SCOZIA E DINTORNI

enhanced-buzz-24426-1386157738-0Il filo di Scozia non si è dunque spezzato, come paventavano in molti. E come molti invece speravano. Pare che anche il virile Putin tifasse per la secessione: com’è noto, egli è un paladino del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Scherzo, è ovvio. Secondo Fabio Cavalera però, «Con la Scozia o senza la Scozia, da oggi il Regno Unito è diverso. L’esito del referendum avrà importanti ricadute costituzionali. E peserà sul futuro dei conservatori e dei laburisti. Se anche si scongiura la secessione, sarà inevitabile allargare gli spazi di sovranità della Scozia, a cominciare dalle tasse e dal welfare. E ciò significa viaggiare verso un assetto federale. Il Regno Unito da oggi è diverso» (Il Corriere della Sera, 19 settembre 2014). Opinione condivisa dal Times, che ieri annunciava «cambiamenti costituzionali di rilievo per l’intero Regno Unito: il primo ministro ha detto che garantisce che la promessa di devolvere le competenze su fisco, welfare e potere di erogare prestiti sarà pienamente rispettata con le proposte delineate a novembre. […] Ha anche aggiunto, tuttavia, che il cambiamento dovrebbe comprendere anche la cessione agli inglesi di maggiori poteri […] con lo stesso ritmo della devolution scozzese».

In effetti, non bisogna dimenticare le diverse magagne che da molto tempo travagliano il cuore politico-istituzionale del Regno Unito: «La concezione dell’Inghilterra come nazione omogenea che rappresenta il centro dell’unione ha dei grandi limiti. In primo luogo, ignora le fratture territoriali che attraversano la nazione inglese e respinge in maniera ostinata la presenza e il valore delle differenze non solo economiche, ma anche politiche, culturali, sociali e identitarie presenti soprattutto tra il Nord e il Sud del paese» (A. Giovannini, Limes, 28 agosto 2013). Lungi dal frenare definitivamente le spinte centrifughe, l’esito del referendum sembra aver piuttosto galvanizzato le rivendicazioni di maggiore autonomia (soprattutto nella politica fiscale e nelle politiche di gestione del Welfare: guarda il caso…) di quei soggetti politici e istituzionali di rango regionale che non intendono mettere in crisi l’assetto unitario del Paese.

Come sempre e ovunque, tutto gira intorno alla ricchezza sociale: alla sua produzione, alla sua distribuzione, alla sua allocazione, alla sua gestione a ogni livello della struttura sociale. Tutti i cittadini sono, infatti, coinvolti nella scottante faccenda, sebbene a diverso titolo: chi come imprenditore, chi come lavoratore, chi in qualità di pensionato, ovvero di studente, di disoccupato, di bisognoso di cure mediche e via di seguito. In questo contesto, la questione identitaria, che poi è quella che colpisce di più la cosiddetta opinione pubblica internazionale, non è che uno strumento politico-ideologico al servizio della spartizione del bottino.

Dopo il referendum scozzese niente sarà più come prima, e non solo in Gran Bretagna, com’è ovvio, ma anche nel resto d’Europa: non c’è analista di politica internazionale in circolazione nel Vecchio Continente che non condivida questa tesi. Certo, le capitali europee (ma anche Washington e Pechino) che temevano la balcanizzazione dell’Europa oggi tirano un grosso sospiro di sollievo, e possono affettare pose europeiste che tuttavia ormai non ingannano nessuno, nemmeno i più imbecilli fra i sudditi dell’Unione europea; ma il fatto stesso che un’entità nazionale-statale vecchia di tre secoli, e con alle spalle una storia così ricca e “gloriosa”, come solo poche altre nazioni possono vantare, sia stata ad appena un passo dalla catastrofe (almeno potenzialmente, sul piano ipotetico), ebbene tutto ciò deve necessariamente avere delle conseguenze di vasto raggio e di lungo periodo.

enhanced-buzz-5787-1386157741-9Capire il contesto storico e sociale generale nel cui seno sono maturate le spinte centrifughe che agiscono nel cuore della metropoli europea, può forse aiutarci a comprendere la natura dei fenomeni che potrebbero prendere corpo nel breve termine. Qui di seguito abbozzo un tentativo di analisi.

Il processo di globalizzazione del Capitale o, meglio, la brusca accelerazione che tale processo ha subito negli ultimi trent’anni, ha scosso nel profondo la struttura sociale delle comunità disseminate ovunque nel pianeta, non risparmiando nessuna di quelle loro realtà costitutive (Stato, nazione, famiglia, ecc.) che un tempo venivano considerate, se non immutabili per ciò che concerne la forma, certamente tetragoni a ogni cambiamento per quel che riguarda la loro intima sostanza. Invece, non c’è stata “sfera” della società che non sia stata lavorata a dovere (in profondità, capillarmente) dal processo economico-sociale, che non abbia dovuto arrendersi, dopo qualche resistenza, alle bronzee leggi dell’economia. Qui la società va considerata nella sua dimensione mondiale, che è poi la dimensione più adeguata al concetto e – soprattutto – alla prassi del Capitale.

Alla fine degli anni Novanta andava di moda il glocal, ricordate? «Pensare locale, agire globale», oppure «Piccolo è bello»: erano gli slogan preferiti dai teorici della globalizzazione, concepita come una nuova epoca di pace, di prosperità e di libertà. La nuova (ennesima!) rivoluzione tecnologica nelle infrastrutture materiali (rete dei trasporti tradizionali: treni, navi e aerei) e immateriali (internet e le altre tecnologie “intelligenti”) finalmente consentiva anche alla singola piccola/media azienda radicata nel più sperduto e periferico angolo della Terra di offrire i suoi prodotti a mercati prima irraggiungibili sotto il decisivo profilo della redditività economica. Il produttore di salumi pregiati basato a Canicattì poteva finalmente realizzare un proficuo mercato di nicchia a New York, o a Tokio, senza per questo precipitare nella megalomania e nel fallimento. Insaccare su base locale, vendere su scala globale: si può fare! Tanto più che esistono ormai da tempo una moneta mondiale (il dollaro) e la lingua internazionale (l’inglese): dov’è il problema? Nessun problema. Pardon: no problem!

Scriveva Thomas L. Friedman, uno dei maggiori teorici della globalizzazione (in parte “pentito” dopo la crisi americana del 2007): «Nel mondo non ci sono solo microchip e mercati, ma anche uomini e donne con costumi, tradizioni, desideri e aspirazioni imprevedibili. Così, oggi, gli affari mondiali possono essere spiegati come un’interazione fra ciò che è nuovo, come un sito Internet, e ciò che è antico, come un contorto albero di ulivo sulle rive del Giordano» (Le radici del futuro, Mondadori). Perché mortificare le identità locali quando anch’esse possono venir messe in rete profittevolmente?

Trasportare – e ricevere – merci e informazioni in modo rapido e relativamente poco costoso da un luogo del pianeta a un altro lontanissimo (almeno secondo i vecchi parametri) ha reso possibile il glocal. La divisione internazionale del lavoro andava assumendo una nuova dimensione, generando una forte spinta alla specializzazione produttiva non solo in singole attività (nell’industria e nei servizi), ma in intere aree regionali inserite in ben definiti contesti geopolitici. Accanto a questo fenomeno prendeva vigore il processo di delocalizzazione di molte imprese del Nord sviluppato in direzione del Sud in via di sviluppo, là dove i costi dei «fattori della produzione» (a cominciare dalla forza-lavoro) erano più bassi, molto più bassi. L’Italia settentrionale è stata attraversata da entrambi i processi, con esiti molto contraddittori; ed entrambi i processi hanno trovato una puntuale manifestazione politica nella Lega.

Il «piccolo è bello» traduceva nella consueta postura ideologica la realtà di un Capitale sempre più potente, in grado di mobilitare e di mettere a profitto anche le più piccole e sperdute risorse, e di mettere in crisi tutto ciò che in qualche maniera si poneva come ostacolo a questa secolare tendenza.

Scriveva Ivaïlo Ditchev nel 2012, commentando – e deprecando – «il ritorno dell’Europa al feudalesimo» a causa dell’ondata separatista che dalla fine degli anni Novanta attraversa il Vecchio Continente (dalla Gran Bretagna alla Spagna, dalla Bulgaria al Belgio, dall’Italia alla Francia): «Per me, la ragione principale della disintegrazione dei territori nazionali va ricercata nella logica neoliberista, che ha nel profitto economico immediato la sua sola e unica giustificazione. Un paese, una regione o addirittura una città finiscono per considerarsi come un’impresa e agiscono in modo egoistico sul mercato globale» (Divisi come nel Medioevo, Chasa di Sofia, 3 dicembre 2012). Gli intellettuali cercano di spiegare tutto con la maligna «logica neoliberista», mentre il cono di luce va piuttosto orientato verso la sempre più stringente logica degli interessi economici, i quali oggi non possono non avere che una natura capitalistica. Capovolgere i termini reali del discorso; vedere il dominio delle idee sbagliate (ad esempio quelle cha fanno capo, appunto, alla «logica neoliberista») là dove dominano corpose potenze sociali: è qui che insiste il concetto di ideologia, almeno nella sua accezione marxiana che chi scrive usa.

La forza gravitazionale della prassi economica, sempre più forte e alla lunga irresistibile, ha indebolito il cemento politico, istituzionale e ideologico che un tempo era sufficiente a tenere insieme un territorio abbastanza omogeneo sotto il profilo linguistico, etnico e culturale. Questo fenomeno è ovviamente più visibile là dove l’unificazione nazionale di uno spazio geopolitico è avvenuta con modalità contraddittorie, tali comunque da non riuscire a superare le divisioni economico-sociali fra le vecchie entità territoriali assoggettate alla nuova forma statale-nazionale. È il caso di scuola offerto dall’Italia. Negli anni Novanta l’accelerazione della globalizzazione capitalistica e il nuovo ordine mondiale post Guerra Fredda hanno scoperto in modo drammatico le linee di frattura che corrono lungo il Bel Paese ormai da un secolo e mezzo. Di qui il fenomeno leghista, che all’epoca della sua comparsa la gran parte dell’intelligenza politica, storica e sociologica del Paese interpretò con i vecchi e spuntatissimi arnesi dell’ideologia progressista, del tutto incapace di andare oltre le sue apparenze, al di là della sua “popolana” fenomenologia, troppo rozza e politicamente scorretta per i raffinati gusti degli unionisti fedeli alla Sacra Carta. Costituzione che, è bene ricordarlo, all’Art. 5 sancisce l’unità e l’indivisibilità dell’italica nazione.

Di ritorno dall’esaltante campagna di Edimburgo, Matteo Salvini, sebbene amareggiato, non ha dismesso i panni del guerriero secessionista: «Adesso devono pronunciarsi il Veneto, la Lombardia, la Catalogna e tutti gli altri popoli europei che aspirano alla libertà». I sogni di “libertà” dei padani non si fanno intimidire tanto facilmente, tanto più quando la Scozia ha ottenuto da Londra più di quanto il leghista più acceso può oggi sperare di ottenere da «Roma ladrona», anche nell’ipotesi di un governo amico. Il lettore farebbe bene a non rubricarmi né fra i secessionisti né fra gli unionisti.

Il fatto che la parte economicamente più sviluppata di un Paese si senta attratta dall’insieme di Paesi – o anche solo da aree regionali di essi – che le sono più simili per struttura economica e per stratificazione sociale; e che a ragione di ciò avverta come oppressivo il quadro di riferimento statuale-nazionale nel quale essa è inserita, non è affatto in contraddizione con la tendenza alla formazione di grandi sistemi multinazionali in competizioni tra loro, ma è anzi il portato delle stesse leggi che informano la cosiddetta globalizzazione.

enhanced-buzz-24921-1386157740-0Scriveva nel lontanissimo 1971 Giovanni Magnifico: «Il processo di unione economica e monetaria dell’Europa andrebbe perseguito delimitando vaste aree economiche e raggruppandole in base alla loro capacità di sviluppare pienamente il loro potenziale produttivo. Ogni singolo gruppo potrebbe comprendere interi paesi membri, ma la delimitazione di ciascuno di essi potrebbe anche non coincidere con le frontiere nazionali» (Una moneta per l’Europa, Laterza). Non è un caso se oggi molti analisti politici attribuiscono alla formazione dell’Unione europea il potenziale processo di balcanizzazione che minaccia di disgregare le vecchie entità nazionali, le quali hanno dovuto cedere potere sia verso il basso, in direzione delle regioni, come verso l’alto, in direzione di Bruxelles. Senza contare le altre istituzioni sovranazionali, di natura politica e finanziaria, che oggi stressano i bulloni di ogni singolo sistema-Paese. Il solo blocco nazionale che sembra resistere a tutta questa pressione sistemica è quello (indovinate un po’) tedesco, il quale potrebbe acquisire nuovi vantaggi dal processo qui appena abbozzato; la forza relativa di Berlino potrebbe risultarne infatti accresciuta.

Secondo Gianfranco Miglio, il “teorico” del leghismo, «lo Stato nazionale è arrivato ormai alla conclusione della sua parabola storica»: «Nella vecchia logica dello Stato moderno si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia, la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale» (Ex uno Plures, Limes 4/93). La forza dell’economia, argomentava Miglio, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», ossia agglomerati economici e sociali che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali «ottocenteschi». «Ecco la radice del neofederalismo. È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato».

Cogliamo in queste frasi, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si ha la consapevolezza del carattere necessariamente contraddittorio del processo sociale che tali dinamiche generano, dovendo esse comunque misurarsi con la politica e con la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica.

Il professore salutava come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica – la cui massima espressione è quella che si esercita con l’uso dell’esercito –, ma sulla forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista». Quest’ultima opinione ricalca esattamente il pensiero del tedesco Ernst Nolte, teorico del cosiddetto «revisionismo storico», secondo il quale non si deve aver paura della forza economica e politica della Germania, perché essa se indubbiamente sente di poter giocare un ruolo importante per i destini del mondo, non nutre questa aspirazione in maniera esclusiva (e di fatti si pone alla testa dell’unione economica e politica dell’Europa), e soprattutto non è più alla ricerca di una sua supremazia militare (Intervista sulla questione tedesca, Laterza). Anche l’economista giapponese K. Ohmae ritiene che la morte dello Stato-nazione, e la sua sostituzione con lo «Stato-regione», avverrà spontaneamente, attraverso il libero dispiegamento dei mutamenti dell’economia mondiale che stanno ridisegnando la società-globale alle soglie del XXI secolo (La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Baldini & Castoldi).

Fine della prima puntata. La seconda è solo promessa – o minacciata.

POVERA PATRIA EUROPEA…

Eurozone Debt Crisis - General ImageryNon c’è editoriale dedicato all’odierna tornata elettorale europea che non punti i riflettori sul seguente (apparente) paradosso: l’Europa è, «nonostante tutto», la prima potenza economica mondiale (in termini di produzione industriale, di espansione commerciale, di Pil, di capacità tecno-scientifiche, di reddito pro capite, ecc.), ma il suo peso geopolitico è pressoché irrilevante. E questa contraddizione appare tanto più evidente e grave oggi, quando 1) l’attivismo russo a Est rischia di far precipitare il mondo in una nuova “guerra fredda”, 2) la relazione strategica sempre più stretta tra Russia e Cina sposta la bilancia del potere mondiale verso l’Oriente «autoritario», 3) gli Stati Uniti sembrano invischiati in un isolazionismo che pretende dai partner europei una partecipazione all’Alleanza Atlantica «più adulta e attiva».

Il paradosso è solo apparente perché, come sanno benissimo gli editorialisti che oggi versano molte lacrime sull’«identità perduta del sogno europeista», non esiste l’Europa come coerente e unitario spazio geopolitico (non esistono, tanto per intenderci, gli Stati Uniti d’Europa oggi evocati da Roberto Napoletano sul Sole 24 Ore). . Giustamente Adriana Cerretelli (Il Sole 24 Ore) fa notare che oggi la contesa sistemica fra gli Stati si dà come confronto fra «colossi regionali», e che in questo contesto, per la verità non nuovo, la dimensione degli Stati nazionali europei è troppo piccola per reggere il confronto con i protagonisti della politica mondiale: solo unendosi essi possono realizzare quella massa critica idonea a togliere il Vecchio Continente dall’attuale condizione di irrilevanza geopolitica. Ma questa necessità deve fare i conti ancora una volta con la maledetta Questione Tedesca.

Come ho altre volte scritto, la genesi dell’Unione europea ha due fondamentali, e alla lunga contraddittori, centri propulsori: uno fa capo alla necessità di mettere sotto stretto controllo la potenza sistemica tedesca, progetto che ha trovato il suo maggiore sostegno nella Francia, nell’Inghilterra e negli Stati Uniti; l’altro va individuato appunto nella necessità avvertita soprattutto dai Paesi europei di maggior peso politico-militare (Francia e Inghilterra) di non scivolare definitivamente nella più completa inconsistenza geopolitica, almeno là dove residua il loro retaggio coloniale. Soprattutto la Francia ha cercato di usare la potenza economica della Germania in questa chiave, che ben si armonizza con la famigerata, e sempre più insipida e annacquata, grandeur cucinata a Parigi.

L’atteggiamento dei francesi nei confronti dei “cugini” tedeschi è sempre stato (almeno dal 1870 in poi) piuttosto ambivalente, e per certi versi si può persino parlare di una sorta di amore-odio, di un’attrazione fatale respinta con tanta più sdegnata retorica nazionalista quanto più essa si è fatta forte e a volte irresistibile.

Nel 1946 George Orwell notava con la consueta cruda ironia: «In questo momento, con la Francia nuovamente liberata e con la caccia alle streghe verso i collaborazionisti in pieno corso, siamo inclini a dimenticare che, nel 1940, vari osservatori sul posto stimarono che circa il quaranta per cento della popolazione francese era o attivamente a favore dei tedeschi o completamente apatica» (Arthur Koestler).

Scrivevo su un post del 2013 (Francia e Germania ai ferri corti): Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy (Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore), l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: Travail, Famille, Patrie.

Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale salvatore della patria i conti non tornavano.

Questo solo per ribadire quanto stucchevole e ingannevole sia l’attuale piagnisteo intorno all’Europa «gigante economico e nano politico». Una credibile e sostenibile Unione europea non può non avere la Germania come suo asse centrale portante: è intorno a questo dato di fatto, che i critici europeisti dell’egemonia tedesca fanno finta di non vedere, che si gioca la guerra sistemica in corso in Europa.

Come sempre il processo storico non dipende dal “gioco democratico” che oggi celebra il suo momento più significativo (e ideologico, nell’accezione più pregnante del concetto), ma dai rapporti di forza e dagli interessi in gioco. Il rito elettorale è funzionale a un processo sociale di respiro nazionale e internazionale che annulla gli elettori come soggetti politici e, soprattutto, come uomini.

imagesDa Facebook (26 maggio)

La natura economica della supremazia tedesca nel Vecchio Continente

Scrive Hans Kundnani (Esporto, dunque sono. Il ritorno del nazionalismo tedesco, Limes, 26 maggio 2014):

I quotidiani greci hanno paragonato più volte il cancelliere Angela Merkel ad Adolf Hitler; quando Merkel ha visitato Atene, nell’ottobre 2012, manifestanti hanno bruciato bandiere tedesche con sopra la svastica, hanno indossato uniformi naziste e mostrato striscioni con lo slogan «Hitler, Merkel – stessa merda».

Sempre nel 2012 il Corriere della Sera ha dichiarato che «l’Italia non è più in Europa, ora fa parte del Quarto Reich». Nel 2013 anche un editoriale dello spagnolo El País ha equiparato Merkel al Führer. Molti studiosi parlano del riemergere della «questione tedesca»: vi è un intenso dibattito circa il vero o presunto esercizio da parte di Berlino di un’egemonia sul Vecchio Continente e alcuni, come George Soros o Martin Wolf, intravedono addirittura l’emergere di una sorta di «impero» tedesco dentro l’Europa. Persino Anthony Giddens scrive che «la Germania sembra aver raggiunto con mezzi pacifici quanto non era riuscita a ottenere mediante la conquista militare: il dominio dell’Europa».

***

Tra l’altro, a mio parare, ciò avvalora la tesi secondo la quale l’Imperialismo moderno è innanzitutto un fenomeno la cui genesi è radicata profondamente e “strutturalmente” nell’economia capitalistica. La potenza economica degli Stati Uniti fu alla base del loro successo nelle due guerre mondiali del XX secolo e nella cosiddetta “guerra fredda”. La potenza economica tedesca ha permesso alla Germania di ricomporre il suo spazio nazionale, spezzato violentemente nel 1945, senza sparare un solo colpo di cannone. “Sparare” merci, invenzioni e tecnologie è alla base di quel successo tedesco che tanta invidia procura soprattutto ai “cugini” francesi.

La “pacifica” prassi economica attesta insomma la straordinaria forza dell’Imperialismo del XXI secolo – ovviamente sto parlando anche della Cina e della Russia.

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GEORGE ORWELL E IL VENTRE DELLO STALINISMO

george-orwell-bookLo stalinismo non fu una forma imperfetta o degenerata di comunismo, quanto piuttosto un’assoluta negazione – nella teoria e nella prassi – di quest’ultimo. Come ho scritto altrove, bisogna esercitare la massima ostilità critica nei confronti di chi, da sedicente “comunista”, continua a interpretare lo stalinismo come la continuazione dell’Ottobre con altri mezzi, nelle mutate circostanze interne e internazionali. Il Professor Sabino Cassese, ieri ospite della “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, tra le tante sciocchezze ammannite al pubblico televisivo («Dal 1848 a oggi quasi l’intero Manifesto comunista di Marx ed Engels è stato realizzato») ha pure proferito la seguente perla storiografica: «Il comunismo sovietico fu una versione asiatica e zarista del comunismo marxista». Solo l’altra ospite, la “comunista” Luciana Castellina, è riuscita a superare l’Emerito in fatto di baggianate. E anche questo suona tutt’altro che strano alle mie orecchie. Trattasi dei «bassifondi mentali», per dirla con Orwell, dell’italico “comunismo”.

Lo stalinismo come espressione-strumento: 1. della controrivoluzione capitalistica internazionale dopo l’ondata rivoluzionaria postbellica, 2. dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati in Russia e 3. della continuità imperialistica della Russia (di qui anche la scelta di promuovere innanzitutto l’industria pesante, a detrimento dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura): questa, in estrema sintesi, è la tesi antistalinista che da sempre sostengo contro il partito del «socialismo reale» e contro il partito del Libro nero del comunismo. Inutile dire che per me quei due partiti non sono che le facce della stessa escrementizia medaglia.

Oggi mi servo, per così dire, del grande George Orwell per illuminare almeno un poco un aspetto dello stalinismo internazionale, e precisamente quello relativo ai giovani della classe media inglese (e occidentale in genere) in rapida decomposizione a causa della profonda crisi economica e agli intellettuali inglesi (e occidentali) “di sinistra” che negli anni Trenta del secolo scorso iniziarono a simpatizzare per l’Unione Sovietica, finendo per aderire completamente alla Chiesa Moscovita. Come il lettore avrà modo di capire, non parlo casualmente di Chiesa Moscovita. Cito alcune significative pagine di un breve saggio di critica letteraria, Nel ventre della balena, scritto dall’autore de La fattoria degli animali (1945) e di 1984 (1949) * nel 1940, cioè quando il patto russo-tedesco ancora reggeva. La portata universale e l’attualità della riflessione orwelliana appariranno di immediata evidenza alla considerazione del lettore avvezzo a non fermarsi sui riferimenti radicati su una contingenza storica ormai superata. D’altra parte, il senso di questo modesto post non è quello di alimentare una sterile polemica contro lo stalinismo residuale (vetero, post o 2.0 che sia), quanto quello di contribuire a tenere alta la guardia della critica rispetto ai fenomeni sociali dei nostri tempi, soprattutto quando essi coinvolgono le “larghe masse”.

A mio avviso, la logica e la prassi del Dominio oggi fanno impallidire le pur fosche aspettative di George Orwell, a dimostrazione che in assenza dell’uomo in quanto uomo, dell’uomo propriamente detto sognato e agognato dal migliore e fecondo pensiero di ogni epoca, tutto il peggio non è solo possibile ma assai probabile, ossia nell’ordine “naturale” delle cose. Buona lettura e ottima domenica a tutti.

libri-george-orwell-1984-l-hmgtksIl movimento è nella direzione di qualcosa non molto ben definita che si chiama comunismo. Fino al 1935 era considerato eccentrico negli ambienti letterari non essere più o meno “di sinistra” e un altro paio d’anni dopo si formò un’ortodossia di sinistra per la quale un certo gruppo d’opinione era diventato di rigore su certi argomenti. Aveva cominciato a guadagnar terreno l’idea che, o uno scrittore è fervidamente di sinistra, o non è scrittore. Tra il 1935 e il 1939 il Partito comunista esercitò un fascino quasi irresistibile sugli scrittori sotto i quarant’anni.

[…]

Com’è stata possibile una cosa del genere? E nello stesso tempo che cosa s’intendeva per “comunismo”? Sarà meglio rispondere subito alla seconda domanda. Il movimento comunista nell’Europa occidentale sorse come violenta opposizione al capitalismo, per degenerare in pochi anni in strumento della politica estera russa. Cosa probabilmente inevitabile quando il fermento rivoluzionario seguito alla guerra mondiale si spense … È più che naturale, quindi, che il movimento comunista inglese sia controllato da uomini che, mentalmente asserviti alla Russia, non hanno altro scopo che foggiare la politica estera britannica secondo gli interessi russi. Ché l’URSS non ha in politica estera più scrupoli delle altre grandi potenze. Alleanze, rovesciamenti di fronte ecc., che hanno un senso solo se parte del gioco della politica di forza, devono essere spiegati e giustificati in termini di socialismo internazionale. Ogni qualvolta Stalin cambia soci, il “marxismo” deve essere foggiato a colpi di maglio in una nuova forma **. Ciò implica bruschi e violenti mutamenti di “linea del partito”, epurazioni, denuncia, sistematica distruzione delle pubblicazioni del partito ecc. ecc. Il dogma indiscutibile del lunedì può diventare la condannabile eresia del martedì e così via. Ciò è avvenuto almeno tre volte da dieci anni a questa parte. Gli iscritti di un partito comunista occidentale da lunga data fanno in realtà parte di una catena di intellettuali, identificatisi con la burocrazia russa, e di un corpo lievemente più numeroso di lavoratori, fedeli alla Russia sovietica senza necessariamente comprenderne la politica.

[…]

Nel ’35 la faccia dell’Europa era cambiata e con essa cambiò la politica delle sinistre. Hitler era salito al potere e aveva cominciato a riarmarsi, il piano quinquennale sovietico era stato coronato dal successo. La Russia ricomparve come grande potenza militare. Poiché i tre bersagli di Hitler sembravano essere la Gran Bretagna, la Francia e l’URSS, i tre paesi furono costretti a una specie di penoso rapprochement. Questo significava che il comunista inglese o francese era obbligato a diventare un buon patriota e un buon imperialista: cioè a difendere proprio quelle cose che aveva attaccato per quindici anni. Gli slogan del Comintern bruscamente passarono dal rosso al rosa. “Rivoluzione mondiale” e “Socialfascismo” cedettero il posto a “Difesa della democrazia” e “Fermiamo Hitler” ***.

[…]

Ma perché nel mondo del 1935 quei giovani si orientarono verso una cosa così estranea a loro come il comunismo russo? Perché degli scrittori dovevano essere attratti da una forma di socialismo che rende l’onestà una cosa impossibile? La spiegazione sta in un fatto che s’era già annunciato prima della crisi economica e prima di Hitler: la mancanza di lavoro della classe media. La mancanza di lavoro non è semplicemente un fatto di disoccupazione

[…]

StalinLeggeLenin11La civiltà occidentale aveva raggiunto il suo massimo culmine di autosvalutazione e il “disinganno” era immensamente diffuso. Chi poteva più prendere sul serio di passar tutta la propria vita nel solito modo della classe media, facendo la carriera militare o ecclesiastica, l’agente di cambio o il funzionario statale in India, o che so io? E quanti di quei valori per i quali i nostri padri avevano vissuto potevano ora essere presi sul serio? […] È significativo che questa gente riparasse quasi sempre nel cattolicesimo di Roma e non, per esempio, nella Chiesa d’Inghilterra, in quella greca o in qualcuna delle sette protestanti. Riparavano, cioè, nella chiesa che aveva un’organizzazione mondiale, una rigida disciplina, grande potere e prestigio. Né credo sia necessario cercare oltre il motivo onde i giovani scrittori del 1935 sciamarono nel o verso il Partito comunista. Era semplicemente per avere qualcosa in cui credere. C’era una chiesa, un esercito, un’ortodossia, una disciplina. C’era una Patria e un Führer. Tutti i fanatismi e le superstizioni che l’intelletto aveva apparentemente bandito potevano riaffluire, sotto un lievissimo travestimento. Patriottismo, religione, impero, gloria militare, tutto in una sola parola: Stalin. Dio: Stalin. Il diavolo: Hitler. Il paradiso: Mosca. L’inferno: Berlino. Titti i vuoti venivano colmati. Così, dopo tutto, il comunismo degli intellettuali inglesi è qualcosa di abbastanza spiegabile.

[…]

Non c’è da meravigliarsi dunque che la gran tribù nota come “la gente di sinistra” non abbia avuto nessuna obiezione ad ammettere l’aspetto “purghe-Ghepù” del regime russo e gli orrori del piano quinquennale. Erano splendidamente incapaci di capire che cosa esattamente significassero ****.

1984-ingsoc* «Si tratta», scrive Teresa Cremisi nella Prefazione a La fattoria degli animali (Mondadori, 1985), «di opere uscite in momenti politicamente difficili e obiettivamente “inopportuni” secondo il parere della maggior parte degli esponenti dell’intellighenzia europea e americana. Soprattutto turbava il fatto che denunciasse in piena guerra, prima e dopo l’assedio di Stalingrado, gli elementi comuni che avvicinavano stalinismo a nazismo». Proprio questa inopportunità bisogna invece apprezzare, perché quasi tutti son bravi a nuotare nel senso della corrente, che allora nei Paesi “antifascisti” e “antinazisti” aveva nell’alleanza imperialistica centrata sull’Unione Sovietica e sugli Stati Uniti il suo potente motore. «Turbava e sconcertava – continua Cremisi – il fatto che un uomo di grande onestà intellettuale, legato al proletariato e alla sinistra internazionale da vincoli profondi e viscerali, indicasse in un apologo sferzante e in un lungo disperato romanzo gli orrori ai quali era giunta l’idea marxista nei paesi socialisti. ». Come ho scritto sopra, il fenomeno storico-sociale che porta il nome di Stalin non ha nulla a che fare con il marxismo, il quale peraltro è, a mio avviso, il solo strumento concettuale, al contempo politico e teorico, che permette un’adeguata interpretazione di quel fenomeno maledettamente dialettico nella sua genesi storica e sociale. Talmente dialettico, che perfino una persona dalla non comune intelligenza, dalla vasta cultura e dalla grande esperienza politica come fu indubbiamente Trotsky, ossia il più stretto collaboratore di Lenin durante il Grande Azzardo rivoluzionario del ’17, rimase impigliato alla superficie del fenomeno (di qui la denuncia della «cricca burocratica», del «Termidoro», del «bonapartismo» di Stalin, ecc.), mentre per l’essenziale il suo significato storico e sociale gli rimase inaccessibile.   Un simile destino toccò peraltro a gran parte dei comunisti russi e occidentali. Ora, siccome di “marxismi” ce ne sono stati – e purtroppo ce ne sono ancora – fin troppi, da tempo ho scelto il “disarmo unilaterale” dichiarandomi un perfetto non marxista.

** «Il partito che sventolava la bandiera rossa e che cantava l’Internazionale, non inciuciò forse persino con i nazifascisti ai tempi della grosse koalition russo-tedesca del 1939? Quanti sforzi fece allora il compagno Ercoli, il migliore degli stalinisti europei, per convincere un partito che si attardava sulla vecchia linea! E poi, mutatis mutandis, venne l’inciucio con Badoglio, e ancora dopo, e sempre cambiando quel che c’è da cambiare, ci fu l’inciucio, pardon: il «compromesso storico» con Moro (santificato dai “comunisti” solo dopo il suo assassinio) e Andreotti, seguì l’inciucio con il compagno Bettino, al quale l’onesto Enrico elemosinò l’appoggio in sede di Internazionale Socialista. E che sarà mai l’inciucio con il Caimano!» (Elogio dell’inciucio).

*** «Eventi spaventosi – come la carestia ucraina del 1933 – che provocano la morte di milioni di individui sono in realtà sfuggiti all’attenzione della maggioranza degli inglesi russofili […] Gli avvenimenti che si vorrebbe non fossero accaduti vengono ignorati e alla fine negati. Nel 1927 Chiang Kai-shek bruciò vivi centinaia di comunisti e ciò nonostante, in dieci anni, è divenuto uno degli eroi della sinistra. Poiché il riallineamento della politica mondiale lo ha portato nel campo antifascista, ci si accorge che il rogo dei comunisti non “conta” e forse non è mai accaduto» (G. Orwell, Appunti sul nazionalismo, 1945, in Nel ventre della balena, pp. 174-175). In certe circostanze, perfino 2 + 2 può dare (deve dare) come risultato un bel 5. È la stringente – matematica! – Logica del Dominio.

**** G. Orwell, Nel ventre della balena, pp. 151-156, RCS editori, 2010.

IL PIANTO GRECO DI CARLO FORMENTI

«Con la scusa di “risanare” un territorio urbano che le esauste casse delle amministrazioni locali (falcidiate dai tagli dei governi neoliberisti) non riescono più a curare, industrie e società finanziarie globali allungano gli artigli sugli spazi pubblici che, una volta trasformati in proprietà privata, non vengono più presidiati e difesi dalla polizia ma da guardie armate assoldate dai nuovi padroni. Così lo spazio pubblico si restringe e si restringono anche i diritti di fruizione che tradizionalmente lo regolavano, sostituiti dall’arbitraria volontà dei proprietari fatta valere con la forza». Questo scriveva ieri Carlo Formenti sul blog di MicroMega, commentando la «durissima polemica sulla privatizzazione degli spazi pubblici» in corso in Inghilterra, anch’essa alle prese con la crisi economica che “travaglia” l’intero Occidente.

Denunciare la disumana potenza espansiva del Capitale, il suo sempre più incalzante totalitarismo sociale – che, a volte, indossa i panni del totalitarismo politico, l’eccezione che, per dirla con Carl Schmitt, spiega la regola e se stessa –, è il minimo sindacale che ci si deve aspettare da un pensiero che si vuole critico. Ma Formenti non esercita la critica, bensì la lamentela, anzi: l’indignazione, per citare articoli alla moda. Egli fa l’apologia di un Capitalismo rispettoso dei «diritti di fruizione», del contratto sociale e dei beni pubblici, e con ciò stesso mostra tutta la sua – inconsapevole, e perciò ancora più disarmata – subalternità nei confronti dell’ideologia dominante, la quale, come diceva Quello, è l’ideologia della classe dominante. Necessariamente. E l’ideologia ancora dominante, anche nella patria del modello «liberista-selvaggio» tanto disprezzato dai progressisti, è quella che vuole l’economia essere rispettosa dei «diritti umani», dei lavoratori, dell’ambiente e balle speculative dello stesso tenore. E se non lo è, a cagione dei soliti cinici operatori economici (i vampiri dell’Alta Finanza in testa!), ovvero a causa di politici corrotti e/o incapaci, potrebbe esserlo, di più: dovrebbe esserlo.

Non mi stancherò mai di ripetere che nella società capitalistica in generale, e in quella del XXI secolo in particolare, ossia nella fase totale del Capitale (un concetto che ingloba tanto la sua dimensione geosociale quanto la sua dimensione esistenziale: tutti noi!) il bene comune è una menzogna, dietro la quale si cela la realtà di rapporti sociali interamente orientati al massimo e immediato profitto. Come ho scritto nel mio modesto lavoro “economico” criticando i teorici del benecomunismo, oggi «non esiste alcun “Comune”, perché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o “globale”) appartiene con Diritto – ossia con forza, con vio­lenza – al Capitale, privato o pubblico che sia. Il Capitale non si appropria arbitrariamente “il Comune”, non lo “privatizza”, ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasfor­mare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia» (Dacci oggi il nostro pane quotidiano).

Come dimostra Marx (vedi Il segreto dell’accumulazione originaria, Il Capitale, I, cui peraltro fa riferimento lo stesso Formenti all’inizio del suo pezzo), parlare di proprietà comune  (e, per estensione, di Comune, bene comune, bene pubblico) dopo il XVIII secolo è un puro anacronismo, almeno in Inghilterra e nelle metropoli del Capitalismo mondiale. Si desidera illudere se stessi e la gente che esiste, nel XXI secolo, un Comune da difendere con le unghie e con i denti dall’assalto del «neoliberismo» e dalla «cupidigia del capitalismo post moderno»? Accomodatevi! Di certo non sarò mai con i nostalgici del Capitalismo del bel tempo che fu – quando, detto di passata, esisteva ancora il «socialismo reale», il quale, dopo tutto, non era poi così male, a parte qualche piccola magagna…

«Da noi, intanto, il governo dei “tecnici” ci ha appena comunicato che, per risanare i buchi del pubblico bilancio, metterà in vendita i pezzi pregiati del nostro patrimonio pubblico, sia a livello dei beni dello stato centrale, sia a livello dei beni del governo locale: beni mobili e immobili, beni demaniali, partecipazioni in imprese municipalizzate e quant’altro finiranno nelle mani di privati che ne faranno ciò che vorranno (li trasformeranno cioè in fonti di profitto ignorando interessi e diritti dei comuni cittadini)». Nella società capitalistica comanda la totalitaria legge del profitto: che scandalo!

La crisi economica ha reso evidente quello che le briciole materiali e “spirituali” dei tempi cosiddetti grassi nascondevano, e cioè il fatto che tutto quello che in qualche modo entra in conflitto con le esigenze dell’accumulazione capitalistica deve venir spazzato via. È solo una questione di tempo. Tutti i diritti particolari devono fare i conti con questo diritto universale, il quale sta scritto nella prassi, nel linguaggio della vita reale, sempre per civettare con l’ubriacone di Treviri, non certo sui libri sacri che cianciano di «diritti umani», contratti sociali, beni comuni, e luogocomunismi di identico vile conio. Ad esempio, un Welfare che non si armonizza più con il processo che sempre di nuovo crea la ricchezza sociale deve necessariamente confessare il proprio fallimento. agli inizi degli anni Ottanta la Thatcher in Inghilterra e Reagan negli Stati Uniti si limitarono a ratificare un dato di fatto. Oggi ci risiamo.

Tra l’altro, e a dimostrazione di quanto dinamici, fluidi e transitori siano i rapporti di forza intercapitalistici, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso spettò all’Inghilterra assumere i panni della cicala dispendiosa, del Paese infetto e reietto – vedi l’odierna Grecia. Nel 1976 Stati Uniti e Germania Federale accusarono la spesa pubblica inglese di ostacolare la ripresa del ciclo economico, e intimarono il governo di Sua Maestà a procedere sulla via del «rigore economico», ossia delle privatizzazioni e del taglio della spesa pubblica. Datevi una mossa con la spending review! Nel dicembre di quell’anno Londra, dopo aver assicurato gli “alleati” circa la sua volontà di voler mettere la testa a posto, ricevette dal FMI un prestito di 3,9 miliardi di dollari. Chiudo la breve digressione “storica”.

Allora bisogna prendere atto della maligna natura del Capitale, e del Leviatano che ne è il cane da guardia, senza fiatare? Tutt’altro! Prendere coscienza della reale natura della potenza sociale che ci tiranneggia, sia durante i boom economici, sia nel corso delle crisi economiche, tanto nel seno della forma democratica del dominio sociale, quanto in quella dittatoriale; assumere questa radicale consapevolezza significa capire con che cosa abbiamo a che fare e scoprire le straordinarie potenzialità sociali che pulsano nel ventre del Dominio.

Il problema non è «il neoliberismo all’assalto dei beni pubblici», ma il Capitale (il rapporto sociale capitalistico) all’assalto dell’intero spazio esistenziale degli individui. È con questa consapevolezza che dobbiamo approcciare il terreno delle lotte parziali, le quali, hegelianamente, lasciano intravedere scenari di più vasta e ambiziosa portata. A patto che si abbandoni la miseranda prospettiva della difesa di uno status quo (il vecchio Welfare, il vecchio «patto sociale» ecc.) che il processo sociale mondiale (vedi l’ascesa capitalistica della Cina, dell’India, del Brasile e via discorrendo) ha reso obsoleto ormai da decenni, e a cui la crisi economica ha inferto l’ultimo colpo, forse il decisivo.

Dopo l’esito delle elezioni in Grecia Formenti appare sconsolato, depresso, pessimista fino al “qualunquismo”: «Tanto, come dimostra il caso greco, la casta neoliberista attribuisce al voto popolare lo stesso valore della carta igienica con cui si pulisce il lato B. Il tutto nell’assordante silenzio delle forze politiche che hanno ancora la faccia tosta di definirsi “di sinistra”. Fino a quando permetteremo loro di abusare della nostra pazienza?». Casta neoliberista versus forze del progresso: ecco in quali ideologici (falsi) termini il Nostro ha interpretato il rito democratico della “fatale” domenica. Peraltro, non la «casta neoliberista» ma l’ormai ultrasecolare prassi capitalistica – nell’accezione sociale, e non meramente economica, del concetto –  si è incaricata di attestare la funzione igienica delle elezioni. Ci vuole davvero molta pazienza nell’esercizio della critica, la quale il più delle volte si risolve nel trattamento chimico di ciò che «il lato B» ama rilasciare a testimonianza di una buona digestione.