IRAN. ORRORE UMANO

Dopo una serie di ridicoli quanto cinici tentativi intesi a negare le proprie dirette responsabilità, «L’Iran ammette di aver abbattuto l’aereo di linea ucraino, per un errore umano» (Ansa). Il cosiddetto «errore umano» ha fatto 176 vittime, a ulteriore dimostrazione che nelle guerre moderne sono i “civili” i più esposti alla carneficina organizzata dalle classi dominanti. «Scusandosi e porgendo le condoglianze alle famiglie delle vittime dell’aereo ucraino abbattuto dopo il decollo da Teheran, il Quartier generale delle Forze armate iraniane afferma in un comunicato che metterà in atto “riforme essenziali nei processi operativi per evitare simili errori in futuro” e che perseguirà legalmente “coloro che hanno commesso l’errore”». Traduzione: il sanguinario regime iraniano impiccherà qualche militare per saziare la “fame di giustizia” dell’opinione pubblica interna e internazionale e chiudere senza troppe perdite l’imbarazzante (faccio della triste ironia) caso. Ovviamente il regime ha rigirato la scottante frittata in chiave antiamericana: «Il ministro degli Affari esteri iraniano Mohammad Javad Zarif afferma che “l’errore umano” dietro all’abbattimento dell’aereo di linea ucraino da parte delle forze armate dell’Iran è accaduto nel “momento di crisi causato dall’avventurismo degli Usa”». In realtà il massacro avvenuto nei cieli di Teheran è ascrivibile, a mio avviso, all’«avventurismo» dei due Paesi coinvolti direttamente nell’attuale crisi mediorientale: Stati Uniti e Iran. La guerra moderna, con il suo altissimo potenziale distruttivo, mette sempre in conto le “vittime collaterali” provocate dagli “errori umani”.

Intanto «La Resistenza Iraniana ha reso noto che il numero di persone uccise dalle forze di sicurezza durante le proteste in Iran ha superato i 1.500. Almeno 4.000 sono stati i feriti e almeno 12.000 le persone arrestate. Il 23 dicembre 2019, citando fonti all’interno del regime, Reuters ha confermato che 1.500 persone erano state uccise in Iran durante meno di due settimane di disordini iniziati il 15 novembre. A Reuters è stato detto che circa 400 donne e 17 adolescenti erano tra le vittime. I funzionari iraniani che hanno fornito i dati a Reuters hanno affermato di essersi basati su informazioni raccolte da forze di sicurezza, obitori, ospedali e uffici del coroner. Reuters ha affermato che l’ordine di Khamenei di “fare tutto il possibile per fermarli (i manifestanti)” è stato confermato da tre fonti vicine alla cerchia interna del Leader Supremo» (Nessuno tocchi Caino). Com’è noto, il Generale Qassem Soleimani, recentemente “terminato” dai macellai di Washington, ha contribuito non poco a “fermare” i manifestanti: «Che Allah l’abbia in gloria» (Diego Fusaro).

CONTRO L’IMPERIALISMO ITALIANO! CONTRO L’IMPERIALISMO EUROPEO! CONTRO L’IMPERIALISMO STATUNITENSE! CONTRO IL SISTEMA IMPERIALISTA MONDIALE!

«Si chiama “Soleimani martire” la risposta dell’Iran all’uccisione con un drone, ordinata da Donald Trump, del noto generale comandante della Brigata al-Quds dei Pasdaran» (Notizie Geopolitiche). Ci sarà modo di parlarne nei prossimi giorni, se non nelle prossime ore; qui mi limito a registrare la possibile micidiale saldatura delle due crisi in corso nel cosiddetto Medio Oriente allargato: quella irachena/iraniana e quella libica. Di seguito “socializzo” alcune riflessioni abbozzate nei giorni scorsi.

In Iraq, in Libia, in Libano e altrove i militari italiani non rischiano la pelle a causa dell’altrui bellicismo, ma semplicemente perché l’Italia, nel suo “piccolo”, è parte organica del Sistema Imperialista Mondiale. La presenza militare e civile (tipo ospedali da campo, ecc.) del nostro Paese in diversi teatri “caldi” della mappa geopolitica risponde alle sue necessità di media potenza, e questo vale soprattutto per quanto accade in Libia in queste ore. Lo sbandierato “pacifismo” italiano ed europeo è solo fumo propagandistico venduto all’opinione pubblica dai governi di Roma e degli altri Paesi dell’Unione Europea in attesa che la situazione diventi più chiara così che si possa vedere il cavallo su cui è più opportuno puntare. Ed è esattamente questa politica “opportunista” che più irrita gli “alleati” americani, i quali non ne possono più del peloso e ipocrita “pacifismo” europeo.

Maurizio Molinari ha sintetizzato nei termini che seguono i noti fatti occorsi a Bagdad lo scorso 2 gennaio: «L’eliminazione di Qassem Soleimani da parte dei droni del Pentagono è un tassello della sfida strategica che vede la regione del Grande Medio Oriente – dal Maghreb all’Afghanistan – contesa fra quattro potenze portatrici di interessi rivali: l’Iran di Ali Khamenei, la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Donald Trump. È uno scenario che contrappone leader, armamenti, risorse ed alleati in un mosaico di conflitti di dimensioni e intensità variabili ma con una costante: la determinazione di ognuno dei quattro rivali ad imporsi sugli altri. Nell’evidente assenza di protagonisti europei per le lacerazioni interne all’Ue e l’incapacità di chi tenta di agire da solo – come la Francia in Maghreb – di ottenere risultati capaci di essere durevoli» (La Stampa). In effetti, l’assalto di massa attuato il 31 dicembre dalle milizie sciite-irachene Katib Hezbollah contro l’ambasciata americana di Baghdad è uno di quelle azioni che l’imperialismo Usa non può subire senza un’adeguata risposta. Quello che ha sorpreso gli analisti è piuttosto il livello della risposta confezionata da Washington, che appare ai più fin troppo sproporzionata, oltre che gravida di importanti conseguenze di vario genere. I giorni a venire ci diranno se quella sorprendente risposta, che di certo ha sorpreso lo stesso Soleimani (il quale pure vantava una fama di raffinato stratega) nonché l’intelligence iraniana e irachena, registra un salto di qualità nella strategia di “contenimento” elaborata dagli americani. In ogni caso i nemici degli Stati Uniti hanno commesso un grave errore di sottovalutazione, tanto più in considerazione del fatto che la strategia del caos controllato che Washington sta seguendo ai tempi di Trump dovrebbe indurre i suoi avversari a un supplemento di cautela.

Scriveva Nopasdaran del 10 ottobre 2019: «Parlando il 7 ottobre ad una conferenza con comandanti Pasdaran – trasmessa dalla TV iraniana – il Generale Qassem Soleimani ha spavaldamente affermato che le Guardie Rivoluzionarie hanno esteso la resistenza islamica dai 2000 km del Libano, a mezzo milione di chilometri quadrati in tutto il Medioriente. Ovviamente, con queste parole, il capo della Forza Qods intendeva riferirsi alla diffusione ormai ovunque di milizie sciite paramilitari al servizio di Teheran. Dalla sola Hezbollah in Libano, infatti, ora siamo passati a decine e decine di gruppi armati jihadisti sciiti, sparsi tra Siria, Iraq e lo stesso Yemen. Non a caso, in un secondo passaggio del suo discorso, Soleimani parla direttamente del fatto che la Repubblica Islamica ha creato una “continuità territoriale della resistenza” – tradotto, dei gruppi armati terroristici filo-iraniani – che connette Iran, Iraq, Siria e Libano. […] L’imperialismo iraniano, infatti, non potrà che esacerbare gli scontri regionali, con effetti diretti (contro Israele e arabi sunniti) e indiretti (con la Turchia e la Russia), davvero imprevedibili. Nessuno infatti, ufficialmente o non ufficialmente, permetterà che sia Teheran il solo master della regione e, in questo contesto, l’instabile Iraq rischia davvero di diventare il centro definitivo dello scontro per fermare l’avanzata iraniana». Come si vede, quello che si sta sviluppando sotto i nostri occhi è uno spettacolo tutt’altro che inatteso.

Negli anni scorsi gli “alleati” europei degli Stati Uniti lamentavano il progressivo ritiro dell’imperialismo americano dai centri nevralgici dell’agone geopolitico, disimpegno che secondo loro stava favorendo l’iniziativa politico-militare della Russia, dell’Iran, della Turchia e dell’Arabia Saudita; l’isolazionismo americano indebolisce l’intero Occidente, piagnucolavano francesi, tedeschi e italiani. In realtà gli americani non si sono mai ritirati dall’area mediorientale, ma hanno piuttosto “rimodulato” e ristrutturato la loro presenza in quella regione, aggiornandola ai nuovi scenari internazionali e regionali, e soprattutto calibrandola più di prima sugli esclusivi interessi di Washington. Come e più che ai tempi dell’invasione dell’Iraq del 2003, gli Stati Uniti hanno bisogno di sapere su quali Paesi europei possono contare nella loro strategia di contenimento/indebolimento nei confronti della Cina, della Russia e dell’Iran.

Non c’è dubbio che l’eliminazione del Generale Soleimani risponde anche a un calcolo di politica interna americana, ma sarebbe oltremodo ridicolo ricondurre quell’operazione a esigenze puramente propagandistiche (elettorali: è la democrazia capitalistica, bellezza!) ed elusive, come sostengono i leader democratici, i quali strumentalmente accusano Trump di aver calpestato il diritto internazionale: l’uccisione di Soleimani si configurerebbe infatti non come un legittimo atto di guerra, ma come una vera e propria azione terroristica. Un’analoga stucchevole quanto ipocrita polemica divampò ai tempi dell’eliminazione di Osama Ben Laden nel 2011; «Giustizia è stata fatta», disse allora il pacifista e progressista Obama, suscitando l’indignazione di chi predica la “guerra giusta”, nel senso di “politicamente corretta”. «Ancora una volta appare vero che la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra» (Carl Schmitt). Della guerra imperialistica, per l’esattezza.

In ogni caso il “fattore interno” gioca assai più in Paesi come l’Iran e l’Iraq, attraversati da fortissime tensioni sociali che Teheran e Bagdad stanno cercando di incanalare nel tradizionale alveo nazionalista e “antimperialista”. Nel breve termine la crisi provocata dall’evaporazione di Soleimani avrà come effetto, peraltro abbastanza scontato, quello di cementare il “popolo” attorno alla bandiera della dignità nazionale e di mettere la sordina ai movimenti di protesta che nelle scorse settimane hanno creato più di un problema a quei due Paesi; ma già nel medio periodo le previsioni si complicano, anche perché a quanto pare in Iran e in Iraq non tutti hanno pianto la scomparsa del «Che Guevara del Medio Oriente»…

Scrive Daniele Ranieri: «Il generale iraniano Qassem Soleimani voleva nominare il primo ministro dell’Iraq, faceva uccidere soldati iracheni nelle loro basi (bombardate dalle sue milizie) e faceva rapire e uccidere manifestanti iracheni di vent’anni. E questo soltanto nei suoi ultimi tre mesi di attività. Era la definizione da manuale di militare macellaio e di arroganza imperialista» (Il Foglio). Tutto giusto. Ma «la definizione da manuale di militare macellaio e di arroganza imperialista» si attaglia benissimo anche ai responsabili della sua eliminazione. Di solito non uso brindare quando un macellaio uccide un altro macellaio. Grido “Evviva!” solo quando le classi subalterne e tutti i maltrattati da questa disumana società (mondiale) trovano la forza e il coraggio di lottare contro i macellai di ogni nazione,di ogni colore, di ogni religione, di ogni ideologia.

Leggo da qualche parte la seguente incredibile frase: «Soleimani [va] inteso come sineddoche dei mille Soleimani del mondo che si oppongono all’imperialismo occidentale». Ci sarebbe di che sghignazzare, se non stessimo parlando di cose serie e dolorosissime, come l’oppressione, lo sfruttamento e la morte che i «Soleimani del mondo» infliggono alle classi subalterne.

Il noto comico Diego Fusaro, sempre più invasato e delirante nel suo primatismo nazionale, se n’è uscito con la barzelletta che segue: «L’Iran non è uno Stato totalitario, canaglia, pericoloso per la pace nel mondo. Tale è, invece, la civiltà dell’hamburger, che semina guerra per il mondo ed esporta democrazia missilistica, imperialismo etico e bombardamenti umanitari. Lo stesso Soleimani, ucciso vigliaccamente, con vigliacca approvazione dello stesso nostrano Salvini, non era un terrorista, ma un eroico patriota. Lottava contro il terrorismo dell’Isis e in nome dell’Iran sovrano e libero dal neobarbarico colonialismo di Washington. Che Allah l’abbia in gloria. Quanto a me, io non legittimo la guerra di resistenza dei popoli oppressi dall’imperialismo Usa: la esalto. L’aggredito ha sempre il diritto di difendersi, in tutti i modi. La sola guerra legittima è quella di difesa dall’invasore. Se vi sarà la guerra, occorrerà stare, senza se e senza ma, con l’Iran e non con gli Usa, come dicono i vili sovranisti nostrani, che sono solo codardi avvezzi a servire il padrone a stelle e strisce. La speranza è che la Russia di Putin sostenga l’Iran e che ugualmente agiscano altre potenze non allineate, in primis la Cina. Lo scopriremo presto». Il comico che si atteggia a filosofo dichiara dunque guerra all’imperialismo americano e si schiera, «senza se e senza ma», con chi ne ostacola le neobarbariche scorribande. Sarebbe del tutto inutile ricordare al fine dialettico che i nemici di Washington sono imperialisti esattamente come lo sono gli odiati Stati Uniti d’America, cuore pulsante della demoniaca (lo dice anche Allah!) «civiltà dell’hamburger» – e la Coca Cola dove la mettiamo?

Il fatto è che il cosiddetto “Campo Antimperialista” conosce un solo Imperialismo: quello occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti. In questo modo tale “Campo” non fa che muoversi lungo il solco tracciato a suo tempo dallo stalinismo, il quale chiamava le “larghe masse popolari” di tutto il mondo a schierarsi dalla parte della “Patria socialista”, la quale era ostacolata dal perfido Occidente guidato dagli americani nella sua umanissima missione di pace, di progresso e di libertà. Per giustificare “teoricamente” la loro ultraborghese (e quindi ultrareazionaria) posizione di sostegno ai nemici degli Stati Uniti, gli esponenti “campisti” cercano di fare entrare l’attuale conflitto interimperialistico nello schema delle lotte anticoloniali sostenute in un’altra epoca storica da Marx, Engels, Lenin, Trotsky e da tutti i comunisti degni di quella qualifica – e quindi non sto parlando dei “comunisti” con caratteristiche “sovietiche”. Ricondurre l’iniziativa delle potenze regionali (vedi ad esempio l’Iran) nell’alveo della «lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale» significa esibire una concezione del processo sociale capitalistico che non solo non ha nulla a che fare con la teoria e con la prassi dell’emancipazione delle classi subalterne (e dell’intera umanità), ma rappresenta piuttosto l’opposto di una teoria e di una politica orientate in senso anticapitalistico. Il solo parlare di «lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale» a proposito di Paesi come l’Iran significa non aver maturato, non dico una concezione materialistica della storia (da taluni non è lecito pretendere la comprensione delle più elementari nozioni di quella concezione), ma una visione del processo sociale in grado quantomeno di mantenersi all’altezza dei fatti concreti. Invece i campisti non conoscono altro ragionamento che non sia ideologico all’ennesima potenza: è il reale processo sociale che deve entrare negli schemini “dottrinari” da loro fissati in astratto, riscaldando la vecchia e rancida sbobba “antimperialista” cucinata ai tempi di Stalin – e poi di Mao.

Detto altrimenti, personalmente considero il cosiddetto “Campo Antimperialista” come un’entità politico-ideologica organicamente interna alla dinamica della competizione interimperialistica, e il suo richiamarsi, del tutto abusivamente e ridicolmente (la prima volta come tragedia, la seconda come macchietta) ai “testi sacri” del marxismo, lo fanno apparire ai miei occhi particolarmente odioso, anche perché so bene che qualche giovane desideroso di lottare contro questa società escrementizia potrebbe farsi catturare dalla fraseologia “antimperialista” (in realtà solo antioccidentale) degli amici della Cina, della Russia, del Venezuela, della Siria, dell’Iran e degli altri Paesi “antimperialisti”.

Come si arriva a mettere in uno stesso sacco tutti i protagonisti del Sistema Imperialista Mondiale? Partendo dalla definizione di quel Sistema: si tratta dell’insieme delle grandi, medie e piccole Potenze (Stati, nazioni) che competono tra loro su tutti i fronti della guerra capitalistica: sul fronte economico come su quello geopolitico, su quello diplomatico come su quello militare, su quello tecnoscientifico come su quello ideologico. Si tratta appunto di una guerra sistemica, di un conflitto cioè che ha per obiettivo l’acquisizione del massimo potere possibile. Si tratta dunque di un Sistema tanto compatto, violento e disumano, quanto dinamico, contraddittorio e conflittuale al suo interno. Ogni suggestione “superimperialista” è qui bandita e ridicolizzata.

Le prime vittime del Sistema Imperialista Mondiale sono naturalmente le classi subalterne del pianeta, le cui esistenze sono sacrificate sull’altare del Moloch capitalistico, il cui concetto ingloba anche lo Stato (a prescindere dal suo contingente assetto politico-istituzionale: democratico, autoritario, totalitario) posto a difesa dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. A chi per vivere è costretto a vendersi sul mercato del lavoro, a «vendere se stesso e la propria umanità» (K. Marx), la società chiede il massimo di energia (fisica e intellettuale) e di dedizione in ogni fase della guerra sistemica: quando si combatte producendo merci (materiali e immateriali) e quando si combatte producendo morti, feriti, dolore e distruzione – ovviamente nel nome degli «interessi superiori» della Patria, della Libertà, della Pace, dei Diritti Umani, della Democrazia e chi più ne ha, più ne metta, a proprio piacimento. Per irretire le classi subalterne e legarle al carro della conservazione sociale, le classi dominanti da sempre ricorrono a un potentissimo veleno ideologico chiamato nazionalismo. Come scrisse una volta Karl Kraus, «Il nazionalismo è un fiotto di sangue in cui ogni altro pensiero annega». A proposito di nazionalismo mi piace citare spesso anche Schopenhauer: «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale. […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze». Ancora oggi l’orgoglio nazionale è il più potente strumento politico-ideologico su cui le classi dominanti possono contare per imbrigliare, deviare e strumentalizzare il “disagio sociale” che accompagna la vita dei subalterni, e questo è ancora più vero nei momenti di più acuta crisi sociale. Ecco perché per l’anticapitalista la critica più radicale del nazionalismo, comunque “declinato” e giustificato, non rappresenta affatto un mero dato identitario da sbandierare per affermare la propria irriducibile diversità, ma essa si configura piuttosto come un essenziale asset politico.

È possibile applicare la griglia concettuale qui appena abbozzata all’odierno conflitto mediorientale? A mio avviso sì, e comunque è esattamente dalla prospettiva che essa delinea che approccio l’analisi puntuale di quel conflitto, la quale per molti aspetti è perfettamente sovrapponibile a quella elaborata da diversi analisti geopolitici e si avvantaggia della loro superiore competenza specifica. Più in dettaglio, concordo con gli analisti che considerano quasi obbligata la risposta che gli Stati Uniti stanno dando alla forte spinta espansionistica dell’Iran in tutta l’area mediorientale – e non solo: la sua proiezione in alcune regioni dell’Africa è già più che un’ipotesi. E per adesso metto un punto.

IRAN. CONTRO LA VIOLENTA REPRESSIONE DELLE MANIFESTAZIONI DI PROTESTA!

Iran. Un primo, sommario bilancio delle rivolte duramente represse dal regime sanguinario di Teheran. L’ondata di proteste, che è stata violentemente contenuta ma non ancora annientata, ha coinvolto nel corso di molte settimane oltre 100 città sparse in ogni parte del Paese. Le stesse autorità hanno affermato che circa 200.000 persone hanno preso parte alle proteste, alcune delle quali hanno preso d’assalto centinaia di banche, stazioni di polizia e stazioni di rifornimento di carburante. Fonti non ufficiali parlano di 450 morti, 4.000 feriti e 10.000 manifestanti arrestati e detenuti con pesantissime accuse, alcune delle quali prevedono la pena di morte per impiccagione. Si contano parecchie vittime tra i giovani e i giovanissimi, e non pochi sono gli adolescenti caduti sotto il fuoco dei cecchini delle cosiddette Guardie Rivoluzionarie, il braccio più violento del regime iraniano.

Ma è stata la Guida Suprema in persona a impartire l’ordine di sparare per uccidere, e d’altra parte Teheran vanta una lunga serie di massacri, come quello che si consumò nel 1988, quando vennero eliminati non meno di 30.000 prigionieri politici. Il regime khomeinista non può tollerare che la crisi sociale interna possa indebolire la proiezione esterna dell’imperialismo iraniano, attivissimo, com’è noto, in tutta l’area mediorientale, peraltro attraversata da acute tensioni sociali: vedi Iraq, Libano, ecc. Come sempre, politica interna e politica internazionale sono le due facce della stessa escrementizia medaglia – naturalmente questo è vero per tutti i Paesi del mondo.

Soprattutto le classi subalterne iraniane pagano i costi salatissimi delle sanzioni imposte al Paese dagli Stati Uniti, e quindi si può senz’altro dire che esse sono vittime della contesa imperialistica, oltre che del capitalismo iraniano con “caratteristiche khomeiniste”.

IRAN. OGGI E IERI

1. Oggi

«Negli ultimi anni, i caffè sono nati anche in abbinamento a librerie e a gallerie d’arte. L’aspetto è moderno, tant’è che potrebbero essere a Parigi o in qualsiasi metropoli occidentale. Ci si accorge di essere a Teheran solo per i codici di comportamento, soprattutto nel vestiario. Mi è capitato di assistere in uno di questi posti a uno shooting fotografico, con una modella, truccatissima e con il foulard, che sfilava. La gente guardava con indifferenza: è uno spettacolo usuale. Eppure, la modella, la pubblicità, il consumismo erano quanto la Rivoluzione Islamica voleva combattere. Questo è un tratto tipico degli iraniani: sanno adattarsi, rielaborare e fare proprio qualcosa che viene da fuori secondo i propri canoni. A proposito, in quel caffè ho bevuto un mojito. Naturalmente reinventato dagli iraniani senza alcol!» (A. Vanzan). Naturalmente. D’altra parte la “rivisitazione” dei rapporti sociali capitalistici in chiave locale (regionale, nazionale, continentale) è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi del mondo: dalla Cina al Giappone, dall’India al Brasile. Soprattutto nel settore dell’abbigliamento e dell’alimentazione il Capitale si avvantaggia delle specificità culturali e “antropologiche” dei vari Paesi: merci e servizi per tutti i gusti e per tutte le sensibilità – nazionali, etniche, religiose, sessuali e quant’altro. Il Capitale ama la “libertà” e la “creatività”. Mi fanno ridere, per non dire altro, gli intellettuali occidentali di diverso orientamento ideologico (ma di identica militanza sociale al servizio della conservazione) che paventano una «deriva consumistica» della società iraniana (e magari anche di quella nordcoreana!), i cui giovani si troverebbero esposti alla demoniaca influenza dei social media che li invitano a partecipare alla luccicante ed eterna festa della globalizzazione capitalistica. Questi intellettuali possono anche accettare, bontà loro, l’economia di mercato, purché ben temperata e attenta ai bisogni del “capitale umano”, ma insieme al Santissimo Papa Francesco e alla Guida Suprema Ali Khamenei essi gridano un forte e irremovibile NO alla società di mercato: si può essere così intellettualmente indigenti?

«Un’altra parte degli Iraniani, quella dei sobborghi, che ha come uniche certezze nella vita la religione e la povertà, è soggiogata dalla propaganda religiosa. Le moschee attirano giovani per arruolarli sin da piccoli nelle milizie irregolari con i loro bastoni da hooligan. Due facce così diverse dello stesso paese dove, per un giovane, non ci sono alternative ad un modello edonista e decadente oppure ad uno estremista e violento» (L. Tavi). Lo sviluppo ineguale del Capitalismo (su scala mondiale, nazionale e regionale) si presenta con aspetti particolarmente contraddittori, e persino paradossali, nei Paesi storicamente “ritardatari” che hanno alle spalle un lungo periodo di sfruttamento coloniale e imperialistico.

«Proibire l’inglese alle elementari, e magari anche gli hamburger e la coca cola. La reazione dei conservatori alle proteste di piazza si manifesta anche così, ma riapre la spaccatura fra ultrà e riformisti, con il presidente Hassan Rohani contrario alla nuova stretta e che anzi invita a capire i giovani, perché «pensano in maniera diversa» (G. Stabile, La Stampa). Anche la pizza, ci fa sapere Stabile, è stata “attenzionata” dai puristi iraniani, benché la nota prelibatezza italiana sia stata “reinventata” in salsa iraniana. Secondo il “moderato” e “riformista” Rohani l’inglese invece serve ai giovani iraniani per «trovare lavoro»: «Il governo accoglie le critiche e credo che tutti dovrebbero essere criticati, persino Maometto ha permesso alle persone di criticare. Il problema è la distanza tra noi e le nuove generazioni. La pensano diversamente sul mondo e sulla vita». Se non è un invito a bombardare il quartier generale, poco ci manca, e comunque la presa di posizione del Presidente iraniano ci dice quanto dura sia diventata la più che decennale lotta di potere al vertice del regime. E qui arriviamo agli eventi di questi giorni.

Violenta oppressione politica, ideologica e culturale (che tocca in primo luogo le donne e le minoranze religiose), alta disoccupazione giovanile (oltre il 26%), crescente inflazione (12,5%), carovita, crisi in alcuni comparti industriali, crescenti e vistosissime (soprattutto nei grandi centri urbani) diseguaglianze sociali, piccoli imprenditori e piccoli risparmiatori gettati sul lastrico dal fallimento di alcune finanziarie, oppressione etnica (azeri, curdi, armeni), centri urbani elefantiaci e zone rurali spopolate, una spesa militare sempre crescente in grado di supportare le aspirazioni di grande potenza regionale coltivate dal Paese (a discapito ovviamente delle condizioni di vita delle classi subalterne: «Occupatevi di noi, non della Siria!», gridano i manifestanti), un Capitalismo, gestito in gran parte dalla “casta” degli ayatollah e dai vertici dei Pasdaran, sempre più inefficiente e aperto alla corruzione sociale (una parte dello stesso proletariato iraniano è interessato al mantenimento della greppia clerico-statalista: il “clientelismo” non è un fenomeno esclusivo dell’Italia!), alto inquinamento in molte zone del Paese, e molto altro ancora: gli ingredienti della crisi sociale esplosiva in Iran ci sono tutti. E non si tratta certo di una condizione sociale prodottasi negli ultimi mesi o negli ultimi anni, tutt’altro. Né la crisi sociale in quel sensibilissimo quadrante geopolitico attraversa solo l’Iran, come ben dimostra il movimentismo politico che da parecchi mesi si segnala in Arabia Saudita, il nemico/concorrente numero.[1] Per non parlare della cosiddetta Primavera Araba del 2011. Le proteste contro il carovita che si stanno sviluppando in Tunisia in questi giorni certamente non sono di buon auspicio per i due regimi diversamente islamici.

«Il consenso verso il regime è, per molti versi, oggetto di uno scambio: finché gli ayatollah garantiscono buone condizioni di vita, i cittadini accettano obtorto collo di rinunciare alla propria libertà e adeguarsi alle censure del clero. Ma quando la borsa è vuota, il regime clericale viene messo in discussione. Le attuali proteste potrebbero quindi rivelarsi molto pericolose per il regime. […] Se la Rivoluzione verde del 2009 mirava a una svolta moderata del regime, ma non ad abbatterlo, queste proteste hanno un carattere maggiormente anti-establishment. Meno politicizzate e più spontanee delle precedenti, sembrano mancare nel proporre un’alternativa al regime, ma il loro carattere anarchico le rende imprevedibili. Il dissenso è un fenomeno carsico e tacitarlo per alcuni giorni, mesi, persino anni, non significa averlo sconfitto. Al di là del loro esito, queste proteste hanno segnato un passaggio di mentalità: se le immagini della guida suprema possono essere fatte a pezzi, vuol dire che anche il regime può cadere. Come ricordato da Kader Abdollah, scrittore e oppositore del regime, gli iraniani hanno compreso che il potere degli ayatollah non è eterno né inevitabile. Se vorrà conservarsi alla guida del paese, il clero dovrà andare incontro alle esigenze dei cittadini. La repressione e la censura autoritaria non sono più opzioni possibili» (East Journal). In ogni caso, il regime continua come e più di prima a usare il pugno di ferro, e sono quasi quattromila i manifestanti finiti in galera, per non parlare dei morti e dei feriti. Già si registrano diversi casi di “suicidio” (assistito?) nelle carceri, notoriamente luoghi di tortura, oltre che di infinito dolore.

È ovvio che nel mare della crisi sociale nuotano e prosperano i nemici interni ed esterni della Repubblica Islamica, ma non è certo con la chiave interpretativa dei nemici esterni (americani, sauditi, israeliani) che possiamo capire ciò che accade – e non da oggi – in quel Paese decisivo per gli assetti interimperialistici del Medio Oriente, e non solo di quell’area. A scadenza quasi decennale, i giovani iraniani scendono in strada per rivendicare la fine dell’oppressione esercitata sull’intera società dal regime dei mullah e migliori condizioni di vita, e puntualmente il regime risponde con la ben nota tattica che prevede l’uso della carota (vedi il “partito delle riforme”) e del bastone. Promesse e carcere. Ammiccamenti politici e pallottole “vaganti”. Celebrazione di “libere” elezioni e impiccagioni: anche chi è accusato di offendere in qualche modo Allah è meritevole di morte per «atti ostili contro Dio» (moharebeh). Il regime può anche contare sulla massa d’urto repressiva mobilitata dai Pasdaran (Basji) composta perlopiù da sottoproletari che per un tozzo di pane sono disposti a massacrare di botte chi gli capita a tiro durante le manifestazioni di piazza. «Dai Pasdaran dipendono i Bassij, una diramazione paramilitare molto numerosa nata negli anni 80 durante la guerra contro l’Iraq; si stima che il numero dei Bassij si aggiri intorno ai dieci milioni di iraniani sparsi su tutto il territorio nazionale. Per il reclutamento dei membri lo stato iraniano spende ogni anno centinaia di migliaia di dollari, certo di poter trovare adepti negli strati più poveri della popolazione, incentivati da offerte finanziarie e benefici, in cambio dell’arruolamento. I Bassij sono costituiti per lo più da giovani e il loro ruolo è quello di sopprimere e arginare il più possibile e dal basso, qualsiasi forma di rivolta nei confronti del regime; un altro importante ruolo che gli viene affidato è quello della propaganda e della conservazione di tutti quei valori religiosi e ideologici che fanno capo ai capisaldi del regime dei mullah» (East Journal). Dal loro canto, i Pasdaran oltre a rappresentare «da più di vent’anni la più grande forza economica iraniana, sono in prima linea per impedire che lavoratori e studenti possano riunirsi e discutere dei diritti che li riguardano e reprimono con violenza ogni minimo tentativo di dissenso nei confronti del regime» (E. J.). Tra l’altro, i pii e misericordiosi Guardiani della Rivoluzione gestiscono il traffico illegale dei prodotti di lusso occidentale che entrano di nascosto nel Paese e il cui giro d’affari pare ammontare a una cifra gigantesca: tre volte più grande della ricchezza generata dalle fondazioni legali. La massiccia violenza che i Pasdaran dispiegano contro i “nemici di Dio e dell’Iran” è adeguata agli interessi economici che essi difendono. Sarò pure un materialista volgare e determinista, ma io la penso così!

All’inizio delle proteste il “pragmatico” Presidente iraniano dichiarò che «le persone per le strade non chiedono pane e acqua, ma più libertà», rendendo così palese la guerra intestina che, come detto, da decenni travaglia il regime di Teheran. In realtà, oltre a «più libertà» i manifestanti chiedevano più generi di prima necessità e a più basso costo, e non a caso le manifestazioni sono comparse all’inizio (28 dicembre 2017) nelle aree economicamente più depresse del Paese, dove peraltro più forte è la presenza degli attivisti ultraconservatori. Pare che gli uomini legati all’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad, colui che voleva cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente nonché acerrimo nemico dell’attuale Presidente, abbiano in qualche modo favorito la protesta, per evidenti fini strumentali, salvo poi esserne scavalcati. In ogni caso, Teheran li ha subito “attenzionati”, e lo stesso Ahmadinejad è finito definitivamente in disgrazia, seppellito sotto infamanti accuse di corruzione e abusi d’ogni tipo – non ancora di stampo sessuale: questo tipo di calunnie applicate al “pio” Ahmadinejad non sarebbero forse credibili.

Con il consueto tweet, il Presidente americano ha voluto sferrare un facilissimo attacco politico, non solo al regime iraniano, ma anche, se non soprattutto, agli “alleati” europei che intendono proseguire sulla strada del “negoziato diplomatico” tracciata dall’ex Presidente Obama nel 2015 (accordo di Losanna): «Il grande popolo iraniano è stato represso per molti anni, ha fame di cibo e libertà; insieme ai diritti umani, viene saccheggiata la ricchezza dell’Iran!». Anche dalle nostre parti c’è stato qualche idiota che ha caricato la responsabilità dei manifestanti uccisi in Iran solo sulla testa di Donald Trump, reo di essersi sfilato dall’accordo sul nucleare sottoscritto dal cosiddetto 5+1 sotto l’egida dell’Onu. Ovviamente Trump, nella sua qualità di Presidente della prima potenza imperialistica del mondo, ha tutto l’interesse nel gettare benzina sul fuoco del malcontento popolare che attraversa l’Iran, e ciò tanto più dopo il relativo insuccesso americano registrato in Iraq e in Siria, dove la Russia e appunto l’Iran hanno invece riscosso un indubbio successo politico-militare.

Ieri il Financial Times e il New York Times invitano il Presidente americano a una maggiore prudenza nelle sue esternazioni sui fatti iraniani, perché le sue invettive via Twitter potrebbero ricompattare il regime; e gli consigliano anche di non sfilarsi dall’accordo sul nucleare iraniano, per rendere evidente agli occhi dell’opinione pubblica iraniana il fatto che la moratoria sulle sanzioni non dà alcun beneficio al popolo iraniano, mentre facilita l’investimento del regime in costosi armamenti. «Cinquantadue tra ufficiali militari statunitensi in pensione, membri del Congresso degli Stati Uniti, ex ambasciatori statunitensi, esperti statunitensi della sicurezza nazionale hanno firmato una lettera per sollecitare Trump a non mettere a repentaglio l’accordo con l’Iran» (NYT). Abbaiare furiosamente o tessere intorno al regime di Teheran una fitta rete diplomatica aspettando che la classe media iraniana prepari una seria alternativa in vista dell’auspicato regime change: qual è la tattica più produttiva per gli Stati Uniti? Certo non sarò io a dare buoni consigli! «Il capo della Casa Bianca vorrebbe uscire dall’accordo, in linea con le obiezioni avanzate anche da Israele, e le proteste iraniane dei giorni scorsi lo hanno incoraggiato a farlo; il segretario di Stato Tillerson, quello alla Difesa Mattis, e il consigliere per la Sicurezza nazionale McMaster ritengono che convenga salvarlo» (P. Mastrolilli, La Stampa). È probabile che alla fine anche Trump sarà della partita diplomatica, ma dopo aver chiarito che la Casa Bianca non dà nulla per scontato e che si aspetta dai negoziati risultati concreti – ovviamente dal punto di vista degli interessi americani, i quali sempre più spesso divergono dagli interessi degli “alleati” occidentali, e questo a prescindere da chi pro tempore veste la carica di Presidente degli Stati Uniti.

Il costo finanziario dei successi militari e politici di Russia e Iran è stato molto alto per entrambi i Paesi, e solo la relativa stabilità del prezzo del petrolio (intorno ai 50 dollari il barile) e del gas ha permesso, anche se solo in parte, di tamponare le falle finanziarie che si sono aperte nelle loro casse. L’Iran è impegnato pesantemente anche in Yemen, in una guerra sanguinosissima che ormai si protrae da molti anni e che, com’è noto, è alimentata anche dalle armi fabbricate in Italia: un fatturato tutt’altro che disprezzabile! Non bisogna poi sottovalutare il sostegno che Teheran offre a Hezbollah, «che è una milizia costosa, perché i miliziani Hezbollah sono pagati due volte di più di quanto Israele paga i beduini che lavorano per l’esercito; poi hanno tutta la struttura industriale militare, i missili balistici, ad esempio non li fabbricano, ma li importano dalla Corea del Nord; poi hanno la massa impiegatizia dei clerici ed anche loro sono molto costosi» (E. Luttwak, Notizie geopolitiche). Si segnala anche un crescente attivismo dell’Iran in Afghanistan, cosa che sta mettendo in allarme i pakistani e gli americani.[2]

Può, si chiede il citato Luttwak, un Paese che campa sostanzialmente di rendita petrolifera sostenere un così forte impegno militare e geopolitico? In effetti, un’economia ancora fortemente centrata sull’estrazione e la vendita di petrolio e gas rappresenta, al contempo, il punto di forza e il punto di debolezza dell’ambiziosissima potenza persiana.

L’innegabile sviluppo dell’industria metallurgica, dell’industria tessile e dell’edilizia che si è registrato negli ultimi tre decenni non è stato comunque tale da mutare la struttura del capitalismo iraniano, con ciò che ne segue sul piano degli equilibri politico-istituzionali del Paese. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale di qualche anno fa, il tasso di crescita del PIL iraniano si aggira intorno al 7,4%, ma al netto del settore petrolifero quel tasso precipita a un risicato 1%. Dati forniti dal Ministero degli Esteri del nostro Paese attestano questa struttura del PIL iraniano: «Il petrolio influisce per il 15% sul Prodotto Interno Lordo, il settore manifatturiero, quello edilizio e l’industria mineraria per il 23%, l’agricoltura per il 9%, mentre i servizi occupano il 53% del totale». Il maggiore importatore di prodotti iraniani è la Cina, ma per un valore totale molto modesto, soprattutto se posto in rapporto alle potenzialità industriali dell’Iran: appena 615 milioni di dollari. Proprio ieri l’Italia ha siglato un importante accordo con l’Iran: «Un’intesa che apre a garanzie sovrane da parte dell’Iran per finanziamenti fino a 5 miliardi di euro. I finanziamenti che seguiranno stanzieranno fondi per progetti e partnership in Iran, realizzati congiuntamente da imprese italiane ed iraniane, in settori di reciproco interesse, come ad esempio le infrastrutture e costruzioni, il settore petrolifero e del gas, la generazione di energia elettrica, le industrie chimica, petrolchimica e metallurgica. I due Ministeri [dell’economia] hanno sottolineato come l’accordo sia “un passo importante per il consolidamento della partnership economica e finanziaria tra i due Paesi, le cui origini vanno molto indietro nel tempo. L’obiettivo principale dell’accordo è quello di rafforzare il tessuto economico iraniano, in linea con gli obiettivi stabiliti dal Governo dell’Iran e con le legittime aspirazioni del popolo iraniano”» (La Repubblica). Le «legittime aspirazioni del popolo» sono costantemente in cima ai pensieri dei Governi di tutto il mondo! Troppo facile spiegare i rapporti tra gli Stati e gli affari tra le imprese dei vari Paesi del pianeta con la logica del potere sistemico e del profitto! Volevo fare dell’ironia: ci sono riuscito?

L’economia iraniana appare insomma sempre sul punto di decollare verso un grande boom (fattori di varia natura premono in quel senso)[3], ma diversi problemi strutturali e politici impediscono all’aereo di prendere il volo diretto ai piani alti del Capitalismo mondiale, una destinazione che pure sarebbe alla portata di un Paese che peraltro vanta un antichissimo e luminoso retaggio storico. Un punto molto debole di quell’economia è senz’altro la penuria di investimenti diretti esteri in Iran, che si spiega in larga parte con il ruolo di potenza regionale che il Paese vuole giocare a tutti i costi; una legittima aspirazione che lo porta sovente a cozzare contro gli interessi dell’imperialismo occidentale e dei suoi alleati regionali. Beninteso, all’avviso di chi scrive quell’aspirazione è legittima allo stesso titolo delle aspirazioni dei Paesi concorrenti: dal punto di vista antimperialistico tutte le vacche capitalistiche, piccole o grandi che siano, appaiono nere e meritevoli di finire al macello della rivoluzione sociale. La quale, ahimè, non ne vuole sapere di apparire sulla scena della tragedia.

Pur con tutti i limiti qui sommariamente evidenziati, l’economia iraniana è molto integrata nella divisione internazionale del lavoro, e una sua più piena partecipazione alle dinamiche del mercato mondiale appare ormai come prossima. Salvo devastanti crisi politico-sociali, le quali d’altra parte trovano terreno fertile nell’attuale struttura capitalistica dell’Iran e negli assetti di potere che sono venuti fuori dalla cosiddetta Rivoluzione Islamica.

Scriveva tre anni fa Eugenio Fatigante sull’Avvenire a proposito della struttura economica del Capitalismo iraniano: «C’era una volta la Rivoluzione. Islamica e, sulla carta, socialista.[4] Come tutte le rivoluzioni, però, dello spirito del ’79 è rimasto ben poco nell’Iran di oggi. All’epoca dello Scià un centinaio di famiglie cortigiane dei Pahlevi controllavano l’80% dell’economia locale. Oggi più o meno la stessa percentuale è in mano al lato oscuro degli ayatollah e dei fedeli Guardiani della rivoluzione. Si chiamano Bonyad e sono il vero prodotto doc iraniano, quanto il caviale: un coacervo di religione e pragmatismo affaristico che controlla le leve del potere e il 60% della capitalizzazione della Borsa di Teheran. È la cosiddetta Pasdaran Economy, basata su un labirinto di Fondazioni (come tali esentasse) che negli anni han fatto man bassa dei beni della corona imperiale e delle famiglie benestanti: oggi è divenuto il loro patrimonio, che utilizzano per nuovi affari e per una rete fittissima di donazioni, posti di lavoro e sussidi, necessari per mantenere il potere con metodi clientelari e con un anomalo Welfare state».[5] Questo incredibile intreccio di interessi economici e politici ci fa capire quale è la posta in gioco in Iran e come sia difficile sostituire l’attuale regime con un altro di diverso orientamento politico-ideologico. Per quanto mi riguarda, un regime (capitalistico) vale l’altro, in Iran come nel resto del mondo, e personalmente trovo risibile ogni discorso circa la necessità di sostenere in quel Paese una “rivoluzione democratica e popolare” in attesa che maturino le condizioni per una rivoluzione sociale “pura”. Lascio ai teorici delle “doppie rivoluzioni” questi insulsi discorsi. Tutto invece lascia supporre che le classi subalterne verseranno ancora molto sangue per combattere guerre volute dai loro nemici di classe per difendere e possibilmente ampliare un potere che, come abbiamo visto, si fonda su enormi interessi economici.

2. Ieri

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso vennero al pettine in Iran tutte le gigantesche contraddizioni e i fortissimi limiti di una “rivoluzione capitalistica dall’alto”, iniziata intorno al 1962 per impulso diretto del regime monarchico; una “Rivoluzione bianca” intesa a modernizzare il Paese a ritmi accelerati senza però troppo incrinare i vecchi assetti di potere (inclusa la preziosa funzione sociale svolta dal clero sciita, sebbene esso fosse stato pesantemente penalizzato sul terreno economico dalla riforma agraria) né mettere in discussione la collocazione geopolitica della moderna Persia, ormai da decenni saldamente ancorata all’Occidente.

Già negli anni Trenta lo Scià Reza Pahlavi aveva tentato una prima modernizzazione/laicizzazione forzata del Paese, espropriando le proprietà dei notabili Qajar e intaccando rapporti sociali feudali che arricchivano il clero sciita. Negli anni Cinquanta il Primo ministro Mohammad Mossadeq, il «nazionalista mistico», continuò l’opera di modernizzazione capitalistica attraverso la nazionalizzazione dell’industria petrolifera allora controllata dalla Anglo-Persian Oil Company, cosa che gli valse l’ostilità del Regno Unito e degli Stati Uniti. La produzione e l’esportazione di petrolio crollarono immediatamente. Altre riforme politiche e sociali privarono il governo di Mossadeq dell’appoggio del clero sciita e delle componenti politico-sociali che in precedenza lo avevano sostenuto ma che dopo la nazionalizzazione del maggio ‘51 temevano una modernizzazione troppo spinta del Paese. Come conseguenza di un fallito colpo di Stato tentato il 16 agosto 1953 lo Scià Mohammad Reza Pahlavi fu costretto a fuggire dal paese e a riparare a Roma. Un secondo colpo di Stato, attuato tre giorni dopo, ebbe invece successo e mise fine alla breve ma intensa stagione riformista di Mossadeq; il nuovo governo presieduto dal generale Zahedi sottoscrisse un accordo con le principali compagnie petrolifere del tempo (Consorzio delle Compagnie petrolifere: le mitiche Sette sorelle), accordo che sradicò il precedente monopolio della Anglo-Persian Oil Company. Lo Scià ritornò dall’esilio e affidò a uno Stato totalitario e potentemente centralizzato l’opera di svecchiamento definitivo del Paese. Entrambi i colpi di Stato del 1953 furono chiaramente voluti e sostenuti da Washington, che tra l’altro approfittò dell’”aiuto fraterno” offerto a Londra per prenderne il posto come prima potenza imperialista in Iran e in tutto il Medio Oriente. Mai fidarsi degli “aiuti fraterni”!

La società iraniana uscì letteralmente sconvolta dalla seconda “rivoluzione”, soprattutto a causa della riforma agraria varata nel 1963, la quale allontanò dalle campagne milioni di contadini poveri che si riversarono nei centri urbani del Paese per formarvi un esercito industriale a disposizione delle necessità dell’industrializzazione e della stessa urbanizzazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta il 60% della popolazione viveva nella campagna iraniana. Il 15 giugno del ’63 l’esercito iraniano fece fuoco con obici e mitragliatrici sui manifestanti che chiedevano pane e lavoro, uccidendone più di 4.000.

Le città si riempirono a un ritmo vertiginoso di milioni di ex contadini, soprattutto giovani, che non riuscivano a trovare un impiego e che solo nelle “caritatevoli” organizzazioni religiose riuscivano a trovare un qualche conforto materiale e spirituale. Il controllo sociale, com’è noto, ha mille volti, compreso quello barbuto del Misericordioso Mullah. Inutile dire che l’ingerenza della “mano pubblica” nella sfera economica creò una diffusissima rete di corruzione sociale, la quale venne usata dai mullah per esacerbare il rancore degli strati più poveri del proletariato in chiave antimonarchica.

A capodanno del 1978 il Presidente americano Jimmy Carter ebbe l’ardire di dichiarare durante il tradizionale brindisi di fine anno offerto dallo Scià che l’Iran rappresentava un modello di stabilità per tutto il Medio Oriente. Chissà cosa pensò di quelle parole un Pavone ormai ampiamente spennacchiato e prossimo alla fuga più vergognosa. Nel febbraio del 1979, quando la radicalizzazione dello scontro sociale divenne inarrestabile (già ad agosto del ’78 lo Scià fu costretto a promettere «elezioni libere» per il giugno dell’anno successivo), anche i partiti laici, e persino l’Amministrazione americana, si convinsero che puntare sul cavallo chiamato Khomeini fosse la sola opzione possibile per tenere sotto controllo una società in preda a convulsioni e a tensioni di estrema gravità, tali da far temere alle forze antimonarchiche un esito autenticamente rivoluzionario della crisi. La fugace apparizione sulla scena politica del Paese di Sciapur Bakhtiar, dimessosi precipitosamente dal governo all’arrivo trionfale di Khomeini dall’esilio francese, dimostrò che non era possibile una soluzione “convenzionale” (di stampo occidentale) della crisi generale che investiva l’Iran. È anche bene ricordare come solo nel 1978, dinanzi al dilagare delle manifestazioni, l’alto clero sciita iniziò a staccarsi definitivamente dal regime monarchico, dopo averlo supportato più o meno apertamente per decenni e aver contribuito per secoli alla passività delle classi subalterne.

La cosiddetta “rivoluzione islamica” del febbraio 1979 parve insomma surrogare/prevenire una potenziale rivoluzione sociale – resa peraltro impossibile dall’assenza in Iran, come peraltro ovunque nel mondo, di soggetti politici autenticamente rivoluzionari in grado di avere una certa influenza almeno su una parte del proletariato urbano e dei contadini poveri, allora molto numerosi in quel Paese. Ben presto il clero sciita si autonomizzò nei confronti del blocco “laico-socialista” che si era illuso di poter governare il Paese senza la sua ingerenza politica, e prese nelle proprie mani tutte le leve del potere (economico, politico, ideologico), schiacciando brutalmente i partiti che per decenni avevano combattuto il regime di Reza Phalavi. «Khomeini non è un uomo politico: non ci sarà un partito di Khomeini, non ci sarà un governo di Khomeini. Khomeini è il punto di incontro di una volontà collettiva»: così si era espresso Michel Foucault. Sappiamo com’è andata a finire. Come recita il Corano, «L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità».[6] Verità che nel caso di specie si “declina” in termini rigorosamente classisti, al netto della fuffa ideologica dai contorni pseudo religiosi che l’avvolge. Che una repressione violentissima volta a ripristinare l’ordine sociale assuma l’aspetto di una “rivoluzione” (ancorché Islamica) è un falso paradosso che può stupire solo chi non ha chiara la natura sociale degli eventi che si dipanano sotto i suoi occhi. Noi italiani non parliamo forse, mutatis mutandis, di “Rivoluzione Fascista”?

Le organizzazioni di estrema sinistra presenti in Iran inquadrarono gli avvenimenti che scuotevano il Paese all’interno dello schema, ormai storicamente superato, della rivoluzione democratica e antimperialista, dimostrando così la loro estraneità a un’autentica posizione anticapitalista. Per quanto strutturalmente ancora debole e legato a doppio filo all’imperialismo occidentale, il capitalismo si era ormai radicato in profondità nel Paese, mettendo definitivamente in crisi i vecchi rapporti sociali basati sulla rendita fondiaria. L’Iran del 1979 non era la Russia del 1917, né la funzione dello Scià era assimilabile a quella dello Zar. Rimanendo nel quadro delle cose contingentemente possibili, in quel Paese non c’era all’ordine del giorno una rivoluzione democratico-nazionale, ma una modernizzazione capitalistica che permettesse al Paese di superare le vecchie e le nuove contraddizioni. Investire anche solo una parte della borghesia iraniana (e del clero sciita!) di una seppur residuale «missione storica progressiva» non solo era infondato sul piano dell’analisi storica, ma soprattutto creava le premesse per una totale subordinazione delle presunte forze rivoluzionarie agli interessi dello status quo sociale. Scenario che infatti si realizzò. La sanguinosa repressione che colpì quelle forze rese evidente la loro incapacità di analisi, incapacità che aveva creato in esse illusioni davvero risibili ma pienamente conformi alla loro ideologia piccolo borghese.

È un fatto che le preziose energie che il proletariato iraniano seppe dispiegare nel biennio 78-79 non ottennero l’effetto di creare un terreno fertile all’autonomia di classe, con la formazione di organismi politici, sindacali e culturali legati agli interessi immediati e strategici delle classi subalterne. Quelle energie andarono disperse o, peggio ancora, furono usate dalle forze della conservazione sociale, non importa se in guisa laica o clericale. Ma ciò testimoniò anche, se non soprattutto, la debolezza politica e sociale del proletariato mondiale, completamente assente sulla scena storica grazie soprattutto al nefasto lavoro dello stalinismo internazionale.

Dal canto loro i partiti antimonarchici che si contendevano la leadership politica del Paese cercarono di usare i “rivoluzionari” come massa d’urto da lanciare contro il vecchio regime ma badando che il movimento sociale rimanesse sui binari di un mero cambiamento di regime politico, che alla fine ci fu. Insomma, solo il clero sciita si dimostrò all’altezza della situazione, dimostrando ancora una volta come la necessità storica spesso lavori con grande creatività politica e ideologica.

Sviluppo “ordinato” dell’economia, forte e capillare controllo sociale, proiezione del Paese nello scenario internazionale, conquista della leadership in Medio Oriente: dalla fine della guerra con l’Iraq (1980-1988) la “democrazia confessionale” degli ayatollah ha cercato di perseguire tutti questi obiettivi. Lungi dal ripristinare i vecchi rapporti sociali, impresa d’altra parte impossibile, il clero sciita si è posto al servizio dello sviluppo capitalistico del Paese, nei modi più conformi al suo nuovo assetto politico-istituzionale e alla sua nuova collocazione nello scacchiere imperialistico. C’è da dire, per concludere, che cacciati dal Paese gli assistenti americani, l’industria petrolifera iraniana si rivolse soprattutto al Giappone, alla Germania e all’Italia per ricevere gli aiuti indispensabili per riavviare la produzione e riprendere le esportazioni di greggio. L’aiuto arrivò, e ciò mise l’Iran nelle condizioni di portare avanti la lunga e sanguinosissima guerra contro l’Iraq, Paese sostenuto dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Detto en passant, la guerra Iran-Iraq favorì la strana alleanza di fatto tra Iran e Israele, entrambi interessati a frenare le ambizioni del blocco sunnita.

[1] «Oggi per la prima volta le donne saranno ammesse negli stadi in Arabia Saudita. La notizia viene riportata da Arab News» (Ansa). Una notizia davvero epocale! Ho la pelle d’oca! Scherzo, ovviamente. D’altra parte tutto è relativo, come diceva quello. «La decisione era stata annunciata lo scorso 29 ottobre, nell’ambito del processo di riforme avviate dal giovane principe ereditario Muhammad ben Salman».
[2] «L’obiettivo dell’Iran in Afghanistan, sostengono diversi analisti, è contare sempre di più, mantenendo il governo afghano debole, in due modi: aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato Islamico, entrambi nemici dell’Iran. In questo senso è difficile dire se e quanto l’uccisione di Mansour abbia indebolito gli interessi iraniani in Afghanistan. Certamente l’Iran ha perso un importante interlocutore, ma il successore di Mansour, Hibatullah Akhundzada, non ha mostrato finora di avere intenzione di rompere i legami con il governo iraniano. Di certo c’è che l’atteggiamento futuro del Pakistan verso i talebani, e la collaborazione tra il governo pakistano e americano, saranno elementi che condizioneranno il tentativo dell’Iran di farsi largo in Afghanistan» (Il Post).
[3] «La composizione demografica della popolazione, l’alto livello di alfabetizzazione e istruzione (più del 60% degli abitanti ha meno di 30 anni), la posizione geografica strategica (crocevia tra oriente e occidente), e la presenza di una rete sufficientemente sviluppata di infrastrutture, trasporti e telecomunicazioni, sono ulteriori punti di forza del contesto economico iraniano» (Ministero degli Esteri Italiano).
[4] Ovviamente Fatigante quando scrive «socialismo» intende in realtà parlare del Capitalismo di Stato in salsa iraniana promesso quarant’anni fa dal misericordioso clero sciita alle masse diseredate del Paese. Sul “socialismo islamico” avevano nutrito molte – e pietose – illusioni anche gli stalinisti del Tudeh prima che finissero sotto il tallone di ferro della Repubblica Islamica. Ecco ad esempio ciò che dichiarò a un settimane statunitense un dirigente di quel partito per spiegare l’appoggio accordato dai “comunisti” iraniani all’idea avanzata da Khomeini di creare un Consiglio della rivoluzione islamica:  «La religione sciita ha radici democratiche ed è sempre stata legata alle forze popolari nazionali anti-imperialiste. Credo che non ci sia differenza fondamentale tra il socialismo scientifico e il contenuto sociale dell’Islam. Al contrario ci sono molti punti comuni». Ricordo che nelle tempestose giornate del ’79 iraniano anche molti “comunisti” italiani si produssero in stravaganti ipotesi circa la possibilità di mettere insieme l’islamismo sciita (la «religione degli oppressi») e il “marxismo” (la “coscienza degli oppressi”). C’è anche da dire che nei confronti della parola consiglio (Soviet della rivoluzione islamica!) molti “comunisti” manifestano un alto tasso di feticismo, confermando la tesi di chi sostiene la natura magica di certe parole per certe persone.
[5] Un’inchiesta del 2013 della Reuters ha fatto luce sulla Setad, il mega-colosso finanziario iraniano, controllato direttamente dalla Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. «L’immagine al Paese e al mondo è quella sobria, ma la Guida suprema della Repubblica Islamica controlla un impero economico da 95 miliardi di dollari, oltre 70 miliardi di euro, una cifra ben superiore alle esportazioni petrolifere annuali dell’Iran. Nata per fini caritatevoli, nel corso del tempo la società Setad avrebbe cambiato volto, diventando il braccio armato dei vertici dell’Iran e gonfiandosi di partecipazioni private e pubbliche nei settori più delicati anche dal punto di vista geopolitico» (formiche.net).
[6] Allora avevo diciassette anni e le notizie che venivano dall’Iran mi riempivano di entusiasmo “rivoluzionario”; quando poi Khomeini ordinò alle milizie sciite di regolare i conti con gli ex alleati appartenenti alle diverse tendenze politiche antimonarchiche ci rimasi davvero male. Ricordo che un giorno il mio professore di religione, peraltro persona simpaticissima (in pagella mi dava il massimo dei voti!), mi avvicinò lentamente come un serpente per sussurrarmi all’orecchio la seguente velenosa frase: «Sebastiano, devi rassegnarti, le rivoluzioni vanno a finire tutte così, cioè male». Non seppi come replicare e mi nascosi dietro un sorriso di circostanza. Solo qualche mese dopo fui comunque in grado di impartirgli una circostanziata ricostruzione storico-politica degli eventi iraniani che metteva in luce la vera natura sociale della cosiddetta Rivoluzione Islamica. «Sebastiano», obiettò il prete professore, «non mi hai affatto convinto». E mi prestò un libro il cui autore cercava di mettere insieme religione e marxismo. «Dimmi che ne pensi». Lo lessi e scoprii la fulminante frase che mi portò sul campo del “marxismo”: «Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità». Grazie, Padre Papotto!

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SIRIA-DEFINITIVALa lettura dell’escalation politico-militare in atto in Medio Oriente fornita da tutti gli analisti di geopolitica, soprattutto da quelli specializzati in “trame” mediorientali, è sostanzialmente univoca e, a mio avviso, sostanzialmente corretta – rimanendo, beninteso, sul puro terreno della dialettica geopolitica. Si tratta, in primo luogo, dell’acuirsi di una tensione direttamente connessa alla lotta egemonica fra le due maggiori potenze regionali da sempre in irriducibile contrasto: Arabia Saudita e Iran. Siria, Iraq, Yemen: sono almeno tre i conflitti in corso nella regione mediorientale che vedono contrapposti, in modo sempre più scoperto, l’Iran e l’Arabia Saudita.

«Precipita la situazione tra l’Iran e l’Arabia Saudita a seguito dell’esecuzione della condanna a morte dell’ayatollah Nimr al-Nimr: gli aerei di Riyad hanno bombardato l’ambasciata iraniana a Sanaa, nello Yemen, paese dilaniato dalla guerra dopo il golpe degli sciiti houthi che ha portato al rovesciamento del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi. Per Rohani i sauditi “Non vogliono la stabilità e la pace nella regione per coprire i problemi interni e le politiche regionali fallimentari”. Difficilmente gli si potrebbe dare torto, se si pensa che dietro al conflitto siriano ci sono in primis le monarchie del Golfo, ma anche altri attori, che hanno tentato di strappare la zona di influenza ad Iran e Russia sostenendo anche economicamente non solo le opposizioni, ma anche i gruppi jihadisti cominciando da Jabat al-Nusra (diramazione di al-Qaeda in Siria) per arrivare all’Isis. Per lo Yemen la musica non cambia, salvo il fatto che lì le parti sono invertite, con le monarchie del Golfo in sostegno all’ancien régime, mentre gli iraniani stanno con gli insorti» (E. Oliari, Notizie geopolitiche).

La mattanza mandata in scena il 2 gennaio dal regime “moderato” saudita, aggravata dall’uccisione dell’ayatollah sciita Nimr Baqr al-Nimr, un «pio fedele» molto amato nel mondo sciita (è sciita il10-15% della popolazione saudita), ha certamente avuto il significato inequivocabile di una provocazione orchestrata da Riyadh contro gli alleati americani (in primis), gli europei (ai quali, come sempre, piace praticare anche in Medio oriente la politica dei “due – se non dei tre o quattro – forni”) e i russi, alleati di ferro di Teheran almeno dal crollo dell’ex unione Sovietica; ma si spiega anche con la necessità del regime di rafforzare il nazionalismo religioso saudita in un momento di acutissima, e potenzialmente devastante (per la monarchia regnante), crisi economica. Scrive Toby Matthiesen: «In tempi di crisi, la “minaccia sciita” viene usata per compattare attorno alla famiglia regnante il resto della popolazione, per la maggior parte composta da sunniti di diverse credenze» (Limes). Un classico nella gestione del conflitto sociale in ogni parte del mondo, a cominciare naturalmente dal civilissimo Occidente, il quale in fatto di intossicazione nazionalistica delle masse e di ricerca del capro espiatorio buono per l’occasione non ha mai avuto rivali. Il nazionalismo, a sfondo laico o religioso, è da sempre un veleno per le classi dominate e un’eccezionale riserva di stabilità sociale per le classi dominanti. «Fra tutte le forme di superbia», scriveva A. Schopenhauer, «quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale [o religioso, potremmo aggiungere]. Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione [o della religione] alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (Il giudizio degli altri, RCS).

Necessariamente lo scontro di enormi interessi strategici sopra evocato e lo stesso conflitto sociale interno ai Paesi del Medio e del Vicino Oriente devono assumere una parvenza religiosa, considerato il ruolo politico-ideologico che in tutta l’area geopolitica in questione ha da sempre giocato la religione. Ma non bisogna certo essere fan sfegatati di Carlo Marx per comprendere che la «guerra settaria» tra sunniti e sciiti da sempre esprime, copre, veicola e potenzia una lotta di potere “a 360 gradi”: dalla supremazia economica a quella politica, dall’egemonia ideologica a quella militare (vedi anche alla voce “guerre per procura”, con annesso  terrorismo)*. Scriveva Olivier Roy, studioso dell’Islam, dopo gli attentati terroristici di novembre a Parigi: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulmani”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità» (La Repubblica). Della cieca “radicalità”, della “radicalità” che non ha coscienza della radice sociale del problema, mi permetto di aggiungere. Per questo altre volte ho scritto che la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che se ne fa.

Secondo quanto scriveva il generale Carlo Jean nel 2001, «L’obiettivo principale di bin Laden non è quello di colpire l’America in quanto tale o per punirla per i torti fatti all’islam o in Palestina […] L’obiettivo principale è quello di sfruttare le frustrazioni delle masse islamiche, escluse dal benessere e dal potere politico nei loro paesi, per farle rivoltare contro i loro governi, amici dell’Occidente e prenderne il posto» (Limes, n. 4/2001). Esattamente questo significa usare la religione, o qualsiasi altra ideologia, a fini di potere. È facile vendere il Paradiso (peraltro popolato, a quanto pare, da vergini bellissime) a giovani che non hanno da perdere nulla (se non le famose catene) e che vivono in una condizione di tale disperazione, che la loro stessa vita è sottoposta a un forte processo di svalutazione, al punto che molti di essi gridano di non aver paura della morte, al contrario di noi occidentali, così attaccati ai beni materiali: «Noi amiamo la morte così come voi amate la vita, ecco perché non temiamo di trasformarci in bombe umane per colpire i miscredenti. Se il misericordioso Allah vuole, la vittoria è certa». (Forse, aggiunge il miscredente occidentale, il cui “scetticismo cosmico” fa peraltro inorridire anche i cosiddetti atei devoti e i teorici della morte dell’Occidente – molti dei quali tifano per il virile Vladimir Putin). L’etica del kamikaze è radicata nella cieca disperazione. Scriveva Hosokawa Hachiro, uno dei pochi piloti giapponesi sopravvissuti del «gruppo speciale d’attacco» (tokkotai) creato nell’ottobre del 1944: «Si trattava di veri e propri atti di disperazione militare. In varie situazioni di guerra gli uomini compiono azioni eroiche e disperate, sperando di ribaltare le sorti del conflitto. Di solito però sono azioni individuali. Ecco, forse per la prima volta nella storia militare la disperazione è stata organizzata in gruppo». Com’è noto, circa quattromila giovanissimi piloti giapponesi partirono per un viaggio di sola andata su aerei spinti più dai «venti divini» che dal carburante. Le classi dominanti hanno imparato bene a organizzare anche sul piano militare la disperazione delle masse giovanili.

Storicamente per la Persia lo sciismo, diventato religione ufficiale nel XVI secolo con l’Impero dei Safavidi, ha espresso la volontà del Paese, invaso nel VII secolo dopo Cristo dagli arabi islamizzati, di mantenere la propria autonomia nei confronti del mondo arabo sunnita e della Turchia ottomana.  «L’elemento caratterizzante dell’era safavide va piuttosto ricercato nel risorgimento nazionale del concetto di Iran, e quindi nella formazione di uno Stato che grosso modo corrisponde ancor oggi alla “moderna” nazione persiana, connotato fin dal principio da una sua caratterizzazione religiosa specifica – quella sciita duodecimana – e in netta contrapposizione con altri grandi Stati che caratterizzeranno il mondo islamico orientale sino ad epoche molto recenti, a iniziare a Occidente con l’impero ottomano, sino a Oriente, dove gli Uzbechi in Transoxiana e i Moghul in India produssero anch’essi questa “definitiva” delimitazione del proprio ambito “nazionale” » (M. Bernardini, Storia del mondo islamico (VII-XVI): il mondo iranico e turco, Torino, Einaudi). Secondo Alberto Zanconato, «Il conflitto attuale parte dall’Iraq, il Paese che nel 1980, ai tempi del regime di Saddam Hussein, attaccò l’Iran dell’ayatollah Khomeini in quella che molti a Teheran videro come una seconda invasione araba dopo quella del VII secolo.  Proprio il ricompattarsi del Paese contro questa minaccia consentì al nuovo regime, insediatosi solo da un anno e mezzo, di consolidare la sua presa sul potere. E a partire dal 2003, grazie all’attacco anglo-americano che abbatté il regime di Saddam, l’Iran ha guadagnato una forte influenza nel Paese vicino, grazie alla vicinanza con i nuovi governi sciiti a Baghdad e l’istituzione di forze paramilitari sciite coordinate da Teheran. In questo modo, grazie a George W. Bush, la Repubblica islamica è stata in grado di realizzare un sogno secolare, quello di stabilire una continuità geografica tra forze sciite sue alleate dal proprio territorio fino al Libano, attraverso l’Iraq e la Siria. Uno scenario che non può che inquietare lo schieramento a guida saudita e nel quale sono nate le guerre che stanno sconvolgendo la regione» (Ansa.it). Non c’è dubbio.

Le ultime mosse di Riyadh sembrano davvero dettate da uno stato di estrema debolezza e insicurezza del Paese, tanto sul fronte esterno quanto su quello interno. Sul fronte esterno: la Russia incrementa la sua presenza in Siria e rafforza la sua alleanza con l’Iran, potenza regionale sempre più in ascesa, mentre gli americani, che dal 1945 puntellano in ogni modo il regime saudita (nonostante la propaganda ufficiale “antiamericana” della monarchia saudita a uso interno e regionale), sembrano praticare una politica di appeasement nei confronti dell’odiato nemico persiano, come si è visto a proposito del programma nucleare iraniano. Da parte sua, Washington non fa niente per nascondere la sua irritazione per il “terrorismo petrolifero” organizzato dell’Arabia Saudita allo scopo di affogare nel petrolio lo shale oil a stelle e strisce. «L’Arabia Saudita, infatti, ha continuato a pompare petrolio ferocemente. Lo scopo della strategia del cartello OPEC è, ovviamente, quello di fare guerra agli Stati Uniti, sperando che il crollo dei prezzi del petrolio spinga questi ultimi fuori dal mercato, in modo tale da recuperare le quote di mercato perdute. […] La strategia di Ryad sta costando parecchio al Paese mediorientale. Secondo quanto riportato da Il Sole 24 Ore,  “Soltanto nel 2015 con la guerra dei prezzi sono stati bruciati dal Paese 150 miliardi di dollari”. Il deficit di bilancio dell’Arabia Saudita è salito a 98 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dalla BBC» (V. D’Onofrio, Notizie geopolitiche). Di qui, una spending review del bilancio statale saudita che rischia di mordere anche la media borghesia del Paese, peraltro piuttosto attiva nella timida “primavera” del 2011; allora il regime rispose somministrando agli oppositori l’esilio, il carcere e la pena di morte. Insomma, lo stesso trattamento che l’odiata Repubblica Islamica dell’Iran riserva ai suoi oppositori “terroristi”: tutto l’Islam è Paese, potremmo dire con un certo occidentalismo caro alle “destre” basate di qua e di là dell’Atlantico. Per non parlare del regime siriano, che nel marzo del 2011 decise di usare il pugno di ferro militare solo dopo alcune manifestazioni pacifiche di protesta, avviando una escalation di violenza che ha provocato circa 300 mila morti e milioni di profughi e sfollati. A tal riguardo, e solo en passant, occorre ricordare che il Califfato Nero, che nel 2010 appariva in ritirata sul fronte irakeno, approfittò proprio della violenza e del caos in Siria per riprendere l’iniziativa, sempre con il supporto finanziario e militare dell’Arabia saudita e del fronte sunnita nel suo complesso, Turchia compresa.

Scriveva Eleonora Ardemagni nel novembre 2013: «Le manifestazioni dei lavoratori stranieri in Arabia Saudita permettono di aprire una finestra su uno spaccato della Penisola arabica spesso trascurato: il rapporto fra i rentier-state e le comunità immigrate. […] La revisione della legge sul lavoro ha un obiettivo specifico: diminuire il tasso di disoccupazione fra i cittadini sauditi, stimato oggi al 12%. Nove dei 27 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita sono infatti stranieri, soprattutto africani del Corno, yemeniti e asiatici (pachistani e indiani su tutti). Il tentativo di “saudizzazione del lavoro privato”, a fronte di un settore pubblico ormai saturo, va incontro, però, ad almeno tre ostacoli. Innanzitutto, la riformulazione della normativa sta già producendo l’aumento del costo del lavoro, perché un lavoratore saudita costa più di un asiatico o di un africano.

Le nuove politiche del lavoro di casa Al-Sa‘ud potrebbero avere pesanti ricadute regionali. Il provvedimento sta infatti irrigidendo i rapporti fra il regno e  il vicino Yemen: lavorano in Arabia Saudita tra gli 800 mila e il milione di yemeniti. Le rimesse dei lavoratori provenienti dalla repubblica arabica rappresentano un’ancora di salvezza per la fragile economia di Sana’a. Anche se vi sono dati discordanti, gli yemeniti toccati dal provvedimento si attesterebbero fra i 300 mila e i 500 mila; solo negli ultimi dieci giorni 30 mila persone avrebbero oltrepassato la frontiera tra i due paesi per fare ritorno in Yemen. Manifestazioni di protesta si sono svolte già quest’estate a Sana’a e in altre città yemenite» (ISPI). Il conflitto in corso in Yemen va visto anche da questa prospettiva.

Per valutare i movimenti nella politica interna ed estera dell’Arabia Saudita non bisogna nemmeno sottovalutare lo scontro tutto interno al Consiglio per la cooperazione del Golfo (Ccg), che comprende, oltre quel Paese, che ne costituisce il centro motore (un po’ come la Germania nei confronti dell’Unione europea), il Bahrain, l’Oman, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait. Ebbene, il Qatar è sempre meno disposto ad accettare l’egemonia dell’Arabia Saudita, e la cosa si è manifestata da ultimo anche nella tempistica della rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran decisa Doha, ultima delle capitali del Consiglio a farlo. Gli attacchi di Riyadh ai «media ostili» stranieri (leggi Al-Jazeera) non si contano più. Scriveva la già citata Eleonora Ardemagni nel marzo 2014 (questa volta su Limes): «Il vincolo di solidarietà fra le monarchie della Penisola arretra dinanzi alla competizione per il rango politico, sia dentro l’organizzazione sia, più in generale, nella regione. I concetti di sovranità e di interesse nazionale tornano così in primo piano. Il tema della sovranità, oggi riproposto con forza dal Qatar, è in antitesi con il regionalismo monarchico a trazione saudita, che ha fin qui animato il processo decisionale del Ccg, inevitabilmente egemonizzato da Riyad. […] L’Arabia Saudita, con l’appoggio di Bahrein ed Emirati, ha avviato un’escalation diplomatica contro il Qatar, accusato di finanziare la Fratellanza Musulmana non solo in Egitto e Siria, ma anche all’interno della stessa Penisola».

L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata dalla famiglia al-Saud, al potere dal 1932. Salman bin Abdul Aziz al-Saud è salito sul trono nel gennaio 2015, in seguito alla morte del fratello Abdullah. Il Paese è il maggiore produttore ed esportatore di greggio al mondo; le esportazioni petrolifere costituiscono l’80-90% delle entrate statali, il 48% del pil della nazione e l’85% dei proventi delle esportazioni. Come accade per gli altri Paesi legati alla rendita petrolifera (dal Venezuela alla Russia), anche in Arabia Saudita la spesa pubblica è pianificata sulle stime degli introiti petroliferi, soprattutto nel settore pubblico, che ancora oggi gestisce quasi in monopolio l’industria petrolifera – attraverso la Saudi Aramco, la più grande impresa del Paese. Per superare la debolezza strutturale derivante dalla dipendenza dal prezzo del petrolio sul mercato mondiale, il governo saudita da qualche anno sta cercando di attuare politiche di privatizzazione e di diversificazione economica, soprattutto in campo energetico: produzione dei cosiddetti idrocarburi non convenzionali (shale gas/oil), costruzione di centrali atomiche in cooperazione con società statunitensi e giapponesi, realizzazione di “campi” idonei a catturare l’energia solare. Si parla anche della costruzione delle «economic cities», di «città integrate» realizzate con le infrastrutture tecnologicamente più avanzate del pianeta che dovranno svolgere la funzione di poli di sviluppo per l’insieme del Paese. Naturalmente la «modernizzazione capitalistica» non è ben vista da una parte della classe dominante del Paese e da settori interni alla stessa monarchia saudita, ossia da tutti quelli che temono di perdere potere sociale a beneficio di una borghesia più dinamica e moderna. È una dialettica interna a tutti i Paesi arabi e in parte anche all’Iran. Dall’Egitto alla Siria, la cosiddetta Primavera Araba ha mosso i suoi primi passi quando la lenta transizione dell’area del medio e del Vicino Oriente verso un’economia meno statalista, meno parassitaria, meno infiltrata dalla corruzione e più aperta ai flussi capitalistici internazionali ha iniziato a dare i suoi primi frutti sul terreno politico (timide aperture in direzione di riforme istituzionali di stampo “democratico”) e su quello delle contraddizioni sociali – la “modernizzazione capitalistica” non è un pranzo di gala! Ma mentre i progetti per una “rivoluzione economica” rimangono in gran parte ancora da implementare, ciò che ha avuto modo di concretizzarsi, almeno negli ultimi cinque anni, è stato un forte aumento della spesa militare; con una spesa pari a circa il 9% del Pil, secondo l’International Institute for Strategic Studies l’Arabia Saudita è il quarto Paese al mondo per spesa militare. Solo nel 2010 gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno sottoscritto un contratto per la fornitura di armi Made in Usa per un valore di oltre 60 miliardi. Anche Regno Unito e Francia fanno lucrosi affari con i “moderati” leader di Riyadh.

«Il Comitato No Guerra No Nato ricorda la guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli. Noi non mettiamo tutti sullo stesso piano. Questa guerra viene dall’Occidente. Il terrorismo viene dall’Occidente. La crisi mondiale viene dall’Occidente». Mi viene un malizioso sospetto leggendo una prosa che tanto ricorda la propaganda dei Partigiani della pace: per il Comitato di cui sopra la Russia e la Cina* (tanto per fare dei nomi) non fanno parte dell’odierno «sistema di guerra»? Per me sì. Che significa poi non mettere «tutti sullo stesso piano»? Per me, ad esempio, significa che, in quanto proletario italiano, debbo oppormi in primo luogo all’imperialismo italiano (trattasi dell’ABC in fatto di “internazionalismo proletario”, mi pare), cosa che ovviamente non mi impedisce di condannare tutti gli imperialismi del mondo, grandi, medi o piccoli che siano – vedi il concetto di imperialismo unitario**. Secondo Franco Venturini (vedi Il Corriere della Sera di oggi) l’orologio si è messo a correre sul fronte libico e l’Italia non deve perdere il treno, anche perché tutti i Paesi della coalizione anti-Isis le riconoscono una leadership naturale nell’ex colonia africana. Bisogna rendere operativa ed efficace questa leadership, prima che sia troppo tardi. Ne va, conclude Venturini, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana. Ecco, per me si tratta innanzitutto di opporsi agli interessi dell’imperialismo italiano in Libia e ovunque, ossia di contrastare la politica estera italiana – anche quella praticata da sempre dall’Eni.

Anche io sono contro la Nato (a tal riguardo posso “vantare” diverse manifestazioni e molti “campeggi antimilitaristi”, a partire da Comiso 1983), ma non certo nella prospettiva ultrareazionaria, quanto chimerica, di un’Italia «sovrana e indipendente» –  e magari pure “socialista”, come dicevano un tempo gli stalinisti d’ogni tendenza che egemonizzavano l’evocato movimento dei Partigiani della pace.

Scrive Fulvio Grimaldi: «Molte guerre vengono dimenticate: Jugoslavia, Afghanistan, Ucraina, le aggressioni israeliane a Libano e Gaza, addirittura qualcuno s’è scordato della Siria. La nonviolenza assurta a imperativo categorico e dogmatico getta indecenti ombre sulla resistenza di popolo in Siria, Iraq, ovunque si eserciti la criminalità imperialista». Anche qui è d’uopo la maliziosa domanda: Russia e Cina sono escluse dalla «criminalità imperialista»? E poi, che cosa si intende esattamente per resistenza del popolo siriano? Si allude forse al regime, supportato da Russia e Iran, del macellaio di Damasco, in arte Bashar al-Assad? In caso di risposta affermativa, l’allusione non sarebbe indecente ma escrementizia. A volte occorre abbandonare ogni eufemismo e ogni accortezza diplomatica.

* In questi giorni diventa operativa in Cina la “Legge Antiterrorista” emanata il 28 dicembre dall’Assemblea Popolare Nazionale, che prevede, fra l’altro, la possibilità per Pechino di inviare forze speciali in Siria per combattere lo Stato Islamico e le altre «organizzazioni terroristiche» (cioè tutti gli oppositori di al-Assad?). L’obiettivo è, secondo l’agenzia di regime Xinhua, quello di salvaguardare la sicurezza mondiale compromessa dai numerosi attentati in diverse parti del mondo. Non c’è dubbio: con L’esercito Popolare di Liberazione in giro per il mondo la “pace” è più sicura. Inutile dire che gli Stati Uniti non gradiscono nemmeno un poco l’attivismo “antiterroristico” cinese in Medio oriente: essi pretendono di operare in regime di monopolio in materia di “lotta al terrorismo”. Che pretese!

** Quando parlo di Imperialismo unitario intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964).

SORRIDETE! GLI SPARI SOPRA SONO PER NOI!

 

R900x__sniperSorridete, gli spari sopra sono per noi!
Sorridete, gli spari sopra sono per noi!

Nel precedente post sui noti fatti parigini ho reagito ai passi che seguono: «Non bisogna commettere l’errore di quelli che vogliono razionalizzare e sociologiazzare ad ogni costo il comportamento del nemico. Il fanatismo non è solo un fenomeno sociale. Ci sono delle cause autonome e intrinseche. Certo, il fanatismo approfitta delle ingiustizie della società, ma ubbidisce a una logica che spesso ci sfugge. Ben Laden non ha organizzato l’11 Settembre per lottare contro le diseguaglianze sociali: ha commesso quel crimine per promuovere il suo folle progetto di califfato mondiale» (Libération). Oggi continuo la riflessione.

È come voler spiegare la cosiddetta “Rivoluzione Khomeinista” del 1979 in Iran a partire dall’infatuazione del popolo iraniano nei confronti dell’islamismo radicale (che ovviamente sono lungi dal negare), e non spiegare questa stessa infatuazione con la crisi sociale di quel Paese, con la miserabile condizione di milioni di proletari, di sottoproletari e di contadini poveri, con la brutale oppressione poliziesca (chi non ricorda la famigerata Savak, la polizia dello Stato monarchico?) del regime sanguinario dello Scià Pahlevi sostenuto dagli Stati Uniti e, dulcis – si fa per dire – in fundo, anche con l’assenza di un’autentica alternativa “di classe” – cosa che il partito stalinista Tudeh e i Fedayn del popolo non erano. Allora molti in Occidente dissero che si trattava di un ritorno al Medioevo; quanto fosse sbagliata quella lettura, tutta focalizzata sugli aspetti “sovrastrutturali” della Repubblica Islamica, lo dimostra l’attuale capacità industriale e tecno-scientifica dell’Iran, il suo dinamismo geopolitico (vedi Siria!), la “modernità” di gran parte della popolazione giovanile (nonostante l’occhiuta e violenta vigilanza dei cosiddetti Guardiani della rivoluzione), gli stessi contrasti interni al regime fra “moderati” e “radicali”, “progressisti” e “conservatori” – contrasti che si spiegano sempre e puntualmente a partire dalla nozione di Potere.

È come voler spiegare la crisi sociale della Polonia stalinista, gli scioperi dei cantieri navali di Danzica agli inizi degli anni Ottanta e la stessa nascita di Solidarność («Sindacato autonomo dei lavoratori») con la tradizione cattolica di quel Paese e con l’interventismo “anticomunista” della Chiesa (che ovviamente ci fu), come pure fecero gli stalinisti basati in Occidente, i quali vedevano solo una moltitudine operaia che invece di inginocchiarsi e prostrarsi dinanzi ai sacri simboli del regime “socialista”, si inginocchiavano e pregavano dinanzi alla croce  e ai poster di Papa Wojtyla: che scandalo! «Altro che lotta di classe: qui ritorniamo al Medioevo!». Allora quanti ne ho conosciuti di questi…, beh, lasciamo perdere, per carità di Dio!

È come voler dar conto delle cause reali delle due guerre imperialiste del XX secolo sulla scorta della propaganda politico-ideologica con cui tutte le Potenze in guerra martellarono i cervelli delle vittime (non si vive di soli bombardamenti aerei!): guerra difensiva, guerra fatta per tutelare i valori della Civiltà Occidentale, guerra di liberazione nazionale, guerra in risposta ai “proditori e vigliacchi” attacchi altrui (com’è noto è sempre il nemico che porta la responsabilità di aver iniziato la carneficina), guerra contro il “comunismo internazionale”, guerra per il “socialismo”, guerra contro l’imperialismo (degli altri!) e così via nel lungo elenco delle menzogne propagandistiche.

È come voler spiegare la nascita del Fascismo con il carattere spregiudicato e volitivo di Mussolini o con la frustrazione di una parte della piccola borghesia italiana declassata (cose che ovviamente nessuno si sogna di negare), e non, in primo luogo, con le conseguenze complessive (anche di natura psicologica) della Grande Guerra, con la crisi sociale in genere che allora si produsse, con la crisi dello Stato liberale, con l’insorgenza rivoluzionaria di una parte del proletariato italiano (quello che voleva «fare come in Russia», per intenderci), con il riflusso di questa stessa insorgenza e con la reazione della classe dominante del Paese, appoggiata anche da gran parte del mondo politico liberale. Mi scuso se ho dimenticato di citare qualche altra causa “strutturale” o “sovrastrutturale”.

È come voler spiegare il Nazismo con la pazzia di Hitler e con la frustrazione professionale/esistenziale dei suoi più stretti collaboratori (in circolazione c’è sempre un “pazzo” o un “disadattato” che può tornar utile!), e non, fondamentalmente, con la catastrofica crisi sociale tedesca, peraltro maturata in un particolare contesto internazionale segnato dalla Grande Crisi del ’29, e con il riflusso del movimento operaio tedesco, colpito anche dalla controrivoluzione stalinista che ne prosciugò le residue energie rivoluzionarie – questo naturalmente in analogia con il movimento operaio degli altri Paesi, non solo occidentali. È sufficiente vedere i film “maledetti” sfornati in Germania negli anni Venti per rendersi conto della folle tempesta sociale (anche «emozionale», per dirla con Wilhelm Reich) che da anni si andava preparando in quel Paese, letteralmente squassato da una crisi non solo economica ma anche di natura morale e identitaria.  «Già da tempo abbiamo detto che è “l’angoscia sociale” che costituisce l’essenza di ciò che chiamiamo la coscienza morale» (1).

Come ho detto altre volte, più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria (tricolore o nera che sia), in questa o quella tifoseria nazionalista o/e imperialista.

La rabbia e l’odio delle classi dominate e di chiunque desidera ribellarsi contro uno status quo avvertito come non più tollerabile si armano con le ideologie che si trovano sul terreno, non importa se di antica o di recente fabbricazione, e in assenza di un’autentica soggettività rivoluzionaria, di un’autentica coscienza di classe, il più delle volte hanno la meglio quelle ideologie e quei partiti che per un verso confermano il “deplorevole” stato d’animo delle masse, e che per altro verso  promettono di dare a esso una efficace risposta politica. Chi vuole “fare la rivoluzione”; chi è accecato dall’odio, dalla frustrazione, dall’invidia di classe, dalla mancanza di prospettive e da altre magagne materiali e “psicosociali”; chi si sente in guerra con l’intero mondo: questo “tipo sociale” il più delle volte non si rivolge a ideologie e a soggetti politici che predicano «pace e amore», che consigliano “agli ultimi” di porgere l’altra guancia, bensì a ideologie e a soggetti politici che gli indichino un nemico preciso (leggi anche capro espiatorio) su cui poter scaricare, hic et nunc, la sua rabbia, e che gli vendano una spiegazione, facile da comprendere, capace di razionalizzare la sua esistenza nell’irrazionale mondo che lo ospita. E questo manganello ideale e materiale, che di volta in volta può  vestire i panni della religione o indossare una maschera laica se non laicista, anche in conformità con la storia dei Paesi, non manca mai all’appuntamento con il disagio sociale. Come dimostrano Mussolini, Hitler e tutti i demagoghi e i populisti di “destra” e di “sinistra”.

In questo senso ho sostenuto che le ideologie (religione inclusa) non spiegano un bel niente, se le consideriamo come il punto di partenza dell’analisi, mentre esse acquistano un significato preciso e possono aiutarci alla composizione del puzzle solo alla luce di processi e di contraddizioni sociali reali, di carattere materiale e d’ordine “spirituale”, di natura economica come di natura psicologica. La stessa psicologia delle masse, per usare un noto termine, dev’essere considerata, sempre a mio avviso, alla stregua di un fondamentale fattore “strutturale” da premettere senz’altro alla considerazione delle ideologie che entrano puntualmente in scena in una crisi sociale.

Da qualche parte ho letto che la spiegazione “sociologica” non spiega la deviazione jihadista di molti giovani musulmani: «Come si spiega che anche molti giovani benestanti si sono convertiti all’Islam radicale? Lo stesso Ben Laden era un miliardario». Ma è questa riflessione che sconta un grave limite sociologico, che mostra una concezione economicista, estremamente volgare del disagio sociale che in qualche modo attraversa l’intera stratificazione classista della società. Come se gli individui ricchi o benestanti non potessero avvertire appunto il disagio sociale, la miseria (non solo “materiale”), la disumanità, l’ingiustizia e la violenza che trasudano da ogni singolo poro della Società-mondo! Come se agli individui di estrazione sociale borghese fosse preclusa in linea di principio la strada che porta a maturare una coscienza rivoluzionaria del mondo! (Precisazione per gli sciocchi – e per i tutori dell’ordine democratico: non sto alludendo ai Misericordiosi Martiri di Allah! Per una lettura “rivoluzionaria/antimperialista” dello Stato Islamico bisogna rivolgersi a Loretta Napoleoni, non al sottoscritto!). E come si spiega che proprio un intellettuale borghese, un tale Marx, ha posto le basi di quella che una volta si chiamava «coscienza di classe»? Per non parlare del suo grande amico e compagno di lotta, Engels, il quale si guadagnava da vivere nell’azienda del padre. Paradossi che si spiegano benissimo con la stessa condizione materiale delle classi subalterne, a partire dalla «degradante divisione del lavoro in lavoro intellettuale e lavoro manuale» (Marx). Sto associando, anche solo alla lontana, come semplice paradosso, la barba di Marx ed Engels a quella di Ben Laden e degli altri pretendenti al Califfato Mondiale? Non mi ritengo responsabile della cretineria altrui!

Scriveva Simone Weil all’amica Albertine nel 1935: «Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale quotidiana. E non credere che ne sia conseguito in me un qualche moto di rivolta. No; anzi, al contrario, quel che meno mi aspettavo da me stessa: la docilità. Una docilità di rassegnata bestia da soma. Mi pareva d’essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – di non aver mai fatto altro che questo – di non dover mai far altro che questo. Non sono fiera di confessarlo. È quel genere di sofferenza di cui non parla nessun operaio; fa troppo male solo a pensarci». E generalizzando: «Un’oppressione evidentemente inesorabile ed invincibile non genera come reazione immediata la rivolta, bensì la sottomissione» (2). Certo, anche la sottomissione alle ideologie dominanti (comprese quelle a “sfondo” religioso) in una data epoca e in una data parte del mondo. Ma qui si divaga! Forse.

Il miliardario Ben Laden poteva anche credere, in tutta buona fede, di essere stato investito personalmente dal suo Dio dell’altissima missione di creare il Califfato sulla Terra; ciò non toglie il fatto che la sua ideologia fu sempre messa al servizio di precisi quanto prosaici interessi materiali, politici e geopolitici (durante gli anni Ottanta anche al servizio del Grande Satana a stelle e strisce) sintetizzabili con il concetto di Potere sociale – o sistemico. Per questo dopo la strage parigina del 13 novembre ho scritto che siamo tutti (a Nord come a Sud, a Ovest come a Est, nel mondo cristiano come in quello musulmano, piuttosto che nel mondo buddhista, induista, scintoista, taoista, ateista, laicista) ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore, i cui pilastri portanti naturalmente sono rappresentati dalle grandi, dalle medie e dalle piccole Potenze. La Francia e l’Italia sono parte integrante di questo sistema che ci espone a qualsiasi tipo di pericolo, compreso quello terroristico che ci viene dal «nemico». Tanto per essere chiari: il mio nemico è il sistema mondiale del terrore preso in blocco, concepito come una sola compatta – e altamente contraddittoria/conflittuale: è la capitalistica guerra di tutti contro tutti! – totalità disumana. Credere che la gente possa condividere il punto di vista qui espresso sarebbe da ingenui, soprattutto nel momento in cui la macchina propagandistica e terroristica («Chi non si schiera dalla parte degli Stati attaccati dal terrorismo islamico è un fiancheggiatore del Califfato Nero!») gira a pieno regime – è proprio il caso di dirlo!

Mi sono sempre attenuto scrupolosamente alla massima marxiana che consiglia di giudicare le azioni delle persone – e delle “masse” – non sulla base di ciò che esse credono di essere (comunisti, fascisti, martiri per conto di Dio o di Allah) e di fare (la «società giusta», What else?), ma sulla scorta di ciò che esse sono e fanno realmente. Ho fatto questo non per spirito di parte o in acritico ossequio a una fede (non sono neanche un marxista!), ma perché il principio funziona abbastanza, almeno per come la vedo io, si capisce.

20151129_isL’invito a non aver paura che le autorità ci ripetono continuamente mi ricorda tanto l’analogo invito gridato dagli ufficiali, e dai graduati in genere, alla truppa nel corso di un’operazione militare: «Non abbiate paura del nemico, cazzo! Non siate vigliacchi! Andate avanti, cazzo, non arretrate di un millimetro, siamo i più forti!». Per essere più convincente l’invito è spesso accompagnato da una bella pistola puntata alla schiena. Siamo in guerra, ormai è assodato, ma dobbiamo andare avanti. Anche perché se cambiamo il nostro stile di vita, oltre a darla vinta «al nemico», danneggiamo pure l’economia, che è già abbastanza depressa di suo. Io do il mio piccolo contributo alla causa recandomi prima in un grande centro commerciale e poi in un cinema. Domani forse vado allo stadio, martedì volerò in aereo. Avanti! avanti! E che Allah o chi per lui me la mandi buona! Intanto, per darmi coraggio, canticchio: «Sorridete, gli spari sopra sono per noi! Sorridete, gli spari sopra sono per noi!».

(1) S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’io, p. 106, Newton, 1991.
(2) S. Weil, La condizione operaia, pp. 95-126-127, SE, 1994.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ACCORDO ATOMICO DI LOSANNA

obama-rohani-rouhani-iran-stati-uniti-560950Cerchiamo di fare il punto, “a volo d’uccello” e senza alcuna pretesa di organicità e completezza, sullo «storico accordo» (preliminare!) sul nucleare iraniano sottoscritto a Losanna il 2 aprile dall’Iran e dai Paesi del 5+1 – una formula geopolitica che la dice lunga sulla Bilancia del Potere mondiale a settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale.

«È un grande giorno» ha esultato John Kerry, che somiglia sempre più a un cowboy perennemente ubriaco; «Si preverrà la bomba nucleare [iraniana] e il mondo d’ora in poi sarà più sicuro», ha invece commentato il sobrio Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che adesso deve fare i conti con i tanti “falchi” che svolazzano nel Congresso. «L’accordo con l’Iran», ha precisato Obama proprio per tranquillizzare i “falchi” (numerosi in entrambi i partiti del regime americano), «non si basa sulla fiducia, ma su verifiche senza precedenti». Vedremo presto fino a che punto gli “oltranzisti”, che rimproverano al Presidente una ritirata strategica dal Medio oriente, si sentiranno rassicurati da quella precisazione.

Se Angela Merkel (la “+1” della formula magica) in una nota diramata dalla portavoce ha fatto sapere che «siamo vicini come mai prima a un accordo che rende impossibile il possesso delle armi atomiche dell’Iran», il suo Ministro degli Esteri ha dichiarato che è ancora troppo presto per cantare vittoria, anche perché nelle more (i dettagli tecnici dell’accordo dovranno essere definiti entro il 30 giugno) può sempre infilarsi la coda del demonio.

Per Federica Mogherini, Alto rappresentate per la politica estera Ue (qualunque cosa tale qualifica voglia dire), «abbiamo fatto un passo storico verso un mondo migliore»: nientedimeno! È giustificato tutto questo ottimismo? Naturalmente la risposta varia col variare delle prospettive dalle quali si osserva la cosa. Infatti, alcuni Paesi hanno esultato ad accordo annunciato, mentre altri sono caduti in una depressione a dir poco cosmica. Ci sono insomma Paesi che pensano di aver vinto e Paesi che pensano di aver perso, e ovviamente tutti, vincenti e perdenti, credono di avere ragione. Ed è proprio così. Si tratta dunque di capire da quale parte pende la bilancia della Ragione – e del Potere.

Scrive Maurizio Molinari, uno degli analisti di politica estera più seri del Paese: «Vincono Obama e Rohani, i leader che più hanno voluto l’accordo. Il presidente Usa perché convinto che il dialogo con i nemici rafforza la leadership americana nel mondo e, in questo caso, disinnesca la minaccia atomica di Teheran. Il presidente iraniano perché vede riconosciuto il diritto all’arricchimento dell’uranio e ha la possibilità di far ripartire l’economia e gli investimenti grazie alla progressiva riduzione delle sanzioni. Perdono Israele, Arabia Saudita, Egitto e gli altri Paesi sunniti protagonisti di forti pressioni su Usa e Ue per evitare un’intesa che ritengono pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Anche la Russia esce indebolita perché il dialogo fra Usa e Iran che ora inizia consegna nuove opzioni a Obama, riducendo gli spazi per Mosca» (La Stampa, 3 aprile 2015).

L’Arabia Saudita non ha usato mezzi termini nel manifestare il proprio disappunto circa l’esito della trattativa svizzera: «Gli Stati Uniti ci hanno tradito stringendo un cattivo e pericoloso accordo con il nostro nemico storico». Il Premier israeliano Benjamin Netanyahu, fresco del successo elettorale costruito sulla paura della minaccia terroristica “convenzionale” e nucleare, ha lanciato un twitter a dir poco… atomico: «Ogni accordo deve riportare indietro in maniera significativa le capacità nucleari dell’Iran e fermare il suo terrorismo e la sua aggressione». Nello stesso messaggio Netanyahu ha allegato una mappa del Medio Oriente, sovrastata dalla scritta Le aggressioni dell’Iran durante i negoziati nucleari, che riporta le scorribande iraniane degli ultimi mesi: dallo Yemen, alla Siria, dal Libano, all’Iraq.

Ancora Molinari: «Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran sia più lontano dall’atomica. Le intese resteranno in vigore per 10 anni, con successivi 5 anni di obblighi per Teheran. Usa e Ue ritengono di aver bloccato la corsa dell’Iran all’atomica soprattutto perché l’impianto al plutonio di Arak viene bloccato, il carburante usato spostato all’estero e l’arricchimento dell’uranio limitato a 50/60 centrifughe modello IR-1, della prima generazione, nell’impianto di Natanz. Ma a tal fine saranno di vitale importanza le verifiche dell’Agenzia atomica Onu, i cui ispettori per i prossimi 15 anni dovranno certificare il rispetto degli impegni sottoscritti». Insomma, Teheran accetta (o sembra di voler accettare) un marcamento assai stretto in materia di nucleare militare in cambio di una maggiore agibilità economica e politica. Ed è esattamente questa prospettiva che temono le potenze regionali, le quali hanno sempre guardato con ostilità al dinamismo e alla complessità della società civile iraniana che la «rivoluzione khomeinista» del 1979 non è riuscita a imbrigliare. Israele per un verso non si fida del regime iraniano, che a giorni alterni promette di cancellarla dalla carta geografica del Medio oriente(Gerusalemme prendeva molto sul serio le minacce di Ahmadinejad); e per altro verso teme di perdere il tradizionale ruolo di partner strategico privilegiato degli americani.  In ogni caso, Israele è costretta oggi a muoversi secondo il noto assunto: il nemico del mio nemico (strategicamente e contingentemente meno pericoloso) è mio amico – almeno tatticamente, nel breve/medio periodo. Di qui la sua intesa con la coalizione sunnita ostile a Teheran.

Alla luce del (potenziale) accordo di giovedì si chiarisce dunque meglio anche il contesto caotico che oggi vediamo nello Yemen: «Qui, da oltre una settimana Riyad guida una coalizione sunnita nei raid aerei (con l’appoggio logistico e d’intelligence degli Usa) contro i ribelli sciiti huthi. Dopo aver conquistato Sana’a, questi hanno continuato la loro avanzata verso Sud, sostenuti dall’Iran. L’intervento di Riyad si spiega proprio con il timore che la tessera yemenita si incastri nel mosaico di Teheran» (S. Surme, Notizie Geopolitiche, 3 aprile 2015). E difatti ho scritto in premessa che il quadro «si chiarisce», non che «si semplifica»: tutt’altro! Appare d’altra parte evidente come l’equilibrio geopolitico della regione mediorientale (ma non solo: vedi Nord ‘Africa) sia a un passo dal collassare definitivamente, con conseguenze oggi difficilmente prevedibili. Anche i movimenti che si stanno producendo all’interno della galassia Jihadista vanno letti alla luce di questo processo sociale – non riducibile certo a una lotta settaria spiegabile in termini di cattiva interpretazione del Corano, secondo una risibile ma assai popolare tesi.

Sergio Romano, esibendo il suo proverbiale realismo politico, ha dichiarato che, «paradossalmente», l’esistenza dell’arma atomica allontana lo spettro della stessa guerra convenzionale, come dimostrano i casi dell’Iraq (attaccato perché non possedeva l’atomica) e della Corea del Nord (risparmiata perché possiede quella micidiale arma di “dissuasione”). Egli dà per ovvia l’implementazione da parte dell’Iran di un programma militare “atomico”, nelle forme e nei tempi che gli saranno dettati dalla situazione interna e internazionale. Un’ovvietà che naturalmente Israele, la sola potenza regionale provvista di un moderno arsenale atomico, non può certo condividere. A ragione (la sua ragione), peraltro.

E a questo punto è d’uopo, come si dice, fare la seguente breve precisazione. All’interno dello scenario che stiamo considerando non esistono “torti” e “ragioni” astrattamente considerati, ma legittimi interessi capitalistici che si confrontano e si scontrano lungo direttrici geopolitiche e sociali che negano in radice ogni prospettiva di emancipazione umana. È qui che insiste la differenza fondamentale tra il punto di vista geopolitico di considerare la competizione interimperialistica, il quale non solo non mette in questione l’ordine sociale mondiale, ma si sforza di sostenerlo dando scientifici consigli alle classi dominanti dei diversi Paesi*, e il punto di vista critico-radicale, che all’opposto intende attaccare analiticamente e politicamente quell’ordine. Ciò va detto anche contro chi confonde lo status quo geopolitico con lo status quo sociale, e che per questo nella – cosiddetta – lotta antimperialista azzarda “soluzioni tattiche” la cui “dialettica” si risolve in una capitolazione agli interessi di questo piuttosto che di quell’imperialismo globale o regionale. I due piani (geopolitico e sociale) vanno apprezzati come momenti “dialetticamente connessi” del processo sociale considerato alla scala mondiale (che è poi la dimensione più adeguata ai rapporti sociali capitalistici), e come tali vanno trattati dal punto di vista  della lotta di classe anticapitalista. L’autonomia di classe va ricercata e praticata a ogni livello della prassi sociale (della conflittualità sociale), e a “360 gradi”. Ma qui è meglio chiudere la parentesi “dottrinaria” – rimando ai miei post dedicati al tema appena accennato.

Daniele Capezzone, memore del suo passato radicale (nell’accezione pannelliana del termine), ha per la milionesima volta scomodato il Patto di Monaco: «Mi auguro che il mondo ascolti con più attenzione le parole e il monito ripetuti ancora pochi minuti fa dal Primo ministro israeliano Netanyahu, che, a mio avviso molto giustamente, mette in guardia rispetto all’ipotesi di accordo con l’Iran. […] Dinanzi a ciò, l’accordo in corso rischia di assomigliare a quello di Monaco 1938. E tutti farebbero bene a ricordare cosa disse a quel proposito Churchill, criticando l’intesa europea con i nazisti: “Avevate la possibilità di scegliere tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore, e avrete la guerra”». È ciò che, con qualche cautela in più e molta più intelligenza politica, sostiene il Wall Street Journal, il quale ha scritto che in astratto l’accordo potrebbe pure andare bene, se fosse stato sottoscritto con Paesi che, «come l’Olanda e il Costarica», rispettano il diritto internazionale, cosa che non può dirsi a proposito dell’Iran, un Paese che, sempre secondo il giornale ultraconservatore statunitense, ha fatto della menzogna, della sistematica violazione del diritto internazionale e della negazione dei diritti umani la propria cifra più peculiare. Anche The Washington Post condivide un simile pessimismo (o scetticismo), sostenendo che l’accordo di Losanna sembra avvantaggiare soprattutto l’economia iraniana, rafforzando in prospettiva i suoi progetti di espansione regionale. Il New York Times ha invece scritto che l’accordo è «solido, credibile e promettente», e soprattutto senza altre alternative che non siano quelle che spianano il terreno a una devastante ennesima guerra: è la linea di difesa obamiana.

«Oggi a Losanna si è aperta la strada perché l’Iran nel medio periodo torni ad essere una nazione normale, a cui verrebbero tolte le sanzioni finanziarie e sul petrolio a fine giungo. Un Paese che possa tornare a pieno titolo nel consesso mondiale e nella rete dei commerci internazionali con i suoi 80 milioni di abitanti, in maggioranza giovani desiderosi di abbracciare i valori e lo stile di vita occidentali» (V. Da Rold, Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2015). Un piatto capitalisticamente assai ghiotto**. Il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che sa di dover fare buon viso a cattivo gioco dinanzi alla formula 5+1, ha subito rivendicato per l’Italia un posto al sole, ricordando la speciale relazione che lega i due Paesi già all’epoca in cui l’Eni di Mattei siglò un accordo “rivoluzionario” con la Società Nazionale Iraniana del Petrolio per la ricerca e lo sfruttamento petrolifero in una vasta zona del Golfo Persico***.

iranL’apertura di un nuovo scenario nelle relazioni tra la Persia («chiamiamo le cose con il loro nome», come invita a fare oggi Lucio Caracciolo) e l’Occidente è destinata comunque a rompere equilibri consolidati nella società iraniana e nel sistema di potere che ha guidato il Paese per oltre tre decenni. «La revoca delle sanzioni desta preoccupazione anche in Iran. Qui alcuni circoli economici e industriali guardano con timore alla revoca di un embargo grazie al quale sono state accumulate immense fortune per via dell’isolamento del paese e della forzata autarchia, soprattutto in ambito tecnologico. E la percezione dell’accordo come riapertura del dialogo con gli Stati Uniti desta preoccupazioni e malumori, in un sistema che sull’opposizione all’Occidente e al suo dominus ha costruito la propria impalcatura politica e istituzionale» (N. Pedde, Limes, 3 aprile 2015). Le «manifestazioni spontanee di giubilo» che si sono viste a Teheran subito dopo l’annuncio del raggiunto accordo fatto dal capo negoziatore iraniano Abbas Araqchi sicuramente avranno fatto storcere il muso a più di un leader iraniano “duro e puro”. Come ricordava ieri Franco Venturini sul Corriere della Sera, «l’ambiguo Khamenei, e dietro di lui i militari, i nazionalisti, gli avversari personali del presidente Rohani», sono pronti in ogni momento a tirare fuori l’accusa di tradimento qualora l’accordo svizzero sul nucleare dovesse creare “scompensi” di qualche tipo all’interno della società iraniana. Insomma, siamo appena agli inizi di una vicenda che certamente vale la pena seguire da vicino.

iran_province_strategiche_820* Un solo esempio: «Quanto a noi. Non c’è dubbio che per l’Italia la via verso il compromesso fra le tre potenze regionali determinanti nel nostro Sud-Est – cui potremmo aggiungere la Turchia – sia di gran lunga preferibile al caos attuale, dove prosperano i “califfi” , scorrono i veleni dei conflitti settari e si rafforzano le rotte dei traffici clandestini che minacciano la nostra sicurezza, inquinano la nostra economia, infragiliscono la nostra coesione sociale, financo istituzionale. Forse mai come oggi rimpiangiamo l’occasione persa oltre dieci anni fa dal governo Berlusconi, quando rifiutò l’invito iraniano a partecipare ai negoziati per timore di irritare gli americani (sic). Dobbiamo quindi affidarci ai nostri partner. Nella speranza che nelle loro agende ci sia un piccolo spazio per i nostri interessi» (L. Caracciolo, Limes, 4 aprile 2015).

** «Otto miliardi di euro all’anno. Questo era l’export italiano in Iran prima delle sanzioni. Se tornassero i tempi d’oro (per ora è solo una speranza, bisogna vedere con che tempi i divieti verranno abrogati) sarebbe un bel contributo alla nostra ripresa economica. L’Eni aveva una presenza storica nel Paese, che oggi è quasi azzerata. […]Anche Finmeccanica era molto presente nell’Iran pre-sanzioni; la controllata Ansaldo Energia ci aveva costruito diverse centrali elettriche. Per l’azienda sarebbe economicamente interessante anche solo fare lavori di manutenzione e di aggiornamento tecnologico sulle turbine a gas di cui ha disseminato il Paese. Fra i gruppi industriali, la Fiat nel 2005 aveva firmato un accordo per costruire un impianto per produrre 100 mila auto all’anno; tutto bloccato nel 2012, chissà se il discorso potrà riprendere. Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria, segnala che “in questi anni abbiamo giocato d’anticipo per mantenere aperte le porte, invitando spesso rappresentanti iraniani a fiere e manifestazioni”» (L. Grassia, La Stampa, 4 aprile 2015). L’intelligenza “geopolitica” del grande capitale italiano non si discute.

*** Accordo che, detto di passata, violando la regola del 50 e 50 nella spartizione degli utili allora praticata nel Medio Oriente dalle famigerate Sette Sorelle molto indignò il cartello internazionale del petrolio. L’accordo del 1957 fissò le seguenti quote: 75% degli utili al partner iraniano 25% all’Eni. La CGIL allora appoggiò la “spericolata” iniziativa dell’Eni qualificandola come «antimonopolistica» e certamente vantaggiosa per i sacri interessi nazionali, mentre il PCI tanto si rallegrò per il rafforzamento della presenza dello Stato nell’economia, secondo la tradizionale linea statalista che corre senza soluzione di continuità dal regime fascista a quello post fascista. Quell’accordo si trova ancora oggi nei libri di scuola iraniani.

IL MESSAGGERO È CADUTO SUL DORSO

reina«Nonostante i molti appelli internazionali e la battaglia di Amnesty International, è stata “giustiziata” e quindi impiccata in Iran Reyhaneh Jabbari, la ragazza 26enne condannata a morte per aver ucciso nel 2007 il suo stupratore Morteza Abdolali Sarbandi, il quale era un ex dipendente del ministero iraniano per l’Intelligence» (Notizie Geopolitiche, 25 ottobre 2014).

La parola non è sufficiente a farci afferrare il reale significato della cosa? Per capirne il senso profondo abbiamo bisogno di un segno concreto, tangibile, indiscutibile e soprattutto visibile? Non credo.

«La parola penetra lentamente: sulle prime è incomprensibile, non se ne afferra il senso, non si riesce a darle una realtà. Per un po’ di tempo tu puoi rigettare sul messaggero la rovina e lo sconvolgimento che egli vuol produrre nella tua mente e nel tuo cuore, puoi dirgli che è pazzo, e così prolungare un poco la tua ignoranza della verità, la tua vita. Puoi domandargli: “Che cosa dici? Non ti senti bene?”. Il messaggero ti lascia fare e non risponde, a poco a poco però il suo sguardo pensosamente pietoso ti rende incerto. Tu non reggi a quello sguardo, tu comprendi che lo scambio di parti che vorresti imporre non è possibile e che invece tocca a te di accettare da lui un sorso che ti rinfranchi….».

«La parola permette questa lotta temporeggiatrice contro la verità. Ma nulla di simile è possibile quando ti viene mostrato il segno. La crudeltà che in esso si concentra non permette alcuna illusione o finzione ritardatrice. Il suo significato è chiaro, inequivocabile, e non ha bisogno di diventare realtà, perché è già reale. Il segno si può toccare con mano e disdegna di essere incomprensibile per pietoso riguardo. Non lascia aperta nessuna momentanea via di scampo, ti costringe a riconoscere per tuo, nato nel tuo cervello, un pensiero che, se l’udissi in parole, respingeresti come pazzia; e così, o devi considerarti pazzo o accettare la verità. Il segno è muto, ma non per clemenza o pietà, bensì perché è la cosa stessa, e non ha bisogno di parlare per essere “compresa”. Tacendo ti getta a terra, ti fa cadere sul dorso» (T. Mann, Il giovane Giuseppe).

Ma Giacobbe in trepida attesa di notizie sul figliolo prediletto, Dumuzi, il figlio vero, ha nel frattempo perso la facoltà di vedere. Ai suoi occhi, il segno è diventato oscuro esattamente come la parola.

Thomas Mann scrisse quella magnifica pagina nel 1934. Nel 1945 non avrebbe potuto più scriverla. Figuriamoci oggi! Non Giacobbe, ma il messaggero che reca con sé il segno «è caduto sul dorso», e attende parole pietose di conforto.

ORO NERO BOLLENTE

2mmftawUno spettro si aggira nei Paesi produttori del famigerato – e tanto bramato – oro nero: il crollo del suo prezzo sui mercati mondiali. Dallo scorso giugno il prezzo/barile del greggio è caduto di circa il 20 per cento. Non è poco. A fine settembre 2014 il benchmark mondiale del prezzo del petrolio, quello del Brent grezzo, è sceso sotto ai 95 dollari il barile, confermando le previsioni fatte nel 2013  dal Dipartimento dell’energia americano: «Il costo del barile di greggio si manterrà sotto i 100 dollari nel 2014» (Panorama,  4 aprile 2013).

Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile.

Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale: vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di 60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre per implementare un serio programma di investimenti tesi al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo) della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il Paese dal disastro economico.

images79XRDQK8Per non entrare in fibrillazione l’Iran ha bisogno di un prezzo/barile fissato all’astronomica quota di 140 dollari, ma per «ritornare sul mercato petrolifero mondiale dopo lunghi e difficili anni di sanzioni, nonostante i costi finanziari l’Iran si è precipitato a lottare per i clienti riducendo il prezzo del petrolio di 85 centesimi al barile fino a quasi 96 dollari. Anche se l’Iran non è interessato ad abbassare il prezzo sotto i 100 dollari al barile, per non perdere clienti è costretto a vendere il petrolio al prezzo al quale è disposto a comprare. Gli affari sono affari». Non c’è dubbio. Si tratterà di vedere fino a che punto questa strategia sarà efficace e sostenibile dal punto di vista sociale.

L’Iraq vede nero sotto i 106 dollari. L’Arabia Saudita può resistere anche con un prezzo/barile fissato a 80 dollari, e il regime saudita ha dichiarato ufficialmente che il “prezzo giusto” è fra 70 e 80 dollari. Un prezzo di 80/85 dollari può essere remunerativo anche per i produttori di shale oil, il petrolio estratto dagli scisti bituminosi usando la devastante tecnologia fracking.

Ho fatto una veloce ricerca sul costo di estrazione (lifting cost) del greggio, per farmi un’idea sufficientemente realistica anche sulla speculazione mondiale che negli ultimi anni si è concentrata sul petrolio. Rimane inteso che i numeri che ho dato e che darò vanno presi con le molle, e hanno solo un significato indicativo, giusto per dare un’idea anche solo approssimativa del problema in oggetto.

Naturalmente il costo di estrazione del greggio varia moltissimo nei diversi Paesi produttori: si va dai circa 2 dollari al barile dell’Arabia Saudita, che vanta il costo di estrazione più basso al mondo, ai 30/50 dollari/barile del Mare del Nord, che invece fissa i costi di estrazione attualmente più alti. Nonostante i suoi molti problemi di sicurezza e di instabilità politica, l’Iraq fa registrare un costo di estrazione molto basso: circa 5 dollari al barile. Altri dati: Argentina 11 dollari, Venezuela 20/30 dollari,  Nigeria 15/30 dollari, Kazakhstan  12/18 dollari. Per lo stesso Paese i costi variano a seconda che i pozzi si trovano nell’entroterra oppure offshore. Ma anche il tempo di sfruttamento del singolo pozzo incide sul costo di estrazione, a causa della perdita di pressione naturale del greggio, che costringe le imprese petrolifere a usare pompe di estrazione sempre più potenti a mano a amano che questa pressione si abbassa. Per “raschiare il fondo” del pozzo in esaurimento si usano poi i più costosi metodi cosiddetti terziari, basati su iniezioni di vapore, anidride carbonica e altri gas e sostanze chimiche. Appare intuitivo che il costo di estrazione del greggio dipende, in linea generale, dalla facilità/difficoltà di questa estrazione: più è facile “spillare” oro nero dalle viscere della terra, più il suo costo risulterà relativamente basso.

imagesXP1EAEF0L’uso di tecnologie estrattive sempre più sofisticate ha ridotto il costo di estrazione del greggio di circa 15 dollari al barile rispetto agli anni Ottanta; ma d’altra parte i costi tendono a crescere nella misura in cui queste stesse tecnologie permettono alle multinazionali del petrolio di estrarre il prezioso liquido in luoghi prima inaccessibili per clima e struttura geologica (vedi l’attuale corsa all’Artico, che sta provocando una rapida militarizzazione del circolo polare artico). In alcuni casi si parla di un costo alla produzione di 80/120 dollari al barile.

Diverso da luogo a luogo è anche il finding cost, ossia il costo connesso all’esplorazione e allo sviluppo dei nuovi giacimenti: si va dai circa 5 dollari al barile del Medio Oriente ai 49 dollari dell’offshore americano, ai 64 dollari dell’offshore brasiliano e ai 61 dollari dell’offshore europeo.

La somma di lifting cost e finding cost dà il cosiddetto break-even, ossia il punto superato il quale inizia la redditività, calcolata come differenza tra il  prezzo di mercato del barile e il break-even. La Saudi & Co., ad esempio, fissa il suo break-even sui 30 dollari: tutto il rimanente margine è profitto che cola, per così dire.

La novità tecnologia degli ultimi tempi è il petrolio cosiddetto non convenzionale, ottenuto trattando sabbie bituminose, oppure materie prime vegetali (biocarburante), o per frantumazione idraulica delle rocce porose sedimentarie. Gli specialisti indicano che il costo di produzione del petrolio di scisto americano è di circa 65 dollari al barile.

Dove bisogna fissare la soglia del prezzo/barile di mercato più “naturale”, più corrispondente ai reali prezzi di produzione? Pare che non esista una risposta univoca. Gli esperti in materia petrolifera hanno infatti a tal riguardo idee molto diverse tra loro: c’è chi parla addirittura di 40 dollari, chi di 75/80 dollari. È comunque un fatto che sotto gli 80 dollari al barile Paesi che vivono di rendita petrolifera entrano in sofferenza.

Si tratta ora di capire le cause che negli ultimi mesi hanno fatto declinare considerevolmente il prezzo del petrolio sul mercato mondiale, mettendo in seria apprensione i Paesi la cui economia fa molto affidamento alla vendita di quella materia prima. E anche qui le opinioni sono assai disparate e spesso confliggenti le une con le altre. Si va da cause puramente economiche, a cause radicate nella geopolitica. E ovviamente non mancano le teorie complottiste: alcuni pensano a un complotto contro la Russia (ordito naturalmente dagli Stati Uniti), altri contro gli Stati Uniti (ad opera soprattutto dell’Arabia Saudita, che ha aumentato la produzione di petrolio), altri ancora contro il “socialismo petrolifero” venezuelano, e via discorrendo. Praticamente ognuno può fabbricare una propria tesi, a seconda delle proprie simpatie politiche e geopolitiche.

Sta di fatto che le ragioni oggettive del rapido declino del prezzo del petrolio sono molte e solo il complottista più ottuso può non vederle. Eccone alcune: perdurante impasse nell’economia europea, rallentamento dell’economia mondiale (forse la Cina non toccherà il tasso di sviluppo del 7,5 per cento fissato per quest’anno), produzione dello shale oil americano a ritmi imprevisti, aumento della produzione petrolifera in Arabia Saudita, speculazione al ribasso sul petrolio, magagne geopolitiche di varia natura sparse per il triste mondo. «Nel 2008 il barile era a 150 dollari e la sete di greggio della Cina, in pieno boom, sembrava infinita. Tutte le compagnie hanno fatto investimenti enormi in trivellazioni, con la certezza di essere remunerate. Ma negli idrocarburi ci vogliono 6 o 7 anni prima di raccogliere i frutti degli investimenti. Dal 2008 a oggi è passato il tempo giusto a inondare il mercato di nuovo greggio, come sta succedendo ora. Da qui una concausa del ribasso dei prezzi» (M. Siano, La Stampa, 17 ottobre 2014). A volte le spiegazioni più semplici sono quelle che più si avvicinano alla realtà. Soprattutto quando si parla di profitti.

offshoreJeremy Rifkin, saggista di successo, teorico del capitalismo «a costo marginale zero» e guru del paraguru di Genova (il Beppe nazionale), è come sempre ottimista: «Non è la fine del petrolio, è il tramonto di un’era. La società gerarchizzata, fortemente accentrata nel potere e nelle ricchezze, si sta lentamente sgretolando. E al suo posto comincia a prendere forma un modello a rete, in cui centinaia di milioni di persone producono l’energia che serve alle loro case e alle loro attività. È una rivoluzione sociale, non solo energetica» (Corriere della Sera, 10 ottobre 2014). Più il Capitale ci prende nella sua rete, estendendo sempre più capillarmente  e scientificamente il suo dominio, e più si fa spesso il velo tecnologico che occulta il processo sociale. Così crediamo di controllare sempre più facilmente ciò che invece ci controlla e ci incalza sempre più da vicino. Il feticismo (della merce, del denaro, della tecnologia) cresce insieme al dominio capitalistico.

GAZA E DINTORNI. Il senso della mia solidarietà.

Un lettore del precedente post sul conflitto israeliano-palestinese mi scrive: «È la schiacciante superiorità economico-militare di Israele rispetto alla Palestina a rendere ingiustificabili e criminali le sue ritorsioni e a legittimare il vittimismo terroristico di Hezbollah. Ma se Hezbollah è terrorista lo stato di Israele?» Di qui, la breve riflessione che segue.

Lo Stato israeliano è uno Stato terrorista. Esattamente come tutti gli altri Stati capitalistici del mondo. Ciò che io rigetto è lo status di anomalia quasi antropologica che tanti amici dei palestinesi attribuiscono a Israele, la cui genesi affonda in un processo storico segnato dalla violenza più disumana.

Detto di passata, la violenza terroristica fu usata anche dagli israeliani “sionisti” contro gli arabi e gli inglesi nel periodo immediatamente precedente la proclamazione dello Stato israeliano.

Da sempre sostengo la causa palestinese, e proprio per questo da sempre denuncio la politica “filopalestinese” delle potenze regionali (Medio Oriente allargato) volta a fare della Questione Palestinese uno strumento di politica interna e internazionale, celato dietro l’ideologia pan-arabista o “antimperialista”. Sic! Se non si comprende che anche i Paesi cosiddetti filopalestinesi sono parte del problema (lo stesso discorso vale per Hezbollah), e non della soluzione, ci si muove alla cieca, con somma soddisfazione di alcuni players, non necessariamente meno odiosi degli altri. Tutt’altro!

Costruire un fronte di solidarietà tra palestinesi e strati sociali subalterni israeliani per restringere lo spazio di manovra dello Stato israeliano e costringerlo per questa via a cedere su tutta la linea: era, ed è – in linea puramente teorica, purtroppo –, la via maestra per chiudere una volta per tutte la rognosissima e decomposta Questione. Una via bombardata negli ultimi sessantaquattro anni da tutte le parti: dagli israeliani, ovviamente, ma anche dagli egiziani, dai libanesi, dai siriani e così via; nonché dalle potenze internazionali: dagli Stati Uniti alla Russia, passando per le ex potenze coloniali. Via maestra, beninteso, dal mio punto di vista. Ad esempio, Ahmadinejad, e quelli che la pensano come lui intorno alla Questione Palestinese, sostengono un ben diverso punto di vista, com’è noto.

Le divisioni politiche interne al mondo palestinese, che da sempre ne hanno indebolita la leadership, sono il prodotto del complesso scenario che ci sta dinanzi ormai da decenni, del gioco di potenze grandi e piccole giocato sulla pelle dei palestinesi, delle masse arabe e delle classi subalterne israeliane, queste ultime continuamente ricattate dalle esigenze di sicurezza nazionale. Esigenze che, ovviamente, respingo al mittente, per così dire.

I razzi lanciati da Gaza in modo indiscriminato sul territorio israeliano certamente non aiutano a creare un clima di fraterna solidarietà tra i palestinesi e gli israeliani che andrebbero sottratti alla propaganda nazionalista del loro Stato.

Anziché lanciarci nella solita politica sloganistica del siamo tutti palestinesi!, che va avanti da sessantaquattro anni, e, a quanto pare, con scarsi risultati, dovremmo piuttosto riflettere sulla complessità della situazione, per non arrenderci impotenti alla coazione a ripetere di fin troppo facili e scontate solidarietà, più o meno “antisioniste” e “antimperialistiche”.

Per come la vedo io, la denuncia della politica aggressiva e assassina del governo israeliano appare tanto più forte e fondata se è accompagnata dalla denuncia degli altri attori regionali e mondiali in campo, non meno responsabili di Israele nel mantenere sempre aperta e sanguinante la piaga palestinese, e se mostra il legame tra l’attuale leadership palestinese e qualcuno di quegli attori: ad esempio, Siria e Iran.

Questa riflessione (ultraminoritaria: lo riconosco) appare talmente bizzarra al pensiero “solidaristico” mainstream al punto di far sorgere dubbi circa la mia posizione nei confronti dello Stato israeliano, che ovviamente detesto (mi mantengo nei limiti dell’eufemismo, è chiaro) con tutte le mie forze, esattamente come detesto con pari intensità tutti gli Stati di questo mondo violento e disumano.

GIOCHI DI GUERRA ALL’OMBRA DEL PROFETA

«L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso» (Franco Battiato, Up Patriots To Arms).

Com’è noto, nella primavera del 1993 apparve l’articolo di Samuel Huntington, pubblicato su Foreign Affairs, sullo scontro tra le civiltà. Un articolo che, come si dice, fece epoca: «La mia tesi è che la fonte prima di conflitto in questo nuovo mondo non sarà né essenzialmente ideologica né essenzialmente economica.  Le grandi divisioni all’interno dell’umanità e la fonte di conflitto predominante avranno carattere culturale. Gli stati nazione resteranno i protagonisti più potenti degli affari mondiali ma i principali conflitti della politica globale avranno luogo tra nazioni e gruppi di civiltà diverse. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le faglie tra civiltà saranno i fronti di battaglia del futuro».

Finita la guerra fredda, sconfitto su tutti i fronti (economico, politico, scientifico, culturale) il Nemico fronteggiato nel corso di quasi mezzo secolo, gli Stati Uniti avevano bisogno di una nuova ideologia, o, per dirla con il Nichi nazionale, di una nuova «narrazione» sulla cui base incardinare la loro visione strategica adatta ai nuovi tempi, e Huntington cercò di rispondere a questa esigenza, peraltro in concorrenza con il teorico della fine della storia Francis Fukuyama. Gli eventi che seguirono parvero dargli ragione. Naturalmente alludo all’11 Settembre.

Scriveva Edward Said nel novembre del 2001, mentre le squadre di soccorso scavavano sotto le macerie ancora fumanti delle Twin  Towers alla – vana – ricerca di superstiti: «Viviamo momenti di tensione ma è meglio pensare in termini di comunità che detengono il potere e comunità che ne sono prive, di secolari politiche di raziocinio e ignoranza, e di principi universali di giustizia e ingiustizia, piuttosto che smarrirsi in astrazioni che possono essere fonte di soddisfazione momentanea ma producono scarsa auto-consapevolezza. La tesi dello “scontro di civiltà” è una trovata tipo “Guerra dei mondi”, più adatta a rafforzare un amor proprio diffidente che la conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo» (Più che di civiltà è scontro di ignoranze, La Repubblica, 1 novembre 2001).

Nella giusta critica della rozza, semplicistica e pericolosa tesi di Huntington l’intellettuale palestinese scomparso nel 2003 commise, a mio avviso, un grave errore di valutazione (di matrice illuministica, per così dire, come peraltro si ricava già dal titolo), che lo portò a «smarrirsi in astrazioni» altrettanto inconcludenti sotto il profilo storico e reazionarie sul piano dell’iniziativa politica. Per non «smarrirsi in astrazioni» sul terreno dei rapporti tra ciò che chiamiamo Occidente e Islam occorre prendere in considerazione concetti “forti” quali imperialismo, scontro interimperialistico, lotta fra fazioni capitalistiche, potenza e impotenza sociale, ecc.. Solo all’interno di questa costellazione concettuale le questioni culturali e “antropologiche”, che ovviamente esistono e che hanno una grande importanza sul piano della prassi e dell’analisi critica di essa, si riempiono di viva sostanza storica e sociale. Solo a partire dall’analisi delle grandi forze sociali che spingono, e spesse volte strattonano, il processo storico mondiale si  può costruire la «conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo».

I concetti appena evocati dovrebbero informare anche l’analisi di quanto sta accadendo in tutto il mondo musulmano dopo la diffusione del film «blasfemo» L’innocenza dei musulmani, giudicato dalle frange più radicali del fondamentalismo islamico «un altro capitolo nella guerra crociata contro le terre del Profeta». Lo stesso Mohamed Morsi, il presidente egiziano venuto in visita in Italia, nel cuore della Civiltà Cristiana, ha dichiarato senza peli sulla lingua che «il Profeta è una linea rossa invalicabile». Chi tocca il Profeta muore: questo continua a essere l’imperativo categorico che sovrasta la Comunità devota ad Allah, anche dopo la cosiddetta «primavera araba», ultima infatuazione degli intellettuali progressisti occidentali – «Il processo democratico continua, anche se lentamente e non senza problemi», ha scritto ad esempio Loretta Napoleoni nel suo libro Contagio: già, non senza problemi…

Siamo di fronte a un ennesimo episodio di scontro tra le civiltà? O stiamo assistendo all’esplodere di un vasto movimento antimperialista cementato da un’ideologia religiosa? Ovvero, per dirla con Edward Said, siamo dinanzi a «uno scontro di ignoranze», più che di civiltà? A mio avviso, nulla di tutto questo. Si tratta piuttosto di un ennesimo esempio di come le “moltitudini” prive di coscienza rimangano facilmente vittima delle ideologie più reazionarie e, quindi, degli interessi che fanno capo alle classi dominanti o solo ad alcune delle sue fazioni che oggi aspirano al potere in esclusiva, ovvero a strati sociali e a gruppi politico-ideologici che sognano un’impossibile ritorno indietro delle società musulmane.

A proposito di linea rossa, ieri il premier israeliano ha dichiarato ai media americani che «il programma nucleare iraniano deve rappresentare per il mondo libero una linea rossa invalicabile»: il Presidente degli Stati Uniti deve imparare la lezione cubana impartita da Kennedy ai russi. Il clima in Medioriente si arroventa, e il regime iraniano naturalmente ha gettato benzina sul fuoco della “blasfemia”: «L’Iran condanna con forza gli insulti alle figure sacre dell’Islam», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, che ha accusato Washington di alimentare «l’odio culturale e gli insulti alle figure sacre dell’Islam, destinati a scatenare una guerra contro l’Islam». Per capire quanto inadeguata sia una lettura in chiave astrattamente culturale delle tensioni che da oltre mezzo secolo travagliano quell’area del mondo, è sufficiente ricordare l’alleanza di fatto che si costituì tra Israele, Iran e Siria ai tempi della lunga guerra tra Iran e Iraq. Come sempre, anche allora ai palestinesi toccò in sorte il triste ruolo di merce di scambio tra potenze regionali assetate di petrolio e di potere. All’ombra del Profeta si bruciano i corpi e le coscienze delle moltitudini.

Come ho scritto in diversi articoli, nel mondo musulmano il Verbo del Profeta può essere usato, indifferentemente, per tutte le cause: per quella del “progresso” (ossia dello sviluppo capitalistico, non importa se di tipo “occidentale” o “autoctono”), come per quella della “conservazione”, e questo in assoluta analogia con quanto è accaduto nel resto del mondo nel corso dei secoli. Non è la religione presa in sé che favorisce o impedisce il processo sociale – colto in tutta la sua dimensione esistenziale: dall’economia alla psicologia degli individui, dai rapporti sociali alle relazioni fra uomo e donna, e via di seguito. Non è a partire dalla religione che possiamo ricostruire la storia passata e presente delle civiltà, mentre piuttosto è la prassi sociale, a cominciare dall’attività che crea e distribuisce la ricchezza sociale, che spiega non tanto la religione quanto le sue cangianti interpretazioni.

Permettetemi una correzione alla precedente tesi: per tutte le cause, tranne che per quella che sostiene l’emancipazione delle classi dominate e di tutta l’umanità: a questa altezza storica e sociale il Verbo del Profeta è inconsistente.

Non a caso prima ho parlato di “moltitudini” prive di coscienza, non semplicemente «ignoranti», ossia non illuminate dalla razionalità scientifica e dal pensiero laico. D’altra parte di questa coscienza di classe: coscienza della propria situazione sociale e delle eccezionali potenzialità storiche che in essa si celano, sono prive anche le classi dominate del resto del pianeta, e infatti anch’esse vanno appresso all’ideologia dominante e ai gruppi di potere che si contendono le fette più cospicue della ricchezza sociale. Atea o religiosa, la demagogia che si nutre del malessere sociale è ovunque in agguato, per sacrificare corpi e coscienze sull’altare del potere. C’è da sperare – e da lottare – che siano le faglie tra le classi sociali i fronti di battaglia del futuro. Ovunque.

ARTICOLO 11 E DINTORNI. ASPETTANDO L’ENNESIMA CARNEFICINA UMANITARIA

Non c’è guerra, o preparazione di un qualsiasi intervento militare da parte del Bel Paese che non evochi, nella testa dei pacifisti, l’Art 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra… «Questo recita l’Art 11 della nostra Costituzione nata dalla resistenza», si legge ad esempio in un manifesto di convocazione contro la guerra in Siria firmato dal Comitato contro la guerra di Milano. A mio avviso il richiamo al mitico Articolo è sbagliato, anche da un punto di vista strettamente “tattico”, ossia nel tentativo di creare contraddizioni in seno al nemico, il quale, infatti, ha mandato uomini e mezzi ovunque nel mondo tutte le volte che se n’è posta la necessità, pagando un prezzo politico assai modesto. Creare delle aspettative sulla base della Costituzione di un paese capitalistico è a mio avviso un errore esiziale che si paga durante la lotta e, soprattutto, in prospettiva, perché non si ottiene dal movimento sociale una reale maturazione politica, anche in caso di sconfitta – e dall’Operazione Libano 1982 in poi ne ho viste di sconfitte sul terreno della lotta alla guerra.

Sul piano storico quell’articolo non attesta la natura pacifista della «Repubblica nata dalla resistenza», dopo il nazionalismo e il militarismo dell’esperienza fascista, ne attesta piuttosto la natura di Paese sconfitto nella Seconda Carneficina Mondiale. Dopo l’occupazione militare angloamericana e la resa incondizionata ottenuta a suon di bombardamenti aerei sulle città italiane, le potenze Alleate ottengono dall’Italia la ratifica di Paese vinto che non cercherà mai più la strada della guerra per accrescere in potenza. Di più: il suo potenziale bellico viene messo a disposizione di istituzioni sovranazionali (NATO e ONU) per consentire «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; e difatti l’Italia «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Su questa base giuridica all’Italia è consentita la guerra in guisa di piccola o media potenza assoggetta ai vincoli imperialistici che le derivano dall’esito della seconda guerra mondiale.

Analogo discorso deve naturalmente farsi per la Germania e il Giappone, la cui costituzione approvata nel 1947 «fu redatta in tutta fretta dallo stato maggiore di McArthur» (J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo). L’Art 9 della Costituzione giapponese, «introdotto per insistenza personale di McArthur», recita: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione, e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Il monopolio della violenza bellica come diritto sovrano passa, dopo l’ultima guerra, nelle mani delle nazioni vittoriose, e questo stato di cose trova una ratifica internazionale nell’ONU. Lungi dall’essere un crogiuolo di buone intenzioni, quest’organizzazione esprime dunque gli interessi di quelle nazioni (non a caso le ex potenze sconfitte ne richiedono la «riforma»), ed è per questo che i pacifisti dimostrano poca avvedutezza politica (notare la mia diplomazia…) tutte le volte che in caso di conflitto regionale o di «crisi umanitaria» invocano «l’egida dell’ONU». Nel caso siriano non è stato possibile, fino a questo momento, «un intervento umanitario sotto l’egida dell’ONU» semplicemente perché i maggiori imperialismi mondiali (Stati Uniti, Cina e Russia) non hanno trovato un accordo sul dopo-Assad. Essi sono divisi anche sulla scottante questione iraniana, la quale costituisca forse la maggiore incognita della complicatissima equazione mediorientale. Intanto Israele scalda i motori dei suoi aerei da guerra, anche solo per mettere fretta al democratico e premio Nobel per la pace Obama.

In Siria sono morte circa 16 mila persone. Questa carneficina pesa anche sul conto dell’attuale Stato siriano, e non solo su quello delle potenze regionali (Turchia, Arabia Saudita, Qatar) che foraggiano il cosiddetto Esercito Libero Siriano e l’opposizione politica al regime di Assad. Mentre giustamente denunciano l’imperialismo occidentale, a partire da quello italiano, e richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica sull’«aggressione criminale contro un Paese sovrano come la Siria», i pacifisti farebbero bene a non dare alcuna solidarietà, occultata dietro insulsi ragionamenti “antimperialistici” sul «diritto di autodeterminazione dei popoli», alle potenze regionali mediorientali sostenute dalla Russia e dalla Cina, nazioni imperialistiche alla stessa stregua di quelle occidentali. Ci vuole assai poco per diventare nostro malgrado strumenti politico-ideologici di una delle parti in causa – alludo ovviamente agli Stati, non ai popoli, vittime ovunque delle classi dominanti, locali e transnazionali. La pallottola “sovrana” uccide come la pallottola anti-sovrana.

Non si tratta di equidistanza: si tratta piuttosto di affermare un punto di vista autenticamente ostile all’imperialismo guerrafondaio, qualunque ne sia la dimensione (regionale o globale), la dislocazione geopolitica (Ovest, Est, Nord, Sud) e la religione (cristiana, islamica, induista, ateista, ecc.). Nella notte dell’Imperialismo mondiale tutte le vacche sono nere, e sparano contro la possibilità di emancipazione degli individui.