Alcune riflessioni intorno ai concetti di Nazione, Sovranità, Politica, Imperialismo, Internazionalismo.
«Il vero compito della società borghese è
la costituzione di un mercato mondiale,
almeno nelle sue grandi linee, e di una
produzione che poggi sulle sue basi.
Siccome il mondo è rotondo, sembra
che questo compito sia stato portato a
termine» (K. Marx).
1. La dimensione più adeguata al concetto e alla prassi del Capitale è il mondo. Qui per Capitale occorre intendere innanzitutto un peculiare rapporto sociale di dominio e sfruttamento: quello sorto storicamente attraverso 1. l’espropriazione dei lavoratori diretti (industriali e agricoli) dai mezzi di produzione e, quindi, dal prodotto del loro lavoro, e 2. la concentrazione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica nelle mani di un gruppo sociale sempre più ristretto e socialmente potente.
Con il Capitalismo prende forma, si sviluppa e si struttura il commercio mondiale, mentre la stessa produzione basata entro i confini di una nazione è resa possibile dalla dimensione internazionale che ben presto acquista l’economia basata sullo sfruttamento intensivo (scientifico) degli uomini e della natura. Il mercato internazionale delle merci, dei capitali, delle materie prime e della forza-lavoro diviene assai rapidamente l’indispensabile presupposto di ogni economia nazionale, il cui concetto e la cui prassi si modificano sempre di nuovo man mano che il Capitale dischiude la propria essenza di Potenza sociale mondiale.
Nel XXI secolo la prassi sociale mondiale si dispiega interamente sotto il cielo del rapporto sociale capitalistico. Per mutuare Nietzsche («Il Centro è dappertutto»), possiamo senz’altro affermare che il Capitale è dappertutto, sta al centro di tutto. Il grande spazio del Capitale ridicolizza il Grossraum immaginato da Carl Schmitt in opposizione all’«unità globale di un imperialismo planetario-capitalista o bolscevico» [1].
«La grande industria universalizzò la concorrenza, stabilì i mezzi di comunicazione e il mercato mondiale moderno, sottomise a sé il commercio […] Con la concorrenza universale essa costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quando ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni [2]. Da quando (1846) il Moro di Treviri e il suo devoto compagno scrivevano questa poesia sociopolitica (che include, beninteso, il momento geopolitico) il Capitale ne ha fatta, e tanta, di strada. Tuttavia, già allora, quando ancora poche nazioni potevano essere definite capitalistiche in senso moderno (Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Francia), Marx ed Engels denunciarono il carattere sempre più ideologico e illusorio dell’esclusivismo nazionale, perché la Sovranità del Capitale tendeva a restringere progressivamente la Sovranità politica basata sullo Stato nazionale, e questo dovrebbe far riflettere molti socialnazionalisti odierni che affettano pose “marxiste”.
La Sovranità sociale è passata per sempre nelle mani del Capitale, e non smette di radicalizzarsi, rafforzarsi ed espandersi: socialmente (l’intera società è plasmata dagli interessi economici, tutto gira intorno al Capitale, soprattutto nella sua forma più potente e astratta: la forma-denaro), spazialmente (l’intero pianeta giace sotto il dominio del Capitale) e (dis)umanamente (il «capitale umano» come risorsa capitalistica perfetta, l’individuo atomizzato e reificato come biotecnologia e biomercato). Altro che «colonizzazione capitalistica della società» [3]: qui si deve piuttosto parlare di un vero e proprio Imperialismo esistenziale, ossia di una Potenza sociale totalitaria che non solo domina gli individui dall’esterno, ma soprattutto li plasma e riplasma sempre di nuovo a sua immagine e somiglianza. L’imperativo categorico del Capitale agisce, kantianamente, dall’interno, come legge sociale superiore – che include il momento etico.
È qui che il concetto adorniano di composizione organica dell’individuo, elaborato dal filosofo tedesco in analogia – in realtà si tratta di ben più che di una semplice analogia – con il noto concetto marxiano di composizione organica del capitale, “gira” a pieno regime: «Novissimum organum […] Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”» [4].
Riflettere “a 360 gradi” intorno alla maligna rotondità del Dominio sociale capitalistico mi sembra un’esigenza elementare per un pensiero che aspira a conquistare una reale consistenza critico-radicale. E quando scrivo «aspira» alludo in primo luogo a me stesso.
La Sovranità sociale declinata nei termini qui esposti corrisponde al mio concetto di globalizzazione capitalistica, il quale aderisce come un guanto alla mia concezione dell’Imperialismo capitalistico. Anche qui, scrivo «mio» e «mia» non per esibire ridicolmente tassi di originalità dottrinale che ovviamente il mio pensiero non può vantare (purtroppo!), ma per assumermi la piena responsabilità delle mie posizioni, che rimangono tali, cioè mie, anche quando rendo esplicito, magari attraverso una citazione, il loro background teorico. […]
2. Il concetto di Nazione, su cui si radica il sentimento nazionale e il nazionalismo politico-ideologico, è storicamente nato e cresciuto con la moderna borghesia. Nazione, popolo, patria, Stato moderno sono concetti che se non si equivalgono perfettamente alla stregua di sinonimi, tuttavia rinviano a una sola realtà storico-sociale: la comunità dominata dagli interessi della nascente borghesia. L’ascesa della borghesia non solo ha dovuto fare i conti con l’ancien régime, ossia con il potere dei grandi feudatari e della nobiltà, ma quasi sempre si è dovuta misurare duramente (militarmente) anche con gli interessi delle potenze straniere che ne usurpavano lo «spazio vitale» per così dire naturale, il quale allora coincideva con l’area omogenea in termini di tradizione storica, di lingua e di cultura che chiamiamo appunto Nazione – in questo senso è legittimo parlare di essa come di una «storia coagulata».
La Nazione rappresenta dunque la “naturale” dimensione del dominio capitalistico nel periodo rivoluzionario della borghesia, e il passaggio dalla frammentazione dei piccoli mercati locali e regionali all’unificazione di essi nel mercato nazionale rappresenta forse l’aspetto più rivoluzionario di quel periodo, perché la formazione di quel mercato innescherà nella società cambiamenti radicali di tale portata, da cambiare per sempre il volto e il ritmo del processo storico.
Le stesse guerre di liberazione nazionale contro le Potenze dominanti (l’Olanda e l’Inghilterra contro la Spagna, gli Stati Uniti d’America contro l’Inghilterra, la Francia contro il resto d’Europa, l’Italia contro l’Austria, la Germania contro la Francia, e via di seguito) ebbero allora un chiaro carattere rivoluzionario, e il sentimento nazionale (l’«amor di patria» glorificato da storici e poeti) espresse, cementò e potenziò questa funzione storicamente progressiva. Ma la dimensione nazionale rappresentò per il Capitale come rapporto sociale solo un acquisto storico transitorio, la conquista di una piattaforma sociale dalla quale spiccare quel salto che gli farà conquistare il mondo.
3. Con il consolidamento dello Stato-Nazione e con lo sviluppo capitalistico che spinse il primo a supportare sempre più apertamente e generosamente gli interessi del grande Capitale, la cui brama di mercati e di materie prime era diventata davvero insaziabile, il nazionalismo muta radicalmente la sua funzione, e da ideale storicamente progressivo diventa ideologia ultrareazionaria posta al servizio del colonialismo e dell’Imperialismo. Lo Stato appoggia con tutti i mezzi necessari, inclusi quelli che prevedono il dispiegamento della forza armata (la violenza militare come continuazione della violenza economica), l’espansione del Capitale “nazionale”, e acquista a sua volta da questa funzione ancillare una crescente potenza politica e ideologica. Questo circolo virtuoso del Dominio sta alla base del moderno Imperialismo, inestricabile intreccio di fattori economici e fattori politici.
Il nazionalismo diventa la miserrima foglia di fico che cerca di nascondere le “vergogne” di un’economia che può funzionare solo su base mondiale. Il capitale basato nazionalmente è solo un nodo della rete capitalistica mondiale e non può essere concepito se non a quella stregua. La formazione del mercato capitalistico mondiale rende risibile, oltre che illusoria (chimerica), ogni forma di nazionalismo (economico, politico, culturale, antropologico). Risibile, illusorio e chimerico è il nazionalismo in quanto pretesa sovranista osservata dalla prospettiva storica; ma non per questo esso si mostra inefficace dal punto di vista delle classi dominanti: tutt’altro!
Non dimentichiamo come la «difesa dei sacri interessi nazionali» non smetta, guerra mondiale dopo guerra mondiale, crisi economica dopo crisi economica, di far breccia assai facilmente anche, e forse soprattutto, nei piani bassi dell’edificio sociale. Come scriveva Schopenhauer, «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» [5]. Le classi dominanti sanno bene come solleticare il miserabile orgoglio nazionale dei «poveri diavoli», e lo fanno puntualmente tutte le volte che se ne presenta l’occasione per oliare il meccanismo del controllo sociale.
Di qui, tra l’altro, lo sforzo messo in campo dalle classi dirigenti nazionali per mantenere artificialmente in vita presunte caratteristiche «autoctone» di natura culturale, religiosa e persino antropologica. Nello stesso momento in cui il Capitale fa tabula rasa di ogni sostanziale particolarità esistenziale degli individui dislocati nelle diverse regioni del pianeta, si fa un gran parlare dell’importanza delle culture e delle tradizioni nazionali, con il solo risultato di offrire alla potenza omologante del Capitale argomenti da sfruttare commercialmente. Vedi la cosiddetta “moda etnica”, molto apprezzata dai progressisti occidentali perché associata alla politica di integrazione razziale e culturale implementata, per la verità con scarsissimo risultato, nelle metropoli capitalistiche.
Mentre le classi dominanti di un Paese capitalisticamente avanzato si possono permettere il lusso del cosmopolitismo, un’idea che in effetti corrisponde alla prassi dei detentori di capitali, i quali trafficano su scala planetaria senza alcun riguardo per le differenze nazionali, culturali, religiose e sessuali delle persone con cui entrano in relazione, i lavoratori dello stesso Paese, confinati nella gretta dimensione nazionale, spesse volte spingono il loro «amor patrio» molto avanti, esasperandolo, fino a portarlo sul terreno dell’aperto razzismo ai danni dei lavoratori degli altri Paesi “vissuti” come sleali concorrenti. Com’è noto, l’idea di un’Associazione Internazionale dei lavoratori nacque nel XIX secolo come risposta alla concorrenza tra lavoratori di nazionalità diversa, come d’altra parte l’associazionismo sindacale nacque originariamente su base nazionale per superare la concorrenza tra gli operai: «Gli operai sono in concorrenza tra loro come lo sono i borghesi […] Questa concorrenza è l’aspetto più nefasto per gli operai nella società attuale, l’arma più affilata della borghesia contro il proletariato. Di qui deriva lo sforzo degli operai per sopprimere questa concorrenza mediante le associazioni»[6].
Quando il Manifesto del partito comunista proclamò che «Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno»[7], esso affermò un elementare quanto dirompente principio di internazionalismo proletario, la cui evidenza dinanzi agli stessi salariati non è tuttavia affatto scontata come invece lo è per chi già aderisce al punto di vista critico-radicale – o «comunista» nell’accezione marxiana del concetto. Essendo l’ideologia dominante quella che promana spontaneamente – “naturalmente” – dalla vita materiale e spirituale della società borghese, il che fa dell’ideologia elaborata dai dominanti anche l’ideologia dei dominati, se ne ricava che quel principio rivoluzionario può affermarsi tra i lavoratori solo attraverso una dura battaglia teorica e pratica.
In effetti, ciò che spontaneamente conquista i cuori dei salariati, i quali sono abituati a delegare sempre ad altri (dalla culla alla tomba, passando per scuole, uffici, ospedali, ecc.) le decisioni fondamentali che li riguardano, è un maligno connubio di nazionalismo e statalismo, ossia il desiderio di vivere un’esistenza magari modesta ma sicura e protetta nel seno della patria che li ospita fin dalla nascita, cioè a dire nella società capitalistica concepita come la sola comunità possibile. Questa condizione disumana mi ricorda i passi di Furore a proposito del carcere McAlester: «”E come ti trattavano a McAlester?” chiese Casy. “Mica male. Pasti regolari, biancheria di ricambio, ci sono perfino dei locali per fare il bagno. Per certi versi non si sta malaccio. L’unica cosa, si sente la mancanza di donne”. Scoppiò a ridere. “Ho conosciuto uno, anche lui in libertà vigilata, che s’è fatto rificcar dentro […] Aveva deciso di rientrar dentro dove almeno non c’era il rischio di saltare i pasti e dove c’erano anche certe comodità. Disse che fuori di lì si sentiva sperduto, dovendo oltretutto pensare sempre al domani”» [8]. Il carcere con annesse donne rappresentava la miserabile “utopia” del giovane Joad. Questo, tra l’altro, aiuta a capire la nostalgia per il Capitalismo di Stato che si riscontra in ampi strati proletari dell’Europa orientale che hanno conosciuto il carcere a cielo aperto chiamato «socialismo reale». Si tratta della nota sindrome del «Si stava meglio quando si stava peggio», che fa capolino nel mondo dei perdenti a ogni brusca accelerazione del processo sociale.
Chiudere gli occhi dinanzi a questa cattiva realtà, radicata assai in profondità nella prassi sociale di questa epoca storica (capitalistica), non ci aiuta a comprendere la potenza del Moloch che ci sta dinanzi, e ci lascia disarmati anche sul piano della critica fondata su una buona teoria, alla cui elaborazione offro il mio modesto contributo.
Il «tradimento» della socialdemocrazia europea nel famigerato agosto del 1914, che si concretizzò con il voto ai crediti di guerra di una parte del socialismo del Vecchio Continente e il neutralismo sempre più «attivo ed operante» dell’altre parte, ci rimanda direttamente alla dialettica sociale (inestricabile impasto di “materia” di “spirito” e di “psiche”) appena abbozzata. Scriveva Lenin nel 1916: «I proletari afferrano con il loro istinto di classe la verità, capiscono cioè che la difesa della patria nella guerra imperialistica è un tradimento del socialismo»[9]. Eppure proprio la Grande Guerra dimostrò quanto quell’«istinto di classe» non fosse un’acquisizione scontata e definitiva per il proletariato, e come esso invece dipendesse – e dipenda – non poco da complessi fattori (ideologici e psicologici) che non possono venir ricondotti immediatamente nella sfera dell’istinto e della “spontaneità di classe” come risultato della mera condizione materiale dei lavoratori. In Germania, ad esempio, bisognerà aspettare la cocente e shockante sconfitta del 1918 per vedere declinare il forte sentimento nazionalistico che si era impadronito di gran parte della classe operaia tedesca, considerata ai tempi di Engels, di Bebel e di Kautsky l’avanguardia della classe operaia europea, a partire dal 1871, per raggiungere l’apice nel periodo che va dal 1890 al 1914.
4. Nel contesto del Capitalismo altamente sviluppato e mondializzato lo stesso concetto di oppressione nazionale ha mutato completamente il suo significato. Infatti, nella misura in cui il carattere necessariamente ineguale dello sviluppo capitalistico nelle diverse aree del pianeta è una “legge” sociale che trova sempre nuove conforme; ed essendo la Potenza degli Stati basata, sostanzialmente e “in ultima analisi”, sulla capacità sistemica (leggi: economica, scientifica, tecnologica, politica, ideologica) delle nazioni, con la potenza economica dei Paesi come momento dominante di quella capacità; constatato questo appare del tutto priva di sostanza storica la tesi secondo la quale bisogna riconoscere a ogni nazione, grande o piccola che sia, ricca o povera che sia, il diritto alla gestione degli affari mondiali – soprattutto attraverso gli organismi internazionali di vario genere.
Come il grande Capitale domina e il più delle volte sfrutta, soprattutto attraverso strumenti tecnologici, quello medio e piccolo, analogamente le grandi potenze esercitano di fatto, e spesse volte anche di diritto (soprattutto alla fine di una guerra), il loro dominio sulle potenze medie e piccole come su ogni altra configurazione politico-istituzionale nazionale e transnazionale. È il diritto del più forte, certamente; quello che ha segnato la storia del Dominio sociale negli ultimi tremila anni. Il diritto equivale a forza e, sotto questo aspetto, non c’è Stato che non sia «di diritto», checché ne dicano gli apologeti dello Stato democratico. «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro “Stato di diritto”» [10].
Come sanno bene i teorici del realismo geopolitico è la forza organizzata delle nazioni, che ha nello Stato la sua più puntuta espressione, che gioca un ruolo fondamentale nei rapporti tra gli Stati, che sono appunto rapporti di forza, di potenza, mentre la fumisteria della propaganda ideologica vi svolge una funzione assai modesta, esercitata soprattutto ai danni delle cosiddette opinioni pubbliche internazionali.
D’altra parte, il dominio delle grandi potenze ha sempre avuto un carattere relativo e tendenzialmente transitorio. Per un verso le nazioni assoggettate alla Potenza dominante, o soltanto egemone, fanno di tutto per tutelare nei limiti del possibile i loro peculiari interessi, e per ricavare dal particolare sistema di alleanze nel quale sono inserite il maggiore vantaggio possibile, il che spesse volte costringe la nazione collocata al centro di quel sistema a pagare un prezzo molto salato sull’altare della propria leadership. La storia dell’Alleanza imperialistica dominata dagli Stati Uniti è molto istruttiva a tal proposito. Questo per un verso. Per altro verso, l’ascesa e il declino, assoluto o solo relativo, delle grandi Potenze testimoniano del carattere dinamico dei rapporti di forza che vengono a stabilirsi tra le nazioni.
L’illusione progressista dell’uguaglianza delle nazioni e di una loro coesistenza pacifica («basterebbe solo che le classi dirigenti nazionali ne avessero la volontà!») sotto il Capitalismo più che una pia illusione a me appare una mostruosa chimera, oltre che una colossale menzogna volta a ingannare i dominati. Questa posizione, che al progressista avvezzo all’ideologia pacifista piccolo borghese può apparire cinica, non fa l’apologia della hobbesiana legge del più forte ma, per un verso, dice la verità sul mondo sussunto sotto la potenza del Capitale, la quale rafforza, anziché superarla, la secolare “legge” dell’ineguale sviluppo capitalistico (su scala nazionale, continentale e mondiale); e per altro verso invita le classi dominate e tutti gli offesi dal Dominio a sbarazzarsi senz’altro di questo mondo violento e cinico, in vista dell’altro, la cui possibilità materiale cresce ogni secondo che passa, esattamente come la sua negazione ad opera della prassi sociale quotidiana.
Segue qui.
[1] C. Schmitt, Cambio di struttura del diritto internazionale, in L’unità del mondo, p. 296, Pellicani, 1994.
[2] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, M-E, Opere, V, p. 59, 1972.
[3] C. Formenti, Mercanti di futuro, p. VIII, Einaudi, 2002.
[4] T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994.
[5] A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri, pp. 31-32, RCS, 2010.
[6] Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, p.119, Editori Riuniti, 1978.
[7] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, M-E, Opere, VI, p. 503, Editori Riuniti, 1973.
[8] J. Steinbeck, Furore, p. 33, Bompiani, 1980.
[9] Lenin, Lettera aperta a Charles Naine, Opere, XXIII, p. 223, Editori Riuniti, 1965.
[10] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, p. 11, La Nuova Italia, 1978.