TSIPRAS E LA “LOTTA DI CLASSE” SECONDO IL MANIFESTO

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Per Il Manifesto «torna la vecchia lotta di classe»: per Zeus, non me ne ero mica accorto! Mi son distratto un attimo… Ringrazio quindi i compagni del “Quotidiano comunista” della preziosa informazione. E tuttavia… Insomma, i dubbi si fanno presto strada. «Lotta di classe»: sarà vero? In che senso, poi, «lotta di classe?». Come al solito, il pessimismo e il sospetto mi fregano. Ma vediamo meglio la cosa.

Leggiamo: «La let­tera “io rinun­cio al mio cre­dito greco”, è una piccola-grande rispo­sta all’agguato di Ue e Fmi con­tro il governo di Syriza gui­dato da Tsi­pras. È il momento più dif­fi­cile per il nuovo ese­cu­tivo di Atene, democraticamente eletto solo 5 mesi fa dopo il disa­stro della destra e della Tro­jka che ha por­tato alla crisi umanitaria. Ora Tsi­pras ha pre­sen­tato un piano con­tro l’asfissia finan­zia­ria. Ma l’Ue, con rapido voltafaccia, dice ancora no: chiede il taglio delle pen­sioni e meno tasse alle imprese. Insomma, torna la «vec­chia» lotta di classe. Il mani­fe­sto sostiene l’iniziativa “io rinun­cio al mio cre­dito” e invita tutti i let­tori a sottoscrivere la let­tera, a ripro­durla e a moltiplicarla. Diciamo forte e chiaro: Atene non è sola». Non c’è dubbio. Ma non contate sul mio appoggio!

Infatti, a mio modesto avviso non stiamo assistendo alla vecchia «lotta di classe»,  né a una sua variante moderna o post-moderna: niente di tutto questo. Si tratta piuttosto di una lotta intercapitalistica che ha molto a che fare anche con i rapporti di forza geopolitici inter-europei e mondiali.  Spacciare per “lotta di classe” lo scontro interborghese (o intercapitalistico, oppure interimperialistico: chiamatelo come più vi aggrada, come suona meglio all’orecchio 2.0) è un classico del pensiero “comunista” da Stalin in poi. Sì, ho detto Stalin: il nonno dei vetero/neo/post “comunisti” ancora attivi in Occidente. E in Italia – come in Grecia – di “comunisti” ce ne sono ancora tanti in circolazione, come sa d’altra parte bene lo stesso Tsipras, alle prese con la Piattaforma sinistrorsa che monta la guardia a difesa delle mitologiche (dopo tutto siamo in Grecia!) Linee Rosse. Syriza, da movimento social-populista qual è, ha forse fatto al “popolo greco” promesse irrealistiche (anche in questo in perfetta continuità con il vecchio personale politico greco, il quale com’è noto ha usato anche la spesa pubblica e l’evasione fiscale come strumento di consenso elettorale/sociale)? È quello che pensano in tanti. Scrive Claudio Cerasa sul Foglio di oggi: «Fare gli anticapitalisti con i soldi degli altri funziona quando prometti, quando sei al comando del paese è un’altra storia. Funziona così. E anche Tsipras deve essersene accorto quando ha capito che – kalos kai Dragatos – l’unico modo per salvare il suo paese era proprio quello: stringere la mano all’Europa e agli orrendi capitalisti nemici del popolo». Com’è noto, per i “destri liberisti” basta un niente, un’Enciclica papale ad esempio, per parlare di “anticapitalismo”; però la battuta non è male.

Cito dalla Lettera di sostegno al governo borghese di Atene (alle prese non con la cattiveria del mondo, ma con le magagne di un Capitalismo, quello greco, praticamente da sempre obsoleto e parassitario, nonché con gli interessi capitalisticamente legittimi di chi a) presta i soldi, b) vuole intascare profitti e c) intende rafforzare ed espandere la propria egemonia sistemica, come la Germania: è il Capitalismo, Varoufakis!): «L’Europa senza la Grecia sarebbe come un adulto privato della sua infanzia. Cioè della sua memoria e delle sue parole». Che infantilismo d’accatto! Lo so, sono duro, ma come diceva il mio filosofo di riferimento «ogni limite ha una pazienza», o qualcosa del genere. Ma ci siamo capiti! C’è in corso una guerra sistemica intercapitalistica giocata sulla pelle del proletariato e della piccola borghesia declassata, e certi “comunisti” mi invitano a versare lacrime sulla Civiltà Occidentale: ma andate a quel Paese! Quale? Il solito!

Per quel che conta la mia opinione (e qui stendiamo il solito velo!), desidero comunicare ai creditori politicamente corretti del Paese che personalmente non rinuncio né al mio credito (avercelo, in tutti i sensi!*) né, tanto meno, al mio “istinto di classe”, il quale mi suggerisce in modo inequivoco di non piegarmi a nessuno degli attori che oggi si scontrano sulla scena internazionale; di non abboccare né all’amo della “destra” (rigorista o populista, europeista o sovranista, liberale o statalista) né a quello della “sinistra” (rigorista o populista, europeista o sovranista, liberale o statalista: magari sotto la forma particolarmente rognosa e chimerica del benecomunismo); di rifiutare di “scegliere” l’albero a cui impiccarmi.

La «lotta di classe» a cui ci invita Il Manifesto è la lotta che il Capitale fa ogni santo giorno agli individui in generale e ai nullatenenti in particolare. Spedire al mittente come velenosa robaccia ultrareazionaria la “solidarietà di classe” immaginata dal “Quotidiano comunista” (sic!) è, a mio giudizio, il minimo sindacale richiesto agli anticapitalisti di tutto il mondo da un pensiero autenticamente radicale. A ogni buon conto, io la penso così.

Non è necessario bere il vino di Marx per capire la natura ideologica (falsa) della democrazia (borghese) in generale e della democrazia (borghese) ai tempi del dominio totalitario e mondiale dei rapporti sociali capitalistici. Né bisogna essere particolarmente “marxisti” per comprendere che solo un’autentica lotta di classe può spezzare il legame politico, ideologico e psicologico che oggi (come da troppo tempo, ormai) incatena i nullatenenti al sempre più disumano carro del Dominio – comunque “declinato”: democrazia, fascismo, liberismo, “socialismo” (leggi: statalismo), ecc., ecc. Insomma: io no sto né con Tsipras, né con la Merkel, né con gli europeisti né con la Troika, né con gli Stati Uniti né con la Russia, né con l’Italia né con la Cina – a proposito: alcuni sovranisti particolarmente intelligenti e furbi pensano che l’egemonia economica e politica russa o cinese sulla Grecia o su qualche altro Paese del Meridione europeo sia preferibile e auspicabile: a queste cime dialettiche io non arriverò mai! E difatti sconto una certa solitudine politica, diciamo. Ma se la “dialettica” è questa…

Una piccola precisazione: quei “” vanno letti come dei “contro”. Per adesso sul sempre più scottante “caso greco” è tutto.

* «Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo. […] Entro il rapporto, non è il denaro che viene superato nell’uomo, ma è l’uomo stesso che viene trasformato in denaro, ossia il denaro si è personificato nell’uomo. La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro» (K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 12, Editori Riuniti). D’altra parte, «il denaro è solo un rapporto sociale oggettivato» (ibidem, p. 89). Una qualità assai misteriosa che i feticisti d’ogni genere  (compresi Papa e papisti proudhoniani) non riusciranno mai a capire.

ANIMALISTI AGNELLIAggiunta da Facebook, 27 giugno 2015

 YANIS VAROUFAKIS E LA CORDA DEMOCRATICA

La grande “scelta”: corda di destra, di centro o di sinistra?

Ultim’ora Huffington Post: «”Noi agiamo a nome dei greci. Se i greci ci diranno di firmare firmeremo, qualunque cosa questo richieda”. Lo ha affermato il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, in merito al referendum che si terrà sull’ultima proposta di aiuti dell’UE».

L’ALBA DEI MORTI VIVENTI

Ennesimo tentativo di accorpare i rimasugli della sparsa diaspora del “glorioso” PCI. Si chiama Alba (acronimo che mi rifiuto di spiegare, per decenza), ed ha l’ambizione di dar corpo a un «Soggetto Politico Nuovo», probabilmente collocato a “sinistra” del PD. Sponsor ufficiale Il Manifesto, il noto quotidiano che ama definirsi «comunista» – o forse, da domani, benecomunista –, ma che per sopravvivere non disdegna di elemosinare i soldi al Leviatano. Questo a proposito di “comunismo” e di “benecomunismo”.

«Quale urgenza sentono le migliaia di persone che hanno sottoscritto “il Manifesto pubblicato su il manifesto”? Io credo che molti finalmente, dopo la fasulla liberazione da Berlusconi, abbiano capito dove sia il nemico e quale sia la vittima del suo agire spietato e cinico. Il neoliberismo, per la prima volta in crisi di egemonia dopo la caduta del muro di Berlino» (U. Mattei, A Firenze, per cominciare, Il Manifesto, 28 aprile 2012). Si capisce che quanto a originalità gli albisti sono messi piuttosto maluccio. Infatti, è dal 1989, da quando il muro di Berlino è precipitato sulla loro zucca, che gli statalisti dell’ex PCI e dintorni ripetono il mantra del «neoliberismo» cinico e baro. Un po’ più di originalità, cribbio! Adesso che la crisi economica chiama in causa lo Stato per rendere meno dirompente il conflitto sociale e più agevole la ripresa in grande stile dell’accumulazione capitalistica, gli albisti si sentono meno depressi, con ciò stesso rendendo evidente la natura ultrareazionaria (appunto statalista o «benecomunista», per usare un termine meno sputtanato) del loro progetto politico.

I MILLE VOLTI DEL LEVIATANO

«Dobbiamo sostituire il potere degli usurpatori nel minor tempo possibile con un governo partecipato e condiviso che faccia dell’Italia il primo paese occidentale a rompere davvero col neoliberismo (come fatto da diversi paesi e da ultimo l’Argentina con la nazionalizzazione del petrolio». Dopo la Russia, la Cina e Cuba, ecco il nuovo Paese-modello dei social-nazionalisti (uso il termine in senso tecnico, senza alcuna allusione storica) nostrani. Dimenticavo: c’è pure il Venezuela di Chávez. Dal «neoliberismo» che avrebbe fatto fallimento (ricordo che la crisi economica è immanente al concetto stesso di Capitale: vedasi Il Capitale) al nazionalismo economico? Se pensiamo che tra i firmatari del manifesto albista figura Luciano Gallino, il teorico del Finanzcapitalismo e promotore di un keynesismo “spinto” che abbia nello Stato il «datore di lavoro di ultima istanza», capiamo bene di che lordura statalista stiamo parlando.

«La conoscenza critica è stata massacrata con la continua aziendalizzazione della cultura, della scuola, dell’università e con il tentativo sempre più vicino al successo di chiudere la bocca al pensiero critico che non vuole stare zitto». La «conoscenza critica» sarebbe dunque coltivata negli istituti formativi della Mala Bestia? «La tendenza alla massima estensione e diffusione della cultura pretende che la cultura stessa rinunci alle sue più alte, nobili e sublimi aspirazioni per dedicarsi al servizio di una qualche altra forma di vita, ad esempio dello Stato» (F. W. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole). Sebbene dal suo particolare punto di vista aristocratico, Nietzsche aveva almeno intuito il significato della «democratizzazione» e massificazione della cultura e dell’istruzione nel seno della moderna società borghese. Ma dagli statalisti incalliti sarebbe vano aspettarsi un solo grammo della profondità critica di un Nietzsche. Lasciamo quindi che essi belino allegramente il loro: «Viva l’acqua pubblica, viva la scuola pubblica, viva i beni pubblici!» D’altra parte, il loro orizzonte concettuale è dichiaratamente chiuso dentro i confini degli interessi nazionali; si tratta, infatti, di «salvare il nostro Paese», le «nostre istituzioni», il «nostro patto fondativo», e il nuovo soggetto politico nasce proprio «per dar stimolo alla creazione di un Cln contro l’occupazione neoliberista del nostro paese». Questi hanno in testa la guerra, ancorché «partigiana», mica la Rivoluzione!

«Dichiarando uno stato di emergenza, tutti i dispositivi della legalità liberale sono stati sollevati». Non è affatto vero. Sollevate, per dir così, sono state piuttosto le illusioni feticistiche intorno alla democrazia, più o meno «partecipata», la quale è da sempre la migliore – la più economica, sotto ogni rispetto – forma politico-ideologica del dominio sociale capitalistico: altro che fumisterie sul «neoliberismo» brutto, sporco e cattivo. D’altra parte, lo stato di eccezione mette a nudo la regola del Dominio, quella che il feticismo di cui sopra impedisce di cogliere nei momenti di routine. Ma «l’esito dei referendum è stato ignorato»! Non aspettatevi la mia “indignazione”, signori benecomunisti. No, non mi avrete come “partigiano del XXI secolo”.

Gratta gratta, sotto il benecomunista di oggi scopri lo statalista di ieri. Una verniciatina, e via, si riparte!

Marco Revelli, nella sua introduzione alla performance fiorentina del 28 aprile che ha lanciato il progetto-Alba, non si è certo tenuto alla larga dai soliti luoghi comuni tipici di chi «scende in campo»: non si tratta di mettere in piedi «un ennesimo partitino a vocazione minoritaria», ma un soggetto politico di nuovo conio «tendenzialmente maggioritario». Ma va? Nel suo discorso non poteva mancare il «cambio di paradigma», e difatti non è mancato, corroborato da un «salto di paradigma»: nientemeno! Per dire cosa, poi? Che bisogna salvare il Paese dal «crollo delle stesse istituzioni repubblicane», e che gli albisti intendono essere «abitanti di un nuovo spazio pubblico». Stabilità dello status quo politico-istituzionale uscito dalla seconda guerra mondiale come si riflette «nel nostro patto fondativo», e neostatalismo ribattezzato benecomunismo: un progetto politico anacronistico che trasuda muffa, e non solo, da tutti i pori.

OMSA, CHE STATALISTI!

Tre brevi esempi di statalismo conclamato per chiudere in bellezza – si fa per dire – l’anno dello Spread.

Dio, com’è noto, non esiste. Odifreddi, purtroppo, sì.

Matematica impotenza

Ieri mattina (ore 6) ho visto la simpatica faccia del famoso matematico italiano Piergiorgio Odifreddi comparire al TG3 dopo l’intervento di Enrico Cisnetto. Della seria: sentiamo le due campane (liberale e progressista) su come venire fuori dalla crisi. La campana statalista ha prima stigmatizzato Obama e la BCE, rei di aver salvato il Sistema Finanziario a suon di trilioni di dollari e di euro; e poi ha concluso con un capolavoro concettuale di matematica limpidezza, questo: «Le banche private non vanno salvate col denaro pubblico, ma nazionalizzate. Lo Stato in fondo esiste per difendere i deboli». Ho sempre pensato che la comprensione del meccanismo sociale non sia un fatto di intelligenza o, men che meno, di scienza, ma piuttosto di coscienza («di classe»). Si può benissimo essere geni della matematica o della fisica, persino capaci di dare scacco macco a Dio attraverso formule ed esperimenti, e tuttavia rimanere, sul piano dell’interpretazione della prassi sociale, degli emeriti indigenti, bambini che ancora credono alle favole raccontate dai grandi. «C’era una volta il Leviatano. Non era un mostro, come lo stolto pensava, ma una dolce creatura che difendeva i più deboli». La società è una questione troppo seria per lasciarne l’interpretazione e la trasformazione agli scienziati. Prima i «più deboli» lo capiranno, e prima essi avranno la possibilità di aprire gli occhi sul mondo.

«Qui giace Palmiro Togliatti, impiegato modello di rivoluzioni parastatali» (Indro Montanelli).

“Comunisti” parastatali

Il giornale “Comunista” Liberazione rischia la chiusura, sia perché vende pochissime copie, sia perché il Governo ha dato un taglio alle sovvenzioni della stampa e dell’editoria. Ci sono anche magagne interne al suo editore di riferimento (Rifondazione Statalista), ma su questo sorvolo. Naturalmente la mia solidarietà ai lavoratori di Liberazione è, come si dice in questi casi, incondizionata. Non voglio sollevare una questione sindacale, né un problema immediatamente politico, quanto piuttosto porre in rilievo la seguente “problematica” filosofica: quanto grande può essere l’abisso che separa la Cosa dal suo Nome? Infatti, come può un Soggetto Comunista appellarsi allo Stato Capitalista affinché dal Pubblico Tesoro gli arrivino i vitali capitali? Non può, è ovvio. È una domanda puramente retorica che mi ha fatto venire in mente le parole di Winston: «Se egli crede davvero di sollevarsi dal pavimento, e io, nello stesso tempo, credo di vedere che lo fa, allora la cosa succede» (G. Orwell, 1984). Poste alcune ideologiche condizioni, 2 + 2 può dare 5. Gli stalinisti ne sanno qualcosa!

A Winston i conti non tornano mai!

Statalismo di fine stagione

Leggo sul Manifesto di oggi: «Licenziamento collettivo per le 240 lavoratrici della Omsa, storico marchio italiano delle calze, malgrado gli accordi per riconvertire la produzione ed evitare la delocalizzazione. Vittime, più che della crisi, della sete di ulteriori profitti». I “comunisti” del Manifesto rimproverano a Mario Monti di non essersi posto il problema di come mettere al riparo dalla crisi e dalla sete snodata di profitti l’economia e la cultura industriale del Paese. Anche qui il Leviatano è presentato all’opinione pubblica nazionale alla stregua del cane da guardia degli interessi dei più deboli. Anche qui s’invita a credere che 2 + 2 = 5. Occhio alle gambe, gente: il Cane morde! E ingoia pure le calze…

STATALISTI, NON COMUNISTI!

«Una parte della borghesia cerca di portar rimedio ai mali sociali, per mettere in sicurezza l’esistenza della società borghese» (Marx-Engels, Il Manifesto del Partito Comunista).

L’articolo di Sergio Cesarotto (Liberisti, non riformisti) comparso oggi sul Manifesto è davvero sfizioso, soprattutto perché offre un’ennesima testimonianza di cosa è stato, e di cos’è nella sua fase residuale e, speriamo, finale, il cosiddetto «comunismo italiano».

Cesarotto prende le distanze dalla «destra liberista del PD», la quale cerca di impadronirsi del partito di Bersani sulla scia del «governo di responsabilità nazionale» di Monti, e rampogna severamente coloro che in quel partito hanno l’impudenza di scomodare il termine «riformista» per alludere a politiche che nulla avrebbero a che fare con quella parola «gloriosa del movimento operaio internazionale», «marxismo» compreso. Personaggi alla Ichino, al centro della polemica che si è accesa nel PD intorno alla sua natura politica (trattasi di partito «riformista»? o «liberista?» ovvero «liberalsocialista?»), sono, secondo il Nostro, «liberisti, non riformisti».

Un onesto Riformista, senza se e senza ma.

Il riformismo dei bei tempi, scrive Cesarotto, era un programma di governo basato su «riforme di struttura», mentre la «destra liberista» che ama presentarsi come «riformista» ha come suo obiettivo specifico il superamento dello Stato Sociale e la distruzione dell’architettura dei diritti conquistati dai lavoratori nei decenni che ci stanno alle spalle. Ichino, a ragione, obietterebbe che quest’ultimo programma configura delle «riforme di struttura».

«Qui giace Palmiro Togliatti, impiegato modello di rivoluzioni parastatali» (Indro Montanelli).

In effetti, le mitiche «riforme di struttura» vaneggiate prima dall’ala «riformista» della socialdemocrazia alla fine del XIX secolo, e poi dai cosiddetti «comunisti» fedeli a Mosca nel secondo dopoguerra, avrebbero dovuto trasformare «dall’interno» e pacificamente il capitalismo, fino a farlo capovolgere in socialismo: oplà! Se consideriamo che tanto i socialisti quanto gli stalinisti concepivano il «Socialismo» nei termini di un capitalismo di Stato più o meno «ortodosso», si comprende bene la qualità politica e sociale di quelle «riforme». Sotto quest’aspetto, ad esempio, si può senz’altro dire che Mussolini, incalzato dalla crisi del ’29, attuò non poche «riforme di struttura», e che il suo programma «anticapitalistico» di Salò va preso molto sul serio proprio alla luce del suo retaggio socialista e dell’esperienza della Russia di Stalin che egli non smise mai di lodare. «Fare come in Russia!» aveva avuto un preciso significato nel 1917, quando anche in Italia si stava formando un nucleo di veri comunisti, e il significato diametralmente opposto nel 1943, ai tempi della Repubblica Sociale Italiana e dello Stalinismo Internazionale.  Ma questo i «comunisti» che pregavano col viso rivolto verso Mosca (e poi anche verso Pechino) non potevano certo capirlo. È in questo «equivoco teorico» che bisogna inquadrare l’articolo di Cesarotto.

D’altra parte, ricordo benissimo che Il Manifesto stigmatizzò la scelta di Fini di dar vita ad Alleanza Nazionale, perché in fin dei conti il vecchio MSI conservava «un’anima sociale» che mal si conciliava con lo spirito liberista del Gran Puttaniere di Arcore. Dopo il Partito che fu di Berlinguer, anche il Partito che fu di Almirante si era convertito alla nuova religione «neoliberista»: che tempi! Con ciò il cosiddetto «Quotidiano Comunista» mostrava il suo stretto legame con la «gloriosa» tradizione del «movimento comunista italiano», da Togliatti a Berlinguer.

Il Manifesto preferito dal Nostromo.

Il riformismo, di «sinistra» o di «destra», è, al contempo, una prassi sociale e un’ideologia, con la quale la classe dominante esercita il suo controllo sulle classi subalterne. In Italia c’è stata poca prassi riformista, e molta ideologia riformista, e questo soprattutto a causa della struttura sociale del Paese (pensiamo solo alla secolare «questione meridionale», con le sue “ricadute” sociali e politiche di ampio spettro). Oggi le «riforme di struttura» segnano la differenza tra la ripresa e l’ulteriore decadenza del capitalismo italiano. Gli italici riformisti fanno dunque bene a tifare per Giavazzi, Ichino, Monti e Marchionne. Per quanto riguarda quelli del Manifesto, essi sono «statalisti, non comunisti».

LA STRAORDINARIA SCOPERTA DI UN PALEO-

Dunque Valentino ha finalmente Parlato. E dal suo inusitato Verbo siamo venuti a conoscenza di una verità davvero sconvolgente, abissale, scandalosa. Questa: a differenza di quanto avevamo appreso all’Università, accanto ai tre canonici poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), pulsa malignamente nella società (italiana? mondiale?) un quarto e ben più assoluto potere: il potere demoniaco del denaro. Davvero rimaniamo sconvolti al cospetto di cotanta scoperta, ci assale come un senso di vertigine. E solo oggi comprendiamo meglio lo zelo “riformatore” della Gelmini: se il livello culturale delle nostre Agenzie Formative è questo, tanto vale chiuderle!

Il potere pervasivo e corruttivo del denaro, dunque. Ecco perché, continua chi ci ha Parlato dal Manifesto del 18 febbraio 2011, bisognerebbe conferire una medaglia al Coraggio a quei politici (il Presidentissimo Fini, in primis) e a quei magistrati (l’allusione è fin troppo scoperta) che quel Potere osano sfidare apertamente, sventolando la Sacra bandiera della Legalità e della Giustizia.

Il mio discorso apparirà forse come «paleo marxista», aggiunge il fondatore del «giornale comunista» (sento le umide ossa di Marx fremere e agitarsi nella fossa londinese: ancora non sanno che il Manifesto del 1848 è andato a… puttane. Anch’esso!), ma le cose stanno proprio così. E dobbiamo reagire, perché il potere dei soldi sta ingoiando la democrazia. Discorso «paleo marxista»? No, se mai esso suona come paleo costituzionalista, analogamente al rancido discorso di tutti quelli che intendono difendere «la Repubblica nata dalla Resistenza» e la «Costituzione più bella del mondo – gran senso estetico, bisogna dirlo.

Una volta quelli del Manifesto pregavano i Sacri Numi del «socialismo dal volto umano» di non farli morire democristiani (la DC, da De Gasperi in giù, trattata alla stregua di un covo di «servi sciocchi degli americani e dei padroni», nonché di corrotti e di mafiosi,); durante l’ascesa politica di Craxi, nella seconda metà degli anni Ottanta, li implorarono di non farli morire craxiani (il «decisionismo craxiano» tacciato ridicolmente di «fascismo»), e oggi li supplicano, con la bava moralistica alla bocca, di non farli morire berlusconiani. Ma questi personaggi non farebbero prima a morire, semplicemente?