SUL CONCETTO DI IMPERIALISMO UNITARIO

1In che senso nelle mie analisi “geopolitiche” parlo di imperialismo unitario? Nel senso che la competizione interimperialistica si dà dentro una comune dimensione storico-sociale: il Capitalismo, naturalmente. Per essere più precisi: la società capitalistica nella fase totalitaria e mondiale del dominio del Capitale. In questo senso parlo anche di Società-Mondo, concetto che naturalmente non annulla lo scontro tra le Potenze (su questo punto ritornerò tra poco), che si sviluppa appunto in un mondo soggetto a un unico rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Perché il Capitale è, nella sua essenza, questo stesso rapporto sociale.

In altri termini, unica è la natura sociale dei diversi imperialismi. L’imperialismo è dunque unitario ma non unico, secondo una formula che uso spesso. Per dirla con la vecchia metafora “strutturalista”, il capitalismo mondiale giunto nella sua “fase imperialista” è certamente un edificio unico, ma non unitario; esso si compone infatti di interessi capitalistici individuali, sociali, nazionali e sovranazionali in concorrenza fra loro.

La stessa tesi è stata qui presentata in due differenti modi, a partire da due diversi ma complementari approcci.

Va da sé che i cultori del «socialismo con caratteristiche cinesi» (o magari cubane, o venezuelane) non possono concordare con quanto appena affermato, esattamente come ai “bei tempi” dell’Unione Sovietica gli stalinisti non condividevano le tesi di chi negava a quel Paese ogni pur minimo elemento di socialismo, ancorché “reale”, e quindi una sua funzione, anche meramente “oggettiva” (o addirittura obtorto collo), antimperialista.

Per quanto riguarda il concetto di totalitarismo, è appena il caso di ricordare qui che declino quel concetto in un’accezione storica, filosofica e sociale che non ha niente a che fare con l’accezione elaborata dalla scienza politica e giuridica borghese. Totalitari sono a mio avviso gli interessi e le esigenze che fanno capo all’economia basata sul profitto, interessi ed esigenze che stringono in una morsa sempre più stretta gli individui appartamenti a tutti i Paesi del mondo e a tutte le classi sociali. Ciò a prescindere dalla forma politico-istituzionale (democrazia parlamentare piuttosto che regime autoritario, e via di seguito) che il Dominio del capitale assume nei diversi Paesi e nelle differenti contingenze storiche. La riduzione degli individui a mero «capitale umano», a biomercato, a risorsa economica da sfruttare in modo sempre più scientifico in vista del profitto sempre più alto: questo maligno processo sociale illumina bene il concetto di totalitarismo sociale com’è concepito da chi scrive.

Prendere atto della dimensione universale del Dominio sociale non equivale a obliterare la distinzione classista fra gli individui, o semplicemente depotenziarla attraverso una sua relativizzazione di natura “esistenzialistica”: la lotta di classe rimane al centro della mia concezione storica e sociale come di quel poco di iniziativa politica che sono in grado di sviluppare.

Il concetto di imperialismo unitario, nella ristretta accezione sopra delineata, informa dunque la mia analisi della competizione interimperialistica. Naturalmente sono il primo a riconoscere l’assenza di originalità a quanto finora sostenuto, e il lettore può facilmente individuare il “filone di pensiero” che mi sono permesso di saccheggiare senza chiedere il permesso a nessuno. D’altra parte ho sempre pensato, con il conforto del grande dialettico di Stoccarda, che interpretare (ma anche solo citare) sia già un creare: molti che credono di essere dei meri megafoni di altrui concetti e posizioni politiche sono invece dei creativi loro malgrado, a loro insaputa, per così dire. Per questo preferisco attribuire alla mia modestissima persona la responsabilità dei concetti che uso, lasciando a chi desideri farlo l’incombenza di rubricare/etichettare la mia posizione.

Lungi dal postulare una pacifica spartizione del bottino mondiale fra i maggiori imperialismi del pianeta, come immaginava possibile, anche in linea puramente teorica, il superimperialismo evocato da Kautsky, il concetto di imperialismo unitario è radicato nella natura altamente contraddittoria e conflittuale del capitalismo. Al massimo di unità (storico-sociale) deve insomma corrispondere un massimo di divisione e di conflittualità sistemica (economica, scientifica, tecnologica, politica, militare) tra le maggiori Potenze mondiali. Nella mia concezione dell’imperialismo la pacifica convivenza tra le nazioni ai danni delle classi dominate non è possibile nemmeno in teoria.

enhanced-buzz-wide-8513-1412771877-8Scrive Leonardo Paggi: «L’ultraimperialismo di kautskiana memoria è diventato realtà dopo il 1945. Il mondo del capitalismo avanzato si presenta ora, per la prima volta nella storia, politicamente unificato» (Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in Novecento, autori vari, p. 114, Donzelli, 1997). Questo poteva sembrare vero negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, nel contesto di un’Europa completamente distrutta e sottoposta al dominio pressoché assoluto delle due maggiori potenze imperialiste (USA e URSS), le quali si spartirono il Vecchio Continente nel modo a tutti noto. Ma non appena i Paesi «del capitalismo avanzato» (Germania e Giappone in primis) ricostruiranno le loro economie, anche con il sostegno finanziario degli Stati Uniti, apparirà sempre più chiaro come accanto alla polarizzazione politico-militare Est-Ovest chiamata Guerra Fredda si sviluppasse una competizione sistemica tutta interna al «mondo del capitalismo avanzato». Il capitalismo relativamente arretrato dell’Unione Sovietica, basato perlopiù sulla vendita di materie prime (come nella Russia di Putin), restò ai margini di quella competizione, e continuò a dipendere per molti e importanti aspetti dal capitale europeo (soprattutto tedesco) e dal capitale americano – che già sostenne l’industrializzazione a tappe forzate della Russia stalinista.  Mosca cercò di surrogare la debolezza strutturale dell’imperialismo russo ricorrendo a diversi espedienti, non raramente in contraddizione gli uni con gli altri, ma ciò non impedì che alla fine i nodi venissero al pettine.

Essendo l’imperialismo moderno, per la sua essenza, un fenomeno di natura economico-sociale (esportazione di capitali, investimenti diretti esteri, spartizione dei mercati e delle fonti di approvvigionamento delle materie prime, confronto tecno-scientifico, ecc.), ne discende che proprio nel cosiddetto “mondo libero” esso fece registrare durante la Guerra Fredda i suoi massimi picchi. Il contrasto politico-ideologico Est-Ovest (“socialismo reale” versus “economia di mercato”), se riuscì a nascondere questo dato di fatto agli occhi della cosiddetta opinione pubblica internazionale, non ingannò invece gli analisti di politica internazionale avvezzi a dare il giusto peso ai discorsi dei politici e dei diplomatici; a essi non sfuggì la reale portata della competizione sistemica tra gli Stati Uniti e i loro alleati.

Insomma, all’avviso di chi scrive la tesi del superimperialismo ha trovato la più netta delle smentite durante la Guerra Fredda e nel «mondo del capitalismo avanzato», che proprio a ragione della sua maturità capitalistica ha offerto al fenomeno-imperialismo il terreno più fertile e “naturale” sul quale svilupparsi. Naturalmente anche l’esito di quella guerra sistemica, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la vittoria degli Stati Uniti e (soprattutto) della Germania, conferma la natura essenzialmente economico-sociale dell’imperialismo.

Il pensiero deve cogliere la distinzione – “dialettica”, è il caso di ricordarlo? – tra l’imperialismo colto nella sua astrazione (essenza) e l’imperialismo colto nella sua concreta fenomenologia (come diceva Hegel, l’essenza deve apparire). In quanto essenza l’imperialismo non è altro che il capitalismo giunto a un certo grado di sviluppo (dominio del capitale finanziario); in quanto esistenza l’imperialismo è la prassi dei Paesi capitalistici. In questa prassi il momento politico gioca naturalmente un ruolo fondamentale, perché per un verso la politica deve supportare al meglio gli interessi del capitale, e per altro verso essa deve gestire la complessità sociale, la quale se lasciata al suo spontaneo sviluppo probabilmente provocherebbe la rapida esplosione del meccanismo sociale. Questa doppia funzione mostra la radicale subordinazione del politico all’economico, la cui continuità è appunto assicurata dal primo.

Che poi i politici e gli intellettuali borghesi pensino che le cose stiano, o dovrebbero e potrebbero stare, esattamente al contrario, ebbene ciò occorre darlo per scontato: dopo tutto, anche la frivola e insolente mosca della favola pensava di poter impartire ordini alla mula di Fedro.

In conclusione o, meglio, come prima approssimazione, possiamo dire che il concetto di imperialismo unitario qui esposto non giustifica alcuna negazione o sottovalutazione delle differenze che necessariamente, in virtù dell’ineguale sviluppo capitalistico nei diversi nodi della rete mondiale, insistono tra le potenze che si disputano l’egemonia sul mondo. Ho cercato piuttosto di negare nel modo più radicale a quelle differenze lo status di contraddizioni suscettibili di venir utilizzati in chiave antimperialista. Credere che in qualche modo si possano usare strumentalmente (“tatticamente”) le nazioni e le potenze contingentemente più deboli contro le nazioni e le potenze più forti del momento, così da indebolire e possibilmente sconfiggere l’imperialismo mondiale nel suo complesso, significa non aver compreso né la natura del processo sociale considerato alla scala mondiale, né la sua dialettica interna, né le lezioni della storia, la quale non a caso è un cimitero di aspiranti “grandi strateghi”. L’autonomia di classe è un concetto che va praticato a “360 gradi”, tanto sul terreno della politica interna quanto su quello della politica estera – e sempre avendo ben chiari i limiti di questa stessa distinzione:«La politica estera inizia in patria», come sanno gli esperti di geopolitica.

IL MONDO È ROTONDO

Alcune riflessioni intorno ai concetti di Nazione, Sovranità, Politica, Imperialismo, Internazionalismo.

41027_450«Il vero compito della società borghese è
la costituzione di un mercato mondiale,
almeno nelle sue grandi linee, e di una
produzione che poggi sulle sue basi.
Siccome il mondo è rotondo, sembra
che questo compito sia stato portato a
termine» (K. Marx).

1. La dimensione più adeguata al concetto e alla prassi del Capitale è il mondo. Qui per Capitale occorre intendere innanzitutto un peculiare rapporto sociale di dominio e sfruttamento: quello sorto storicamente attraverso 1. l’espropriazione dei lavoratori diretti (industriali e agricoli) dai mezzi di produzione e, quindi, dal prodotto del loro lavoro, e 2. la concentrazione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica nelle mani di un gruppo sociale sempre più ristretto e socialmente potente.

Con il Capitalismo prende forma, si sviluppa e si struttura il commercio mondiale, mentre la stessa produzione basata entro i confini di una nazione è resa possibile dalla dimensione internazionale che ben presto acquista l’economia basata sullo sfruttamento intensivo (scientifico) degli uomini e della natura. Il mercato internazionale delle merci, dei capitali, delle materie prime e della forza-lavoro diviene assai rapidamente l’indispensabile presupposto di ogni economia nazionale, il cui concetto e la cui prassi si modificano sempre di nuovo man mano che il Capitale dischiude la propria essenza di Potenza sociale mondiale.

Nel XXI secolo la prassi sociale mondiale si dispiega interamente sotto il cielo del rapporto sociale capitalistico. Per mutuare Nietzsche («Il Centro è dappertutto»), possiamo senz’altro affermare che il Capitale è dappertutto, sta al centro di tutto. Il grande spazio del Capitale ridicolizza il Grossraum immaginato da Carl Schmitt in opposizione all’«unità globale di un imperialismo planetario-capitalista o bolscevico» [1].

«La grande industria universalizzò la concorrenza, stabilì i mezzi di comunicazione e il mercato mondiale moderno, sottomise a sé il commercio […] Con la concorrenza universale essa costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quando ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni [2]. Da quando (1846) il Moro di Treviri e il suo devoto compagno scrivevano questa poesia sociopolitica (che include, beninteso, il momento geopolitico) il Capitale ne ha fatta, e tanta, di strada. Tuttavia, già allora, quando ancora poche nazioni potevano essere definite capitalistiche in senso moderno (Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Francia), Marx ed Engels denunciarono il carattere sempre più ideologico e illusorio dell’esclusivismo nazionale, perché la Sovranità del Capitale tendeva a restringere progressivamente la Sovranità politica basata sullo Stato nazionale, e questo dovrebbe far riflettere molti socialnazionalisti odierni che affettano pose “marxiste”.

La Sovranità sociale è passata per sempre nelle mani del Capitale, e non smette di radicalizzarsi, rafforzarsi ed espandersi: socialmente (l’intera società è plasmata dagli interessi economici, tutto gira intorno al Capitale, soprattutto nella sua forma più potente e astratta: la forma-denaro), spazialmente (l’intero pianeta giace sotto il dominio del Capitale) e (dis)umanamente (il «capitale umano» come risorsa capitalistica perfetta, l’individuo atomizzato e reificato come biotecnologia e biomercato). Altro che «colonizzazione capitalistica della società» [3]: qui si deve piuttosto parlare di un vero e proprio Imperialismo esistenziale, ossia di una Potenza sociale totalitaria che non solo domina gli individui dall’esterno, ma soprattutto li plasma e riplasma sempre di nuovo a sua immagine e somiglianza. L’imperativo categorico del Capitale agisce, kantianamente, dall’interno, come legge sociale superiore – che include il momento etico.

mos_genesiÈ qui che il concetto adorniano di composizione organica dell’individuo, elaborato dal filosofo tedesco in analogia – in realtà si tratta di ben più che di una semplice analogia – con il noto concetto marxiano di composizione organica del capitale, “gira” a pieno regime: «Novissimum organum […] Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”» [4].

Riflettere “a 360 gradi” intorno alla maligna rotondità del Dominio sociale capitalistico mi sembra un’esigenza elementare per un pensiero che aspira a conquistare una reale consistenza critico-radicale. E quando scrivo «aspira» alludo in primo luogo a me stesso.

La Sovranità sociale declinata nei termini qui esposti corrisponde al mio concetto di globalizzazione capitalistica, il quale aderisce come un guanto alla mia concezione dell’Imperialismo capitalistico. Anche qui, scrivo «mio» e «mia» non per esibire ridicolmente tassi di originalità dottrinale che ovviamente il mio pensiero non può vantare (purtroppo!), ma per assumermi la piena responsabilità delle mie posizioni, che rimangono tali, cioè mie, anche quando rendo esplicito, magari attraverso una citazione, il loro background teorico. […]

2. Il concetto di Nazione, su cui si radica il sentimento nazionale e il nazionalismo politico-ideologico, è storicamente nato e cresciuto con la moderna borghesia. Nazione, popolo, patria, Stato moderno sono concetti che se non si equivalgono perfettamente alla stregua di sinonimi, tuttavia rinviano a una sola realtà storico-sociale: la comunità dominata dagli interessi della nascente borghesia. L’ascesa della borghesia non solo ha dovuto fare i conti con l’ancien régime, ossia con il potere dei grandi feudatari e della nobiltà, ma quasi sempre si è dovuta misurare duramente (militarmente) anche con gli interessi delle potenze straniere che ne usurpavano lo «spazio vitale» per così dire naturale, il quale allora coincideva con l’area omogenea in termini di tradizione storica, di lingua e di cultura che chiamiamo  appunto Nazione – in questo senso è legittimo parlare di essa come di una «storia coagulata».

La Nazione rappresenta dunque la “naturale” dimensione del dominio capitalistico nel periodo rivoluzionario della borghesia, e il passaggio dalla frammentazione dei piccoli mercati locali e regionali all’unificazione di essi nel mercato nazionale rappresenta forse l’aspetto più rivoluzionario di quel periodo, perché la formazione di quel mercato innescherà nella società cambiamenti radicali di tale portata, da cambiare per sempre il volto e il ritmo del processo storico.

Le stesse guerre di liberazione nazionale contro le Potenze dominanti (l’Olanda e l’Inghilterra contro la Spagna, gli Stati Uniti d’America contro l’Inghilterra, la Francia contro il resto d’Europa, l’Italia contro l’Austria, la Germania contro la Francia, e via di seguito) ebbero allora un chiaro carattere rivoluzionario, e il sentimento nazionale (l’«amor di patria» glorificato da storici e poeti) espresse, cementò e potenziò questa funzione storicamente progressiva.  Ma la dimensione nazionale rappresentò per il Capitale come rapporto sociale solo un acquisto storico transitorio, la conquista di una piattaforma sociale dalla quale spiccare quel salto che gli farà conquistare il mondo.

3. Con il consolidamento dello Stato-Nazione e con lo sviluppo capitalistico che spinse il primo a supportare sempre più apertamente e generosamente gli interessi del grande Capitale, la cui brama di mercati e di materie prime era diventata davvero insaziabile, il nazionalismo muta radicalmente la sua funzione, e da ideale storicamente progressivo diventa ideologia ultrareazionaria posta al servizio del colonialismo e dell’Imperialismo.  Lo Stato appoggia con tutti i mezzi necessari, inclusi quelli che prevedono il dispiegamento della forza armata (la violenza militare come continuazione della violenza economica), l’espansione del Capitale “nazionale”, e acquista a sua volta da questa funzione ancillare una crescente potenza politica e ideologica. Questo circolo virtuoso del Dominio sta alla base del moderno Imperialismo, inestricabile intreccio di fattori economici e fattori politici.

Il nazionalismo diventa la miserrima foglia di fico che cerca di nascondere le “vergogne” di un’economia che può funzionare solo su base mondiale. Il capitale basato nazionalmente è solo un nodo della rete capitalistica mondiale e non può essere concepito se non a quella stregua. La formazione del mercato capitalistico mondiale rende risibile, oltre che illusoria (chimerica), ogni forma di nazionalismo (economico, politico, culturale, antropologico). Risibile, illusorio e chimerico è il nazionalismo in quanto pretesa sovranista osservata dalla prospettiva storica; ma non per questo esso si mostra inefficace dal punto di vista delle classi dominanti: tutt’altro!

Non dimentichiamo come la «difesa dei sacri interessi nazionali» non smetta, guerra mondiale dopo guerra mondiale, crisi economica dopo crisi economica, di far breccia assai facilmente anche, e forse soprattutto, nei piani bassi dell’edificio sociale. Come scriveva Schopenhauer, «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» [5]. Le classi dominanti sanno bene come solleticare il miserabile orgoglio nazionale dei «poveri diavoli», e lo fanno puntualmente tutte le volte che se ne presenta l’occasione per oliare il meccanismo del controllo sociale.

Di qui, tra l’altro, lo sforzo messo in campo dalle classi dirigenti nazionali per mantenere artificialmente in vita presunte caratteristiche «autoctone» di natura culturale, religiosa e persino antropologica. Nello stesso momento in cui il Capitale fa tabula rasa di ogni sostanziale particolarità esistenziale degli individui dislocati nelle diverse regioni del pianeta, si fa un gran parlare dell’importanza delle culture e delle tradizioni nazionali, con il solo risultato di offrire alla potenza omologante del Capitale argomenti da sfruttare commercialmente. Vedi la cosiddetta “moda etnica”, molto apprezzata dai progressisti occidentali perché associata alla politica di integrazione razziale e culturale implementata, per la verità con scarsissimo risultato, nelle metropoli capitalistiche.

Mentre le classi dominanti di un Paese capitalisticamente avanzato si possono permettere il lusso del cosmopolitismo, un’idea che in effetti corrisponde alla prassi dei detentori di capitali, i quali trafficano su scala planetaria senza alcun riguardo per le differenze nazionali, culturali, religiose e sessuali delle persone con cui entrano in relazione, i lavoratori dello stesso Paese, confinati nella gretta dimensione nazionale, spesse volte spingono il loro «amor patrio» molto avanti, esasperandolo, fino a portarlo sul terreno dell’aperto razzismo ai danni dei lavoratori degli altri Paesi “vissuti” come sleali concorrenti. Com’è noto, l’idea di un’Associazione Internazionale dei lavoratori nacque nel XIX secolo come risposta alla concorrenza tra lavoratori di nazionalità diversa, come d’altra parte l’associazionismo sindacale nacque originariamente su base nazionale per superare la concorrenza tra gli operai: «Gli operai sono in concorrenza tra loro come lo sono i borghesi […] Questa concorrenza è l’aspetto più nefasto per gli operai nella società attuale, l’arma più affilata della borghesia contro il proletariato. Di qui deriva lo sforzo degli operai per sopprimere questa concorrenza mediante le associazioni»[6].

Quando il Manifesto del partito comunista proclamò che «Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno»[7], esso affermò un elementare quanto dirompente principio di internazionalismo proletario, la cui evidenza dinanzi agli stessi salariati non è tuttavia affatto scontata come invece lo è per chi già aderisce al punto di vista critico-radicale – o «comunista» nell’accezione marxiana del concetto. Essendo l’ideologia dominante quella che promana spontaneamente – “naturalmente” – dalla vita materiale e spirituale della società borghese, il che fa dell’ideologia elaborata dai dominanti anche l’ideologia dei dominati, se ne ricava che quel principio rivoluzionario può affermarsi tra i lavoratori solo attraverso una dura battaglia teorica e pratica.

In effetti, ciò che spontaneamente conquista i cuori dei salariati, i quali sono abituati a delegare sempre ad altri (dalla culla alla tomba, passando per scuole, uffici, ospedali, ecc.) le decisioni fondamentali che li riguardano, è un maligno connubio di nazionalismo e statalismo, ossia il desiderio di vivere un’esistenza magari modesta ma sicura e protetta nel seno della patria che li ospita fin dalla nascita, cioè a dire nella società capitalistica concepita come la sola comunità possibile. Questa condizione disumana mi ricorda i passi di Furore a proposito del carcere McAlester: «”E come ti trattavano a McAlester?” chiese Casy. “Mica male. Pasti regolari, biancheria di ricambio, ci sono perfino dei locali per fare il bagno. Per certi versi non si sta malaccio. L’unica cosa, si sente la mancanza di donne”. Scoppiò a ridere. “Ho conosciuto uno, anche lui in libertà vigilata, che s’è fatto rificcar dentro […] Aveva deciso di rientrar dentro dove almeno non c’era il rischio di saltare i pasti e dove c’erano anche certe comodità. Disse che fuori di lì si sentiva sperduto, dovendo oltretutto pensare sempre al domani”» [8]. Il carcere con annesse donne rappresentava la miserabile “utopia” del giovane Joad. Questo, tra l’altro, aiuta a capire la nostalgia per il Capitalismo di Stato che si riscontra in ampi strati proletari dell’Europa orientale che hanno conosciuto il carcere a cielo aperto chiamato «socialismo reale». Si tratta della nota sindrome del «Si stava meglio quando si stava peggio», che fa capolino nel mondo dei perdenti a ogni brusca accelerazione del processo sociale.

Chiudere gli occhi dinanzi a questa cattiva realtà, radicata assai in profondità nella prassi sociale di questa epoca storica (capitalistica), non ci aiuta a comprendere la potenza del Moloch che ci sta dinanzi, e ci lascia disarmati anche sul piano della critica fondata su una buona teoria, alla cui elaborazione offro il mio modesto contributo.

Il «tradimento» della socialdemocrazia europea nel famigerato agosto del 1914, che si concretizzò con il voto ai crediti di guerra di una parte del socialismo del Vecchio Continente e il neutralismo sempre più «attivo ed operante» dell’altre parte, ci rimanda direttamente alla dialettica sociale (inestricabile impasto di “materia” di “spirito” e di “psiche”) appena abbozzata. Scriveva Lenin nel 1916: «I proletari afferrano con il loro istinto di classe la verità, capiscono cioè che la difesa della patria nella guerra imperialistica è un tradimento del socialismo»[9]. Eppure proprio la Grande Guerra dimostrò quanto quell’«istinto di classe» non fosse un’acquisizione scontata e definitiva per il proletariato, e come esso invece dipendesse – e dipenda – non poco da complessi fattori (ideologici e psicologici) che non possono venir ricondotti immediatamente nella sfera dell’istinto e della “spontaneità di classe” come risultato della mera condizione materiale dei lavoratori. In Germania, ad esempio, bisognerà aspettare la cocente e shockante sconfitta del 1918 per vedere declinare il forte sentimento nazionalistico che si era impadronito di gran parte della classe operaia tedesca, considerata ai tempi di Engels, di Bebel e di Kautsky l’avanguardia della classe operaia europea, a partire dal 1871, per raggiungere l’apice nel periodo che va dal 1890 al 1914.

image4. Nel contesto del Capitalismo altamente sviluppato e mondializzato lo stesso concetto di oppressione nazionale ha mutato completamente il suo significato. Infatti, nella misura in cui il carattere necessariamente ineguale dello sviluppo capitalistico nelle diverse aree del pianeta è una “legge” sociale che trova sempre nuove conforme; ed essendo la Potenza degli Stati basata, sostanzialmente e “in ultima analisi”, sulla capacità sistemica (leggi: economica, scientifica, tecnologica, politica, ideologica) delle nazioni, con la potenza economica dei Paesi come momento dominante di quella capacità; constatato questo appare del tutto priva di sostanza storica la tesi secondo la quale bisogna riconoscere a ogni nazione, grande o piccola che sia, ricca o povera che sia, il diritto alla gestione degli affari mondiali – soprattutto attraverso gli organismi internazionali di vario genere.

Come il grande Capitale domina e il più delle volte sfrutta, soprattutto attraverso strumenti tecnologici, quello medio e piccolo, analogamente le grandi potenze esercitano di fatto, e spesse volte anche di diritto (soprattutto alla fine di una guerra), il loro dominio sulle potenze medie e piccole come su ogni altra configurazione politico-istituzionale nazionale e transnazionale. È il diritto del più forte, certamente; quello che ha segnato la storia del Dominio sociale negli ultimi tremila anni. Il diritto equivale a forza e, sotto questo aspetto, non c’è Stato che non sia «di diritto», checché ne dicano gli apologeti dello Stato democratico. «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro “Stato di diritto”» [10].

Come sanno bene i teorici del realismo geopolitico è la forza organizzata delle nazioni, che ha nello Stato la sua più puntuta espressione, che gioca un ruolo fondamentale nei rapporti tra gli Stati, che sono appunto rapporti di forza, di potenza, mentre la fumisteria della propaganda ideologica vi svolge una funzione assai modesta, esercitata soprattutto ai danni delle cosiddette opinioni pubbliche internazionali.

D’altra parte, il dominio delle grandi potenze ha sempre avuto un carattere relativo e tendenzialmente transitorio. Per un verso le nazioni assoggettate alla Potenza dominante, o soltanto egemone, fanno di tutto per tutelare nei limiti del possibile i loro peculiari interessi, e per ricavare dal particolare sistema di alleanze nel quale sono inserite il maggiore vantaggio possibile, il che spesse volte costringe la nazione collocata al centro di quel sistema a pagare un prezzo molto salato sull’altare della propria leadership. La storia dell’Alleanza imperialistica dominata dagli Stati Uniti è molto istruttiva a tal proposito. Questo per un verso. Per altro verso, l’ascesa e il declino, assoluto o solo relativo, delle grandi Potenze testimoniano del carattere dinamico dei rapporti di forza che vengono a stabilirsi tra le nazioni.

L’illusione progressista dell’uguaglianza delle nazioni e di una loro coesistenza pacifica («basterebbe solo che le classi dirigenti nazionali ne avessero la volontà!») sotto il Capitalismo più che una pia illusione a me appare una mostruosa chimera, oltre che una colossale menzogna volta a ingannare i dominati. Questa posizione, che al progressista avvezzo all’ideologia pacifista piccolo borghese può apparire cinica, non fa l’apologia della hobbesiana legge del più forte ma, per un verso, dice la verità sul mondo sussunto sotto la potenza del Capitale, la quale rafforza, anziché superarla, la secolare “legge” dell’ineguale sviluppo capitalistico (su scala nazionale, continentale e mondiale); e per altro verso invita le classi dominate e tutti gli offesi dal Dominio a sbarazzarsi senz’altro di questo mondo violento e cinico, in vista dell’altro, la cui possibilità materiale cresce ogni secondo che passa, esattamente come la sua negazione ad opera della prassi sociale quotidiana.

Segue qui.

[1] C. Schmitt, Cambio di struttura del diritto internazionale, in L’unità del mondo, p. 296, Pellicani, 1994.
[2] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, M-E, Opere, V, p. 59, 1972.
[3] C. Formenti, Mercanti di futuro, p. VIII, Einaudi, 2002.
[4] T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994.
[5] A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri, pp. 31-32, RCS, 2010.
[6] Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, p.119, Editori Riuniti, 1978.
[7] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, M-E, Opere, VI, p. 503, Editori Riuniti, 1973.
[8] J. Steinbeck, Furore, p. 33, Bompiani, 1980.
[9] Lenin, Lettera aperta a Charles Naine, Opere, XXIII, p. 223, Editori Riuniti, 1965.
[10] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, p. 11, La Nuova Italia, 1978.

LIBERISMO E PROTEZIONISMO

Sul piani storico, le due vecchie concezioni borghesi sullo sviluppo capitalistico sono radicate nell’ineguale processo genetico del capitalismo internazionale, e quindi nei reali rapporti di forza tra i capitali nazionali che si sono affermati di volta in volta sul mercato mondiale. La concezione liberista si afferma per la prima volta in Inghilterra, almeno nella forma compiuta e organica che conosciamo, ma «soltanto quando l’industria del paese aveva già saldamente stabilito la sua supremazia su tutti i mercati del mondo» (G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, p. 68, Garzanti, 1961). A quel punto il liberoscambismo inglese imposto a tutto il mondo, anche manu militari, non poteva che facilitare la penetrazione delle merci e dei capitali britannici in ogni zolla del pianeta. La politica della porta apertanon può che avvantaggiare, almeno nel breve e medio periodo, l’economia capitalisticamente più avanzata, mentre effettivamente pone le premesse per il decollo economico delle aree socialmente più arretrate, in termini relativi o assoluti. L’ideologia progressista e filantropica (il commercio internazionale come occasione di progresso sociale per tutte le nazioni) associata al liberoscambismo non deve indurci nella tentazione – antioccidentalista – di negare una dialettica storica che comunque porta i segni indelebili dello sfruttamento e dell’oppressione.

La reazione dottrinaria al liberoscambismo non si farà attendere. Friedrich List, il teorico del nazionalismo tedesco e del sistema protezionista, forse si può annoverare fra i maggiori esponenti della concezione protezionista, anche se egli concepì la politica interventista dello Stato solo come una fase propedeutica al pieno sviluppo delle forze produttive di un Paese sottoposto alla «concorrenza sleale» dell’Inghilterra, il cui passato protezionista, osservava giustamente List, non le consentiva di predicare dal pulpito liberoscambista. Nel periodo di adolescenza capitalistica del sistema industriale nazionale lo Stato è chiamato a difendere quel sistema con tutti i mezzi necessari, ad esempio alzando un’alta muraglia di dazi protettivi. Solo dopo essersi sufficientemente irrobustito il sistema industriale può liberarsi delle amorevoli cure del Leviatano senza temere di cadere sul terreno del libero commercio mondiale, e deve farlo se non vuole vivere eternamente sotto la tutela dello Stato.

Negli anni ’40 del XIX secolo le idee enunciate da List influenzarono grandemente il dibattito economico negli Stati Uniti, la cui promettente e dinamica economia si trovò fin dall’inizio a dover fare i conti con la superiorità capitalistica inglese. Tipico esponente americano del sistema protezionista fu Henry Ch. Carey, critico della teoria ricardiana della rendita e sostenitore di una politica economica indipendente fino all’autarchia. Nonostante l’interferenza dello Stato, soprattutto attraverso le imposte, alterasse un processo economico concepito come naturale e razionale (salvo quello basato nell’odiata Inghilterra), egli perorò la causa interventista, soprattutto in difesa dell’agricoltura americana. Naturalmente questo atteggiamento altamente contraddittorio non sfuggì all’occhio critico di Marx: «Il signor Carey non avrebbe dovuto proseguire nella sua indagine per vedere se queste “spese dello stato” non siano anch’esse “frutti naturali” dello sviluppo capitalistico? Il ragionamento è del tutto tipico di un uomo che sul principio afferma i rapporti di produzione capitalistici essere eterne leggi naturali e razionali il cui giuoco liberamente armonico viene alterato solo dall’interferenza dello Stato, e che appresso scopre la demoniaca influenza dell’Inghilterra sul mercato mondiale, che rende d’obbligo l’interferenza dello stato, ossia la protezione di quelle leggi naturali e razionali da parte dello Stato» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 410, Newton, 2005).

Notevole è qui, oltre la frecciata polemica contro un no-global del tempo, la tesi materialistica secondo la quale l’intervento dello Stato, lungi dall’alterare un processo che di naturale e razionale non ha proprio nulla (salvo lo sfruttamento di uomini e cose), e lungi dall’essere una decisione presa liberamente dal politico, è innanzitutto esso stesso un “frutto naturale” dello sviluppo capitalistico.

Sul Continente, a parte il caso tedesco, la concezione protezionistica all’inizio non trovò un grande favore, soprattutto perché la differenza tra la struttura capitalistica inglese e quella degli altri paesi europei era così grande, da far sì che i due sistemi non fossero reciprocamente concorrenti. In Francia, ad esempio, che pure aveva conosciuto il periodo colbertista, il protezionismo risollevò la testa dopo la catastrofica sconfitta del 1871, per toccare il suo apice intorno al 1892, quando vennero varate severe misure protezionistiche a sostegno dell’industria e dell’agricoltura, quest’ultima sottoposta alla spietata concorrenza americana. Analogamente, solo dopo la formazione e il consolidamento del Reich si sviluppò in Germania una forte corrente protezionistica, che si inasprì in seguito alla depressione commerciale mondiale occorsa intorno al 1880: dopo quella data la classe dirigente tedesca abbandonò il precedente atteggiamento diplomatico, sia nel campo delle relazioni commerciali con le altre nazioni, sia nella sfera delle relazioni propriamente politiche con queste stesse nazioni, un atteggiamento strumentale in chiave di costruzione della potenza nazionale in un ambiente internazionale complessivamente sfavorevole. È un po’ la storia di tutti i paesi giunti in ritardo al decollo capitalistico della loro economia: all’inizio occorre fare buon viso a cattivo gioco.

Lo stesso caso italiano presenta un’analoga dialettica: nata sotto gli auspici della concezione liberista (cioè cavouriana), la politica economia del Bel Paese diventa sempre più protezionista non appena lo sviluppo capitalistico per un verso la fa entrare in contatto con i protagonisti del capitalismo internazionale, e per altro verso indebolisce le preoccupazioni diplomatiche dei leader politici nazionali nei confronti della Francia e dell’Inghilterra. «Alessandro rossi – che del movimento protezionista diverrà uomo di punta – prima del 1868 era ancora di “convinta opinione liberista”. Raccontò lui stesso di essere stato colpito come S. Paolo sulla via di Damasco: “Quando andiamo a comprare la lana e il cotone sui mercati di Londra, ci accorgiamo che quelli ci giocano come vogliono con le loro speculazioni, perché i prezzi li fanno loro, loro controllano il mercato mondiale e noi dobbiamo subire. Come si fa a dire che la concorrenza assicura a tutti uguali vantaggi? Oggi la lotta economica è lotta anche per l’affermazione di una vera indipendenza, di una vera autonomia nazionale”» (G. Marongiu, Storia del fisco in Italia, I, pp. 308-309, Einaudi, 1995).Non pare di ascoltare il comizio di un sovranista del XXI secolo?

Già nel maggio del 1861, come racconta sempre Marongiu, il deputato Polsinelli, proprietario di una delle principali fabbriche di tessuti del mezzogiorno, aveva condannato l’impostazione liberista della politica economica del governo italiano: «La Francia e l’Inghilterra predicano il libero scambio, dopo aver avuto per secoli una protezione grandissima. Esse dicono a noi: facciamo liberamente il commercio, aprite il vostro mercato. O signori, è la lotta di un gigante con un bambino» (p. 45). Non c’è dubbio: la concezione liberista esprime il punto di vista del gigante, della forza,quella protezionistica il punto di vista del bambino, della debolezza. Mutatis mutandis, questo schema è applicabile anche alla realtà del XXI secolo, e non a caso il protezionismo è oggi invocato dai paesi capitalisticamente in ritardo o da quelli che più degli altri avvertono i morsi della crisi.

Negli anni ottanta del XIX secolo le dottrine stataliste della scuola storica tedesca e dei socialisti della cattedra, sostenitrici di un vasto intervento pubblico in campo economico-sociale, presero il sopravvento nel dibattito sulle prospettive di sviluppo economico del Paese, eclissando il pensiero liberista sostenuto dagli epigoni di Cavour. D’altra parte, il liberismo dello statista piemontese aveva avuto soprattutto un significato politico, più che economico: «Il liberalismo di Cavour era lo strumento fondamentale della sua politica estera … Cavour seppe dare all’Europa l’esempio di una pratica di governo dignitosamente liberale, capace di mantenere i propri impegni e di conquistare la fiducia del paese. Di fronte all’Austria egli mostrava la possibilità di un governo nazionale che non aveva bisogno di ricorrere allo stato d’assedio» (P. Gobetti, La rivoluzione liberale, p. 41, Ed. del Corriere della Sera, 2009). O, più semplicemente, Cavour seppe interpretare al meglio le esigenze di un Paese che era uscito dalla rivoluzione nazionale-borghese gravato di moltissime magagne, e comunque non in grado di dettare condizioni alle potenze europee che ne avevano favorito l’unificazione nazionale. Fare buon viso a cattivo gioco, e in questo il Conte di Torino fu un maestro.

I trattati internazionali ineguali del 1850 (politica della porta brutalmente spalancata, più che aperta) esposero drammaticamente l’economia nazionale giapponese all’assalto delle potenze straniere. Come evitare al Giappone il destino dell’India e della Cina? Alla classe dominante del Sol Levante apparve immediatamente chiaro che se il Paese non fosse transitato rapidamente dalla vecchia struttura economica feudale al moderno capitalismo il suo triste destino era già scritto sul libro dei paesi coloniali o semicoloniali. Mentre la Cina reagì alla sfida occidentale con l’inerzia che le derivava dal suo glorioso passato e dalla sua enorme dimensione geosociale, il Giappone ebbe una reazione affatto diversa. Anziché tentare di tenersi alla larga da una corrente storica che ormai travolgeva tutto il pianeta, la classe dirigente giapponese iniziò a studiare il modello sociale capitalistico che sembrava adattarsi meglio alle condizioni e alle ambizioni del Paese. La scelta cadde sulla Germania.

«Negli anni ’70 – del XIX secolo – il governo giapponese seguì decisamente  una politica tendente a scoraggiare gli investimenti stranieri, e a riscattare gli impianti industriali di proprietà straniera e a restituire i prestiti esteri: era la politica che Bismark aveva consigliato di adottare, quando la missione Iwakura era andata a fargli visita»   (J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo, p. 67, Einaudi, 1979). Nel momento in cui occorreva avviare una transizione straordinariamente rapida da un presente diventato improvvisamente obsoleto al futuro, in un ambiente sociale interno segnato dalla debolezza della moderna classe borghese e in un contesto internazionale dominato dalla crescente competizione  imperialistica, la macchina statale doveva necessariamente giocare un ruolo centrale, finendo per diventare la leva fondamentale dell’accumulazione capitalistica. «Per un certo numero di ragioni, lo stato fu il meccanismo che riorganizzò la situazione politica ed economica interna e agì come intermediario complessivo nei confronti del mondo esterno. Il quadro generale dell’economia giapponese fu determinato dall’imperialismo … L’origine di molti tratti caratteristici del capitalismo giapponese risalgono al periodo Meiji: l’energico intervento dello stato nella formazione, nell’accumulazione e nell’investimento del capitale; la concentrazione dei beni capitali; il controllo statale sull’attività bancaria; la direzione e l’intervento dello stato nel commercio estero; un certo numero di severi provvedimenti contro il capitale straniero» (p. 62). A questo punto sono sicuro che a qualche lettore statalista, o “socialista”, ovvero socialsovranista sia venuta l’acquolina in bocca!

Forse è la vicenda giapponese quella che più chiaramente delle altre mostra lo stretto legame che vi fu tra la politica protezionistica come incubatrice del capitale “ritardatario” (Stati Uniti, Germania, Giappone, Italia, in parte la stessa Francia) e l’ascesa del moderno Imperialismo, da una parte, e tra la prima e l’ideologia nazionalista, dall’atra. Per i paesi costretti a inseguire il primato capitalistico dell’Inghilterra, il nazionalismo rappresentò la faccia politico-ideologica del protezionismo, e poi, in una fase più matura del loro sviluppo, dell’Imperialismo. In Inghilterra, invece, quest’ultimo non ebbe bisogno del sostegno di una forte e aggressiva ideologia, e ciò ne conferma il carattere essenzialmente economico.

Ancora oggi le forme più “fondamentaliste” di nazionalismo, che non di rado si sposano con il più ottuso “radicalismo religioso” (vedi paesi musulmani), allignano là dove il capitale nazionale è – relativamente – debole e si sente minacciato da presso dal capitale internazionale, ovvero ne subisce da sempre il dominio. Ecco perché associare il protezionismo al nazionalismo è legittimo sotto ogni punto di vista, e non a caso esiste il concetto di nazionalismo economico che compendia i due concetti.

Sul piano generale possiamo dire che la concezione liberista ha come corollario una teoria dello Stato incentrata sul primato dell’economia («Stato minimo», subordinato agli interessi della «società civile»), mentre la concezione protezionista ha una teoria dello Stato basata sul primato della politica, e per questo la seconda appare assai più ideologica (falsa) della prima, la quale almeno lascia intravedere, sebbene attraverso mille veli, la reale sostanza sociale dello Stato, potenza ancella dell’economia. Entrambe le concezioni comunque non si sono sviluppate da un libero dibattito dottrinario, ma hanno espresso reali interessi di classe, reali processi sociali, caratterizzati, come detto all’inizio, da una diversa genesi dello sviluppo capitalistico. È questo quadro storico-sociale che occorre avere in mente quando riflettiamo intorno ai concetti di liberoscambismo e protezionismo, entrambi strumenti politico-ideologici al servizio della conservazione sociale a cui le classi dominanti ricorrono “pragmaticamente” a seconda delle circostanze.

Lungi dall’essere concetti che si elidono a vicenda, liberismo e protezionismo si danno piuttosto l’uno come sviluppo – non negazione – dell’altro, e non di rado le prassi cui essi si riferiscono convivono all’interno di una stessa economia nazionale. Per questo non ha alcun fondamento, né storico né economico, assolutizzare, autonomizzare e contrapporre l’uno all’altro quei due concetti e le relative prassi.

ARTICOLO 11 E DINTORNI. ASPETTANDO L’ENNESIMA CARNEFICINA UMANITARIA

Non c’è guerra, o preparazione di un qualsiasi intervento militare da parte del Bel Paese che non evochi, nella testa dei pacifisti, l’Art 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra… «Questo recita l’Art 11 della nostra Costituzione nata dalla resistenza», si legge ad esempio in un manifesto di convocazione contro la guerra in Siria firmato dal Comitato contro la guerra di Milano. A mio avviso il richiamo al mitico Articolo è sbagliato, anche da un punto di vista strettamente “tattico”, ossia nel tentativo di creare contraddizioni in seno al nemico, il quale, infatti, ha mandato uomini e mezzi ovunque nel mondo tutte le volte che se n’è posta la necessità, pagando un prezzo politico assai modesto. Creare delle aspettative sulla base della Costituzione di un paese capitalistico è a mio avviso un errore esiziale che si paga durante la lotta e, soprattutto, in prospettiva, perché non si ottiene dal movimento sociale una reale maturazione politica, anche in caso di sconfitta – e dall’Operazione Libano 1982 in poi ne ho viste di sconfitte sul terreno della lotta alla guerra.

Sul piano storico quell’articolo non attesta la natura pacifista della «Repubblica nata dalla resistenza», dopo il nazionalismo e il militarismo dell’esperienza fascista, ne attesta piuttosto la natura di Paese sconfitto nella Seconda Carneficina Mondiale. Dopo l’occupazione militare angloamericana e la resa incondizionata ottenuta a suon di bombardamenti aerei sulle città italiane, le potenze Alleate ottengono dall’Italia la ratifica di Paese vinto che non cercherà mai più la strada della guerra per accrescere in potenza. Di più: il suo potenziale bellico viene messo a disposizione di istituzioni sovranazionali (NATO e ONU) per consentire «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; e difatti l’Italia «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Su questa base giuridica all’Italia è consentita la guerra in guisa di piccola o media potenza assoggetta ai vincoli imperialistici che le derivano dall’esito della seconda guerra mondiale.

Analogo discorso deve naturalmente farsi per la Germania e il Giappone, la cui costituzione approvata nel 1947 «fu redatta in tutta fretta dallo stato maggiore di McArthur» (J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo). L’Art 9 della Costituzione giapponese, «introdotto per insistenza personale di McArthur», recita: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione, e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Il monopolio della violenza bellica come diritto sovrano passa, dopo l’ultima guerra, nelle mani delle nazioni vittoriose, e questo stato di cose trova una ratifica internazionale nell’ONU. Lungi dall’essere un crogiuolo di buone intenzioni, quest’organizzazione esprime dunque gli interessi di quelle nazioni (non a caso le ex potenze sconfitte ne richiedono la «riforma»), ed è per questo che i pacifisti dimostrano poca avvedutezza politica (notare la mia diplomazia…) tutte le volte che in caso di conflitto regionale o di «crisi umanitaria» invocano «l’egida dell’ONU». Nel caso siriano non è stato possibile, fino a questo momento, «un intervento umanitario sotto l’egida dell’ONU» semplicemente perché i maggiori imperialismi mondiali (Stati Uniti, Cina e Russia) non hanno trovato un accordo sul dopo-Assad. Essi sono divisi anche sulla scottante questione iraniana, la quale costituisca forse la maggiore incognita della complicatissima equazione mediorientale. Intanto Israele scalda i motori dei suoi aerei da guerra, anche solo per mettere fretta al democratico e premio Nobel per la pace Obama.

In Siria sono morte circa 16 mila persone. Questa carneficina pesa anche sul conto dell’attuale Stato siriano, e non solo su quello delle potenze regionali (Turchia, Arabia Saudita, Qatar) che foraggiano il cosiddetto Esercito Libero Siriano e l’opposizione politica al regime di Assad. Mentre giustamente denunciano l’imperialismo occidentale, a partire da quello italiano, e richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica sull’«aggressione criminale contro un Paese sovrano come la Siria», i pacifisti farebbero bene a non dare alcuna solidarietà, occultata dietro insulsi ragionamenti “antimperialistici” sul «diritto di autodeterminazione dei popoli», alle potenze regionali mediorientali sostenute dalla Russia e dalla Cina, nazioni imperialistiche alla stessa stregua di quelle occidentali. Ci vuole assai poco per diventare nostro malgrado strumenti politico-ideologici di una delle parti in causa – alludo ovviamente agli Stati, non ai popoli, vittime ovunque delle classi dominanti, locali e transnazionali. La pallottola “sovrana” uccide come la pallottola anti-sovrana.

Non si tratta di equidistanza: si tratta piuttosto di affermare un punto di vista autenticamente ostile all’imperialismo guerrafondaio, qualunque ne sia la dimensione (regionale o globale), la dislocazione geopolitica (Ovest, Est, Nord, Sud) e la religione (cristiana, islamica, induista, ateista, ecc.). Nella notte dell’Imperialismo mondiale tutte le vacche sono nere, e sparano contro la possibilità di emancipazione degli individui.

E LA CHIAMANO ESTATE… ANTI-IMPERIALISTA!

La tesi secondo la quale il peggio è adesso, e non smette di peggiorare, trova quotidiane conferme, spesso sotto forma di delirio pseudo rivoluzionario e pseudo antimperialista. Un esempio fresco di giornata? Ho appena letto la spassosa intervista «al compagno Uuday Ramadan» pubblicata ieri da Comunismo comunitario. Chi è Uuday Ramadan? «È un compagno impegnato, ormai da moltissimo tempo, a contrastare le menzogne imperialistiche contro la Siria e i movimenti anti-imperialisti nell’area Medio Orientale. Inizialmente è stato un oppositore di sinistra al governo Assad, tanto che dovette uscire dalla Siria nel 1983. Ha militato nel Partito comunista libanese e ha partecipato alla lotta armata in Libano. Dal 1986 è in Italia, dove ha aderito, negli ultimi anni, al Partito dei comunisti italiani».

Quest’ultimo particolare spiega, tra l’altro, «il tifo per Assad» di Diliberto svelato dai Syria Files di WikiLeaks pubblicati da L’Espresso: «I 2.434.899 documenti sulla dittatura di Damasco rilasciati da WikiLeaks, che L’Espresso pubblica in esclusiva per l’Italia dimostrano i contatti cordiali tra le due organizzazioni partitiche (il cosiddetto Partico Comunista Siriano e l’analogo Partito di Diliberto), rapporti che non si guastano né sembrano diventare problematici neppure quando ormai la Siria è sprofondata in una guerra civile. Il partito comunista siriano è uno dei pochi ammessi a Damasco, perché fa parte del Fronte nazionale progressista che sostiene la dittatura. Anche quando esplode la rivolta popolare, grida alla cospirazione imperialista e manda mail ai movimenti marxisti di tutto il mondo» (Blog L’Espresso, Stefania Maurizi, 11 luglio 2012).

Conoscendo praticamente da sempre lo stalinismo italiano, la “scoperta” di WikiLeaks per il sottoscritto ha avuto unicamente il significato di una mera conferma. Come risulta sempre dai Syria Files, anche gli stalinisti basati in Spagna si fanno onore e tengono ben alta la bandiera dell’antimperialismo e della lotta di classe (si fa per scherzare, per ridere: non vorrei che la zanzara che cerca di infilzarmi non capisse la cosa. Nemmeno la nemica zanzara deve dubitare!): «La comunicazione più grottesca viene dai giovani comunisti spagnoli, che scrivendo alla controparte siriana spiegano: “vogliamo sapere della situazione delle ‘proteste’ nel vostro paese. Non possiamo fidarci dell’informazione dei mass media spagnoli e vogliamo avere qualche informazione fidata su questi fatti”. Da Damasco rispondono: stiamo lavorando alla traduzione del comunicato del comitato centrale del partito comunista siriano, lo invieremo appena pronto. E da Madrid ringraziano: “Saluti rivoluzionari!”». I “compagni” italiani e spagnoli non si fidano, a ragione, dei massmedia occidentali, e tuttavia concedono la loro incondizionata fiducia ai reazionari, ai macellai, agli oppressori, agli imperialisti (più o meno regionali e “straccioni)  e agli sfruttatori del Sud e dell’Est del mondo.

MORIRE PER IL MACELLAIO DI DAMASCO?

Questi personaggi conoscono un solo modo di combattere l’imperialismo occidentale: sostenere l’imperialismo che lo contrasta, e celano questa miserabile politica dietro il ridicolo paravento del «sostegno ai popoli». No, essi sostengono gli Stati e le fazioni dei paesi dell’Ovest, del Sud e dell’Est del pianeta che contingentemente confliggono con l’Occidente. E l’«autonomia di classe», sul piano della teoria e della prassi? Roba per dottrinari, com’è appunto il sottoscritto. Dottrinario e oggettivamente (ma forse WikiLeaks domani svelerà retroscena più soggettivi…) servo sciocco dell’Occidente. E poi, il mio cognome è fin troppo sospetto: Isaia! Qui il Sionismo ci cova…

Nessuno riuscirà a convincere i “compagni” italiani e spagnoli che contro-informare significa mettere a nudo tutti gli interessi in gioco, di tutti i paesi e di tutte le fazioni (in Siria Assad e gli anti-Assad) coinvolti nello scontro. Condividere poi la tesi del «compagno Uuday Ramadan» secondo la quale «La difesa dei lavoratori italiana passa per la difesa della Siria e del legittimo governo di Assad» è qualcosa che da sola rende giustizia del mio «settarismo anticomunista e antimarxista», per riprendere il generoso giudizio di un mio lettore. Comunista io? Ma comunista sarà lei! Come «il compagno Uuday Ramadan» e «il compagno Diliberto», campioni «della lotta per l’emancipazione e la liberazione umana».

Sul carattere “antimperialista” e “popolare” della politica interna ed estera siriana rimando a due miei precedenti post: Siria: un minimo sindacale di “internazionalismo”, e Primavere, complotti e mosche cocchiere. Siria e dintorni.

SIRIA: UN MINIMO SINDACALE DI “INTERNAZIONALISMO”

Il massacratore di Damasco se la ride

L’Ufficio stampa del CC del KKE ha diramato un comunicato nel quale si condanna l’«aggressione imperialista in Siria». Tra le altre cose vi si legge: «Un intervento militare imperialista in Siria provocherà una significativa distruzione materiale e umana nel paese, e in aggiunta priverà il popolo palestinese di un alleato stabile nella sua lotta, un alleato dei movimenti antimperialisti nella regione, e spianerà altresì la strada all’aggressione imperialista contro l’Iran, con il pretesto del suo programma nucleare».

Premetto che non intendo affatto polemizzare con il partito stalinista basato in Grecia, non sono ancora caduto tanto in basso; mi servo piuttosto di quella posizione perché essa esprime una diffusa corrente di opinione all’interno del «Movimento di opposizione sociale», soprattutto quello più avvezzo a sostenere posizioni riconducibili al cosiddetto «internazionalismo proletario». E qui, come vuole il noto luogo comune, la domanda sorge spontanea: si tratta di autentico “internazionalismo” o non piuttosto del decrepito terzomondismo riverniciato per l’occasione? La domanda è, per dirla col gergo giudiziario, suggestiva, nel senso che suggerisce la risposta. E non è un male.

Che tutto quello che sta avvenendo – e si sta preparando – intorno alla Siria non abbia nulla a che fare con i «Diritti Umani» è cosa che qui do per acquisita: dalla microscopica Italia alla gigantesca Cina si estende un’unica Società-Mondo contrassegnata dal disumano rapporto sociale capitalistico. Sotto il vasto cielo del Capitalismo mondiale nessun Paese può dunque impartire agli altri lezioni di “umanità”. Questo è un minimo sindacale critico che adesso non approfondisco, perché qui il mio referente non è «la classe», ma piuttosto le sue “avanguardie”.

Un altro minimo sindacale della critica è inquadrare la vicenda di cui parliamo nella rubrica dell’Imperialismo. Ma quando parlo di Imperialismo non mi riferisco solo alle potenze occidentali, o solo alle grandi potenze mondiali come la Cina e la Russia: in quel concetto inglobo anche gli altri attori della vicenda, a iniziare dalla Siria e dall’Iran.

Un internazionalismo degno di questo nome rigetta come la peste la scelta di campo tra gli opposti carnefici, e nulla cambia il significato imperialista della cosa, nemmeno l’evidente squilibrio di potenza fra le forze in campo. Pesce grande mangia pesce piccolo: questo è il significato della competizione capitalistica mondiale, e chi ha a cuore solo gli interessi delle classi dominate, e si batte per una prospettiva di reale emancipazione degli individui dalla vigente Società-Mondo, deve rifiutare la falsa scelta tra il sanguinario più forte e quello più debole. Un tempo la chiamavano «indipendenza di classe», o «autonomia di classe». Lenin inquadrò la “dialettica del pesce” nella teoria dello sviluppo ineguale del Capitalismo.

Sulla faccia della terra non esiste un solo Stato che meriti di essere sostenuto dagli internazionalisti, magari solo «transitoriamente» e «tatticamente»: la teoria di Lenin sui movimenti nazionali antimperialistici ebbe senso nel tempo in cui diverse grandi aree del mondo (basti pensare allo stesso spazio geopolitico russo, alla Cina, all’India, al Medio Oriente, all’Africa) giacevano sotto il diretto dominio politico-militare, e non solo economico, delle grandi potenze, e potevano ancora dire qualcosa di progressivo sul piano dello sviluppo storico – nel senso dello sviluppo capitalistico, beninteso. Da molto tempo questa fase storica si è chiusa, e riproporre nel XXI secolo quello schema è francamente ridicolo.

(Sia detto di passata: Lenin tenne sempre fermo il punto dell’autonomia politico-organizzativa del proletariato anche all’interno delle rivoluzioni nazionali, e subordinò sempre la prassi dei comunisti a quell’imprescindibile condizione. Lo stalinismo ribaltò, di fatto, questa impostazione «classista»: di qui la tragedia della rivoluzione cinese del 1927 e la trasformazione del PCC in partito rivoluzionario nazional-popolare, ossia borghese).

«La Repubblica Araba di Siria continua ad essere vittima di una cospirazione nella strategica area del Vicino Oriente, oggetto di un’aggressione che diventa di giorno in giorno sempre più dura e spietata. È per questo che il Coordinamento Progetto Eurasia e il Comitato “Giù le mani dalla Sira!” impegnati, fin dal primo giorno della cospirazione a far emergere la verità e portare solidarietà al governo e al popolo siriano aggredito, ritengono più che mai necessario continuare a scendere in piazza per sensibilizzare i cittadini del nostro paese». Questa posizione va respinta nella maniera più recisa: la solidarietà ai popoli non va mai, in nessun caso, estesa ai governi ultrareazionari (come lo sono tutti i governi del pianeta: dall’Italia al Venezuela, dagli Stati Uniti a Cuba, dal Giappone alla Cina) che li opprimono e che difendono l’ordine sociale capitalistico – non importa quanto questo Capitalismo sia arretrato o sviluppato, statalista o liberista. Questo è, a mio modesto avviso, l’ABC dell’«internazionalismo proletario», soprattutto nell’epoca in cui lo stesso concetto di popolo – o di moltitudine, nella variante radicale-borghese 2.0 – non ha molta pregnanza storica e, soprattutto, politica. Invece, c’è gente che spinge il proprio “internazionalismo” fino a negare i massacri perpetrati dalle piccole o piccolissime potenze regionali, solo perché esse rischiano di finire ingoiate da potenze ben più forti e strutturate sul piano capitalistico-imperialistico.

Allora bisogna stare a guardare, senza far niente, la lotta tra pescecani di diversa taglia? Nemmeno per idea! Anche perché le vittime di questa guerra sono in primo luogo le classi dominate. Di qui, l’esigenza di condannare «senza se e senza ma» tutti gli attori della contesa; certo, a partire da quelli più prossimi a noi, dall’Italia, sia in quanto membro di una determinata alleanza imperialistica, come in quanto essa ha degli interessi nazionali peculiari da difendere nell’area mediorientale. Nella notte buia dell’Imperialismo la vacca italiana è, per un “internazionalista” italiano, quella più nera delle altre.

Veniamo adesso al luogo comune della Siria e dell’Iran come alleati storici della causa palestinese. In realtà, Paesi come l’Iran, l’Egitto, la Siria, il Libano e la Giordania condividono, pur con modalità e graduazioni differenti, le stesse responsabilità storiche di Israele in fatto di putrefazione della «Questione Palestinese». Quei Paesi, tra loro concorrenti sul terreno della leadership regionale in quella delicata parte di mondo, si sono serviti di quell’annosa e purulenta «Questione» come strumento di lotta politica, economica, ideologica e, non di rado, militare, sul piano interno come su quello internazionale. È un fatto che di palestinesi ne hanno sfruttati, oppressi e massacrati più i loro “Fratelli Arabi”, che l’odiato demonio Stellato.

Come scriveva Paolo Maltese in un bel libro dei primi anni Novanta del secolo scorso, «È semplicistico e deviante ritenere che sia sufficiente risolvere la questione palestinese per portare la pace in Medio Oriente. Piuttosto essa è stata pure, col suo peso lacerante, utile come alibi per camuffare antagonismi e problemi interni del mondo arabo» (Nazionalismo Arabo Nazionalismo Ebraico, 1789-1992, Mursia, 1994).  Assai illuminante è proprio il ruolo che ha avuto la Siria in questo sporco affare: «Nell’aprile 1971, Assad non solo proibì alle formazioni palestinesi presenti in Siria di lanciare attacchi contro Israele, ma obbligò pure le formazioni che dipendevano da al Saiqa, cioè il gruppo controllato dalla Siria, di abbandonare il paese per trasferirsi anche loro nel sud del libano … Quello di Assad fu dunque, anche, un calcolo proiettato sul futuro: attendere, e vedere che cosa poteva accadere in Libano, per poi cercare di approfittarne, come difatti farà, intervenendo dapprima per proteggere i falangisti cristiano-maroniti contro i palestinesi, e massacrando così questi ultimi, nel 1976, nel campo di Tall el Zaatar senza sollevare in Europa particolare scandalo, a differenza, invece, di quel che accadrà col massacro dei campi di sabra e Chatila ad opera dei falangisti alleati di Israele; e permettendo poi ai dissidenti filo-siriani dell’OLP di scacciare nell’83 da Tripoli i palestinesi di Arafat».

E sapete in che cosa si specializzarono questi «dissidenti filo-siriani»? Nel terrorizzare e massacrare altri palestinesi, quelli che non si mostravano troppo sensibili alla causa dell’imperialismo stracciano della Siria: «All’interno del movimento palestinese – anche nella sinistra – c’è chi considera i contadini palestinesi costretti ad andare a lavorare in Israele traditori della causa palestinese, e usano le bombe negli autobus che trasportano i pendolari palestinesi» (Intervista a un militante del Fronte Democratico Palestinese, Combat, maggio 1986).

E qui, per adesso, mi fermo.

Per un approfondimento rimando a un capitolo di un mio studio sulla questione israelo-palestinese dell’estate 2006 intitolato Due popoli, due disgrazie.

SOCIALNAZIONALISMO

In Venezuela si nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i “sovranisti” di mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo: alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e “rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche – e soprattutto – la Bielorussia di Lukashenko. «Nel 2007 il presidente del Venezuela Hugo Chávez ha descritto la Repubblica di Bielorussia come uno “stato modello”» (Bielorussia e Venezuela: La costruzione del mondo multipolare, Aurora, 27 aprile 2012). Beh, se l’ha detto il caudillo venezuelano c’è da fidarsi.

Il problema, per dir così, è che io sono contro ogni modello di Stato capitalistico, soprattutto quando affetta pose “rivoluzionarie”, come quello fascista, o nazista ovvero stalinista. Il Sovrano che sventola la bandiera rossa è in assoluto quello che più disprezzo. Sono anarchico? No, sono antistalinista. E quindi antisovranista: l’equazione è bell’e fatta! Lo Stato come decisore di ultima istanza, nonché come «violenza concentrata e organizzata della società» (Marx), è il mio Nemico, qualunque forma esso assuma – democratica, “socialista”, “partecipata”, “sovranista”.

«Le cinque priorità principali del governo bielorusso sono le seguenti: 1 Mantenere l’uguaglianza e l’innalzamento del tenore di vita dei lavoratori. 2 Mantenere una piena occupazione dell’economia. 3 Investimenti nell’istruzione e nella ricerca scientifica. 4 La protezione e lo sviluppo di una forte base produttiva locale. 5 Sovranità nazionale inviolabile» (Aurora, cit.). Un programma che uno stalinista dei vecchi tempi – o un nazionalsocialista degli anni Trenta – avrebbe potuto sottoscrivere tranquillamente. Dove il primo punto va letto nel senso di una sopravvivenza da schiavi salariati assicurata a tutti e per tutta la vita dal Leviatano. Un progresso umano davvero “rivoluzionario”.

«La visione del presidente Lukashenko di un mondo multipolare minaccia i sostenitori del Nuovo Ordine Mondiale». Ai sovranisti di Aurora, forse nostalgici della «guerra fredda», piace dunque una competizione imperialistica “pluralistica”, e sotto questo aspetto essi si fanno portavoce degli interessi delle Potenze che oggi rivendicano un posto al sole nell’agone della guerra globale (economica, scientifica, politica, militare, ideologica). Quale interesse abbiano le classi dominate del pianeta a schierarsi con uno degli “attori” (magari quello a più alto tasso di statalismo) della competizione interimperialistica rimane un mistero. O forse è la mia indigenza concettuale che non mi permette di apprezzare la fine dialettica del sovranista. Non posso escluderlo, almeno in linea di principio.

Detto en passant, prendo di mira le posizioni di Aurora non tanto per polemizzare con i suoi redattori, quanto piuttosto per prendere posizione contro una tendenza politica mondiale che la crisi economica sta rafforzando.

«La barbara distruzione della Jamahirya libica dovrebbe servire da lezione per qualsiasi persona intelligente, di ciò che i paesi della NATO intendono per “diritti umani”, “democrazia” e “dominio della legge”». La giusta denuncia dell’imperialismo occidentale non implica affatto l’adesione agli interessi dei suoi nemici, i quali, ancorché “straccioni”, vantano la stessa sostanza sociale ultrareazionaria del primo. Certo, se uno pensa che la Jamahiriya libica fosse «una prospera economia socialmente orientata»… «Socialmente orientata»: bel concetto di società, complimenti! L’intangibilità della Sovranità Nazionale è un concetto borghese che nel XXI secolo trasuda violenza da tutti i pori, e fa il paio con la posizione di chi teorizza la tendenziale fine dello Stato Nazionale nell’attuale congiuntura “Imperiale”. Entrambi i punti di vista non fanno i conti con la realtà del processo sociale colto dal punto di vista delle classi subalterne.

«Le relazioni venezuelano-bielorusse sono un esempio unico di ciò che la diplomazia internazionale, in un mondo socialista, potrebbe significare per l’umanità». Quando il sovranista, che sogna un Capitalismo di Stato – perché di questo si tratta – a forte vocazione autarchica e assai bellicoso (sul piano interno come su quello internazionale), parla di “socialismo” come si fa a non sghignazzare e a non sentirsi dei giganti del pensiero sociale?

QUEL CHE RESTA DI TONI NEGRI

Per alimentare il dibattito sulla crisi economica e andare «contro le tentazioni “nazionaliste” (in realtà solo “populiste”) che cominciano a nascere e a presentarsi nel dibattito delle sinistre riformiste in questa fase di crisi», il Blog di Controlacrisi.org ha pubblicato un intervento di Toni Negri «fatto in francese al Congresso Marx Internazionale IV, nel settembre 2004 a Parigi». Do il mio contributo al dibattito con lo scritto che segue, sposando in pieno il programma del Blog sintetizzato nello slogan «Abbasso l’ideologia!»

Secondo Toni Negri, teorico dell’Impero, della Moltitudine e della crisi della marxiana legge del valore, «Parlare di Stato-nazione e di imperialismo senza periodizzarne la figura e la durata diviene molto pericoloso – quasi reazionario». Nientedimeno. Francamente non comprendo in che consista esattamente quel pericolo. Certo, se ci riferiamo a qualcuno che maneggia quei concetti in modo apologetico il «quasi» non ha ragion d’essere, e il pericolo che ci si para dinanzi possiamo fronteggiarlo con efficacia. In realtà la punta della critica negriana è rivolta contro la sinistra statalista, nostalgica del vecchio Capitalismo di Stato e sostenitrice di politiche neokeynesiane. E su questo punto egli mi trova del tutto in sintonia, e non da oggi. Ma il tipo di critica che il bravo intellettuale scaglia contro chi vede «nella figura e nella presenza dello Stato-nazione la condizione essenziale dell’agire politico» non è aliena da ambiguità, e lascia immaginare una sua certa vicinanza, sebbene polemica e sofferta, a coloro che la sostengono, quasi fossero «compagni che sbagliano». Personalmente li ritengo funzionari del dominio sociale capitalistico alla stessa stregua dei cosiddetti «liberisti selvaggi», con l’aggravante, rispetto ai secondi, di aver non poco lordato la terminologia che ai tempi di Marx e di Lenin alludeva alla possibilità della rivoluzione sociale e dell’emancipazione universale.

Negri sostiene che «lo Stato-Nazione è in crisi». Bella scoperta! Nel Capitalismo avanzato lo Stato nazionale vive una condizione di crisi permanente, perché i sempre più rapidi mutamenti sociali innescati dal processo di produzione del valore stressano sempre di nuovo il politico, costretto a inseguire i mutamenti economici, tecnologici, psicologici, esistenziali nell’accezione più ampia e radicale del concetto, nel tentativo di smussarne le asperità, e di ricondurli, per quanto possibile, a un principio unitario. Sorto storicamente sulla base dello Stato nazionale, il Capitale ha avuto fin dal principio un carattere sovranazionale, che gli deriva dalla sua smisurata necessità di trasformare l’intero pianeta e l’intera esistenza degli individui in occasioni di profitto. Già nei primi scritti di Marx è chiaramente annunciata quella tendenza aggressiva ed espansiva del Capitale che agli occhi della «moltitudine» del XXI secolo appare in forma talmente dispiegata, da essere considerata come un fenomeno naturale e banale. Anche per questo il pensiero critico-radicale trova così tanta difficoltà ad affermarsi presso le «larghe masse»: la prossimità del Dominio lo rende quasi invisibile ai loro occhi, almeno nella sua interezza, nella sua reale dimensione. Ma più che di prossimità, dovremmo piuttosto parlare di intimità, di più: di consustanzialità. Infatti, sempre più il Dominio ci crea «a sua propria immagine e somiglianza», come il buon Dio dell’Antico Testamento.

La violenta espansione geografica ed esistenziale (corpi “umani” compresi, ovviamente) delle esigenze economiche marchiate dal Capitale ci dà, a mio avviso, il corretto concetto di imperialismo e di globalizzazione. Due modi diversi di chiamare lo stesso processo sociale. Noi avvertiamo come «crisi dello Stato-Nazione» il suo continuo processo di adattamento a una società in continua trasformazione, quantitativa e qualitativa, a cagione della natura «rivoluzionaria», nell’accezione marxiana del concetto, del Capitalismo. Questo permanente stato di precarietà, o di «liquidità», per civettare con la sociologia alla moda, si acuisce nelle fasi di repentina accelerazione della tendenza «globalizzante». Non c’è dubbio che il ventennio che ci sta alle spalle abbia rappresentato un momento di accelerazione, che ha radicalmente cambiato la dislocazione del Potere (economico e politico) su scala mondiale.

Scrive Marx: «Con la concorrenza universale [la grande industria] costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quanto ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 59, Opere, V, Editori Riuniti, 1972). La creazione del mercato mondiale da parte della grande industria, caratterizzata dalla sussunzione reale della capacità lavorativa sotto il dominio aggressivo ed espansivo del Capitale, crea la storia mondiale, nel cui seno esistono ed agiscono anche i Paesi non ancora giunti alla maturità capitalistica o addirittura ancora fermi a strutture sociali precapitalistiche. È, questo, lo spazio rigato dalla «legge dello sviluppo ineguale» e dallo scontro sistemico tra le moderne potenze imperialistiche. «In generale [la grande industria] creò dappertutto gli stessi rapporti tra le classi della società e in tal modo distrusse l’individualità particolare delle singole nazionalità. E, infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso» (Ivi). Qui è posta per la prima volta la fondamentale «contraddizione dialettica» tra il carattere universale e mondiale del Capitale, e la sua ristretta base storico-sociale d’origine: la Nazione. Questa dialettica di universalità e particolarità sta alla base delle relazioni internazionali e della crisi permanete della Sovranità politica sopra delineata.

La base del «vecchio imperialismo» era costituita dall’incessante ricerca da parte del Capitale di profitti sempre più pingui e rapidi (non di rado attraverso le forme più disparate di speculazione), di materie prime, di forza-lavoro a basso costo e di mercati «di sbocco». Una voracità talmente violenta e insaziabile da trascinare nelle spire imperialistiche lo Stato, la cui potenza d’altra parte riposava interamente sulla capacità industriale, e quindi finanziaria, scientifica, organizzativa, culturale, in una sola parola sistemica, del Paese. Come notò J.A. Hobson nella sua giustamente celebre opera del 1902, l’imperialismo «implica l’uso della macchina di governo da parte degli interessi privati, principalmente capitalistici, per assicurare loro vantaggi economici fuori del proprio paese». Sempre all’acume critico dello studioso inglese dobbiamo la documentata relazione tra investimenti esteri e imperialismo politico (militarismo incluso): «Le statistiche degli investimenti all’estero gettano una chiara luce sulle forze economiche che dominano la nostra politica … non è esagerato dire che la politica estera moderna della Gran Bretagna si è concretizzata in una lotta per accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento» (J.A. Hobson, L’Imperialismo, p. 93, Newton, 1996). C’è una pagina di quell’importante studio, dedicata agli gnomi della finanza del suo tempo, che sembra scritta oggi: «Come speculatori o finanzieri essi costituiscono il più grave fattore specifico dell’economia dell’imperialismo. Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo» (Ivi, p. 96).

È forse mutata la base del «nuovo imperialismo», al punto da determinarne il tramonto, o quantomeno la sua trasformazione nell’Impero concettualizzato da Negri? A me non pare proprio, e soprattutto quanto ci capita di osservare negli ultimi anni mi suggerisce l’idea che lungi dall’essersi indebolita, la radice sociale dell’imperialismo si è piuttosto rafforzata enormemente. Concetti quali «post imperialismo» e «post Capitalismo» non hanno alcun senso e testimoniano l’incapacità, di chi li teorizza, di afferrare l’essenza della vigente formazione storico-sociale, la quale vive necessariamente una permanente condizione transeunte: il cambiamento, per essa, non è un’eccezione, ma la regola. Di più: un imperativo categorico. La società capitalistica è sempre «post», «oltre», «smisurata»: deve esserlo, con assoluta e “demoniaca” necessità. Si tratta di mettere a nudo il momento di continuità che persiste nel processo e che realizza la continua trasformazione della Società-Mondo dominata dal rapporto sociale capitalistico.

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IL GENIO DELLA GERMANIA…

«La Germania ama le altre Nazioni, ma le castiga per il loro bene!» (Reinhold Soeberg, teologo dell’Università di Berlino, 1915).

Gian Enrico Rusconi, che di cose tedesche si intende, ha scritto che «Quando si parla della Germania, i tono drammatici sono d’obbligo» (La Stampa, 27 novembre 2011). Non c’è dubbio. Io stesso ho parlato della Germania nei termini di una «Potenza fatale», ossia di un Sistema Sociale che per oggettive condizioni storiche, sociali e geopolitiche deve, a volte suo malgrado, recitare un ruolo che non raramente tracima nel tragico, con tanto di sangue sparso copiosamente sulla scena. «È la Germania, bellezza, e tu non puoi farci niente!» A dire il vero qualcosa le Potenze concorrenti hanno fatto, tanto nel 1918 quanto nel 1945, ma alla fine lo Spazio Esistenziale Tedesco si è ricomposto nella sua continuità geopolitica e nella sua potenza sistemica.

La Bismarck

Inutile far finta di niente, ha scritto recentemente Sergio Romano, un teorico della realpolitik più scabrosa (per il politicamente corretto, sia chiaro): una Questione Tedesca è all’ordine del giorno. «Dai primi decenni dell’Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918. Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s’impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell’arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l’arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l’opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato» (Corriere della Sera, 27 novembre 2011).

Qui Romano si muove lungo un solco politico-culturale ben arato. Due soli esempi. «L’uomo è lo scopo principale delle società democratiche. Invece per i tedeschi lo scopo della società è l’istituzione organizzata: il reggimento, l’esercito, la scuola, la società anonima di sfruttamento, lo Stato. L’individuo non c’entra quasi nulla. Si vive non per sé, ma per la ditta, per l’associazione, per lo Stato» (Franco Caburi, La Germania alla conquista della Russia, pp. 4-5, Zanichelli, 1918). Mutatis mutandis, questi concetti sono stati scritti anche a proposito del Giappone, e in qualche modo essi calzano a pennello per l’attuale Cina. Un’altra citazione: «Tutto il pensiero tedesco mi è apparso fasciato di acciaio e pronto all’incendio … Per quanto alta e potente la scienza teutonica ha un sapore barbarico, mentre la sapienza latina sia pur povera e modesta riluce di una iridescenza divina» (Ernesto Bertarelli, Il pensiero scientifico tedesco, la Civiltà e la Guerra, p. 3, Treves, 1916). Qui siamo addirittura allo scontro tra le Civiltà, e scommetto che molti cittadini dell’Europa Meridionale sottoscriverebbero subito le parole di Bertarelli: «La Civiltà Occidentale è nata in Grecia e a Roma, non certo nelle fredde e barbariche selve tedesche!»

Sulla scorta di Max Weber, Romano individua nel principio dell’organizzazione e nel principio di autorità la radice del «male oscuro» che fa della Germania una perenne spina piantata nel cuore stesso del Vecchio Continente, la cui ferita va ogni tanto in suppurazione, infettando l’intero organismo europeo. Ma le cose, a mio avviso, non stanno così. «La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco» non  sono affatto l’esatto «opposto dei progetti precedenti», non sono «obiettivi di pace» che contrastano ogni scenario di guerra, come crede l’ingenuo ex ambasciatore, ma rappresentano invece quel fondamento sociale che genera sempre di nuovo una «Questione Tedesca».

1939, invasione della Polonia.

Per questo ha ragione il Wall Street Journal di ieri (Tutta colpa della Germania) quando scrive che «Per imporre la parità di bilancio la Germania non manderà la Wermacht a Roma e ad Atene», ma si limiterà a farle «vivere secondo le regole tedesche», perché la ragione è dalla parte del più forte, anche se (oggi!) ha un esercito ridicolo in confronto alla sua Potenza Sistemica. E ha ragione Die Welt, quando fa notare che verso la Germania, «un elefante al cuore dell’Europa», i Paesi europei lanciano segnali contraddittori: per un verso essi pretendono dalla Cancelliera di ferro una maggiore responsabilità, e l’abbondono delle «vecchie chiusure egoistiche»; e per altro verso stigmatizzano i suoi «diktat» che lederebbero la Sovranità e la dignità nazionali, nonché «l’esercizio della democrazia», come mostra il caso di Papandreu e di Berlusconi. Ma la Merkel lavora per il Re di Prussia, non certo per un fantomatico Re di Bruxelles: l’Europa o sarà tedesca, o non sarà! Analogamente, l’Italia del XXI secolo o sarà «Padana» o non sarà. «I tedeschi – scrive il WSJ – hanno il merito di dire la verità», e la verità è che chi ha più filo, più tesse.

Zono invine arrifato, ja!

Siamo arrivati al punto che persino la Polonia critica l’inezia tedesca intorno alla scottante questione dell’Eurobond: attenzione a non strofinare troppo la lampada della Responsabilità Tedesca!

LA POTENZA FATALE DELLA GERMANIA. La Questione Tedesca come Questione Europea

«La Germania è uscita dalla crisi più forte di quando ne è entrata e anche l’Europa deve uscirne più forte». Così parlò Angela Merkel. La Cancelliera esprime qui un fatto e un auspicio, il quale peraltro ha il non vago aspetto di una mera clausola di stile. Ecco declinata la perenne Questione Tedesca nei nostri agitati tempi.

La Questione Tedesca del secondo dopoguerra inizia il 7 maggio 1945, anno in cui le Potenze Alleate sanzionarono la capitolazione di quel che residuava del possente esercito tedesco. Il confronto politico-militare Est-Ovest mise per alcuni anni in ombra quell’esplosivo problema, ma non poteva eliminarlo, semplicemente perché le sue radici coincidevano e coincidono con l’essenza ontologica, per dirla filosoficamente, della Germania: con la sua storia, con la sua struttura sociale, con la sua collocazione geopolitica. La Germania è un problema, suo malgrado!


Assai precocemente la potenza sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, ideologica, psicologica) della Germania è diventata, per lo stesso Paese collocato al centro del Vecchio Continente, una sorta di maledizione. Nata piuttosto in ritardo come compatta entità nazionale (in questo molto simile all’Italia e al Giappone, non a caso suoi amici di sventura nell’ultima guerra mondiale), essa si trovò a dispiegare il proprio enorme potenziale economico-sociale all’interno di un mondo già da molto tempo presidiato dalle vecchie potenze coloniali, le quali ovviamente mal sopportavano le pretese imperialistiche dell’ultima arrivata. La rivendicazione tedesca di un posto al sole nel salotto buono delle potenze imperialistiche minava alla base lo status quo geopolitico e geoeconomico (approvvigionamento di materie prime e investimenti di capitali) costruito nel corso di molti decenni soprattutto dall’Inghilterra e dalla Francia. Di qui, il tratto oggettivamente aggressivo assunto dalla politica estera tedesca già subito dopo la proclamazione del Reich nel 1871, e mantenuto, tra alti e bassi, fino al 1945.

Quando, nel 1956, un referendum popolare rigettò l’accordo franco-tedesco del 1954 per la Saar, che prevedeva l’autonomia di quell’importante bacino siderurgico-minerario-industriale sotto il controllo della CEE (ossia, di fatto, della Francia), la Questione Tedesca postbellica fece un primo, grande salto di qualità, e mise bene in luce la natura tutt’altro che pacifica del «rapporto privilegiato» che unisce finora quei due pilastri della Comunità Europea. A prima vista il rapporto tra Germania e Francia, così centrale nel sistema delle relazioni tra gli Stati europei, sembra un rapporto tra potenze di pari status, ma a ben guardare si tratta di un rapporto tra una forza e una debolezza. Scrive Gian Enrico Rusconi: «Per il suo peso oggettivo, economico e politico, la Germania ha una posizione decisiva in Europa. E’ di fatto la nazione egemone dell’Unione anche se cautelativamente e dimostrativamente si appoggia alla Francia dando informalmente vita al cosiddetto “direttorio”» (La Stampa, 27 Ottobre 2011).

Per un verso la Francia ha “marcato” da molto vicino La Germania, facendo valere quella superiorità politico-militare che le deriva dall’esito della Seconda Guerra mondiale; e per altro verso ha cercato di usare la potenza economica tedesca per dare surrettiziamente massa critica strutturale alla sua tradizionale politica estera molto velleitaria. L’Inghilterra non poteva che sostenere questa politica antitedesca. Tuttavia, all’ombra della politica estera e militare delle potenze vittoriose, la potenza sconfitta non ha smesso di crescere, dando nei fatti più di una lezione di dialettica materialistica. Naturalmente a chi sa intenderla.

È nei primi anni ottanta del secolo scorso che in Germania si inizia a parlare senza reticenze e sensi di colpa di «nuovo patriottismo»; si prende cioè coscienza del fatto che il Paese ha degli interessi strategici da difendere, i quali non necessariamente coincidono con quelli degli Stati Uniti. Nella misura in cui l’Unione Sovietica mostra tutta la sua debolezza strutturale e la potenza capitalistica americana subisce i contraccolpi dell’ascesa economica della Germania e del Giappone, si aprono per la classe dominante tedesca nuove opportunità sia sul piano della competizione economica, sia su quello dell’iniziativa politica. Due piani peraltro strettamente legati l’uno all’altro. La cosiddetta Ostpolitik nei confronti dei paesi oltrecortina segnala il nuovo dinamismo politico tedesco. Washington osteggiò questa politica perché sintomatica di una pericolosa tendenza neutralista che oggettivamente avrebbe fatto il gioco di Mosca. In realtà l’Ostpolitik fece solo gli interessi di Bonn, e poi di Berlino. Come scrisse la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 21 settembre 1982, «Le cause di tutta una serie di punti discordanti fra Washington e Bonn derivano direttamente dalle trasformazioni che sono avvenute dai tempi in cui la Repubblica federale di Germania veniva considerata un “anello modello” e gli Stati Uniti erano la potenza guida accettata da tutto il mondo occidentale». Erano.

Mitterrand e Helmut Kohl nel 1987

Alla vigilia dell’Unificazione Tedesca Mitterrand evocò la possibilità di una terza guerra mondiale, per prevenire la quale occorreva realizzare un asse franco-russo-britannico in grado di contenere la straripante potenza germanica. Un ex ministro degli esteri francese, il gollista Michel Jobert, si disse indignato per come la Germania usasse la propria potenza economica «per ricomprare la sua unità nazionale». Già Andreotti nel 1984 aveva sentenziato, con la solita italica sicumera: «Esistono due Stati tedeschi e due devono restare». Quando alla fine il muro di Berlino cadde (anche sulle teste indigenti degli irriducibili filosovietici) il longevo statista del Bel Paese se ne uscì con un tranquillizzante «l’equilibrio politico mondiale non subirà grossi traumi». Nell’aprile del 1988 Die Zeit, interpretando gli umori antitedeschi delle classi dirigenti europee, scrisse: «È raro incontrare una franchezza come quella dimostrata a suo tempo dal francese Mauriac, con la celebre frase: “Io amo la Germania al punto da essere contento che ne esistano due”». Evidentemente due sole non bastano…

Thomas Mann nel 1929

Una volta Thomas Mann invitò gli studenti di Amburgo a battersi «non per un’Europa tedesca, ma per una Germania europea». Nonostante i tedeschi abbiano fatto di tutto per onorare l’appello del grande scrittore, sotto i nostri occhi si sta consumando il fallimento dell’illusione europeista. L’Europa o sarà tedesca o non sarà! «Il sogno europeista come emancipazione dall’incubo nazista» è svanito dinanzi alla prima seria difficoltà: «La Germania tedesca è altrettanto legittima della Francia francese, dell’Italia italiana. È normale. Non è normale che tedeschi, francesi, italiani e altri europei, paralizzati dalla crisi, continuino a non decidere. Alla fine saranno i fatti a decidere» (La Germania nella crisi europea, editoriale di Limes, 4-2011). Sono sempre «i fatti» a decidere; la politica può assecondarli più o meno bene, può legittimarli, e può sperare di orientarli per il verso giusto (che è sempre quello favorevole alle classi dominanti di un Paese), ma non può produrli a partire da astratte idealità. L’Europa tedesca si sta imponendo alle spalle degli stessi tedeschi, i quali da sempre vivono con una certa inquietudine la potenza «oggettiva» della loro patria, fonte di straordinarie imprese ma anche causa di dolorosissime sciagure. Alla Germania calza a pennello la frase: «Scusate se esisto!»

«La Germania – scrive Rusconi – si fa carico di far uscire l’Unione europea dalla crisi attuale a condizione che la politica monetaria e finanziaria degli Stati membri si rimodelli secondo criteri e norme che sono promosse sostanzialmente dalla Germania stessa. Angela Merkel interpreta perfettamente questa strategia che è insieme di intransigenza e di opera di convincimento, di attesa e di azione di logoramento. E’ la nuova formula dell’egemonia tedesca». Non c’è dubbio. Siamo alla vigilia del Quarto Reich tedesco?

IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!

Sic transit gloria mundi

Il pensiero più vero, sull’uccisione del sanguinario e macchiettistico Re dei Re dell’Africa, lo ha espresso il suo ex solidale geopolitico Silvio Berlusconi: l’imperialismo, sotto forma di sacro interesse nazionale, deve continuare, come lo show della nota battuta. Gheddafi è morto? Avanti il prossimo leader, meglio se «democraticamente eletto». Non raramente al Sultano di Arcore capita di dire la verità sul cattivo mondo che ci ospita, semplicemente perché l’odioso politicamente corretto che impazza nella leadership politica nazionale e mondiale nella sua «rozza» mente non trova molto appigli. Come all’ubriaco, a Berlusconi capita di dire verità scomode per la «convivenza civile» e il bon ton politico-istituzionale.

Egli è dietro a ogni magagna...

Filippo Ceccarelli, sulla Repubblica Delle Manette di oggi, fa finta di indignarsi: «Ma come, fino a ieri erano pappa e ciccia, e adesso il Cavaliere se ne esce con il gergo teologico: Sic transit gloria mundi! Ma che vuol dire?» Significa che la realpolitik che sorregge gli interessi nazionali (vedi alla voce Profitti e Petrolio) non guarda in faccia a nessuno. D’altra parte, lo stesso Ceccarelli ricorda come dal 1969, anno della “mitica” cosiddetta «Rivoluzione Verde» che spodestò il monarca libico Idris El-Senussi, tutti gli statisti e i più grandi imprenditori (uno su tutti: Gianni agnelli) del Bel Paese hanno fatto affari con l’ex colonnello di Tripoli. Ovviamente, aggiungo.

La cosa più ipocrita e politicamente corretta è uscita fuori dalla rinsecchita bocca di Emma Bonino: la leader Radicale si di dice rammaricata perché «il dittatore libico non meritava la bella morte in battagliai, ma il giudizio equo e non vendicativo di una Corte di Giustizia Internazionale». Ne deduco che la morte causata dai bombardamenti aerei democraticamente stabiliti dagli Alleati venuti in soccorso alla «Rivoluzione Popolare» (dalle mie parti si dice: «Cornuto chi ci crede!») sono da giudicarsi equi e non vendicativi. Come sempre, la verità sta dalla parte dei vincenti.

Il Fascio Quotidiano ha titolato: «Così muore un dittatore». Qualche allusione alla situazione italiana? Intanto il Pacifismo nostrano e internazionale ha mostrato ancora una volta la sua completa sudditanza politica nei confronti della politica dei partiti e degli Stati. Non c’è dubbio che se al posto del progressista-abbronzato Obama ci fosse stato un repubblicano bianco e «liberista selvaggio»; e se il Mostro di Arcore non fosse stato “amico” del defunto Rais di tripoli, qualche oceanica manifestazione contro «l’intervento imperialista in Libia» l’avremmo vista. Pazienza! Confidiamo nelle prossime elezioni politiche in Italia e nella non lontana tornata presidenziale negli Stati uniti. Cornuto chi ci crede – con rispetto parlando, sia chiaro.

EUROPEISMO E QUESTIONE TEDESCA

Dopo aver per tanti lustri invocato l’avvento degli Stati Uniti d’Europa, con il relativo superamento dei vecchi Stati nazionali, colpevoli di aver annegato nel sangue il «secolo breve», oggi, dinanzi al proditorio diktat franco-tedesco, non pochi italici «europeisti convinti» masticano amaro e denunciano un’insopportabile lesa maestà nazionale. «Ma qui si vuol commissariare il Paese!»

Le anime belle (è solo un’immagine retorica, si capisce) dell’Europeismo scoprono con orrore il fondamento reale, non ideologico, del cosiddetto «sogno europeo»: è la Germania che tiene stretto nelle sue mani il destino del Vecchio Continente. Oggi come ieri, dal Kaiser Guglielmo II («Politica mondiale come compito, potenza mondiale come obiettivo, flotta come strumento») ad Angela Merker, passando ovviamente per i buffi baffi del noto pittore austriaco.

Siamo ancora alla Wille zur Macht? Non c’è dubbio. Naturalmente mutatis mutandis e senza scivolare in assurde concezioni metapolitiche. Scriveva Ernst Nolte nel 1993, con ogni evidenza per tranquillizzare gli europei timorosi della nuova ascesa tedesca dopo l’unificazione del Paese: «Bisogna distinguere tra potenza politica e influsso economico. L’influsso che si fonda su un potere economico può risultare vantaggioso anche per chi è più debole. In conclusione, non vi è ragione di temere un predominio politico tedesco in Europa» (Intervista sulla Questione tedesca, Laterza, 1993). Ma è possibile separare la «sfera politica» da quella economica? Ovviamente no, e alla fine, presto o tardi, in modo più o meno contraddittorio e doloroso, l’economico deve necessariamente riflettersi sul politico, anche a dispetto degli stessi attori che in astratto avrebbero l’interesse a non immergersi più di tanto nella complessa e rischiosa (e proprio la Germania ne sa qualcosa!) dimensione politica.

20 millionen Mark (1923)

La crisi economica ha reso evidente ciò che gli analisti politici ed economici seri del Vecchio Continente hanno sempre saputo (ma non sempre dichiarato, per un certo scrupolo politically correct): l’Unione Europea, se vuole riempirsi di reali contenuti storici, deve quanto più avvicinarsi al «modello tedesco», il quale rimane ancora il modello capitalistico egemone in Europa. Lungi dall’essere venuta meno, la tradizionale area del Deutsche Mark si è piuttosto allargata, di fatto, a cagione di una pressione meramente economica.

Il gran Stemma di Sua Maestà l'Imperatore tedesco (1871-1918)

Dietro una Moneta c’è un Tesoro, e dietro questo deve esserci un Sovrano (non 17!), con tanto di spada. Ogni altra considerazione intorno agli Stati Uniti d’Europa non radicata in questa reale dimensione storico-sociale è pura risciacquatura ideologica buona per dissetare l’anelito «ultraeuropeista» alla Emma Bonino, con rispetto parlando…

La Francia cerca di far valere il suo peso politico (struttura militare compresa, è chiaro) per controllare da presso la potenza sistemica dei «mangia patate», la cui economia è floridamente cresciuta all’ombra dei missili statunitensi e della stessa grandeur gallica, peraltro sempre più pallida e risibile. L’Asse franco-tedesco ha nel corso degli anni espresso tutte le ambiguità e tutte le contraddizioni insite nel «progetto europeista» venuto fuori dalla Seconda guerra mondiale, come ulteriore ratifica dell’epocale sconfitta tedesca. La recente vicenda libica ha messo bene in luce il diverso approccio “europeista” dei due Paesi leader dell’Unione.

Scriveva Ernesto Bertarelli nel 1915, mentre in Europa infuriava la tempesta bellica: «L’antipatico sciovinismo francese, che offende più di quanto non minaccia, pare ben dolce di miele e remissivo di vertebre nei confronti col testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» (Il pensiero scientifico tedesco, la civiltà e la guerra, Trevis Editore, 1916). Bisogna ricordare che allora i «cugini francesi» erano nostri alleati nella lotta contro il «Barbaro Teutonico». Eppure, quella denuncia del «testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» in qualche modo illumina l’aspetto oggettivo della tragedia tedesca, la quale non può non essere al contempo tragedia europea: la forza strutturale del capitalismo tedesco.

Più che in altri Paesi, la politica – interna ed estera – della Germania è il prolungamento della sua prassi economica, la quale ruota intorno a questa Sacra Trinità: produttività industriale soprattutto in vista delle esportazioni, salute finanziaria, stabilità monetaria. L’europeismo dei tedeschi e dei loro “fratelli” europei deve fare i conti con quel vero e proprio imperativo categorico economico-sociale.

Intanto la «scettica» Inghilterra, immersa come e forse più degli altri partner europei nella crisi economica, mostra quel fondo violento e disumano della Civiltà borghese che nemmeno la sempre più rancida ideologia multirazziale e multiculturale è in grado di celare. Ma la cieca violenza degli ultimi ne attesta anche l’attuale impotenza politica.

Insomma, il «commissariamento» dei Paesi europei più esposti all’ira dei «mercati» da parte della Germania (con l’eventuale copertura politica offerta, più o meno obtorto collo, più o meno opportunisticamente, dalla Francia) non ha nulla a che fare con la «Volontà di Potenza», ideologicamente concepita, o con la «Dignità Nazionale» di questo o quel Paese, mentre ha molto a che vedere con la reale dinamica capitalistica (in un’accezione non meramente economicista del concetto) del Vecchio Continente. Chi vuol capire questi tempi agitati, e non vuole rimanere impigliato nelle miserabili diatribe fra «euroentusiasti» ed «euroscettici» a mio avviso farebbe bene a puntare i riflettori della critica sul processo sociale sovranazionale che ho cercato di tratteggiare brevemente.