano, 10 marzo 2013): «Finché visse fu invincibile. Parlò incessantemente con il suo popolo in quelle incredibili maratone televisive che milioni ascoltavano perché le sentivano sincere, ma che erano anche lezioni di storia patria, scuola di formazione culturale di massa, insegnamenti di autodifesa. Gli occidentali, istupiditi dalle loro televisioni, ironizzavano. Ma Chavez aveva capito meglio di loro i segreti della comunicazione. E poiché non voleva ingannare o istupidire, con la pubblicità e l’intrattenimento yankee, semplicemente parlava. Sapeva che c’era poco da ridere». Qui concordo: dinanzi alla sirena demagogica che riesce a ipnotizzare (e a ingannare e istupidire) “le masse”, c’era e c’è poco da ridere. Ma per Chiesa esiste solo l’inganno e l’istupidimento con caratteristiche yankee: tutto il resto (da Putin ad Assad) è “antimperialismo” e resistenza al “pensiero unico” – amerikano, si capisce.

Vogliamo parlare del noto post-post marxista Toni Negri? Anche lui a suo tempo mostrò di apprezzare l’esperimento sociale chávista, e il caudillo di Caracas ricambiò la stima invitandolo a Telesur, la televisione di regime, e citandolo spesso durante i suoi comizi televisivi. «Per me è molto interessante vedere come si sviluppa questo processo rivoluzionario, che dà il potere al popolo. […] Il nemico si può sconfiggere solo con la lotta di classe. Voi lo chiamate socialismo, io lo definirei comunismo» (Panorama, 2006). Come non apprezzare il rigore dottrinario di Negri…

Per Bertinotti il chavismo era «un movimento che cerca di dare al popolo dignità e un migliore futuro», e oggi Rifondazione Comunista (sic!) fa ricadere le responsabilità della crisi sociale, del caos e della violenza che imperversano in Venezuela «all’opposizione, espressione dell’oligarchia economica del Paese, per tentare di rovesciare il legittimo governo venezuelano e di fomentare lo scontro civile in Venezuela». I rifondatori se la prendono anche con «il ruolo inaccettabile dell’informazione, che in Italia produce una sistematica disinformazione sulla situazione venezuelana, a partire dall’etichettatura di regime o dittatura». Forse la critica non mi riguarda, visto che personalmente parlo di regime e di dittatura (capitalistica) anche per ciò che riguarda la Repubblica nata dalla Resistenza. Così come si può essere contro il regime Repubblicano senza per questo essere a favore del regime Fascista, analogamente, e mutatis mutandis, si può benissimo essere contro il regime di Maduro senza per questo sostenete o simpatizzare per le ragioni dell’opposizione antichávista. Ma non spero certo di far comprendere il concetto di autonomia di classe ai simpatizzanti del regime chávista di ieri e di oggi: conosco i miei forti limiti teorici e politici!

Il limite politico e analitico più grave del vecchio terzomondismo, ereditato dal cosiddetto “Campo Antimperialista” dei nostri giorni, è stato quello di aver voluto individuare come «nemico principale» del proletariato mondiale un solo polo imperialista (quello occidentale a guida statunitense) e di aver trascurare quasi del tutto la dinamica del conflitto sociale in quei Paesi che in qualche modo cercavano di sottrarsi dall’influenza nordamericana. Quel conflitto sociale veniva in ogni caso ricondotto, per esserne di fatto sterilizzato, dentro la logica della «lotta antimperialista». Mutatis mutandis, è con gli occhi del terzomondismo che il “Campo Antimperialista” sta approcciando la crisi sociale venezuelana.

Per chi si batte per l’autonomia di classe in vista – diciamo così – della rivoluzione sociale anticapitalistica è davvero triste vedere le classi subalterne recitare il ruolo di impotente massa di manovra nelle mani di una delle fazioni (filogovernativi versus antigovernativi, “sinistra” versus “destra”, statalisti versus liberisti, democratici versus autoritari, globalismi versus sovranisti, ecc., ecc., ecc.) che si contendono il potere capitalistico. Un tragico spettacolo che abbiamo visto anche nel corso delle cosiddette Primavere Arabe. Ma non è che in Europa – Italia compresa – o negli Stati Uniti la musica sia diversa, tutt’altro.

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FIDEL CASTRO

fidel_castroRicordando la figura storica di Fidel Castro, l’Onorevole Fabrizio Cicchitto, presidente della Commissione Esteri della Camera, ha dichiarato: «È morto colui che prima è stato un grande protagonista della Liberazione del suo popolo dalla dittatura di Fulgenzio Batista e dalla totale subalternità agli Usa, e che dopo è diventato a sua volta un dittatore che ha legato Cuba ad un rapporto di subalternità con la Russia». Sotto quest’ultimo aspetto, appaiono significative le dichiarazioni rilasciate a caldo dall’ultimo leader dell’Unione Sovietica (Michail Gorbačëv: «Rimarrà nella nostra memoria come un politico e un uomo straordinario, e come nostro amico») e dall’attuale Capo della Russia Vladimir Putin, il leader più amato dai sovranisti nostrani: «La Cuba libera e indipendente che creò insieme ai suoi alleati è diventata un membro influente della comunità internazionale e un esempio ispiratore per molti popoli e paesi».

In un post del 23 marzo 2012, che invito a leggere alla luce della morte del mitico Comandante, cercavo di spiegare il risvolto storico-sociale dei fatti ricordati da Cicchitto, approcciando la questione da una prospettiva “di classe” che niente concedeva – e concede – alla mitologia, sempre più ridicola e decrepita, del Grande Patriota “socialista”, del campione dell’antimperialismo (leggi: antiamericanismo): «Nei cuori dei suoi adoratori d’Occidente, Fidel Castro non era un essere umano in carne e ossa, ma un mito, un idolo, una figura onirica», scrive oggi Pierluigi Battista sul Corriere della Sera. Come non essere d’accordo? Il mito resiste ancora, a giudicare dalle contumelie scagliate contro Roberto Saviano, che pure è tenuto in gran considerazione negli ambienti di “sinistra”, reo di aver  dichiarato quanto segue: «Fu amato per i suoi ideali che mai realizzò, mai. Giustificò ogni violenza dicendo che la sanità gratuita e l’educazione a Cuba erano all’avanguardia, eppure, per realizzarsi, i cubani hanno sempre dovuto lasciare Cuba non potendo, molto spesso, far ritorno». Chi tocca il mito muore? D’altra parte occorre considerare che a “sinistra” il Mito è ormai una merce piuttosto rara.

Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea avverte «un immenso dolore» per la scomparsa del líder máximo: «Ha saputo guidare la lotta per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Batista e l’ha saputa trasformare in una rivoluzione socialista». La mia tesi è che «la lotta per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Batista», che son ben lontano dal sottovalutare sul piano del processo storico-sociale, non superò mai i confini di una lotta nazionale-borghese. Ma su questo punto rinvio al post Riflessioni sulla “Rivoluzione Cubana”. «La storia a cui ho appartenuto se ne va. La morte di Castro è struggente. E dolorosa, per uno della mia generazione politica: è la fine di un’epoca». Così Fausto Bertinotti. Si tratta di capire a quale «epoca» egli allude. Si tratta forse dell’epoca del cosiddetto “Comunismo Novecentesco”, ossia della più grande menzogna del XX secolo (vedi stalinismo, maoismo, castrismo, ecc.)? Magari!

Scrive Niccolò Locatelli su Limes: «L’Unione Sovietica e successivamente il Venezuela (al tempo di Hugo Chávez) hanno sussidiato L’Avana, permettendole di offrire ai cittadini uno Stato sociale per alcuni aspetti superiore alla media regionale e all’avanguardia – e garantendo la sopravvivenza dell’ultima dittatura dell’America Latina». Considerato il forte legame – economico, politico e ideologico – tra Cuba e Venezuela propongo al lettore di leggere anche un mio post dedicato a Hugo Chávez: Ricordando el Patriota di Caracas.

MORTO UN (RIDICOLO) MITO SE NE INVENTA UN ALTRO!

7862538873441967Luca Mastrantonio definisce «socialismo magico» il regime chavista che si radicò in Venezuela dopo le elezioni del 2007 e che sembra essere morto con le elezioni del 2015. In effetti, il “socialismo del XXI secolo” in salsa chavista aveva qualcosa di magico, nel senso che solo in virtù di categorie mutuate dal pensiero magico è possibile definire “socialista” il regime che prese il nome del defunto caudillo, nonché ex militare golpista, di Caracas. E giusto degli intellettuali “marxisti”, avvezzi a definire socialista qualsiasi misura economico-sociale statalista e qualsiasi personaggio che si definisce appunto “socialista” e che è in grado di balbettare i sacri nomi di Marx, di Lenin e (udite, udite!) di Trotsky (ma anche quelli di Mao e di Gramsci); dicevo solo personaggi di tal infido conio oggi possono piagnucolare sulla disfatta elettorale di Maduro. Vedremo tra poco qualche spassoso esempio.

Interessante è la definizione che Mastrantonio ci offre del chavismo: «Un mix di marxismo post coloniale e di culto della personalità, quella carismatica di Chávez. Un “socialismo magico” che ha mantenuto poco di quello che aveva promesso, soprattutto rispetto alle risorse che aveva a disposizione (giacimenti petroliferi, consenso ben organizzato), e che ha potuto contare sulla facile demagogia anti-nordamericana (dalla Russia all’Iran). Non a caso, i più accaniti e ciechi sostenitori del chavismo non erano gli intellettuali e gli scrittori sudamericani. No. Il chavismo spopolava fuori dal Sudamerica, tra i radical Usa come Noam Chomsky e Oliver Stone. In Italia, per esempio, piaceva ad Antonio Negri e Gianni Vattimo (ma pure alla destra nazionalista, e a vaste aree dell’antipolitica Cinque Stelle). Per loro, orfani di una Cuba scesa a miti consigli con Washington, il Venezuela era l’ultima nave battente bandiera rossa. Ma era una nave crociera, per nostalgici della rivoluzione. Che c’è stata, e ha fallito». Mi permetto di dissentire su quest’ultimo punto: in Venezuela la «rivoluzione» non ha avuto modo di fallire semplicemente perché essa non ha messo i piedi sul suolo venezuelano. Evocando l’uomo coi baffi che, più o meno segretamente, piace assai agli intellettuali “marxisti” e ai socialnazionalisti, la rivoluzione sociale in Venezuela (e peraltro ovunque nel mondo) Addavenì! Si spera! Certo, si può sempre inventarne una ogni venti o trenta anni, che problema c’è? Morta una “originale esperienza rivoluzionaria” se ne inventa un’altra!

Stessa cosa vale, ovviamente, per ciò che viene venduto all’opinione pubblica per “socialismo”. Ma è, questa, un’ovvietà che non ha alcun peso presso gli intellettuali, “marxisti” o “antimarxisti” che siano, che scrivono sui “giornaloni”, che sono saggisti di successo (che invidia!), che parlano dai pulpiti televisivi, che orientano politicamente e ideologicamente la cosiddetta opinione pubblica. Leggiamo cosa diceva ad esempio Toni Negri nel 2007: «Per me è molto interessante vedere come si sviluppa questo processo rivoluzionario, che dà il potere al popolo. Il nemico si può sconfiggere solo con la lotta di classe. Voi lo chiamate socialismo, io lo definirei comunismo». L’intellettuale padovano è sempre un passo avanti agli altri! In direzione di clamorosi errori? Non importa: comunque sia egli è sempre all’avanguardia, sempre pronto a regalare alle classi subalterne del pianeta qualche perla di saggezza rivoluzionaria. Anche Slavoj Žižek, che pure nutriva qualche dubbio sulla politica estera chavista («La sua politica estera è in qualche misura una catastrofe. Il suo approccio verso l’Iran e la Bielorussia è folle»), teneva in gran considerazione il caudillo venezuelano come credibile alternativa alla «Terza Via di Blair e Zapatero». Se le cose non stanno così, diceva l’intellettuale sloveno, «Fukuyama, quell’idiota che ha pensato che la storia fosse già finita, avrebbe avuto ragione». E noi non vogliamo darla vinta a Fukuyama, nevvero? Certo, l’alternativa concepita da Žižek mi va un po’ stretta ma posso sempre dar fondo al mio proverbiale realismo politico pur di non darla vinta alla storiografia degli idioti. Si tratta a questo punto di capire da quale parte stia la stupidità. Il lettore sta forse pensando a me? Questo non l’avevo mica previsto!

Scriveva Pino Buongiorno all’apice del successo chavista: «Questa corsa di tanti intellettuali a vedere in Chávez l’ultimo eroe se non addirittura il profeta della sinistra antimperialista, invece che un despota, lascia letteralmente senza parole uno dei filosofi più stimati in Venezuela, Massimo Desiato, già docente all’Università cattolica Andres Bello e firma domenicale di spicco del quotidiano El Nacional.”Ho cambiato il mio giudizio su Vattimo e su molti altri pensatori europei che appoggiano Chávez senza poi pagare sulla propria pelle le conseguenze del suo modo di governare. Chávez si trasforma per Vattimo, Negri e tanti altri in un simbolo e in un sintomo. Il simbolo della rivoluzione perenne e il sintomo della vecchiaia di questi intellettuali”» (Panorama). Sapete, i sicofanti della borghesia odiano a morte il «processo rivoluzionario che dà il potere al popolo». E poi chi è Massimo Desiato per giudicare il turismo antimperialista di certi attempati rivoluzionari?

È relativamente facile mandare avanti il «socialismo petrolifero» quando il prezzo del petrolio garantisce al regime una rendita annua assai cospicua (oltre metà delle entrate statali sono dati dalle attività petrolifere); le cose cambiano drammaticamente quando il prezzo/barile tocca i 40 dollari e rischia di precipitare ancora più in basso. Scrivevo un anno fa: «Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale: vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di 60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre per implementare un serio programma di investimenti tesi al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo) della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il Paese dal disastro economico» (Il punto dal fronte petrolifero)*.

C’è anche chi “da sinistra” rimprovera al Comandante Eterno «l’errore politico» di non aver voluto costruire il «vero socialismo», quello «scientificamente fondato da Marx»: come se Chávez avesse mai avuto, in questa o in un’altra vita, una seppur vaga idea del «socialismo scientifico» di Marx! Il lettore potrebbe a questo punto obiettarmi le letture chaviste delle opere di Vattimo e di Negri. Appunto!

Quei rimproveri naturalmente la dicono lunga non sulla debolezza del pensiero “socialista” del defunto Comandante, o sulle sue supposte intenzioni (il più delle volte mere proiezioni di altrui illusioni), ma sulla qualità del «socialismo scientifico» dei suoi critici. «Il presidente Nicolas  Maduro, sembra inoltre non aver nemmeno compreso la gravità di questo trionfo terribile della borghesia sul proletariato, infatti ha dichiarato che: “in Venezuela ha vinto la democrazia e la costituzione”. Questo denota una totale incomprensione della lotta di classe» (Red Militant). Insomma, i socialisti rigorosamente scientifici rimproverano a due personaggi che con il socialismo e con la lotta di classe rivoluzionaria non hanno mai avuto nulla a che spartire di non aver voluto [sic!] o saputo [strasic!] fare né il socialismo né la lotta di classe: cose dell’altro mondo! Mi correggo: cose di questo escrementizio mondo. Le aspettative e le pretese dei socialisti rigorosamente scientifici spesse volte precipitano nel ridicolo.

C’è poi il solito filosofo “marxista” di successo (avete già capito: trattasi di Diego Fusaro) che producendosi in un «elogio del chavismo» cerca, per l’ennesima volta, di sdoganare il proprio socialsovranismo (coda di paglia?): «Il chavismo ha svolto una funzione benemerita, mostrando la via anche all’Europa alla mercé delle banche e della monarchia del dollaro: ha insegnato a tutti noi la necessità di coniugare nazione e democrazia, falsificando in atto l’equazione che identifica la nazione con la destra e con il fascismo. La nazione, nel tempo dell’internazionale finanziaria e liberista, può e deve costituire il vettore della democrazia e dell’emancipazione, garantendo, per mezzo dello Stato, diritti sociali e civili inaccessibili per le leggi del do ut des mercatistico. Il superamento degli Stati nazionali – qualcuno ancora non l’ha capito? [Eccomi!] – non sta portando al sol dell’avvenire [davvero?], ma al dominio monocratico del sistema internazionale delle banche e del capitale finanziario. Chavez l’aveva pienamente capito: e aveva capito che il solo modo per continuare oggi nella lotta che fu di Marx contro il classismo planetario e contro l’alienazione che esso secerne consiste nel difendere la potenza dello Stato nazionale come fonte del primato della politica sull’economia, come forza in grado di disciplinare e regolare l’economico, come potenza capace di tutelare gli interessi dei più deboli e di garantire diritti sociali altrimenti destinati a sparire in nome della “competitività internazionale”, il dogma preferito della teologia neoliberista». In un post di qualche settimana fa avevo scherzato sull’abilità fusariana di cucinare Lenin in salsa sovranista sostanzialmente per sostenere l’imperialismo russo: «Io non sto con i buoni. Io sto con i cattivi. Io non sto con gli Stati Uniti di Obama ma con la Russia di Putin, e anche l’Europa dovrebbe stare con il “cattivo” Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia geopoliticamente forte e militarmente autonoma». Oggi mi tocca sghignazzare su come l’intellettualone cerca di cucinare l’ubriacone di Treviri in salsa chavista (aggiungendo forse anche un pizzico di Massimo Recalcati): «Il chavismo ha insegnato, a noi europei obnubilati dall’individualismo estremo e dalle lotte iperindividuali sempre e solo per i diritti civili dell’io isolato (nel completo oblio del sociale e del tema del lavoro), la necessità di difendere i lavoratori e i diritti sociali contro la “sacra fames” del capitale finanziario globalizzato. Chavez ha continuato, a suo modo, nella lotta che fu di Marx, schierandosi in modo fermo e onesto dalla parte del lavoro e dei lavoratori». Personalmente consiglio sempre chi è in difetto di autostima di leggere le perle politico-dottrinali di Diego Fusaro. No, decisamente la lotta che fu di Chávez  «contro il classismo planetario e contro l’alienazione che esso secerne» non è una merce che potrei comprare, in questa e i nessun’altra vita. Mi pare di capire che certi intellettuali nostrani sensibili al tema della decadenza dei valori occidentali e della crisi identitaria dei giovani vedano in figure forti (virili) e carismatiche come Chávez e Putin una valida alternativa al Califfato Nero e alle ideologie dell’estrema destra populista**. «Dopo sedici anni di dominio incontrastato, il governo socialista ha registrato una pesantissima sconfitta elettorale. Diciamolo pure apertamente, senza giri di parole: è una tragedia». Può darsi. Ma tragedia esattamente per chi? Certamente non per chi scrive. Per le classi subalterne del Venezuela e del pianeta? Diciamo che nutro qualche dubbio a tal proposito.

C’è anche la sinistra rigorosamente di classe (come no!) che rimprovera al “socialismo” con caratteristiche venezuelane di non essere stato abbastanza stalinista (o fascista, o autoritario in una qualsiasi forma politico-istituzionale borghese), di essere insomma caduto nella trappola della democrazia borghese. Leggiamo e facciamoci, anche qui, quattro crasse risate: «In questo senso, a Cuba (ma non solo, c’è tutta una storia del socialismo realizzato a cui attingere) hanno sperimentato con relativo successo modelli di rappresentanza e di partecipazione alternativi alla democrazia borghese simboleggiata dalle elezioni nazionali. […].Una testa un voto è un assioma liberale che non può essere recepito tout court dal socialismo, perché non rappresenta il livello massimo di democratizzazione ma, all’inverso, è alla base del potere economico su quello politico. Insomma, per concludere questo punto, una volta avviata la strada verso il socialismo non si torna indietro, non la si certifica attraverso un passaggio elettorale basato sulle scelte dell’opinione pubblica, perché questa non è libera di formarsi ma è piuttosto il prodotto di un rapporto di forza economico» (Militant). Quando i sostenitori del «socialismo realizzato» (dalla Russia di Stalin alla Cina di Mao, dalla Jugoslavia di Tito alla Corea del Nord dei Cari e Immortali Leader, e schifezze “comuniste” di analogo conio) alludono alla «dittatura rivoluzionaria del proletariato», ancorché declinata in termini adeguati ai nostri tempi, non posso non impugnare la metaforica rivoltella e gridare, un po’ istericamente: «Stalinisti (o fascisti), non avrete il mio scalpo!». Poi penso che la cosa “classista” non è seria ma abbastanza ridicola e mi rilasso.

Questi stessi sinistri di classe oggi rimproverano al chavismo i limiti di un «progetto socialista» incentrato sulla rendita petrolifera e sul culto della personalità, e forse iniziano financo a sospettare che l’internazionalismo petrolifero venezuelano non sia stato che un onesto, anche se probabilmente un pochino velleitario, tentativo del Paese bolivariano di giocare le sue carte sul tavolo dei rapporti di forza interimperialistici, soprattutto pensando alla sua area di competenza geopolitica. Leggo: «È vero che il Venezuela ha sperimentato con l’Alba una forma di cooperazione economica con altri Stati antimperialisti [ah, ah, ah!], ma rimane una forma di relazione in cui il Venezuela ha una centralità economica derivante dal petrolio che non è stata attenuata e anzi ha reso paradossalmente gli altri paesi dipendenti dallo stesso Venezuela». Commento: ma va? Grande scoperta, non c’è che dire. Il problema, ovviamente, non sta nei “limiti” e negli “errori” del chavismo ma in chi ha dato credito al “socialismo” e all’antimperialismo di Chávez e compagni.

In tempi di devastante crisi economica le classi subalterne, la cui esistenza materiale è in gioco tutti i giorni, sono disposte a seguire ciecamente la bandiera della “rivoluzione”, rossa (vedi anche statalismo caraibico) o nera (vedi anche “islamismo radicale”) che sia, cioè a dire a mettersi nelle mani di chiunque offra loro la maligna speranza di un lavoro sicuro (o di un sussidio statale sicuro) e di una ritrovata dignità nazionale (che poi è, come sempre, la dignità dei servi): è in questo potente fatto che risiede la forza delle classi dominanti, le quali pescano sempre dal mazzo la carta vincente da giocare, almeno per un periodo di tempo. Mentre la sinistra rigorosamente di classe (come no!) piange sul chavismo versato ed è già alla ricerca della prossima «originale esperienza rivoluzionaria» (come no!), chi si sforza di elaborare un’autentica posizione critico-radicale sul capitalistico mondo che ci ospita, non può non fare i conti con la maligna dialettica del Dominio appena evocata. La cosa induce al pessimismo, me ne rendo conto; ma chiudere gli occhi dinanzi alla tragedia non serve a niente. L’ottimismo della volontà “rivoluzionaria” bisogna lasciarlo alla cosiddetta «sinistra di classe».

Concludendo (si fa per dire)! I “marxisti” occidentali hanno voluto vedere nella «democrazia partecipativa e protagonista» del regime chavista una forma originale di democrazia  “dal basso”, mentre essa corrispondeva alle esigenze di mobilitazione e di controllo sociale degli strati sociali più poveri del Paese da parte del regime. E analogamente essi hanno voluto vedere nelle mitiche Missioni create dal governo venezuelano nel 2003 il segno tangibile di una svolta radicale in senso “socialista” del Paese, mentre si trattava del modo in cui lo Stato cercava di distribuire le briciole della rendita petrolifera per mantenere e rafforzare il suo controllo sociale, da una parte, e del modo in cui Chávez cercava di consolidarsi al potere contro una mai domata opposizione politica e sociale, dall’altra. Insomma, quei personaggi per anni hanno venduto in Occidente il populismo, la demagogia, lo statalismo petrolifero e l’ambiziosa geopolitica (basata sempre sul petrolio) del Patriota di Caracas come una nuova, originale e inedita esperienza “socialista”, per il legittimo godimento di Luca Mastrantonio e degli altri avversari della “rivoluzione chavista”. Che non c’è stata.

* Scrivono Daniele Benzi e Ximena Zapata Mafla, che non nascondono le loro simpatie per «un progetto radicale di rifondazione e sperimentazione sociale con un orizzonte anticapitalista»: «Un progetto che, tuttavia, lungi dall’avere raggiunto i suoi principali obiettivi programmatici, per differenti ragioni si è impantanato, sino al paradosso di avere in effetti accentuato le differenti facce del modello rentier. […] In termini politici, si configura sostanzialmente come un modello di relazioni clientelari che si nutre e sostenta della rendita (in spagnolo appunto “renta”) che uno Stato capta dal mercato mondiale. Un modello spesso accompagnato da pratiche assistenzialiste e paternaliste che si sposano bene con stili e metodi di governo populisti o autoritari. Semplificando, questa dinamica perversa e potenzialmente distruttiva è generata dal potere e dall’apparente libertà che la rendita petrolifera, essendo un’entrata economica legata a un bene estratto e non prodotto il cui valore commerciale è fissato dal mercato mondiale, dà allo Stato per distribuirla senza esigere contropartite particolarmente onerose. La dimensione della rendita e la capacità di distribuzione rappresenterebbero quindi i limiti più importanti che affrontano i suoi gestori. Lo “Stato magico” nasce in queste condizioni, e così le sue qualità miracolose e l’ipertrofica corte burocratica con il conseguente centralismo, corruzione, verticalismo, improvvisazione, clientelismo e inefficienza. È qui che il ruolo dello Stato venezuelano prende storicamente forma «come elemento istituzionale chiave nel controllo della rendita petrolifera» (Petrolio e petrodollari nella politica estera del Venezuela, Visioni LatinoAmericane, numero 11, Luglio 2014).

** Scrive oggi Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera: «Marine denuncia “un’indecente campagna di calunnie, concepita nelle stanze del potere ed eseguita servilmente”. E spiega quale sarà la tattica dei prossimi diciotto mesi: il Front National sarà l’unica opposizione; la partita alle Presidenziali non sarà tra destra e sinistra, ma “tra mondialisti e patrioti”, tra coloro che intendono sciogliere la Francia “nel grande magma globale” e coloro che vogliono difendere la nazione come “spazio protettivo per i francesi”. Da una parte “la Francia eterna e fraterna”, dall’altra un’alleanza mostruosa tra vecchio establishment, politici ladri, banchieri usurai, imprenditori che delocalizzano, migranti di ogni fede ma soprattutto musulmani». Un bel programmino sovranista, non c’è che dire. Peccato per quella scivolata sui migranti musulmani! Ma per raggiungere l’obiettivo primario si può sempre chiudere un occhio; come insegna il chavismo la lotta di classe prevede compromessi e una sapienza dialettica inarrivabile agli amanti della purezza dottrinaria.

VENEZUELA. TRABALLA LA “RIVOLUZIONE BOLIVARIANA”

venezLeggo dalla Repubblica di oggi: «Dopo l’esigua vittoria elettorale alle presidenziali dell’aprile di un anno fa, Nicolas Maduro si trova a fronteggiare la più grande rivolta sociale dai tempi dello sciopero di Pdvsa, la holding del petrolio, nel 2002. Da tre settimane migliaia di dimostranti, all’inizio soprattutto studenti, liceali e universitari, protestano per la crisi economica, l’inflazione senza freni (60%), la scarsità ormai congenita di numerosi prodotti di prima necessità, dallo zucchero alla farina, la criminalità dilagante. La situazione del Paese è drammatica: scarseggia perfino la carta per stampare i giornali. Otto persone sono già morte negli incidenti, l’ultima era un sostenitore del presidente Maduro. Vie d’uscita non se ne vedono. […] Maduro fa volare i caccia militari sui cortei e lascia liberi di agire i cosiddetti “colectivos”, una sorta di formazioni paramilitari armate nate nei “cerros”, le favelas di Caracas, che rappresentano il nocciolo più duro e radicale della rivoluzione bolivariana. E che sono disposti a difenderla comunque con le armi […] Oggi la situazione potrebbe degenerare di nuovo, a Caracas sono previste due marce: una dell’opposizione per chiedere la liberazione di Lopez, rinchiuso in un carcere militare in attesa di processo; l’altra dei sostenitori di Maduro. Nel Tachira, uno stato al confine con la Colombia, il governo ha dichiarato lo stato d’assedio e utilizzato battaglioni di paracadutisti per reprimere le proteste, mentre emergono dettagli sulla violenza. Due studenti hanno raccontato di essere stati torturati in carcere. Li avrebbero picchiati più volte e violentati con le canne dei fucili».

Inutile dire che il nuovo caudillo di Caracas ha attribuito la responsabilità della drammatica crisi sociale che sta piegando il Paese al governo americano e alle forze di opposizione venezuelane da esso foraggiate. «Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha espulso tre funzionari del governo statunitense. Essi sarebbero colpevoli, secondo Maduro, di aver collaborato con alcuni esponenti di Voluntad popular, il principale partito di opposizione in Venezuela, nell’organizzazione delle rivolte di piazza che durante la scorsa settimana hanno causato una dura repressione da parte delle forze di polizia, producendo tre morti fra i manifestanti» (Notizie Geopolitiche, 19 febbraio 2014).

338231_19215_1La carta del nazionalismo sembra dunque essere rimasta, insieme a quella della distribuzione “clientelare” (o “populista”, oppure “socialista” [sic!], fate un po’ voi!) della rendita petrolifera,  la sola carta vincente rimasta nelle mani del regime post-chavista. Se, come sostiene Maduro, lo spirito rigorosamente bolivariano di Hugo Chávez è in grado di compiere più miracoli di Padre Pio, forse il “socialismo” con caratteristiche venezuelane ha ancora qualche chance di sopravvivere a se stesso. Magari portando in sacrificio al Santo protettore qualche centinaio di «provocatori al servizio di Washington».

«L’uso della forza da parte del governo venezuelano contro i cittadini è inaccettabile», ha dichiarato John Kerry in una nota di protesta indirizzata al governo di Caracas. È facile fare il pacifista con i governi degli altri…

Leggi:

DAL VENEZUELA ALL’UCRAINA, DALL’ARGENTINA ALLA SIRIA. Criterio geopolitico versus criterio di classe

RICORDANDO EL PATRIOTA DI CARACAS

SOCIALNAZIONALISMO

SOVRANA INDIGENZA

RICORDANDO EL PATRIOTA DI CARACAS

murales_chavez_500«Paracadutista con idee marxiste, Hugo Chávez aveva tentato un colpo di Stato nel 1992. Chávez è stato un presidente con una forte – per quanto a tratti confusa – impronta ideologica: si è ispirato al socialismo del XXI secolo, una dottrina filo-marxista elaborata dal filosofo tedesco Heinz Dieterich Steffan. L’altro suo riferimento è stato Simón Bolívar». Così Niccolò Locatelli su Limes. Sulla confusione ideologica dell’ex Presidente venezuelano non ho mai avuto dubbi. Com’è noto, è sul ”marxismo” e sul “socialismo del XXI secolo” di Chávez che ho nutrito forti perplessità, diciamo così. Per economia di pensiero ripubblico un mio post dell’ottobre 2012.

ch3Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale … Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri).

All’avviso di Jean-Luc Mélenchon, già candidato alle presidenziali francesi per il Front de Gauche, e Ignacio Ramonet, presidente onorario di Attac, «Chávez dimostra che si può costruire il socialismo nella libertà e nella democrazia». Di qui l’odio che la sua «rivoluzione bolivariana» suscita nei campioni del Capitalismo e dell’Imperialismo, a partire ovviamente dagli Stati Uniti. In che senso Chávez costruisce il «socialismo», beninteso «nella libertà e nella democrazia» (la coda di paglia del «socialismo reale» è dura a morire)? Ecco la risposta degli apologeti: «Ha riconquistato la sovranità nazionale. E, con essa, ha proceduto alla redistribuzione della ricchezza a favore dei servizi pubblici e dei dimenticati. Politiche sociali, investimenti pubblici, nazionalizzazioni, riforma agraria, quasi piena occupazione, salario minimo, imperativi ecologici, accesso alla casa, diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione» (Perché Chávez?, Il Manifesto, 5 ottobre 2012).

Possono il Sovranismo, il nazionalismo, lo statalismo, un minimo sindacale di riformismo e un welfare basato sulla rendita petrolifera (vedi anche l’Iran di Ahmadinejad) giustificare cotanto entusiasmo “socialista”? Ovviamente no. Ma se poniamo mente al fatto che per il gauchismo di tutte le latitudini il Sovranismo, lo statalismo e il riformismo populista («andare al popolo!», di più: «servire il popolo!») sono sicuri indici di «socialismo», ancorché «reale», si comprende bene come non bisogna affatto stupirsi per l’ennesima infatuazione “socialista” del sinistrismo mondiale. Dalla Russia alla Cina (alcuni passando anche per la Jugoslavia e per l’Albania), da Cuba al Nicaragua, figli e nipotini dello stalinismo (soprattutto nelle sue varianti maoiste e terzomondiste, più “movimentiste”) non hanno fatto altro che cercare nel vasto mondo i segni di un «socialismo» e di un «antimperialismo» esistiti solo nella loro testa. Per questi personaggi il Paese che si schiera contro gli Stati Uniti e il «liberismo selvaggio» ha già compiuto ipso facto un passo avanti nella direzione del «socialismo» e della lotta «antimperialista». Il Paese che statalizza l’economia, riacquistando la sovranità nazionale “a 360 gradi”, si pone «contro le devastazioni del neoliberismo» e marcia speditamente verso il Sol dell’Avvenire.

«Chávez ha fatto sì che la volontà politica prevalesse. Ha addomesticato i mercati, ha fermato l’offensiva neoliberista e poi, attraverso il coinvolgimento popolare, ha fatto sì che lo Stato si riappropriasse dei settori strategici dell’economia. Ha riconquistato la sovranità nazionale». Ancora nel 2012 esistono su questo disgraziato pianeta persone che pensano che la «sovranità nazionale» sia un valore “socialista”! Peraltro il Venezuela ha sempre esibito un alto tasso di sovranismo, come dimostrò ad esempio durante la guerra delle Falkland del 1982, allorché fu il solo Paese Americano-Latino che sostenne davvero le ragioni dell’Argentina contro l’Inghilterra.

Ma mi faccia il piacere!

Ma mi faccia il piacere!

Scriveva Maurizio Stefanini nel 2003, anno critico per il caudillo di Caracas: «In concreto, la politica economica espressa nel Plan Bolívar 2000 non va oltre un misto tra New Deal e peronismo … Ma quando all’inizio del 2002 il calo dei prezzi del greggio lo ha costretto, anche Chávez si è piegato a una politica di rigore economico relativamente ortodossa» (La geopolitica di Chávez tra Bolívar e petrolio, Limes, 1-2003). La “pace sociale” e le fortune di tutti i regimi che si sostengono sulla rendita petrolifera sono legate al prezzo del greggio, che non deve scendere sotto gli 80 dollari al barile. In generale, questo discorso vale per tutti i Paesi la cui economia si basa sulla vendita delle materie prime: vedi, ad esempio, la Russia di Putin. Giustamente il leader venezuelano sostenne nel 2000, nel momento in cui Chávez avviò la sua nuova geopolitica del petrolio, che portò il Venezuela a schierarsi al fianco dei «falchi» dell’Opec (Libia, Iran e Iraq) contro le «colombe» (Arabia saudita, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), «Che qualsiasi diminuzione del livello di prezzi attuale sarebbe per il Venezuela una sentenza di morte». In quel periodo il prezzo del greggio oscillava intorno alla drammatica soglia di 22 dollari al barile. In tutti questi anni l’attivo Chávez ha cercato di ricompattare l’Opec intorno a posizioni “radicali”, per farne uno strumento della sua ambiziosa politica estera, oltre che per fini di consenso politico interno, in ciò fedele alla tradizione populista e demagogica del Paese e del Sub Continente Americano.

«È stata la rendita del petrolio», cito ancora dall’interessante articolo di Stefanini, «a finanziare il consenso di dittature e democrazie. È stata la sua crisi a mettere in crisi il bipartitismo tra i socialdemocratici e i democristiani che si era instaurata alla caduta del dittatore Marcos Pérez Jiménez nel 1958 … Dal punto di vista economico, la ridistribuzione della rendita da materie prime non è in America Latina una caratteristica della sola sinistra, ma un modello abbastanza seguito da soggetti di vario orientamento. I sui inventori, a cavallo tra XIX e XX secolo, furono i leader di orientamento liberal-radicale, il cileno Juan Manuel Balmaceda e l’uruguayano Jorge Battle y Ordoñez. E colui che è diventato nel mondo quasi il simbolo stesso di questa politica è stato l’argentino Juan Domingo Perón, il cui ispiratore iniziale era stato mussolini». E a chi si è ispirato EL Patriota di Caracas? A Castro, che domande! Per Stefanini «Castro è un classico caudillo latinoamericano travestito da comunista per convenienza di momento storico. Oggi però non c’è più [se Dio vuole!] un’Unione Sovietica in grado di foraggiare chi abbracci la sua ideologia, e anche quel modello istituzionale sovietico che Castro continua seguire pedissequamente non è più di moda … Così, al posto del marxismo-leninismo Chávez ha riscoperto il pensiero del “padre della patria” Simon Bolívar». (Sul líder máximo dell’Avana vedi Riflessioni sulla “Rivoluzione Cubana”).

Concludo. È vero che, grazie appunto alla distribuzione «più egualitaria» di un’aliquota della rendita petrolifera, le classi più povere venezuelane stanno un po’ meglio di prima; ma al netto del fatto che l’alto standard di vita delle classi dominate non ci parla di socialismo, bensì di Capitalismo ben organizzato e produttivo (vedi Germania, Svezia, Norvegia, Olanda), c’è da dire che il miglioramento nel tenore di vita delle masse venezuelane non è stato ottenuto attraverso «riforme strutturali» (capitalistiche!), ma quasi esclusivamente attraverso la distribuzione della manna petrolifera, la quale peraltro ha moltiplicato la tradizionale corruzione a tutti i livelli della macchina statale. Insomma, tutto ci parla dell’estrema volatilità del successo (borghese) chávista*.

ch4Naturalmente la punta della mia critica non è tanto puntata contro il caudillo venezuelano, che con una certa abilità cerca di implementare una politica – ultrareazionaria – volta a controllare il forte disagio sociale delle masse diseredate venezuelane, e a usarlo in chiave di rafforzamento della «Patria bolivariana», ossia degli interessi nazionali capitalistici del suo Paese, anche in opposizioni a cospicui interessi capitalistici privati, nazionali e internazionali; essa è soprattutto rivolta contro gli apologeti e i teorici della «rivoluzione bolivariana», ultima pia illusione dei sinistri internazionali, i quali si nascondono dietro la popolarità del leader di Caracas. Come se la popolarità di un dirigente politico, democratico o fascista (ovvero stalinista o islamista: non fa alcuna differenza) che sia, fosse un criterio di giudizio adeguato a un pensiero che ama definirsi “socialista” e “antimperialista”.

*«Le classi più povere stanno meglio di prima ma l’economia è ancora sostanzialmente dipendente dal petrolio. Il suo progetto di fare del Venezuela una potenza regionale è fallito, vittima anch’esso della diminuzione di risorse economiche legata alla crisi globale e dell’opposizione del Brasile … La retorica anti-imperialista, particolarmente vivace durante la presidenza di George W. Bush, serviva anche a nascondere un dato incontrovertibile: gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale di Caracas e il primo acquirente del petrolio venezuelano. Il Venezuela ha bisogno di loro molto più di quanto loro abbiano bisogno del Venezuela» (Niccolò Locatelli, Limes, 5 marzo 2013).

SOVRANA INDIGENZA. Contro il nazionalismo e l’imperialismo «dal basso».

Per il Socialsovranista Francesco Salistrari «Il riformismo, come movimento filosofico, politico e culturale, ha esaurito la sua funzione storica» (Per un nuovo movimento anticapitalista, da Memorandum di uno smemorato). Se la funzione storica centrale del riformismo è, come credo che sia, quella di arginare, deviare, comprimere e sfruttare la «spontaneità operaia e proletaria» ai fini del rinnovamento e della conservazione (due facce della stessa medaglia) del regime sociale capitalistico, ebbene non posso condividere la perentoria affermazione di Salistrari. Invece è corretto dire che il riformismo di “sinistra”, che è poi quello a cui allude il Nostro, cambia continuamente pelle, adattandosi alle condizioni interne dei singoli Paesi (rapporti di forza tra Capitale e Lavoro salariato, rapporti di forza interborghesi, ecc.) e internazionali (rapporti di forza tra capitali, Stati, aree geopolitiche, aree geoeconomiche, ecc.). I margini della pratica sociale riformista si ampliano e si restringono seguendo, in ultima analisi, il ciclo economico nazionale e internazionale, e ciò condiziona grandemente la fenomenologia politica del riformismo.

Naturalmente non bisogna confondere il riformismo, come linea politico-ideologica, con le riforme, ossia con la prassi sociale adeguata agli interessi delle classi dominanti o delle fazioni più forti di esse. La storia lontana e recente ci mostra Paesi che hanno bensì generato una prassi riformistica («dall’alto»), senza tuttavia conoscere la presenza di partiti politici autenticamente e dichiaratamente riformisti. Persino nel seno del Fascismo si produsse una corrente autenticamente riformista, a dimostrazione della natura oggettiva (sociale) di certi fenomeni politici.

In ogni caso, è quantomeno prematuro annunciare l’esaurimento della “spinta propulsiva” del riformismo, il quale è interamente radicato negli interessi delle classi dominanti, anche quando esso sembra emanare dal «basso», dal «movimento di opposizione sociale». I soggetti anticapitalistici dovranno misurarsi ancora con la teoria e con la prasi del «riformismo». Il problema deve essere piuttosto formulato in questi termini: esistono tali soggetti?

«In questo contesto», argomenta Salistrari, «la politica attuale (dal 1989 ad oggi) della sinistra mondiale diventa, consapevolmente o inconsapevolmente, un potente aiuto alla vittoria definitiva di quella Neoaristocrazia che governerà il pianeta per il prossimo secolo». Ecco ricicciare il famigerato 1989! Si capisce quindi che la «sinistra mondiale» a cui allude il Socialsovranista preso di mira si sostanzia negli ex partiti un tempo fedeli all’Imperialismo cosiddetto Sovietico, e difatti egli lamenta «il fatto che dopo il crollo del socialismo reale, tutti i partiti comunisti si sono dissolti insieme al “monolite” sovietico», e non si vede ancora prendere corpo una nuova soggettività anticapitalistica. I lettori di questo Blog sanno che per il sottoscritto tanto il Moloch Sovietico quanto i partiti che gli erano devoti non hanno mai avuto nulla a che fare con il comunismo, almeno con quello che pulsa con forza dalle pagine dei testi marxiani. Ecco perché quando leggo che «Il venir meno del comunismo come base teorica e politica per un modello alternativo di società e di economia, non ha significato altresì il venir meno anche della necessità di un progetto di cambiamento delle basi socio-economiche del sistema vigente», mi vien da sghignazzare, rispettosamente e pacatamente. I teorici delle Terze, Quarte e n vie mi fanno questo effetto, da sempre. E qui ci avviciniamo davvero alla Terza via, quella bolivariana.

«Il Sud America è vero, sperimenta situazioni diverse e potrebbe rappresentare un esempio su molte questioni, ma né l’Argentina né il Brasile, per fare due esempi, possono dirsi paesi non capitalisti». L’Argentina e il Brasile sono paesi capitalisti: davvero una sconvolgente scoperta! Ma le sorprese non sono finite: «Il welfare e il keynesianesimo che praticano e predicano NON è anticapitalismo, ma forme di sviluppo sociale che in Europa e nel resto del mondo occidentale sono già state attuate e superate dal neoliberismo dominante». Lascio correre certi “dettagli” (ad esempio in merito al «neoliberismo dominante») e domando: come mai il Venezuela di Chávez non compare nell’elenco dei paesi latinoamericani che non possono venir qualificati come «non capitalisti»? Qui il «socialismo bolivariano» ci cova!

A proposito del caudillo di Caracas, ecco cosa ha scritto Daniele Cardetta commentando il commovente («più forte del tumore, più forte degli Stati Uniti»: sic!) trionfo elettorale del venezuelano: «Chávez, in un mondo sempre più neoliberista [ci risiamo!], ha portato il suo paese verso il “Socialismo del XXI secolo”, con sempre più Stato e sempre meno mercato, con buonapace degli ultras neoliberisti che tanto vanno di moda in Europa» (Venezuela. Il trionfo di Chávez nell’ombra di Bolívar, tribunodelpopolo.com). Lo statalismo come “socialismo”: un classico della vulgata “marxista”. D’altra parte l’altro ieri Vittorio Feltri ha definito «comunista» la decisione dell’Unione europea di adottare la mitica Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, per dire quanto poco valgono oggi certi riferimenti politici e “dottrinari”. Di qui, la mia… sovrana indifferenza nei confronti delle patenti: chi mi vuole insultare fa un buco nell’acqua se mi dà dell’antimarxista. Comunque sia, il «Socialismo del XXI secolo» formato Chávez non fa ribrezzo solo agli «ultras neoliberisti», questo è sicuro.

Disgusto, più che ribrezzo, provo anche nei confronti della riflessione “politica” che segue, la quale scotenna l’intelligenza, letteralmente: «Ahmadinejad deve essere supportato in funzione delle sue politiche antimperialistiche, però, l’adesione al marxismo rivoluzionario, non può non spingerci a fare delle critiche [ma va? Ma così non si corre il rischio di indebolire il fronte antimperialista? Ovviamente faccio del sarcasmo. I Socialsovranisti invece fanno sul serio!] … Ahmadinejad ha dei meriti indiscussi [nessuno può ricusarli in dubbio, tranne il sottoscritto, notoriamente settario e foraggiato dal Diavolo Occidentale]: l’Iran è un ostacolo per l’imperialismo Usa-Israele e il suo ordinamento interno si pone in netta antitesi al neo-liberismo economico. Come antimperialisti non possiamo che schierarci senza ‘’se e senza ma’’ dalla sua parte: che ben venga l’espansionismo locale della Repubblica islamica [giuro: sto citando fedelmente!]. Però le differenze fra una prospettiva marxista rivoluzionaria e l’islamismo antimperialista restano profonde [sic!] seppur, in certi momenti, conciliabili [ah, ecco]» (Stefano Zecchinelli, Marxismo rivoluzionario o Nazionalismo di sinistra? Antimperialismi a confronto, da Comunismo e comunità). Direi piuttosto imperialismi a confronto.

Cose dell’altro mondo, direte. E invece sono cose di questo triste, tristissimo mondo, capitalista e imperialista. Infatti, i Socialsovranisti chiamano «marxismo rivoluzionario» un fritto misto di stalinismo-maoismo-chevarismo-chávezismo e altri analoghi ismi (tutti sottoprodotti dello stalinismo: la casa madre) che hanno nell’odio nei confronti degli Stati Uniti, di Israele e del cosiddetto «neoliberismo» il loro comun denominatore ideologico. Il concetto che, soprattutto nel XXI secolo, nell’epoca in cui il rapporto sociale capitalistico domina ovunque e la borghesia non ha alcuna funzione progressiva da svolgere, nemmeno in forma residuale, tutti gli imperialismi (di “destra” e di “sinistra”, “neoliberisti” o “statalisti”, ovvero “islamisti”), tutte le nazioni e tutti gli Stati sono ugualmente colpevoli al cospetto delle classi dominate del pianeta; questo concetto elementare e fondamentale per un pensiero  che vuole essere davvero critico e radicale non sarà mai compreso dai Socialsovranisti, i quali appoggiano certe fazioni del Capitalismo internazionale e dell’Imperialismo anche per accarezzare l’illusione di essere al centro del mondo, di essere anche loro protagonisti di una guerra totale tutta interna al dominio sociale capitalistico. Come ridicole mosche cocchiere essi si mettono, «senza se e senza ma», all’ombra dei potenti e dei violenti per nascondere la loro indigenza e impotenza teorica e politica.

La costruzione dell’autonomia delle classi dominate nei confronti delle classi dominanti – nazionali e internazionali – e del loro Stato è la sola politica che qualifica un Soggetto politico come autenticamente anticapitalista: il resto è cianfrusaglia ideologica – che pesca maldestramente e pappagallescamente nelle citazioni leniniane –, a uso e consumo delle classi dominanti: non importa se basate a Nord o a Sud del mondo, se antiamericane o filoamericane, se cristiane o islamiste, se confuciane o atee.

Arriviamo, per finire, al piatto forte cucinato da Salistrari, che lo qualifica appunto come Socialsovranista(o Socialnazionalista, fa lo stesso) senza se e senza ma: «Oggi la nazione, la sovranità nazionale, si pongono nei confronti dei processi economici, politici e sociali in atto, come una difesa, come un baluardo, nei confini del quale proteggere tutta una serie di interessi sociali, di diritti e di tutele, che vengono pesantemente ridimensionati e messi in discussione». Cianfrusaglia ideologica, appunto, peraltro affine a quanto sostenevano Bertinotti e la sua Rifondazione Statalista alla fine degli anni Novanta, contro il dilagare della “secessionista” Lega Lombarda. I confini della nazione sono i confini storico-sociali della classe dominante nazionale, la quale tuttavia radica il proprio potere su un rapporto sociale sovranazionale. Come ho scritto altrove, «contrapporre il capitale internazionale al capitale nazionale è, oltre ogni altra considerazione, del tutto privo di significato. Infatti, lo stesso capitale nazionale non è che un’espressione – e un’articolazione – del capitale internazionale, una sua manifestazione localizzata, una sorta di sua sezione nazionale, per così dire. Lo Stato nazionale è un nodo geopolitico della fitta rete del dominio sociale capitalistico, la cui dimensione oggi è il mondo. Anche per questo l’ideologia Sovranista ha i piedi d’argilla, oltre ad essere una concezione del mondo reazionaria all’ennesima potenza». Mi scuso per l’autocitazione.

Scrive Salistrari: «La messa in discussione della modellistica dello Stato Nazione assume un aspetto inquietante». Certamente, ma solo per i cultori del Sovranismo, nonché amici delle potenze imperialistiche (tipo Cina e Russia) avversarie degli Stati Uniti e dei loro alleati. «La discussione intorno alla conquista democratica della sovranità nazionale da parte dei popoli diventa il punto iniziale dal quale procedere al fine di favorire la formazione di un movimento internazionale (e internazionalista) capace di mettere al centro l’essere umano e la dignità umana». Quando il Socialsovranista, dopo aver lamentato «la messa in discussione della modellistica dello Stato Nazione», parla di “internazionalismo” e di “umanità” si capisce quanto sia vero il detto popolare secondo cui la realtà supera ogni più fervida – e maligna – immaginazione.

EL PATRIOTA DI CARACAS

Il nuovo che avanza!

Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale … Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri).

All’avviso di Jean-Luc Mélenchon, già candidato alle presidenziali francesi per il Front de Gauche, e Ignacio Ramonet, presidente onorario di Attac, «Chávez dimostra che si può costruire il socialismo nella libertà e nella democrazia». Di qui l’odio che la sua «rivoluzione bolivariana» suscita nei campioni del Capitalismo e dell’Imperialismo, a partire ovviamente dagli Stati Uniti. In che senso Chávez costruisce il «socialismo», beninteso «nella libertà e nella democrazia» (la coda di paglia del «socialismo reale» è dura a morire)? Ecco la risposta degli apologeti: «Ha riconquistato la sovranità nazionale. E, con essa, ha proceduto alla redistribuzione della ricchezza a favore dei servizi pubblici e dei dimenticati. Politiche sociali, investimenti pubblici, nazionalizzazioni, riforma agraria, quasi piena occupazione, salario minimo, imperativi ecologici, accesso alla casa, diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione» (Perché Chávez?, Il Manifesto, 5 ottobre 2012).

Possono il Sovranismo, il nazionalismo, lo statalismo, un minimo sindacale di riformismo e un welfare basato sulla rendita petrolifera (vedi anche l’Iran di Ahmadinejad) giustificare cotanto entusiasmo “socialista”? Ovviamente no. Ma se poniamo mente al fatto che per il gauchismo di tutte le latitudini il Sovranismo, lo statalismo e il riformismo populista («andare al popolo!», di più: «servire il popolo!») sono sicuri indici di «socialismo», ancorché «reale», si comprende bene come non bisogna affatto stupirsi per l’ennesima infatuazione “socialista”  del sinistrismo mondiale. Dalla Russia alla Cina (alcuni passando anche per la Jugoslavia e per l’Albania), da Cuba al Nicaragua, figli e nipotini dello stalinismo (soprattutto nelle sue varianti maoiste e terzomondiste, più “movimentiste”) non hanno fatto altro che cercare nel vasto mondo i segni di un «socialismo» e di un «antimperialismo» esistiti solo nella loro testa. Per questi personaggi il Paese che si schiera contro gli Stati Uniti e il «liberismo selvaggio» ha già compiuto ipso facto un passo avanti nella direzione del «socialismo» e della lotta «antimperialista». Il Paese che statalizza l’economia, riacquistando la sovranità nazionale “a 360 gradi”, si pone «contro le devastazioni del neoliberismo» e marcia speditamente verso il Sol dell’Avvenire.

Mi si consenta di raccontare brevemente questo modesto aneddoto. Nell’estate del 1980, nel pieno delle Olimpiadi di Mosca e dei successi di Solidarność in Polonia e dell’Armata Russa in Afghanistan, un militante di un gruppetto sinistrorso messo alle strette dalle mie «settarie» considerazioni intorno al «socialismo reale», si scagliò contro il mio irritante antistalinismo nei seguenti termini: «Ma non lo vedi quante medaglie d’oro stanno portando a casa i Paesi Socialisti? Come fai a dire che essi non sono socialisti? La superiorità del Campo Socialista su quello Capitalista è schiacciante!» Degli stalinisti tutto – il male – si può dire, tranne che non fossero (e non siano, mutatis mutandis) armati di fantasia.

«Chávez ha fatto sì che la volontà politica prevalesse. Ha addomesticato i mercati, ha fermato l’offensiva neoliberista e poi, attraverso il coinvolgimento popolare, ha fatto sì che lo Stato si riappropriasse dei settori strategici dell’economia. Ha riconquistato la sovranità nazionale». Ancora nel 2012 esistono su questo disgraziato pianeta persone che pensano che la «sovranità nazionale» sia un valore “socialista”! Peraltro il Venezuela ha sempre esibito un alto tasso di sovranismo, come dimostrò ad esempio durante la guerra delle Falkland del 1982, allorché fu il solo Paese Americano-Latino che sostenne davvero le ragioni dell’Argentina contro l’Inghilterra.

Scriveva Maurizio Stefanini nel 2003, anno critico per il caudillo di Caracas: «In concreto, la politica economica espressa nel Plan Bolívar 2000 non va oltre un misto tra New Deal e peronismo … Ma quando all’inizio del 2002 il calo dei prezzi del greggio lo ha costretto, anche Chávez si è piegato a una politica di rigore economico relativamente ortodossa» (La geopolitica di Chávez tra Bolívar e petrolio, Limes, 1-2003). La “pace sociale” e le fortune di tutti i regimi che si sostengono sulla rendita petrolifera sono legate al prezzo del greggio, che non deve scendere sotto gli 80 dollari al barile. In generale, questo discorso vale per tutti i Paesi la cui economia si basa sulla vendita delle materie prime: vedi, ad esempio, la Russia di Putin. Giustamente il leader venezuelano sostenne nel 2000, nel momento in cui Chávez avviò la sua nuova geopolitica del petrolio, che portò il Venezuela a schierarsi al fianco dei «falchi» dell’Opec (Libia, Iran e Iraq) contro le «colombe» (Arabia saudita, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), «Che qualsiasi diminuzione del livello di prezzi attuale sarebbe per il Venezuela una sentenza di morte». In quel periodo il prezzo del greggio oscillava intorno alla drammatica soglia di 22 dollari al barile. In tutti questi anni l’attivo Chávez ha cercato di ricompattare l’Opec intorno a posizioni “radicali”, per farne uno strumento della sua ambiziosa politica estera, oltre che per fini di consenso politico interno, in ciò fedele alla tradizione populista e demagogica del Paese e del Sub Continente Americano.

C’è da fidarsi!

«È stata la rendita del petrolio», cito ancora dall’interessante articolo di Stefanini, «a finanziare il consenso di dittature e democrazie. È stata la sua crisi a mettere in crisi il bipartitismo tra i socialdemocratici e i democristiani che si era instaurata alla caduta del dittatore Marcos Pérez Jiménez  nel 1958 … Dal punto di vista economico, la ridistribuzione della rendita da materie prime non è in America Latina una caratteristica della sola sinistra, ma un modello abbastanza seguito da soggetti di vario orientamento. I sui inventori, a cavallo tra XIX e XX secolo, furono i leader di orientamento liberal-radicale, il cileno Juan Manuel Balmaceda e l’uruguayano Jorge Battle y Ordoñez. E colui che è diventato nel mondo quasi il simbolo stesso di questa politica è stato l’argentino Juan Domingo Perón, il cui ispiratore iniziale era stato mussolini». E a chi si è ispirato EL Patriota di Caracas? A Castro, che domande! Per Stefanini «Castro è un classico caudillo latinoamericano travestito da comunista per convenienza di momento storico. Oggi però non c’è più [se Dio vuole!] un’Unione Sovietica in grado di foraggiare chi abbracci la sua ideologia, e anche quel modello istituzionale sovietico che Castro continua seguire pedissequamente non è più di moda … Così, al posto del marxismo-leninismo Chávez ha riscoperto il pensiero del “padre della patria” Simon Bolívar». (Sul líder máximo dell’Avana vedi Riflessioni sulla “Rivoluzione Cubana”).

Naturalmente la punta della mia critica non è tanto puntata contro il caudillo venezuelano, che con una certa abilità cerca di implementare la politica ultrareazionaria che fa capo alle fazioni capitalistiche oggi vincenti in Venezuela; essa è soprattutto rivolta contro gli apologeti e i teorici della «rivoluzione bolivariana», ultima mentecatta illusione dei sinistri internazionali, i quali si nascondono dietro la popolarità del leader di Caracas. Come se la popolarità di un dirigente politico, democratico o fascista (ovvero stalinista o islamista: non fa alcuna differenza) che sia, fosse un criterio di giudizio adeguato a un pensiero che ama definirsi “socialista” e “antimperialista”.