PAGINE SIDERURGICHE

«Stalingrado. Come l’acciaio resiste la città», cantavano gli Stormy Six molti anni fa. Parafrasando i versi di quella (brutta) canzone, scrivo pensando a Taranto: La città è stretta in una morsa d’acciaio. La metafora “metallurgica” allude ovviamente al Moloch capitalistico, nella sua componente “pubblica” come in quella “privata”. Scrivevo nell’agosto del 2012: «Per non sprofondare nel sempre più stucchevole e nauseante dibattito tra partigiani del diritto al lavoro (“senza però trascurare le ragioni della salute e dell’ambiente”) e i sostenitori del diritto alla salute (“senza però trascurare le ragioni dei lavoratori”), mi attengo a queste tre fondamentali, quanto elementari, acquisizioni: 1. la “logica del profitto” sussume sotto il suo sempre più cogente imperativo categorico qualsivoglia considerazione (politica, etica, religiosa) e qualsiasi diritto; 2. la salute e la sicurezza rappresentano per il capitale meri costi, e 3. a decidere del futuro industriale di Taranto (e dell’Italia) non sarà un tribunale della Repubblica ma il mercato». Alla fine del 2019 siamo ancora a questo punto, con un di più di contraddizioni e di superfetazioni politico-ideologiche (un escrementizio mix di “populismo”, “sovranismo”, sparate demagogiche d’ogni genere) che rendono la situazione odierna ancora più avvelenata (è proprio il caso di dirlo!) che nel recente passato.

Per parlare seriamente della crisi dell’ex Ilva di Taranto bisogna intanto collocarla nel quadro della più generale crisi che sta attraversando l’industria dell’acciaio in tutto il mondo: «Il mercato siderurgico è ciclico e spesso anticipatore degli andamenti congiunturali di molti settori industriali, essendo l’acciaio una materia prima necessaria a molti e diversi ambiti produttivi, come l’automotive, l’elettrodomestico, le costruzioni, i mezzi agricoli e movimento terra, la cantieristica navale, il packaging. Dopo avere archiviato un biennio di forte espansione, il settore ha conosciuto a partire dall’anno scorso una stagione di ridimensionamento, oggi allineata alle difficoltà di gran parte del manifatturiero, automotive su tutti. Tutti i principali produttori europei sono in crisi. Nelle ultime trimestrali i gruppi quotati hanno segnalato perdite o profitti in calo e i titoli delle società da inizio anno perdono dal 10 al 20 per cento titoli delle società da inizio anno perdono dal 10 al 20 per cento. Molti hanno deciso di tagliare la produzione. A questa dinamica si salda un dato strutturale relativo al mercato mondiale dell’acciaio, vale a dire la sovracapacità. C’è troppa capacità produttiva rispetto alla domanda, troppi impianti che producono acciaio. E in questo settore i costi fissi sono elevati. Si produce a ciclo continuo. Questo significa che non è possibile fermare e riavviare un’acciaieria a piacimento senza dovere sopportare inefficienze e costi aggiuntivi. L’Europa non è il centro del mondo, a maggiore ragione nel mercato dell’acciaio. La produzione siderurgica globale l’anno scorso è cresciuta del 4,6%. Ma a crescere sono stati Cina (+6,6%), India (+4,9%), Stati Uniti (+6,2%), mentre la Germania ha perso il due per cento. La Cina, poi, produce oggi 928 milioni di tonnellate di acciaio, la metà degli 1,808 miliardi di produzione globale. L’Italia è storicamente un importante produttore di acciaio. A oggi è ancora il secondo a livello europeo (dopo la Germania), ma è uscito dalla classifica dei primi dieci, sorpassata dall’Iran. L’Italia ha prodotto, nel 2018, 24,5 milioni di tonnellate, in aumento dell’1,7 per cento sul 2017. Quest’anno, nei primi nove mesi dell’anno, la produzione nazionale è stata di 17,621 milioni di tonnellate, il 3,9% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Nel 2015, prima dell’ultimo ciclo espansivo, la soglia a settembre era pure peggiore, a 16,752 milioni di tonnellate. All’interno di questi volumi bisogna però distinguere tra due tipi di prodotto: i «lunghi», destinati all’edilizia (e per i prodotti di maggiore qualità, automotive e meccanica) e i «piani», prodotti legati all’industria manifatturiera pesante, come la filiera automobilistica, l’elettrodomestico, la cantieristica, i lavori pubblici. I piani sono la specialità dell’Ilva e di un unico altro operatore in Italia (il gruppo Arvedi). Il venir meno di una fonte di approvvigionamento interna di questo tipo non può non impattare su gran parte delle filiere produttive italiane, con ripercussioni sul livello delle scorte, dei prezzi. Per questo motivo la vicenda dell’ex Ilva è un problema di politica industriale che investe tutta Italia» (1).

E investe come un treno impazzito i lavoratori, che poi sono i soli della cui condizione mi interessa: la politica industriale italiana mi riguarda come anticapitalista, e quindi comme radicale oppositore del Capitale (nazionale e internazionale, pubblico e privato) e dello Stato che lo supporta in tutti i modi, com’è del resto naturale in questa società.

Per il professor Giulio Sapelli «Siamo al punto più basso della nostra storia industriale. Per l’Italia lo stop dell’Ilva è un grande problema per il futuro. Nei prossimi anni occorrerà ricostruire la Mesopotamia e l’Italia avrà bisogno di un campione. L’Europa per uscire dalla deflazione secolare ha l’occasione della Siria e della sua ricostruzione. E l’Ilva potrebbe essere uno dei veicoli, visto che sarebbe l’unica grande acciaieria del Mediterraneo, con una potenza di fuoco molto alta. Dobbiamo guardare al domani, questo è il fatto. Oggi c’è un partito ideologico anti-industriale in Italia, nato già ai tempi di Alfonso Pecoraro Scanio ministro dell’Ambiente, che aveva una visione magica dell’industria e che oggi sopravvive e che equipara il fare industria al fare del male. Mi preme sottolineare una cosa. In queste settimane drammatiche i sindacati si sono comportati in maniera molto responsabile e questo è lodevole. Cgil, Cisl e Uil hanno mostrato più responsabilità dei nostri ministri» (2). Non so dire se in questo Paese operi da tempo «un partito ideologico anti-industriale», magari folgorato sulla via della “decrescita felice”; di certo Sapelli ha ragione da vendere nell’individuare nei tre sindacati di regime la spina dorsale del partito della responsabilità e del Pil, un ruolo che essi hanno svolto con zelo tanto nella “Prima”, quanto nella “Seconda” Repubblica, e che riconfermano oggi, quando sembra apparire all’orizzonte una “Terza” Repubblica, dai connotati ancora incerti ma che certamente non sarà meno ostile delle precedenti nei confronti degli interessi delle classi subalterne. Anche ai tempi della ristrutturazione e poi della chiusura degli impianti siderurgici di Bagnoli la compagine sindacale ebbe modo di farsi apprezzare quanto a collaborazionismo e a responsabilità nazionale, a cominciare dal mantenimento della “pace sociale”.

Credendo di fare una cosa utile per chi volesse approfondire la “problematica” siderurgica come si è venuta a configurare nel nostro Paese (significato storico dell’industria siderurgica italiana, i suoi legami con lo Stato e con la politica in generale, la sua specificità economica, ecc.), ho raccolto in questo PDF alcune pagine tratte da libri, giornali e studi che hanno come loro oggetto, appunto, l’industria che produce acciaio come materia prima per altre industrie manifatturiere e prodotti in acciaio pronti all’uso.

Scriveva Richard A. Webster ne L’imperialismo industriale italiano: «L’industria siderurgica fu dunque salvata dall’intervento dello Stato, di concerto con gli interessi di alcuni gruppi privati, ma con metodi che inchiodarono l’Ilva ad una lunga e precaria convalescenza. D’altro canto anche lo Stato sembrava destinato a sperperare inutilmente altro denaro in questo inutile tentativo di riconversione, non appena si fosse verificata una nuova crisi generale nell’attività industriale». Si sta forse parlando di oggi? Nient’affatto: «L’operazione di salvataggio del 1911, rivelando gli stretti e molteplici legami fra l’industria siderurgica e lo Stato, suscitò l’indignazione non solo dei riformatori sociali e dei radicali, ma anche di rispettabili economisti conservatori. Le proteste per il prezzo enorme che il paese stava pagando ai “baroni” del ferro e dell’acciaio furono pertanto unanimi. Il contribuente italiano fu costretto, infatti, ad addossarsi l’onere più grande» (3). Profitti privati e pubbliche perdite, come non di rado accade nella patria di Pantalone. Vedi, come ultimi e “paradigmatici” esempi, l’ex Ilva e l’Alitalia: si parla, a proposito di quest’ultimo caso, di 9 miliardi di euro gettati dallo Stato nel pozzo senza fondo dell’assistenzialismo. «E io pago!», avrebbe detto il grande Totò interpretando il ruolo del povero e tartassato «contribuente italiano». Perché una cosa dev’essere chiara: «lo Stato siamo noi» è una locuzione che è vera solo nel senso che siamo noi a sostenere le spese del Moloch. Nessun pasto è gratuito, e i servizi ancora garantiti dallo Stato siamo noi a pagarli (vedi alla voce drenaggio o pompaggio fiscale): altro che Stato assistenziale! Piuttosto Stato assistito dal «contribuente italiano».

Proprio in riferimento a quei due disgraziati casi, ieri il Ministro dello sviluppo economico Patuanelli ha evocato lo spettro di una «nuova Iri», ha parlato della necessità di un «ritorno all’Iri», magari coinvolgendo Cassa Depositi e Prestiti (4): «Per carità! Abbiamo semmai bisogno di un comitato di salvezza nazionale, con tutti i partiti dentro, piuttosto che chiamare Cassa depositi e prestiti che, non dimentichiamolo, gestisce il nostro risparmio postale, ed esporla a questo rischio» (G. Sapelli). Comitato di salvezza nazionale: siamo già a questo? In ogni caso, sia chiaro: io mi chiamo fuori e soprattutto contro!

La storia dell’industria siderurgica italiana è la storia del militarismo e dell’imperialismo del nostro Paese. In effetti, la stessa cosa si può dire per gli altri Paesi occidentali, considerata la stessa natura della cosiddetta economia pesante (un ramo produttivo ad alta intensità di capitali che spesso coincide con l’industria degli armamenti stricto sensu); ma la relazione tra la nascita e lo sviluppo dell’industria siderurgica e l’iniziativa economico-politica dello Stato ha avuto in Italia una peculiarità davvero degna del massimo interesse, per i suoi risvolti sociali di ampio e durevole impatto. In un certo senso l’industria siderurgica è il comparto industriale che forse più degli altri mostra la continuità sistemica del capitalismo italiano attraverso i suoi diversi regimi politico-istituzionali: dall’epoca liberale a quella fascista, e da questa all’attuale regime Repubblicano.

La crisi che da molto tempo corrode le stesse fondamenta dell’Ilva e dell’Alitalia, due ex “campioni nazionali” del capitalismo italiano, rappresenta solo l’ultima manifestazione dei limiti e delle contraddizioni del modello capitalistico di questo Paese. Com’è noto, questo modello è centrato su una strettissima relazione “sinergica” tra le maggiori imprese industriali nazionali e i più grandi istituti creditizi del Paese, da una parte, e, dall’altra, lo Stato – in senso stretto e allargato alla politica (partitocrazia); centrale e periferico-regionale.

Checché ne dicano gli ideologi del liberismo, il capitalismo non sarebbe mai nato se lo Stato non avesse investito capitali e diretto investimenti di capitali. Stato investitore diretto, e Stato direttore di investimenti privati, secondo la nota direttiva formulata da Alcide De Gasperi negli anni Cinquanta. Marx a suo tempo parlò di accumulazione primitiva o originaria del capitalismo (fine XV inizio XVI secolo), e mise in luce il decisivo ruolo che vi giocò appunto lo Stato, il quale pose la sua forza al servizio del processo sociale che si concluse con la nascita del moderno rapporto sociale capitalistico: «quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale» (5). Da una parte la massa dolente dei senza riserve, costretti a vendersi sul mercato del lavoro per poter sopravvivere; dall’altra i capitalisti, i proprietari delle «condizioni oggettive del lavoro» (macchine, materie prime, ecc.) e, quindi, del prodotto del lavoro.

Naturalmente nei diversi Paesi lo Stato ha avuto un diverso peso e ha esercitato differenti funzioni nella sfera economica. In Francia, ad esempio, lo Stato ha giocato nella genesi capitalistica un ruolo maggiore che in Olanda e in Inghilterra. E ancora maggiore è stato il ruolo che lo Stato ha avuto nello sviluppo economico dei Paesi capitalisticamente “ritardatari”: Germania, Italia, Giappone, Russia, Cina. Al polo opposto troviamo invece gli Stati Uniti, dove l’intervento dello Stato nella promozione del capitalismo è stato relativamente secondario, quantomeno agli inizi del suo sviluppo, nella sua genesi. Come sappiamo, l’avvento dell’epoca imperialista e l’esplodere delle grandi crisi economiche (due facce della stessa medaglia) ha completamente modificato questo quadro. Tanto per dire, solo con il massiccio intervento dello Stato, che Trump si è guardato bene dal contrastare (anzi!), l’economia americana ha superato il momento più duro della crisi economica del 2008, facendo registrare nel 2014 un non disprezzabile 5,2 per cento di crescita. Oggi il suo ritmo di crescita si aggira intorno al 2,5 per cento, e il Presidente promette nuovi investimenti pubblici nei “settori strategici” (industria militare, comparto aero-spaziale, infrastrutture tradizionali e “intelligenti”, ecc.) e un nuovo “Shock fiscale” a beneficio della classe media (flat tax al 15 per cento): le elezioni presidenziali incombono! (6)

Tutto questo semplicemente per dire che non ha mai avuto alcun fondamento contrapporre lo Stato al processo capitalistico di accumulazione, secondo gli opposti ideologismi proposti dal liberismo e dall’antiliberismo. Il problema è piuttosto capire la natura dell’intervento statale in economia, sondarne la qualità e analizzarne la dinamica nelle diverse condizioni sociali attraversate nel tempo da un Paese. Ciò che conta non è la spesa pubblica in quanto tale, “in sé”, ma la sua natura, la sua qualità: essa genera sviluppo economico o mero assistenzialismo? sostiene la crescita di un Sistema-Paese o la sua stagnazione? promuove nella “società civile” atteggiamenti orientati alla laboriosità e all’iniziativa o, all’opposto, all’assistenzialismo e al rivendicazionismo parassitario?

Scriveva Francesco Farina: «Il settore pubblico è apparso appoggiare la politica di ristrutturazione capitalistica dell’industria privata, prendendo parte attiva nel corso degli anni ’60 ai processi di concentrazione produttiva e finanziaria, fino a giungere a controllare circa il 50% dell’apparato industriale italiano. […] Ma il ruolo svolto dalle imprese a partecipazione statale merita un maggior approfondimento, se è vero che – relativamente allo sviluppo industriale verificatosi nel Mezzogiorno – la più rapida dinamica registrata dal tasso di crescita degli investimenti nel Sud rispetto alle regioni centro-settentrionali tra il 1968 e il 1972, è stata dovuta essenzialmente agli insediamenti produttivi realizzati dall’industria pubblica. Come si è detto, uno degli aspetti più rilevanti della profonda trasformazione subita dal tessuto industriale del Mezzogiorno è costituito dal subentrare dei settori “pesanti” della moderna industria manifatturiera alla crisi che ha investito la piccola industria leggera tradizionale. Ciò è dimostrato sia dal carattere ancora più “selettivo” (a vantaggio dei grossi progetti d’investimento) degli incentivi creditizi concessi nelle regioni meridionali in confronto alle altre voci del credito agevolato, sia dallo spostamento dei finanziamenti verso i rami produttivi ad alta intensità di capitali. Le erogazioni di mutui di favore presentano un accentuato andamento “a forbice” tra il 1961 e il 1971: le iniziative al di sopra dei 6 miliardi passano infatti dal 19,9% al 67,3%. E dalla disaggregazione per settori dei mutui concessi si osserva come la quota destinata ai settori “pesanti” dei rami chimico (che comprende, oltre all’industria chimica in senso stretto, la petrolchimica e le raffinerie), e metallurgico, sia andata costantemente crescendo ai danni degli altri settori, cioè delle piccole imprese meridionali appartenenti ai rami alimentare, tessile, della carta e dei materiali da costruzione. Se si escludono allora i pochi insediamenti privati nell’industria “pesante” (come la Sir in Sardegna), si può dire che l’inserimento definitivo dell’area arretrata meridionale nel meccanismo di sviluppo nazionale è stato “guidato” dalle imprese a partecipazione statale delle produzioni maggiormente capital intensive. Sarebbe tuttavia erroneo voler contrapporre un’accumulazione “pubblica” ad un’accumulazione “privata”, sulla base della considerazione che la quota di investimenti industriali pubblici è salita dal 1961 al 1972 dal 19% al 49%, soprattutto in seguito alla forte dinamica del quadriennio 1969-1972 in cui le imprese a partecipazione statale hanno portato la dinamica degli investimenti industriali nel Sud a tassi di crescita superiori a quelli del Centro-Nord. Questo non solo perché le imprese a partecipazione statale operano secondo gli stessi criteri di profittabilità e adottano la stessa organizzazione del lavoro delle industrie private, quanto specialmente per il fatto che la funzione specifica loro assegnata dal potere politico – predisponendo, tra l’altro, più ampie e favorevoli condizioni di finanziamento – è consistita nel seguire e nell’appoggiare la strategia di sviluppo prescelta dal capitale privato. Si deve invece ritenere che nella politica di integrazione del Mezzogiorno nel processo di sviluppo nazionale l’intervento pubblico abbia puntato ad utilizzare le regioni meridionali come area “alternativa” di accumulazione, dove le aspettative di profitto potevano risultare più elevate per l’assenza della congestione industriale, e soprattutto per la più ridotta rigidità della forza-lavoro, derivante dall’inferiore livello di occupazione delle classi più “efficienti” e da una minore sindacalizzazione. Se l’integrazione del Sud è dunque avvenuta prevalentemente ad opera delle Partecipazioni statali, senza peraltro che il Mezzogiorno venisse in alcun modo a costituire un’area caratterizzata da migliori condizioni di profittabilità, è perché non poteva non avvenire che in maniera omogenea alla tendenza labour saving manifestata dallo sviluppo italiano, dove gli insediamenti produttivi dell’industria “pesante” ad alto rapporto capitale-lavoro non sono altro che un aspetto del ristagno delle fasi di sviluppo “estensivo” che hanno caratterizzato l’accumulazione dell’ultimo decennio. […] Com’è noto, nonostante il più alto ritmo di investimento del Mezzogiorno nel periodo 1969-72, l’incremento di occupazione è stato maggiore nelle regioni centro-settentrionali. Gli investimenti dell’industria pubblica, essendo avvenuti in settori di base (determinando, quindi, uno scarso assorbimento di manodopera, pochi investimenti indotti, e un alto flusso di importazioni dal Nord) hanno generato effetti moltiplicativi inferiori alle aspettative. […] L’espansione della spesa pubblica, cui si deve gran parte del rapido aumento della quota del settore pubblico sul reddito nazionale, dovrebbe essere oggetto di una considerazione più ampia. A causa della destinazione di gran parte del bilancio pubblico alla spesa corrente, la pura erogazione di redditi ha finito col sopravanzare di molto gli investimenti della Pubblica Amministrazione e delle imprese a partecipazione statale. E gli effetti destabilizzanti che ne sono derivati vanno ben oltre squilibri quali il conflitto fra finanziamento pubblico e privato e l’eccessivo indebitamento dello Stato. Infatti, il crescente flusso di redditi creati dalla Pubblica Amministrazione – che si configura come un drenaggio di risorse fuori dal meccanismo di accumulazione per la produzione di servizi – se nel breve periodo sostiene la domanda, nel lungo non trova corrispettivo (dal lato dell’offerta) in un ampliamento della capacità produttiva del sistema» (7).

Qui mi fermo. Auguro ai lettori una buona lettura e mi scuso con loro se nell’opera di “estrazione” e di ricomposizione delle pagine qui pubblicate ho commesso degli errori che ne hanno in qualche modo pregiudicata la comprensione. Non mi pare, ma scusarsi in anticipo per eventuali errori e sviste è sempre la migliore cosa da fare – e poi non costa nulla!

 

(1) M. Meneghello, Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2019.
(2) Intervista rilasciata Formiche.net, novembre 2019.
(3) R. A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio sul prefascismo, 1908-1915, p. 143, Einaudi, 1974.
(4) Ripercorrere la storia della Cassa è rappresentativo della storia della finanza e dell’economia pubblica d’Italia. La Cassa ha attraversato tutti i regimi politici istituzionali di Italia: la costituzione del Regno Unito di Italia del 1861; il periodo monarchico; il periodo fascista; il periodo repubblicano; risentendo nei vari periodi di maggiore o minore autonomia rispetto allo Stato centrale. È sempre sopravvissuta. La sua attività non è mai stata chiusa. Essa ha sempre giocato un ruolo di protagonista: ha finanziato la partecipazione italiana alle due guerre mondiali; ha finanziato le ricostruzioni post belliche; ha conferito il capitale degli enti pubblici, partecipando indirettamente al boom economico italiano successivo alla seconda Guerra Mondiale; ha partecipato alla nascita di iniziative sociali innovative come le prime gestioni di previdenza sociale per i lavoratori dipendenti; al sorgere di forme di intervento pubblico nella gestione delle residenze dei lavoratori ( ex GESCAL); ha sostenuto sempre le ricostruzioni post terremoti, alluvioni e altri disastri naturali. Essa è sempre stata presente, attiva e sostenitrice della finanza e dell’economia pubblica italiana nel bene e nel male ( nelle fortune e nelle disgrazie).
(5) K. Marx, Il Capitale, I, pp. 783-784, Einaudi, 1980.
(6) «La stretta commerciale causata dalla guerra dei dazi sta facendo calare le importazioni Usa ma non l’export che, invece, cresce (+3,7% nel primo trimestre 2019) e non sembra pesare sul Pil, cresciuto del 3,2%: gli economisti si aspettavano un 2% e i più pessimisti temevano addirittura una recessione, visti i segnali di allarme del mercato obbligazionario. In ripresa anche la produttività e l’occupazione, col tasso di disoccupazione ulteriormente calato dal 3,8 al 3,6%: è il livello più basso dal 1969. Dopo anni di stagnazione, in ripresa (modesta) anche i salari (+3,2%). Più ancora dell’andamento futuro dell’economia a politiche invariate, comunque, oggi vanno osservate le ulteriori, drastiche mosse che Trump sta mettendo in cantiere. Soprattutto il piano di infrastrutture da 2000 miliardi di dollari da lui presentato come un progetto bipartisan. I democratici non possono osteggiarlo, visto che chiedono da anni investimenti pubblici per rinnovare strade, ponti, ferrovie, reti digitali 5G e la protezione dell’ambiente. La sinistra spera che questa sorta di ricetta “statalista” di Trump, da finanziare anche con un aumento delle tasse sulla benzina e altro, provochi una rivolta in casa repubblicana. Certo che se Trump riuscisse ad adottare le politiche keynesiane che la sinistra non è riuscita a portare avanti, la svolta sarebbe storica: il capovolgimento della rivoluzione reaganiana col ritorno all’interventismo conservatore degli anni di Eisenhower (che creò la grande rete autostradale) e di Nixon (propose perfino il salario minimo universale, mai ratificato dal Congresso). Ma è tutto da vedere: su tasse e investimenti ambientalisti i repubblicani alzeranno barricate. E Trump in economia è un pragmatico» (M. Gaggi, Il Corriere della Sera, 5 maggio 2019).
(7) F. Farina, L’accumulazione in Italia, 1959-1972, pp. 170-180, De Donato, 1976.

TARANTO E NUVOLE

Per non sprofondare nel sempre più stucchevole e nauseante dibattito tra partigiani del diritto al lavoro («senza però trascurare le ragioni della salute e dell’ambiente») e i sostenitori del diritto alla salute («senza però trascurare le ragioni dei lavoratori»), mi attengo a queste tre fondamentali, quanto elementari, acquisizioni: 1. la «logica del profitto» sussume sotto il suo sempre più cogente imperativo categorico qualsivoglia considerazione (politica, etica, religiosa) e qualsiasi diritto; 2. la salute e la sicurezza rappresentano per il capitale meri costi, e 3. a decidere del futuro industriale di Taranto (e dell’Italia) non sarà un tribunale della Repubblica ma il mercato.

Per il capitale risparmiare sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori e della gente che in qualche modo subisce l’impatto ambientale della sua impresa è una dura necessità, e per alcune imprese perfino una questione di vita e di morte. Ma per altre imprese investire in sicurezza e salute significa invece spiazzare e alla fine annichilire i concorrenti che non riescono a tenere il passo degli alti standard qualitativi imposti da una politica aziendale improntata al “rispetto” del «capitale umano» e dell’ambiente. La «qualità totale» costa molto, e per molte imprese essa rappresenta un lusso che non possono concedersi. Molte multinazionali (compagnie petrolifere, compagnie di navigazione, imprese chimiche, ecc.) da tempo adottano questa aggressiva strategia, e con eccellenti risultati. In ciò esse sono state aiutate anche dalla retorica ambientalista che impazza in Occidente dagli anni Settanta. «Qualità totale» e concentrazione capitalistica sono le facce della stessa medaglia, e non a caso sono i paesi capitalisticamente più avanzati (Stati Uniti, Giappone e Germania) che impongono agli altri paesi standard qualitativi sempre più alti, ossia sempre più costosi. Senza contare gli enormi interessi che soprattutto negli USA si sono concentrati sulla cosiddetta green economy (tecnologie verdi, carburanti verdi, prodotti verdi, profitti verdi: tutto verde, come il colore dei dollari), che molti, a cominciare da Obama, vedono come il volano che può riattivare l’accumulazione in grande stile del capitale.

Taranto e nuvole

Sapremo presto se l’Ilva di Taranto può sopportare i costi aggiuntivi relativi al cosiddetto risanamento ambientale, ovvero se essi la metteranno fuori mercato, con drammatiche ripercussioni sull’assetto industriale dell’intero Paese, il secondo in Europa per attività manifatturiere. Intanto la siderurgia concorrente (francese e tedesca) si lecca i baffi. La siderurgia basata in Cina, in India, in Russia e altrove già da tempo prepara i funerali dei concorrenti europei, impegnati in un settore fin troppo “maturo” dal punto di vista della nuova divisione internazionale del lavoro. E questa considerazione vale un po’ per tutta l’economia del mezzogiorno, a cominciare dal «comparto» agricolo, la cui competitività è legata al super sfruttamento dei lavoratori, all’evasione fiscale, all’inosservanza dei più elementari criteri di sicurezza. Ecco perché i sindacati e i politici, nazionali e locali, da tempo immemorabile chiudono entrambi gli occhi su questa realtà che la dice lunga sullo stato del capitalismo italiano, avvezzo alle coccole del Leviatano – basti ricordare i “bei tempi” dell’Italsider, la quale produceva più posti di lavoro raccomandati dai partiti e dai sindacati che acciaio.

Si tratta, per quella responsabile gente, di sostenere gli interessi generali del Paese (detto qui senza un filo di retorica!), e di evitare che la crisi permanente che investe l’economia del Sud si aggravi ulteriormente, con contraccolpi assai pericolosi per la tenuta sociale dell’intera nazione. Durante la rituale intervista di ferragosto il ministro dell’interno ha usato a questo proposito il linguaggio della verità: «se la fabbrica di Taranto chiude, temo un forte surriscaldamento sociale, con manifestazioni e scontri. Tutte le parti in causa devono dimostrare responsabilità». D’altra parte il «ricatto occupazionale» ha sempre e ovunque avuto ragione su qualsivoglia considerazione: a Taranto come a Priolo, a Livorno come a Gela, a Genova come a Marghera. Quando le industrie che inquinavano “più del dovuto”, per usare un pietoso eufemismo, hanno chiuso, ciò non è accaduto perché alla fine la giustizia ha trionfato sulla «logica del profitto», anche grazie alla mobilitazione dei sindacati, dei politici e della «società civile», ma piuttosto perché il mercato ne ha decretata la morte. Ecco tutto.

Un pezzo di cosiddetta sinistra politica e sindacale sostiene la procura di Taranto per tre motivi: per creare problemi al governo «ultraliberista» di Monti (i suoi militanti rimpiangono segretamente il puttaniere di Arcore), per il suo noto giustizialismo e soprattutto perché essa vede nell’ordine giudiziario un alleato di ferro nella sua lotta di retroguardia tesa a difendere il vecchio e sempre più decrepito assetto politico, istituzionale e sociale del Paese. Tanto i lavoratori quanto le persone sottoposte all’inquinamento industriale sono presi in mezzo a una micidiale «alternativa del demonio» (o del dominio), che essi subiscono e razionalizzano come «male minore».

Dal mio punto di vista ultraminoritario solo una lotta per il lavoro e per la salute che abbia i connotati radicalmente critici appena abbozzati acquista un significato che vale la pena di sostenere. Il resto è mera sopravvivenza, concorrenza capitalistica, lotta “tra poveri” (morire di fame o di tumore? ammalarsi di disoccupazione cronica o di aspertosi?), regolamenti di conti fra cosche: “casta” politica contro la “magistratura militante”, “destra” contro “sinistra”, “industrialisti” contro ambientalisti e via di seguito. Tutte cose importanti, per carità, ma alla cui causa non intendo dare il mio – peraltro minuscolo – contributo. Il mondo, questo mondo capitalistico che sfrutta, inquina e disumanizza (con e senza green economy), ne può fare senz’altro a meno. I Vendola, invece, gli sono indispensabili. Narrazione compresa, beninteso.