Il filo di Scozia non si è dunque spezzato, come paventavano in molti. E come molti invece speravano. Pare che anche il virile Putin tifasse per la secessione: com’è noto, egli è un paladino del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Scherzo, è ovvio. Secondo Fabio Cavalera però, «Con la Scozia o senza la Scozia, da oggi il Regno Unito è diverso. L’esito del referendum avrà importanti ricadute costituzionali. E peserà sul futuro dei conservatori e dei laburisti. Se anche si scongiura la secessione, sarà inevitabile allargare gli spazi di sovranità della Scozia, a cominciare dalle tasse e dal welfare. E ciò significa viaggiare verso un assetto federale. Il Regno Unito da oggi è diverso» (Il Corriere della Sera, 19 settembre 2014). Opinione condivisa dal Times, che ieri annunciava «cambiamenti costituzionali di rilievo per l’intero Regno Unito: il primo ministro ha detto che garantisce che la promessa di devolvere le competenze su fisco, welfare e potere di erogare prestiti sarà pienamente rispettata con le proposte delineate a novembre. […] Ha anche aggiunto, tuttavia, che il cambiamento dovrebbe comprendere anche la cessione agli inglesi di maggiori poteri […] con lo stesso ritmo della devolution scozzese».
In effetti, non bisogna dimenticare le diverse magagne che da molto tempo travagliano il cuore politico-istituzionale del Regno Unito: «La concezione dell’Inghilterra come nazione omogenea che rappresenta il centro dell’unione ha dei grandi limiti. In primo luogo, ignora le fratture territoriali che attraversano la nazione inglese e respinge in maniera ostinata la presenza e il valore delle differenze non solo economiche, ma anche politiche, culturali, sociali e identitarie presenti soprattutto tra il Nord e il Sud del paese» (A. Giovannini, Limes, 28 agosto 2013). Lungi dal frenare definitivamente le spinte centrifughe, l’esito del referendum sembra aver piuttosto galvanizzato le rivendicazioni di maggiore autonomia (soprattutto nella politica fiscale e nelle politiche di gestione del Welfare: guarda il caso…) di quei soggetti politici e istituzionali di rango regionale che non intendono mettere in crisi l’assetto unitario del Paese.
Come sempre e ovunque, tutto gira intorno alla ricchezza sociale: alla sua produzione, alla sua distribuzione, alla sua allocazione, alla sua gestione a ogni livello della struttura sociale. Tutti i cittadini sono, infatti, coinvolti nella scottante faccenda, sebbene a diverso titolo: chi come imprenditore, chi come lavoratore, chi in qualità di pensionato, ovvero di studente, di disoccupato, di bisognoso di cure mediche e via di seguito. In questo contesto, la questione identitaria, che poi è quella che colpisce di più la cosiddetta opinione pubblica internazionale, non è che uno strumento politico-ideologico al servizio della spartizione del bottino.
Dopo il referendum scozzese niente sarà più come prima, e non solo in Gran Bretagna, com’è ovvio, ma anche nel resto d’Europa: non c’è analista di politica internazionale in circolazione nel Vecchio Continente che non condivida questa tesi. Certo, le capitali europee (ma anche Washington e Pechino) che temevano la balcanizzazione dell’Europa oggi tirano un grosso sospiro di sollievo, e possono affettare pose europeiste che tuttavia ormai non ingannano nessuno, nemmeno i più imbecilli fra i sudditi dell’Unione europea; ma il fatto stesso che un’entità nazionale-statale vecchia di tre secoli, e con alle spalle una storia così ricca e “gloriosa”, come solo poche altre nazioni possono vantare, sia stata ad appena un passo dalla catastrofe (almeno potenzialmente, sul piano ipotetico), ebbene tutto ciò deve necessariamente avere delle conseguenze di vasto raggio e di lungo periodo.
Capire il contesto storico e sociale generale nel cui seno sono maturate le spinte centrifughe che agiscono nel cuore della metropoli europea, può forse aiutarci a comprendere la natura dei fenomeni che potrebbero prendere corpo nel breve termine. Qui di seguito abbozzo un tentativo di analisi.
Il processo di globalizzazione del Capitale o, meglio, la brusca accelerazione che tale processo ha subito negli ultimi trent’anni, ha scosso nel profondo la struttura sociale delle comunità disseminate ovunque nel pianeta, non risparmiando nessuna di quelle loro realtà costitutive (Stato, nazione, famiglia, ecc.) che un tempo venivano considerate, se non immutabili per ciò che concerne la forma, certamente tetragoni a ogni cambiamento per quel che riguarda la loro intima sostanza. Invece, non c’è stata “sfera” della società che non sia stata lavorata a dovere (in profondità, capillarmente) dal processo economico-sociale, che non abbia dovuto arrendersi, dopo qualche resistenza, alle bronzee leggi dell’economia. Qui la società va considerata nella sua dimensione mondiale, che è poi la dimensione più adeguata al concetto e – soprattutto – alla prassi del Capitale.
Alla fine degli anni Novanta andava di moda il glocal, ricordate? «Pensare locale, agire globale», oppure «Piccolo è bello»: erano gli slogan preferiti dai teorici della globalizzazione, concepita come una nuova epoca di pace, di prosperità e di libertà. La nuova (ennesima!) rivoluzione tecnologica nelle infrastrutture materiali (rete dei trasporti tradizionali: treni, navi e aerei) e immateriali (internet e le altre tecnologie “intelligenti”) finalmente consentiva anche alla singola piccola/media azienda radicata nel più sperduto e periferico angolo della Terra di offrire i suoi prodotti a mercati prima irraggiungibili sotto il decisivo profilo della redditività economica. Il produttore di salumi pregiati basato a Canicattì poteva finalmente realizzare un proficuo mercato di nicchia a New York, o a Tokio, senza per questo precipitare nella megalomania e nel fallimento. Insaccare su base locale, vendere su scala globale: si può fare! Tanto più che esistono ormai da tempo una moneta mondiale (il dollaro) e la lingua internazionale (l’inglese): dov’è il problema? Nessun problema. Pardon: no problem!
Scriveva Thomas L. Friedman, uno dei maggiori teorici della globalizzazione (in parte “pentito” dopo la crisi americana del 2007): «Nel mondo non ci sono solo microchip e mercati, ma anche uomini e donne con costumi, tradizioni, desideri e aspirazioni imprevedibili. Così, oggi, gli affari mondiali possono essere spiegati come un’interazione fra ciò che è nuovo, come un sito Internet, e ciò che è antico, come un contorto albero di ulivo sulle rive del Giordano» (Le radici del futuro, Mondadori). Perché mortificare le identità locali quando anch’esse possono venir messe in rete profittevolmente?
Trasportare – e ricevere – merci e informazioni in modo rapido e relativamente poco costoso da un luogo del pianeta a un altro lontanissimo (almeno secondo i vecchi parametri) ha reso possibile il glocal. La divisione internazionale del lavoro andava assumendo una nuova dimensione, generando una forte spinta alla specializzazione produttiva non solo in singole attività (nell’industria e nei servizi), ma in intere aree regionali inserite in ben definiti contesti geopolitici. Accanto a questo fenomeno prendeva vigore il processo di delocalizzazione di molte imprese del Nord sviluppato in direzione del Sud in via di sviluppo, là dove i costi dei «fattori della produzione» (a cominciare dalla forza-lavoro) erano più bassi, molto più bassi. L’Italia settentrionale è stata attraversata da entrambi i processi, con esiti molto contraddittori; ed entrambi i processi hanno trovato una puntuale manifestazione politica nella Lega.
Il «piccolo è bello» traduceva nella consueta postura ideologica la realtà di un Capitale sempre più potente, in grado di mobilitare e di mettere a profitto anche le più piccole e sperdute risorse, e di mettere in crisi tutto ciò che in qualche maniera si poneva come ostacolo a questa secolare tendenza.
Scriveva Ivaïlo Ditchev nel 2012, commentando – e deprecando – «il ritorno dell’Europa al feudalesimo» a causa dell’ondata separatista che dalla fine degli anni Novanta attraversa il Vecchio Continente (dalla Gran Bretagna alla Spagna, dalla Bulgaria al Belgio, dall’Italia alla Francia): «Per me, la ragione principale della disintegrazione dei territori nazionali va ricercata nella logica neoliberista, che ha nel profitto economico immediato la sua sola e unica giustificazione. Un paese, una regione o addirittura una città finiscono per considerarsi come un’impresa e agiscono in modo egoistico sul mercato globale» (Divisi come nel Medioevo, Chasa di Sofia, 3 dicembre 2012). Gli intellettuali cercano di spiegare tutto con la maligna «logica neoliberista», mentre il cono di luce va piuttosto orientato verso la sempre più stringente logica degli interessi economici, i quali oggi non possono non avere che una natura capitalistica. Capovolgere i termini reali del discorso; vedere il dominio delle idee sbagliate (ad esempio quelle cha fanno capo, appunto, alla «logica neoliberista») là dove dominano corpose potenze sociali: è qui che insiste il concetto di ideologia, almeno nella sua accezione marxiana che chi scrive usa.
La forza gravitazionale della prassi economica, sempre più forte e alla lunga irresistibile, ha indebolito il cemento politico, istituzionale e ideologico che un tempo era sufficiente a tenere insieme un territorio abbastanza omogeneo sotto il profilo linguistico, etnico e culturale. Questo fenomeno è ovviamente più visibile là dove l’unificazione nazionale di uno spazio geopolitico è avvenuta con modalità contraddittorie, tali comunque da non riuscire a superare le divisioni economico-sociali fra le vecchie entità territoriali assoggettate alla nuova forma statale-nazionale. È il caso di scuola offerto dall’Italia. Negli anni Novanta l’accelerazione della globalizzazione capitalistica e il nuovo ordine mondiale post Guerra Fredda hanno scoperto in modo drammatico le linee di frattura che corrono lungo il Bel Paese ormai da un secolo e mezzo. Di qui il fenomeno leghista, che all’epoca della sua comparsa la gran parte dell’intelligenza politica, storica e sociologica del Paese interpretò con i vecchi e spuntatissimi arnesi dell’ideologia progressista, del tutto incapace di andare oltre le sue apparenze, al di là della sua “popolana” fenomenologia, troppo rozza e politicamente scorretta per i raffinati gusti degli unionisti fedeli alla Sacra Carta. Costituzione che, è bene ricordarlo, all’Art. 5 sancisce l’unità e l’indivisibilità dell’italica nazione.
Di ritorno dall’esaltante campagna di Edimburgo, Matteo Salvini, sebbene amareggiato, non ha dismesso i panni del guerriero secessionista: «Adesso devono pronunciarsi il Veneto, la Lombardia, la Catalogna e tutti gli altri popoli europei che aspirano alla libertà». I sogni di “libertà” dei padani non si fanno intimidire tanto facilmente, tanto più quando la Scozia ha ottenuto da Londra più di quanto il leghista più acceso può oggi sperare di ottenere da «Roma ladrona», anche nell’ipotesi di un governo amico. Il lettore farebbe bene a non rubricarmi né fra i secessionisti né fra gli unionisti.
Il fatto che la parte economicamente più sviluppata di un Paese si senta attratta dall’insieme di Paesi – o anche solo da aree regionali di essi – che le sono più simili per struttura economica e per stratificazione sociale; e che a ragione di ciò avverta come oppressivo il quadro di riferimento statuale-nazionale nel quale essa è inserita, non è affatto in contraddizione con la tendenza alla formazione di grandi sistemi multinazionali in competizioni tra loro, ma è anzi il portato delle stesse leggi che informano la cosiddetta globalizzazione.
Scriveva nel lontanissimo 1971 Giovanni Magnifico: «Il processo di unione economica e monetaria dell’Europa andrebbe perseguito delimitando vaste aree economiche e raggruppandole in base alla loro capacità di sviluppare pienamente il loro potenziale produttivo. Ogni singolo gruppo potrebbe comprendere interi paesi membri, ma la delimitazione di ciascuno di essi potrebbe anche non coincidere con le frontiere nazionali» (Una moneta per l’Europa, Laterza). Non è un caso se oggi molti analisti politici attribuiscono alla formazione dell’Unione europea il potenziale processo di balcanizzazione che minaccia di disgregare le vecchie entità nazionali, le quali hanno dovuto cedere potere sia verso il basso, in direzione delle regioni, come verso l’alto, in direzione di Bruxelles. Senza contare le altre istituzioni sovranazionali, di natura politica e finanziaria, che oggi stressano i bulloni di ogni singolo sistema-Paese. Il solo blocco nazionale che sembra resistere a tutta questa pressione sistemica è quello (indovinate un po’) tedesco, il quale potrebbe acquisire nuovi vantaggi dal processo qui appena abbozzato; la forza relativa di Berlino potrebbe risultarne infatti accresciuta.
Secondo Gianfranco Miglio, il “teorico” del leghismo, «lo Stato nazionale è arrivato ormai alla conclusione della sua parabola storica»: «Nella vecchia logica dello Stato moderno si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia, la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale» (Ex uno Plures, Limes 4/93). La forza dell’economia, argomentava Miglio, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», ossia agglomerati economici e sociali che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali «ottocenteschi». «Ecco la radice del neofederalismo. È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato».
Cogliamo in queste frasi, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si ha la consapevolezza del carattere necessariamente contraddittorio del processo sociale che tali dinamiche generano, dovendo esse comunque misurarsi con la politica e con la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica.
Il professore salutava come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica – la cui massima espressione è quella che si esercita con l’uso dell’esercito –, ma sulla forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista». Quest’ultima opinione ricalca esattamente il pensiero del tedesco Ernst Nolte, teorico del cosiddetto «revisionismo storico», secondo il quale non si deve aver paura della forza economica e politica della Germania, perché essa se indubbiamente sente di poter giocare un ruolo importante per i destini del mondo, non nutre questa aspirazione in maniera esclusiva (e di fatti si pone alla testa dell’unione economica e politica dell’Europa), e soprattutto non è più alla ricerca di una sua supremazia militare (Intervista sulla questione tedesca, Laterza). Anche l’economista giapponese K. Ohmae ritiene che la morte dello Stato-nazione, e la sua sostituzione con lo «Stato-regione», avverrà spontaneamente, attraverso il libero dispiegamento dei mutamenti dell’economia mondiale che stanno ridisegnando la società-globale alle soglie del XXI secolo (La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Baldini & Castoldi).
Fine della prima puntata. La seconda è solo promessa – o minacciata.