LA RADICALIZZAZIONE DEL MALE. OVVERO: IL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE

Desolation

Presentazione

Ho raccolto nel PDF che invito il lettore a compulsare diversi articoli da me dedicati, più o meno direttamente, all’espandersi del cosiddetto «terrorismo di matrice islamica» nel Vicino/Medio Oriente e in Africa, e soprattutto alle sue ramificazioni nel fronte Nord Occidentale di quella che Papa Francesco ha definito, rivelando con ciò stesso una non trascurabile acutezza politica, «la Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti». Non ho fatto nessun lavoro di revisione dei testi; spero che la ripetizione di argomenti, di concetti e di singole frasi non disturbi oltremodo la pazienza del lettore.

Con il concetto di Sistema Mondiale del Terrore ho cercato, non dico di dar conto nei dettagli, ma quantomeno di evocare la complessa fenomenologia del Dominio, per coglierne alcuni suoi fondamentali modi di essere che vanno poi a costituire l’oggetto d’indagine di diverse scienze sociali: politologia, geopolitica, sociologia, psicologia e così via. Ciò a partire da un preciso – e abbastanza trasparente –  intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo, volto a mettere in chiaro la mia posizione sulla scottante “problematica” qui affrontata: terrorizzante e terroristica è la società mondiale vigente, la cui negazione dell’umano si radicalizza anno dopo anno. Questo anche a proposito di nichilismo.

Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Per quanto riguarda la mia posizione radicalmente “umanista”, consiglio invece la lettura di: Eutanasia del Dominio, L’Angelo Nero sfida il Dominio. Anche questi testi sono scaricabili in formato PDF.

Dice il Santissimo Padre: «Quando parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerre di religione». Ecco, spero che il mio sforzo di analisi e di critica non contraddica la serietà della Cosa, la cui essenza chiama in causa, a mio avviso, anche il concetto – e soprattutto la prassi – di Imperialismo.

Indice

Presentazione p. 4
La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore p. 5
Guerra e rivoluzione p. 21
Appunti dall’inferno p. 37
Tutto il male del mondo p. 48
Il punto sulla Siria e sul Sistema Mondiale del Terrore p. 54
Assediati e presi in ostaggio. A Madaya come a Istanbul, Parigi e ovunque p. 58
Alcune considerazioni sul conflitto Mediorientale p. 61
Sorridete! Gli spari sopra sono per noi! p. 72
La guerra secondo Libération p. 79
A che punto è la guerra? p. 82
Ostaggi e vittime del Sistema Mondiale del Terrore. Cioè tutti noi! p. 91
Riflessioni sui noti fatti parigini p. 101
Nessuno tocchi Allah! Né il suo Profeta preferito p. 108
Rojava mia bella p. 112
Sbadigliare, vomitare o mozzare teste? p. 119
L’alternativa del Dominio secondo Massimo Fini p. 125
Riflessioni agostane intorno al bellicoso mondo p. 127
Primavere, complotti e mosche cocchiere. Siria e dintorni p. 138

SORRIDETE! GLI SPARI SOPRA SONO PER NOI!

 

R900x__sniperSorridete, gli spari sopra sono per noi!
Sorridete, gli spari sopra sono per noi!

Nel precedente post sui noti fatti parigini ho reagito ai passi che seguono: «Non bisogna commettere l’errore di quelli che vogliono razionalizzare e sociologiazzare ad ogni costo il comportamento del nemico. Il fanatismo non è solo un fenomeno sociale. Ci sono delle cause autonome e intrinseche. Certo, il fanatismo approfitta delle ingiustizie della società, ma ubbidisce a una logica che spesso ci sfugge. Ben Laden non ha organizzato l’11 Settembre per lottare contro le diseguaglianze sociali: ha commesso quel crimine per promuovere il suo folle progetto di califfato mondiale» (Libération). Oggi continuo la riflessione.

È come voler spiegare la cosiddetta “Rivoluzione Khomeinista” del 1979 in Iran a partire dall’infatuazione del popolo iraniano nei confronti dell’islamismo radicale (che ovviamente sono lungi dal negare), e non spiegare questa stessa infatuazione con la crisi sociale di quel Paese, con la miserabile condizione di milioni di proletari, di sottoproletari e di contadini poveri, con la brutale oppressione poliziesca (chi non ricorda la famigerata Savak, la polizia dello Stato monarchico?) del regime sanguinario dello Scià Pahlevi sostenuto dagli Stati Uniti e, dulcis – si fa per dire – in fundo, anche con l’assenza di un’autentica alternativa “di classe” – cosa che il partito stalinista Tudeh e i Fedayn del popolo non erano. Allora molti in Occidente dissero che si trattava di un ritorno al Medioevo; quanto fosse sbagliata quella lettura, tutta focalizzata sugli aspetti “sovrastrutturali” della Repubblica Islamica, lo dimostra l’attuale capacità industriale e tecno-scientifica dell’Iran, il suo dinamismo geopolitico (vedi Siria!), la “modernità” di gran parte della popolazione giovanile (nonostante l’occhiuta e violenta vigilanza dei cosiddetti Guardiani della rivoluzione), gli stessi contrasti interni al regime fra “moderati” e “radicali”, “progressisti” e “conservatori” – contrasti che si spiegano sempre e puntualmente a partire dalla nozione di Potere.

È come voler spiegare la crisi sociale della Polonia stalinista, gli scioperi dei cantieri navali di Danzica agli inizi degli anni Ottanta e la stessa nascita di Solidarność («Sindacato autonomo dei lavoratori») con la tradizione cattolica di quel Paese e con l’interventismo “anticomunista” della Chiesa (che ovviamente ci fu), come pure fecero gli stalinisti basati in Occidente, i quali vedevano solo una moltitudine operaia che invece di inginocchiarsi e prostrarsi dinanzi ai sacri simboli del regime “socialista”, si inginocchiavano e pregavano dinanzi alla croce  e ai poster di Papa Wojtyla: che scandalo! «Altro che lotta di classe: qui ritorniamo al Medioevo!». Allora quanti ne ho conosciuti di questi…, beh, lasciamo perdere, per carità di Dio!

È come voler dar conto delle cause reali delle due guerre imperialiste del XX secolo sulla scorta della propaganda politico-ideologica con cui tutte le Potenze in guerra martellarono i cervelli delle vittime (non si vive di soli bombardamenti aerei!): guerra difensiva, guerra fatta per tutelare i valori della Civiltà Occidentale, guerra di liberazione nazionale, guerra in risposta ai “proditori e vigliacchi” attacchi altrui (com’è noto è sempre il nemico che porta la responsabilità di aver iniziato la carneficina), guerra contro il “comunismo internazionale”, guerra per il “socialismo”, guerra contro l’imperialismo (degli altri!) e così via nel lungo elenco delle menzogne propagandistiche.

È come voler spiegare la nascita del Fascismo con il carattere spregiudicato e volitivo di Mussolini o con la frustrazione di una parte della piccola borghesia italiana declassata (cose che ovviamente nessuno si sogna di negare), e non, in primo luogo, con le conseguenze complessive (anche di natura psicologica) della Grande Guerra, con la crisi sociale in genere che allora si produsse, con la crisi dello Stato liberale, con l’insorgenza rivoluzionaria di una parte del proletariato italiano (quello che voleva «fare come in Russia», per intenderci), con il riflusso di questa stessa insorgenza e con la reazione della classe dominante del Paese, appoggiata anche da gran parte del mondo politico liberale. Mi scuso se ho dimenticato di citare qualche altra causa “strutturale” o “sovrastrutturale”.

È come voler spiegare il Nazismo con la pazzia di Hitler e con la frustrazione professionale/esistenziale dei suoi più stretti collaboratori (in circolazione c’è sempre un “pazzo” o un “disadattato” che può tornar utile!), e non, fondamentalmente, con la catastrofica crisi sociale tedesca, peraltro maturata in un particolare contesto internazionale segnato dalla Grande Crisi del ’29, e con il riflusso del movimento operaio tedesco, colpito anche dalla controrivoluzione stalinista che ne prosciugò le residue energie rivoluzionarie – questo naturalmente in analogia con il movimento operaio degli altri Paesi, non solo occidentali. È sufficiente vedere i film “maledetti” sfornati in Germania negli anni Venti per rendersi conto della folle tempesta sociale (anche «emozionale», per dirla con Wilhelm Reich) che da anni si andava preparando in quel Paese, letteralmente squassato da una crisi non solo economica ma anche di natura morale e identitaria.  «Già da tempo abbiamo detto che è “l’angoscia sociale” che costituisce l’essenza di ciò che chiamiamo la coscienza morale» (1).

Come ho detto altre volte, più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria (tricolore o nera che sia), in questa o quella tifoseria nazionalista o/e imperialista.

La rabbia e l’odio delle classi dominate e di chiunque desidera ribellarsi contro uno status quo avvertito come non più tollerabile si armano con le ideologie che si trovano sul terreno, non importa se di antica o di recente fabbricazione, e in assenza di un’autentica soggettività rivoluzionaria, di un’autentica coscienza di classe, il più delle volte hanno la meglio quelle ideologie e quei partiti che per un verso confermano il “deplorevole” stato d’animo delle masse, e che per altro verso  promettono di dare a esso una efficace risposta politica. Chi vuole “fare la rivoluzione”; chi è accecato dall’odio, dalla frustrazione, dall’invidia di classe, dalla mancanza di prospettive e da altre magagne materiali e “psicosociali”; chi si sente in guerra con l’intero mondo: questo “tipo sociale” il più delle volte non si rivolge a ideologie e a soggetti politici che predicano «pace e amore», che consigliano “agli ultimi” di porgere l’altra guancia, bensì a ideologie e a soggetti politici che gli indichino un nemico preciso (leggi anche capro espiatorio) su cui poter scaricare, hic et nunc, la sua rabbia, e che gli vendano una spiegazione, facile da comprendere, capace di razionalizzare la sua esistenza nell’irrazionale mondo che lo ospita. E questo manganello ideale e materiale, che di volta in volta può  vestire i panni della religione o indossare una maschera laica se non laicista, anche in conformità con la storia dei Paesi, non manca mai all’appuntamento con il disagio sociale. Come dimostrano Mussolini, Hitler e tutti i demagoghi e i populisti di “destra” e di “sinistra”.

In questo senso ho sostenuto che le ideologie (religione inclusa) non spiegano un bel niente, se le consideriamo come il punto di partenza dell’analisi, mentre esse acquistano un significato preciso e possono aiutarci alla composizione del puzzle solo alla luce di processi e di contraddizioni sociali reali, di carattere materiale e d’ordine “spirituale”, di natura economica come di natura psicologica. La stessa psicologia delle masse, per usare un noto termine, dev’essere considerata, sempre a mio avviso, alla stregua di un fondamentale fattore “strutturale” da premettere senz’altro alla considerazione delle ideologie che entrano puntualmente in scena in una crisi sociale.

Da qualche parte ho letto che la spiegazione “sociologica” non spiega la deviazione jihadista di molti giovani musulmani: «Come si spiega che anche molti giovani benestanti si sono convertiti all’Islam radicale? Lo stesso Ben Laden era un miliardario». Ma è questa riflessione che sconta un grave limite sociologico, che mostra una concezione economicista, estremamente volgare del disagio sociale che in qualche modo attraversa l’intera stratificazione classista della società. Come se gli individui ricchi o benestanti non potessero avvertire appunto il disagio sociale, la miseria (non solo “materiale”), la disumanità, l’ingiustizia e la violenza che trasudano da ogni singolo poro della Società-mondo! Come se agli individui di estrazione sociale borghese fosse preclusa in linea di principio la strada che porta a maturare una coscienza rivoluzionaria del mondo! (Precisazione per gli sciocchi – e per i tutori dell’ordine democratico: non sto alludendo ai Misericordiosi Martiri di Allah! Per una lettura “rivoluzionaria/antimperialista” dello Stato Islamico bisogna rivolgersi a Loretta Napoleoni, non al sottoscritto!). E come si spiega che proprio un intellettuale borghese, un tale Marx, ha posto le basi di quella che una volta si chiamava «coscienza di classe»? Per non parlare del suo grande amico e compagno di lotta, Engels, il quale si guadagnava da vivere nell’azienda del padre. Paradossi che si spiegano benissimo con la stessa condizione materiale delle classi subalterne, a partire dalla «degradante divisione del lavoro in lavoro intellettuale e lavoro manuale» (Marx). Sto associando, anche solo alla lontana, come semplice paradosso, la barba di Marx ed Engels a quella di Ben Laden e degli altri pretendenti al Califfato Mondiale? Non mi ritengo responsabile della cretineria altrui!

Scriveva Simone Weil all’amica Albertine nel 1935: «Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale quotidiana. E non credere che ne sia conseguito in me un qualche moto di rivolta. No; anzi, al contrario, quel che meno mi aspettavo da me stessa: la docilità. Una docilità di rassegnata bestia da soma. Mi pareva d’essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – di non aver mai fatto altro che questo – di non dover mai far altro che questo. Non sono fiera di confessarlo. È quel genere di sofferenza di cui non parla nessun operaio; fa troppo male solo a pensarci». E generalizzando: «Un’oppressione evidentemente inesorabile ed invincibile non genera come reazione immediata la rivolta, bensì la sottomissione» (2). Certo, anche la sottomissione alle ideologie dominanti (comprese quelle a “sfondo” religioso) in una data epoca e in una data parte del mondo. Ma qui si divaga! Forse.

Il miliardario Ben Laden poteva anche credere, in tutta buona fede, di essere stato investito personalmente dal suo Dio dell’altissima missione di creare il Califfato sulla Terra; ciò non toglie il fatto che la sua ideologia fu sempre messa al servizio di precisi quanto prosaici interessi materiali, politici e geopolitici (durante gli anni Ottanta anche al servizio del Grande Satana a stelle e strisce) sintetizzabili con il concetto di Potere sociale – o sistemico. Per questo dopo la strage parigina del 13 novembre ho scritto che siamo tutti (a Nord come a Sud, a Ovest come a Est, nel mondo cristiano come in quello musulmano, piuttosto che nel mondo buddhista, induista, scintoista, taoista, ateista, laicista) ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore, i cui pilastri portanti naturalmente sono rappresentati dalle grandi, dalle medie e dalle piccole Potenze. La Francia e l’Italia sono parte integrante di questo sistema che ci espone a qualsiasi tipo di pericolo, compreso quello terroristico che ci viene dal «nemico». Tanto per essere chiari: il mio nemico è il sistema mondiale del terrore preso in blocco, concepito come una sola compatta – e altamente contraddittoria/conflittuale: è la capitalistica guerra di tutti contro tutti! – totalità disumana. Credere che la gente possa condividere il punto di vista qui espresso sarebbe da ingenui, soprattutto nel momento in cui la macchina propagandistica e terroristica («Chi non si schiera dalla parte degli Stati attaccati dal terrorismo islamico è un fiancheggiatore del Califfato Nero!») gira a pieno regime – è proprio il caso di dirlo!

Mi sono sempre attenuto scrupolosamente alla massima marxiana che consiglia di giudicare le azioni delle persone – e delle “masse” – non sulla base di ciò che esse credono di essere (comunisti, fascisti, martiri per conto di Dio o di Allah) e di fare (la «società giusta», What else?), ma sulla scorta di ciò che esse sono e fanno realmente. Ho fatto questo non per spirito di parte o in acritico ossequio a una fede (non sono neanche un marxista!), ma perché il principio funziona abbastanza, almeno per come la vedo io, si capisce.

20151129_isL’invito a non aver paura che le autorità ci ripetono continuamente mi ricorda tanto l’analogo invito gridato dagli ufficiali, e dai graduati in genere, alla truppa nel corso di un’operazione militare: «Non abbiate paura del nemico, cazzo! Non siate vigliacchi! Andate avanti, cazzo, non arretrate di un millimetro, siamo i più forti!». Per essere più convincente l’invito è spesso accompagnato da una bella pistola puntata alla schiena. Siamo in guerra, ormai è assodato, ma dobbiamo andare avanti. Anche perché se cambiamo il nostro stile di vita, oltre a darla vinta «al nemico», danneggiamo pure l’economia, che è già abbastanza depressa di suo. Io do il mio piccolo contributo alla causa recandomi prima in un grande centro commerciale e poi in un cinema. Domani forse vado allo stadio, martedì volerò in aereo. Avanti! avanti! E che Allah o chi per lui me la mandi buona! Intanto, per darmi coraggio, canticchio: «Sorridete, gli spari sopra sono per noi! Sorridete, gli spari sopra sono per noi!».

(1) S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’io, p. 106, Newton, 1991.
(2) S. Weil, La condizione operaia, pp. 95-126-127, SE, 1994.

RIFLESSIONI SUI NOTI FATTI PARIGINI

federrico2Il mondo islamico non ha conosciuto la rivoluzione borghese di tipo occidentale (dalla rivoluzione olandese a quella inglese, da quella americana a quella francese, dal Risorgimento tedesco a quello italiano), ed è precisamente questo il suo più radicale e cattivo vizio d’origine che tocca ogni aspetto della vita sociale dei Paesi che ne fanno parte. L’Islam, al contrario del cristianesimo, non è stato attraversato dalla Ragione, e questo punto Benedetto XVI, il Papa teologo tanto bistrattato e incompreso dal progressismo mondiale, lo aveva colto bene, ad esempio nella famigerata Lezione Magistrale tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Quel mondo non baciato dai Lumi sta ancora facendo i conti con questo cattivo retaggio storico e culturale, e anche l’Occidente ne paga le conseguenze, perché non solo esso non ha saputo o voluto favorire lo sviluppo della modernità nelle terre di Allah e di Maometto, ma ha fatto di tutto per renderle facili prede del fondamentalismo più retrivo e violento.

È, questa, una tesi che nei salotti buoni della cultura europea ha riscosso molto successo in questi tormentati e luttuosi giorni di dibattito intorno ai cosiddetti “valori repubblicani” e alla Civiltà Occidentale.  Se posta nei termini corretti, vale a dire storico-dialettici, la tesi sopra esposta può anche offrire interessanti spunti di riflessione. Rimane da capire fino a che punto ha senso, al di là della strumentalità politico-ideologica certamente non posta al servizio della verità, continuare a parlare in modo astratto e astorico di Occidente, di Civiltà Occidentale.

Qui però non intendo entrare nel merito di queste importanti e scottanti ”problematiche”, e la citazione che segue vale solo a fissare una traccia magari da riprendere e seguire in un altro post: «La dottrina economica dell’Islam espressa nel Corano e nella Sonna, mostra come essa non condannasse in linea di principio e non ostacolasse in pratica lo sviluppo di quello che in queste pagine è stato chiamato settore capitalistico dell’economia […] Weber ritiene che l’Europa abbia generato il capitalismo moderno in quanto provvista, più di ogni altra area di civiltà, di spirito razionalistico. Ma gli esempi che fornisce di tale razionalismo europeo sono per lo più posteriori all’età del decisivo impegno dell’Europa sulla via del capitalismo moderno […] Il Corano è un libro sacro in cui la razionalità occupa un posto notevole, importante» (M. Rodinson, Islam e capitalismo,  pp. 98-100, Einaudi, 1968 ). Questo anche per ribadire il concetto secondo cui la religione, da sola, presa in sé, per così dire, non spiega praticamente nulla del mondo che a essa dice – e pensa, il più delle volte in ottima fede – di ispirarsi.

Lucia Annunziata, ospite qualche giorno fa in un salotto televisivo, su questo punto non avrebbe potuto essere più chiara: «Siamo di fronte a un conflitto che coinvolge soprattutto Arabia Saudita e i suoi alleati, da una parte, e l’Iran e i suoi alleati dall’altra. Questi Paesi si contendono la supremazia in Medio Oriente. La religione non c’entra niente. Io sono laica e non intendo mischiarmi in questioni che riguardano la religione». La religione non spiega il conflitto ma è messa al servizio del conflitto, ossia al servizio di interessi economici, politici e geopolitici ben precisi. Dire, ad esempio, che l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita si combattono a causa della loro differente interpretazione del Corano e della Sonna significa non capire nulla di storia, di politica e di geopolitica. La stessa cosa vale se volgiamo lo sguardo alla Libia, alla Nigeria, al Mali, all’Algeria e via di seguito: ovunque Allah e il suo Profeta preferito vengono messi al servizio di interessi di vario genere. Interessi tutti rigorosamente ostili a ogni cosa che odori di umano. Se Maometto potesse parlare, probabilmente direbbe: «Io non sono maomettano». Cosa che deluderebbe alquanto Giuliano Ferrara e gli altri teorici dello scontro tra le civiltà.  «Nel 2011 ho dichiarato che l’Islam è la religione più stupida del mondo. Ho riletto con attenzione il Corano, e una sua lettura onesta non ne conclude affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente»: è quanto dichiara oggi Michel Houellebecq, celebrato autore di Sottomissione – arrendersi a Dio, darsi interamente a Lui: da questa idea ha origine la parola islām. Insomma, c’è sempre tempo per studiare con onestà intellettuale, se non proprio con spirito critico, la millenaria prassi sociale umana attraverso i documenti e le testimonianze di vario genere sedimentatisi nel corso del tempo.

A proposito di interessi capitalistici e di strategia geopolitica con “caratteristiche islamiche”, non sottovalutiamo l’attivismo della Turchia di Erdogan, la quale sta recitando molte parti in commedia, suscitando crescenti perplessità e timori negli Stati Uniti, in Europa e in Israele. Ma ritorniamo alla tesi illuminista.

Ora, a me pare che di una religione attraversata dalla Ragione gli arrabbiati (non importa adesso stabilire se essi sono pochi o molti) che vivono nelle periferie del mondo e che intendono reagire a un assetto sociale che avvertono come ostile, non sanno che farsene. Essi cercano un’idea che entri in sintonia con il loro disagio esistenziale e che li confermi nel loro odio. Sballottati (come tutti, a partire da chi scrive, beninteso) nel grande e micidiale frullatore del processo sociale, essi sono alla ricerca di qualcosa o di qualcuno che dia una certa risposta alle domande radicate nel loro malessere. Come reagire alla nausea esistenziale, come trasformare la disperazione in qualcosa di comprensibile e gestibile? C’è chi grida: «Fermate il frullatore, mi vien da vomitare!». Ma dal frullatore non si può scendere, almeno da vivi. Questa è la semplice e dura verità, la quale si accanisce soprattutto contro chi la nega. Tutti noi ogni giorno facciamo i conti con questa disumana condizione, il più delle volte senza averne la minima contezza, tanta è la nostra abitudine al disagio. E la soglia del dolore generato da questo disagio non smette di alzarsi, né la sua fenomenologia di moltiplicarsi. Ecco perché personalmente non mi sorprendo mai dinanzi agli episodi di «inaudita violenza» che hanno come protagonisti mariti, fidanzati, mogli, figli, ex integerrimi cittadini, disumanità varia pronta ad arruolarsi in qualsiasi causa che le offra l’opportunità di “fare qualcosa di concreto” contro il meccanismo che tutto e tutti stritola. Come disse una volta Max Horkheimer, «Sotto il dominio totalitario del male gli uomini possono mantenere solo per caso non solo la loro vita, ma anche il loro io». Su questo aspetto del problema rimando al post Sbadigliare, vomitare o mozzare teste?

Se, per ipotesi, i Misericordiosi di Allah di seconda o terza generazione pronti, qui e ora, alla Jihad in Occidente scoprissero improvvisamente, per una sorta di miracolo illuminista, che il Corano afferma esattamente il contrario di quanto essi pensano, predicano e vogliono, molti di essi sicuramente se ne sbarazzerebbero subito, e andrebbero alla ricerca di uno strumento ideologico adeguato alla bisogna. Questo per dire, in modo abbastanza sbrigativo, ne sono cosciente, che il problema del cosiddetto radicalismo islamico non sta in una lettura errata del Corano, quanto piuttosto nelle cause sociali (leggi pure esistenziali) che mettono in moto certi meccanismi reattivi.

Gli intellettuali progressisti si stupiscono nell’osservare che anche dopo la strage del 7 gennaio molti giovani delle banlieue non intendono affatto solidarizzare con i tanto decantati  «valori repubblicani» né prendere chiaramente le distanze da una «falsa [sic!] religione»: «Perché tanta ottusità?». Gli “illuministi” attivi nel XXI secolo non riescono a capire perché questi giovani vanno alla ricerca di una pistola, di un bastone, di un qualsiasi corpo contundente (anche ideale), e non della “verità”. E poi, signori, di quale “verità” stiamo parlando? È presto detto: della verità borghese fatta passare, oggi come ieri e come sempre, in guisa di valore universale. Dopo la tragedia (o dialettica) dell’Illuminismo nell’epoca rivoluzionaria della borghesia, eccoci apparecchiata dagli amici di Voltaire, nonché sostenitori dei sacri valori del 1789, la farsa di un universalismo chiamato a celare la realtà del dominio di classe, per sovramercato a partire da eventi che si sono prodotti in una delle storiche metropoli del capitalismo, del colonialismo e dell’imperialismo. Cianciare di liberté, égalité, fraternité e di diritti inalienabili dell’uomo nell’epoca del dominio totalitario e mondiale del Capitale sulla natura e sugli uomini si configura ai miei occhi come una tragica farsa, la quale illumina a giorno una vecchia tesi marxiana, il cui radicale significato continua a essere sottovalutato anche da molti cosiddetti epigoni (soprattutto da quelli che da mattina a sera cianciano di “pensiero unico neoliberale” dal pulpito a loro gentilmente offerto dai massmedia mainstream): l’ideologia dominante in una data epoca storica è quella delle classi dominanti. Ecco perché, a differenza di Toni Negri, il cui ottimismo della rivoluzione è davvero inesauribile, non sono così sicuro che l’oceanica manifestazione parigina dell’11 gennaio rappresenti un passo avanti in termini di maturazione di un pensiero, non dico anticapitalista, ma appena appena critico dello status quo sociale vigente.

Né mi conquista la tesi di Slavoj Žižek (La Repubblica, 9 gennaio 2015) secondo cui il liberalismo, che genera sempre di nuovo il fondamentalismo (come «reazione falsa e mistificatrice, naturalmente»), «necessita dell’aiuto fraterno della sinistra radicale», se vuole continuare a sopravvivere come una «tradizione fondamentale». Infatti, la «sinistra radicale» di cui parla l’intellettuale sloveno è parte organica del vigente ordine sociale, il quale si configurerebbe come capitalistico (con annesse contraddizioni sociali che assumono, nei momenti di più acuta crisi sociale, la forma del razzismo, dell’antisemitismo, del nazionalismo, ecc.) anche nel caso in cui quella costellazione politica andasse al governo: vedi Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, movimenti politici non a caso sponsorizzati (“tatticamente”, si capisce) anche da Toni Negri. Nel XXI secolo il liberalismo andrebbe sottoposto a una spietata critica teorica e pratica da parte delle classi dominate (altro che «aiuto fraterno!»), le quali purtroppo continuano a simpatizzare per le ideologie poste al servizio della conservazione sociale: non importa se a partire da una prospettiva di “destra” o di “sinistra”, laica o religiosa, populista  o “responsabile”. Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le situazioni.

Ma ritorniamo, per concludere, agli arrabbiati delle periferie del mondo – qui detto anche come metafora. Quale ideologia in grado di soddisfare il loro impellente bisogno di fare i conti con una società che li ha profondamente delusi (non tutti possono diventare ricchi e famosi come i campioni del football e le celebrità del mondo dello spettacolo, rapper e fotomodelli su tutti), e che li tiene confinati ai livelli più bassi della gerarchia sociale trovano essi sulla loro strada? Purtroppo la «coscienza di classe», nell’accezione marxiana del concetto, non è cosa che sorga spontaneamente dalle condizioni di vita dei dominati e degli offesi, e questo è un fatto, confermato molte volte dal processo storico (vedi alla voce fascismo, nazismo, populismo rooseveltiano, ecc.), che interroga in modo pressante l’autentico militante anticapitalista. E ciò è tanto più vero, da quando lo stalinismo internazionale ha squalificato agli occhi dei nullatenenti l’idea stessa di una reale alternativa alla società capitalistica: «Se questo è il famoso socialismo, meglio allora tenersi il capitalismo». Battersi per far comprendere a quante più persone possibile che il «famoso socialismo» non aveva nulla a che fare con il socialismo, finora non ha prodotto effetti visibili, né a onor del vero l’impresa è mai apparsa di facile momento a chi ha voluto tentarla ormai diversi lustri fa.

Qualche giorno fa dalla televisione Carlo Freccero se la prendeva con il maledetto (non per chi scrive!) 1989: «Prima della caduta del Muro quei giovani potevano rivolgersi ai partiti di sinistra: dopo hanno trovato il vuoto, il nulla». E siccome la politica e l’ideologia hanno orrore del vuoto, ecco che l’Islam radicale è diventato per molti giovani immigrati di seconda generazione la sola risposta possibile al loro disagio sociale, alla loro domanda di senso e di speranza. Giusto! E difatti nel post pubblicato l’8 gennaio a proposito della strage che si è consumata nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo scrivevo appunto, come ricordavo sopra, che «la religione non spiega un bel nulla». L’alternativa sembra dunque porsi nei termini che seguono: o il giovane ribelle di seconda e terza generazione (vale sempre la metafora di cui sopra) mangia la minestra del liberalismo, magari attraversato dai valori difesi dalla «sinistra radicale» (e qui già sento il Profeta di Treviri gridare come un ossesso: «Io non sono marxista!»), oppure abbraccia il Corano e, già che c’è, il fucile a pompa di ultima generazione. Cercasi “terza via”, disperatamente! Appendice

federico 1VERSETTI MARXIANI

A proposito di religione, valori repubblicani e Civiltà Occidentale

La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi.

Cristiana è la democrazia politica, in quanto in essa l’uomo – non un uomo ma ogni uomo – vale come un essere sovrano, altissimo; ma l’uomo nella sua esistenza incivile, anti-sociale, è l’uomo nella sua esistenza accidentale, l’uomo qual è, l’uomo com’è guastato, come si è perduto, sformato attraverso tutta l’organizzazione della nostra società; come si è ridotto sotto l’impero di rapporti ed elementi non umani: in una parola, l’uomo che non è ancora un essere umano.

La forma repubblicana del dominio borghese aveva rivelato che in paesi di vecchia civiltà e con una avanzata struttura di classe, con condizioni di produzione moderne e una coscienza spirituale in cui tutte le idee tradizionali sono state dissolte da un lavoro secolare, la repubblica borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi.

La repubblica costituzionale è la forma più solida e più completa del dominio di classe borghese.

La loro repubblica aveva un solo merito, quello di essere la serra della rivoluzione per l’abolizione delle differenze di classe in generale, di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali.

La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e vendetta ex lege.

DOPO LA PRIMAVERA (ARABA) VIENE L’AUTUNNO?

Qualcuno può illuminare la mia opaca, ancorché esigua, intelligenza? Ecco in quale labirinto concettuale essa erra senza niuna possibilità di uscirne: se nella primavera di quest’anno le masse arabe sono state protagoniste (almeno stando ai mass media) di una «Rivoluzione», in Tunisia, Egitto e altrove, oggi a cosa assistiamo in quelle contrade africane? Alla «Controrivoluzione»?

Ad esempio, i continui massacri di cristiani copti in Egitto, si configurano come momenti più o meno contraddittori del «processo rivoluzionario», ovvero come sintomi inequivocabili della imminente «Controrivoluzione»?

E soprattutto: perché l’intellettuale «di sinistra» sente il bisogno di inventarsi almeno una «Rivoluzione» (alla quale puntualmente segue una «Controrivoluzione»), in un luogo qualsiasi del vasto mondo, almeno ogni due, tre anni? Al quarto, è già in astinenza: «Moltitudine delle mie brame, chi è il più rivoluzionario del Reame?»

Scriveva Bernard-Henry LÉVY: «Il motore di questa rivoluzione non è stato evidentemente il proletariato. Né sono stati i nuovi o i vecchi poveri. No. Sono gli internauti. Coloro che utilizzano Twitter, Facebook, e Youtube … Rivoluzione nella rivoluzione. Ieri si usava prendere d’assalto la televisione. L’altro ieri, i Palazzi d’Inverno. Oggi è giunto il tempo di una e-rivoluzione, la prima del genere, a cui la gioventù tunisina dà dignità. Anche per questo, per aver portato a tal punto di eccellenza una nuova forma di resistenza, le diciamo grazie» (La lezione in cinque punti della rivoluzione tunisina, Corriere della Sera, 20 Gennaio 2011). E intanto la «gioventù rivoluzionaria» tunisina non smette di sognare l’Europa, e non pochi «rivoluzionari», armati naturalmente di telefonini, sfidano lo Stretto di Sicilia per giungere sulle sponde del Vecchio Continente.

La verità è che la sola rivoluzione oggi possibile in tutto il Mondo Arabo è quella promossa dal processo sociale capitalistico, il quale spinge le classi sociali di quell’area meno compromesse con lo status quo a spezzare i vincoli materiali, politici e ideologici che ne frenano il pieno dispiegamento. Oggi le masse arabe, gioventù internettizzata compresa, sono oggetti della storia, non soggetti, e non è abbellendo la realtà che si può comprenderla. Nell’ambito di questo processo oggettivo si svilupperanno nuclei di resistenza operaia e proletaria? Nasceranno pensieri autenticamente rivoluzionari? Sperarlo non costa niente. Capovolgere la realtà è politicamente delittuoso.

«I poderosi movimenti popolari che sconvolgono il Mondo Arabo, sono abbastanza potenti da abbattere il tiranno di turno, ma del tutto disarmati di fronte alle forze organizzate che finiranno per incanalarne l’energia e dirigerla verso i propri obiettivi … Anche da questo punto di vista la tecnica non offre chance di rovesciamento automatico dei rapporti di forza fra élite e classi subalterne, ma favorisce, tutt’al più, l’ascesa di élite alternative» (Carlo Formenti, Felici e sfruttati, p. 148, Egea, 2011).


Mi sa tanto che alle classi subalterne del Pianeta toccherà ancora in sorte la fatica di dare l’assalto al metaforico Palazzo d’Inverno. «Che trivialità! Ma allora, Steve Jobs è morto invano?» Se ne faranno una ragione, le Moltitudini…

IL CRITERIO GIUSTO: A proposito delle cosiddette «rivoluzioni arabe»

La rivoluzione sociale è l’Eccezione che spezza i ceppi a cui la Regola tiene incatenata la possibilità della Liberazione. Per questo un Evento di tale natura rappresenta per il Dominio Sociale il Male Assoluto, l’assoluta aberrazione che bisogna annientare con ogni mezzo necessario. Questa stringente e vitale necessità conferisce piena legittimità al mezzo. Questo è il criterio del Dominio.

Ma insomma: si tratta di rivoluzioni vere, o ci stanno prendendo in giro? Come facciamo a districarci nel guazzabuglio di informazioni che ci giungono da tutte le parti? Parafrasando il dubbio amletico, «Rivoluzione o non Rivoluzione?» Come risolvere il problema?

Personalmente applico un metodo assai semplice, ma tutt’altro che semplicistico. Quando osservo che un «moto popolare» trova l’appoggio di una parte della classe dominante del Paese che lo ha generato, o di una parte della cosiddetta «Comunità Internazionale», allora capisco che esso non ha una natura socialmente rivoluzionaria, e nel XXI secolo, quando tutto il Pianeta giace sotto il cielo del capitalismo (più o meno arretrato non ha importanza), ciò equivale all’assenza in esso di una qualsivoglia sostanza realmente rivoluzionaria. Sul piano del processo materiale, ossia tenendo conto dell’assenza di una soggettività sociale e politica facente capo alle classi dominate (è il nostro caso, ovunque nel mondo), di socialmente rivoluzionario c’è solo il Capitale. Esso svelle sempre di nuovo tutto ciò che gli si presenta dinanzi come un impedimento alla sua vitale corsa espansiva – beninteso, vitale nel senso proprio del termine: se non si espande, soprattutto in termini qualitativi, il Capitale muore.

Un siffatto «moto popolare» è parte integrante del processo sociale materiale di cui sopra, a prescindere dalla coscienza che ha di se stesso – e soprattutto a prescindere dagli ideologi che lo teorizzano dal salotto di casa, tra una portata e l’altra.

Sarà un mio limite, ma ad esempio mi riesce difficile, anzi impossibile, immaginare una «rivoluzione» appoggiata dai cacciabombardieri o dai missili sparati dalle navi di qualche Potenza. Quando poi c’è di mezzo la mitica «Egida dell’ONU», più che esaltarmi per la «rivoluzione», o per la «guerra umanitaria», corro a prendere la pistola… della critica, che avevate capito? «Rivoluzione», certo, ma d’Egitto (in tutti i sensi)!

Se, invece, un movimento sociale scatena il terrore e l’odio nel seno di tutte le classi dominanti, ovunque esse si trovino ad esercitare la loro funzione sociale, allora le cose, almeno per me, cambiano radicalmente. Nessuna classe dominante, ovviamente, può appoggiare un evento che ne mette in discussione la stessa esistenza. Il suicidio di una classe dominante non è un evento contemplato dalla storia.

La rivoluzione sociale è, per il Dominio, il Male Assoluto, la scandalosa Eccezione che infrange il Sacro Divieto posto a tutti gli individui dalla Regola. È l’Eccezione che non intende confermare la Regola, ma annientarla una volta per sempre. Per questo, in quel caso, mi aspetto da tutte le fazioni capitalistiche, e in tutto il mondo, velenose calunnie e tanta, tanta Violenza, magari sotto l’egida dell’ONU. Perché no?

LA PROFEZIA DI ISAIA

Se ancora oggi ci poniamo il problema del fondamentalismo islamico nei Paesi Musulmani – e, per riflesso, dei giovani immigrati musulmani che vivono ai margini delle metropoli occidentali – è perché la struttura sociale di quei Paesi continua a fare dell’Islam un formidabile strumento politico-ideologico nelle mani di strati sociali e di gruppi politici che si collocano «trasversalmente» rispetto alla gerarchia sociale. L’arretratezza sociale del Mondo Musulmano non si spiega né con l’Islam né con una sua interpretazione fondamentalista. Se mai è vero esattamente l’opposto: la prima spiega, «in ultima analisi», la seconda. Il ritorno alla purezza delle origini – ad esempio: l’Islam non «contaminato» da influenze e apporti esterni – è da sempre il mantra di tutti coloro che soffrono il presente senza comprenderlo.

La cosiddetta «primavera araba» – assai frettolosamente derubricata a malinconico autunno, se non a rigido inverno – ha fatto ritornare in auge lo «scontro delle Civiltà» evocato da S. P. Huntington negli anni Novanta. Nel suo articolo del 9 Marzo, Piero Ostellino ha riesumato la mai del tutto seppellita «profezia di Oriana Fallaci» sul lento ma inesorabile «suicidio dell’Europa», vittima della cultura del politicamente corretto che le impedisce di comprendere che il problema, per l’Occidente, non è l’interpretazione fondamentalista dell’Islam, ma l’Islam stesso, sorto sulle violenti basi della jiâd, della Guerra Santa a tutto ciò che non si piega al Misericordioso Verbo di Allah. L’americana Brigitte Gabriel, la bella attivista anti-muslim di origine libanese, ha preso il testimone fallaciano. «Nel mondo c’è un cancro che si chiama islamo-fascismo. La cui ideologia vien fuori da una sola fonte: il Corano». Stupidaggini, è ovvio; ma che celano un dato di realtà che ai buoni di spirito risulta difficile da mandar giù: l’ideologia multiculturalista fa acqua da tutte le parti. Averlo ammesso francamente è costato al premier inglese Cameron diversi punti nella Borsa Valori del politicamente corretto. Nel mondo «più equo e solidale» costruito a tavolino dai progressisti, chi dice la verità corre sempre il rischio di passare per un poco di buono. Per fortuna io non ho preoccupazioni di stampo elettoralistico.

«È difficile dire – perché è troppo presto per dirlo – se l’infausta profezia di Oriana si realizzerà. Ma, escluso – come lei prevedeva – che “i musulmani accettino un dialogo con i cristiani, anzi con le altre religioni” (o con gli atei), è sulle conseguenze sociali delle diversità fra Islam e Cristianesimo che, come suggerisce Papa Ratzinger, sarebbe, però, necessario aprire un dialogo con chi viene da noi. Per sapere se vuole davvero convivere in armonia con noi» (P. Ostellino, Corriere della Sera, 9 Marzo 2011). Ma ha un seppur remoto senso impostare in questi termini il problema sociale derivante dall’afflusso, che si profetizza sempre più massiccio, se non addirittura di «proporzioni bibliche», di disperati arabi nelle opulente terre d’Occidente? Certo che no.

La perdurante impotenza sociale delle classi subalterne d’ogni parte del mondo fa sì che i loro elementi più insofferenti, più frustrati o semplicemente più sensibili si attacchino come patelle allo scoglio delle più disparate ideologie reazionarie offerte dal mercato: stalinismo, nazismo, fondamentalismo islamico, «fondamentalismo sportivo», e via di seguito. All’epoca in cui Paesi come l’Unione Sovietica e la Cina di Mao sembravano poter rappresentare una valida alternativa al capitalismo imperialistico occidentale, una non piccola parte delle «masse diseredate arabe» trovò nell’ideologia di Stato di quei Paesi il suo punto di riferimento ideologico e politico. Un’altra non piccola parte di quelle masse riversò invece la sua speranza di riscatto in un nazionalismo arabo che vedeva di buon occhio la via per il progresso indicata dall’Occidente, ma anche dalla Turchia e dal Giappone. Naturalmente questo schema riproduceva la dialettica interna alle classi dominanti del «Mondo Musulmano», divise in fazioni sull’opzione strategica da implementare per meglio difendere ed espandere i loro interessi materiali, il loro potere politico ed ideologico, il loro prestigio sociale.

In ogni caso, l’Islam si sposava benissimo tanto col nazionalsocialismo (o stalinismo nazionale che dir si voglia) di matrice Russa e Cinese, quanto con il nazionalismo di matrice occidentale e modernista. Quando poi, per un verso il «socialismo reale» iniziò la sua parabola discendente, e per altro verso la «via occidentale» alla modernizzazione dei Paesi Musulmani si rivelò sempre più lastricata di contraddizioni e di sofferenze (da sempre e ovunque l’«accumulazione originaria del capitale» non è mai stata un pranzo di gala!), le speranze deluse e frustrate delle masse arabe iniziarono a incrociarsi nuovamente con l’ideologia tradizionalmente dominante: con l’Islam. Un Islam ovviamente non «contaminato» da influenze e apporti esterni, perché il ritorno alla purezza delle origini è da sempre il mantra di tutti coloro che soffrono il presente senza comprenderlo.

Alla fine del XIX secolo, quando la divergenza tra «Mondo Musulmano» e «Mondo Cristiano» apparve irrecuperabile, gli intellettuali occidentali, seguiti a ruota dai colleghi orientali, iniziarono ad elaborare questa domanda: l’Islam è compatibile con il capitalismo? A mio avviso l’interpretazione che biasima il mancato sviluppo capitalistico di alcune civiltà mondiali e ne fa addirittura una tara antropologico-culturale non ha alcun fondamento storico, se non quello dell’apologia capitalistica. La teoria razionalistica di Max Weber, che individua nell’indigenza tecnico-scientifica del pensiero religioso non cristiano il mancato sviluppo in senso capitalistico di molte Civiltà (dalla Cina alla Mesopotamia, dall’Africa al Medio Oriente) al tempo del «decollo» occidentale, è falsa nei suoi stessi presupposti storici, e questo lo dimostra proprio il processo di espansione del Mondo Musulmano nei suoi secoli ascendenti (dal VII all’XI secolo). Basti vedere ciò che rimane della Civiltà Musulmana a Palermo, a Cordova e a Toledo, per rendersi conto del macchiano errore di Weber. Peraltro, gli esempi che egli fornisce del superiore spirito razionalistico europeo sono per lo più posteriori all’età del decisivo impegno del Vecchio Continente (olanda e Inghilterra, in primis) sulla via della modernità capitalistica. Speculare all’errore razionalistico di Weber troviamo la tesi deterministica che prospetta in termini assolutamente necessari il passaggio di ogni formazione sociale attraverso la linea progressiva degli «stadi»: dalla società barbara a quella antica, da questa al feudalesimo per giungere, dulcis in fundo, alla società borghese. Condannare il «razzismo culturale» degli intellettuali occidentali non deve suggerirci l’idea di un capitalismo pronto a schiudersi dappertutto, se solo il demoniaco Occidente non avesse messo la propria coda su uno sviluppo endogeno «naturale».

L’opposizione di fondo dell’Islam al capitalismo, e dunque a tutte le prassi che connotano la società borghese, non ha alcun appiglio storico, sociale e culturale, anche perché la religione, qualsiasi religione (e a maggior ragione le religioni monoteiste) da sola, separata dallo spazio storico-sociale che l’ha generata, non spiega un bel niente. La religione – e l’ideologia in generale –, messa al servizio di questo o quell’altro interesse sociale, può andare in un senso come nel senso opposto: può ben supportare tanto una prassi sociale volta alla modernizzazione di un Paese, quanto una prassi che si oppone a questa tendenza. Se ancora oggi ci poniamo il problema del fondamentalismo islamico nei Paesi Musulmani – e, per riflesso, dei giovani immigrati musulmani che vivono ai margini delle metropoli occidentali – è perché la struttura sociale di quei Paesi continua a fare dell’Islam un formidabile strumento politico-ideologico nelle mani di strati sociali e di gruppi politici che si collocano «trasversalmente» rispetto alla gerarchia sociale.

L’arretratezza sociale del Mondo Musulmano non si spiega né con l’Islam né con una sua interpretazione fondamentalista. Se mai è vero esattamente l’opposto: la prima spiega, «in ultima analisi», la seconda. Anch’io ho visto all’opera il fatalismo e l’indolenza dei musulmani, di cui parlava Weber, a Tripoli, nel cui porto sono stato nel 1999, nel pieno dei festeggiamenti della «Grande Rivoluzione Verde», che quell’anno compiva giusto trent’anni. Operai – che grossa parola! – assunti a giornata, come nell’Italia degli anni Cinquanta, scaricavano la nostra nave con una lentezza esasperante; del tutto sforniti dei più elementari sistemi di sicurezza (maneggiavano pesantissimi tubi d’acciaio che sarebbero serviti all’Eni senza casco, senza guanti e in ciabatte!), avevano l’insolenza stampata sul volto. Ma non mi è passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea che quel comportamento poco produttivo avesse a che fare con la loro religione o con qualche loro tara antropologico-culturale! Ai miei colleghi, invece, sì… Una struttura capitalistica di basso livello tecnologico e una società di asfittico sviluppo generale non può generare una produttività di stampo germanico o milanese. In quelle condizioni un operaio tedesco – o milanese – sarebbe superfluo. E, a proposito dell’operaio milanese, non dimentichiamo che anche i «polentoni» considerano i «terreni» un po’ come l’equipaggio della mia nave considerava i declassati lavoratori libici.

EFFETTO DOMIN(i)O

Ci si meraviglia e ci si entusiasma tanto per la rapidità con la quale decennali dittature tirano le cuoia, una dopo l’altra, dando corpo a quell’eccezionale effetto domino che qualche apprensione deve certamente suscitare in tutte le classi dominanti del pianeta, ma con ciò stesso si stende un velo pietoso sui decenni che hanno preceduto l’esito violento. Uno come Gheddafi è riuscito a mantenersi abbastanza agevolmente al potere per 42 anni, e invece di interrogarsi sulle cause interne e internazionali di cotanta longevità, la cosiddetta opinione pubblica internazionale – ossia i politici, gli intellettuali e i mass-media dei paesi capitalisticamente più sviluppati – esulta per la «rivoluzione democratica» che starebbe investendo l’ex colonia italiana. Decenni di miseria, di terrore, di oppressione, ma anche di consenso popolare per il dittatore di Tripoli (ricordo che negli anni Ottanta alcuni miei amici siculi passarono, senza soluzione di continuità, dal Libretto Rosso di Mao al Libero Verde di Muammar Gheddafi, innalzato ai sacri altari dell’Antimperialismo) all’improvviso non contano più niente: la storia inizia oggi!

E sia! Ma che storia è mai questa? È la storia della globalizzazione capitalistica, naturalmente. L’odierno effetto domino ci porta al cuore del processo di diffusione capillare dei rapporti sociali dominati dal capitale – in ogni sua configurazione sociale: merce, tecnologia, scienza, lavoro, cultura, moda. Il capitale preme dall’interno e dall’esterno, soprattutto attraverso le sofisticate tecnologie che mettono tutto il mondo nella rete del Mercato Universale.

Le società dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente sono attraversate da vecchie e nuove contraddizioni che rendono sempre più insostenibile un passaggio graduale, guidato dall’alto, fatto di tanti compromessi, alla loro piena «modernizzazione». Le tensioni che si sono accumulate in quei paesi nel corso dei decenni premono sempre più forte sul tappo dello status quo economico, politico, istituzionale, sociale tout court. Il gesto disperato del giovane ambulante tunisino, provvisto di laurea, che si dà fuoco perché esasperato da una vita intrappolata nella miseria più nera e nel più ottuso dei burocratismi, è la cifra di questa condizione insostenibile. Non si può rimanere troppo a lungo in mezzo al guado di uno sviluppo capitalistico troppo asfittico.

Paesi come la Libia, l’Iran, l’Arabia Saudita ecc. non possono sperare di poter vivere in eterno grazie alla rendita che a loro deriva dalla vendita – nemmeno dalla trasformazione – delle materie prime, soprattutto petrolio e gas. Ma Gestire la transizione dal capitalismo di Stato basato sulla rendita petrolifera a un capitalismo più «liberale» naturalmente non è un’operazione semplice, perché in gioco ci sono cospicui e radicati interessi, che peraltro riguardano anche una parte delle stesse classi subalterne, quella che gode delle briciole garantite dallo Stato Petrolifero Assistenziale. Non a caso i nemici più terribili della cosiddetta Onda Vende iraniana Ahmadinejad li recluta tra il proletariato sussidiato dallo Stato. Anche Chavez, sul versante opposto del globo, coltiva il suo ultrareazionario consenso populista sul terreno di un proletariato pezzente ma assistito.

La dissoluzione, alla fine degli anni Ottanta, dei regimi dell’Est europeo basati sul capitalismo di Stato mi sembra confermi questa lettura. La stessa Cina, proprio per scongiurare la sindrome Russa, dovette far ricorso alla più spietata delle repressioni per evitare – o quantomeno per dilazionare e depotenziare – quelle riforme politiche e sociali che ne potevano rallentare la corsa sulla pista della competizione capitalistica globale, e che avrebbero potuto aprire il vaso di Pandora delle rivendicazioni nazionali ed etniche.

Tuttavia, il capitalismo è per sua natura ostile ad ogni ostacolo di natura “artificiale”, e là dove si apre uno spazio ancora libero di iniziativa imprenditoriale, il suo cavallo morde il freno, scalcia, sbuffa, pretende una corsa a perdifiato nel verde – il colore dei soldi! – prato delle opportunità. Naturalmente il processo di sviluppo del capitalismo non investe solamente la sfera economica dei paesi, ma ne coinvolge anzi l’intera struttura sociale: la politica, le istituzioni, la cultura, le mode, la stessa psicologia, tutto deve fare i conti con le necessità di un’economia quantomai esigente ed esclusiva. Non è né giusto né sbagliato, è semplicemente un fatto necessario e incontrovertibile nel contesto dell’odierna Società-Mondo. (Proprio in questo momento ricevo un sms da una cara amica, la quale mi chiede: «Ciò che sta succedendo è come ai tempi della Russia, della Romania ecc., per pressioni esterne cioè occidentali?» No, cara amica, il complotto occidentale non c’entra nulla: chi complotta qui e ovunque è il capitale. Prima lo capiamo, e prima ci risparmiamo il luogo comune terzomondista, sempre duro a morire).

In fondo, l’11 Settembre dei fondamentalisti islamici è stato forse l’ultimo, disperato e rozzo – ancorchè tecnologicamente avanzato: paradosso dentro la contraddizione – tentativo, da parte di chi teme la «modernizzazione borghese», di evitare al Mondo Islamico un esito «occidentale». Forse il Dio dei fondamentalisti islamici non ama l’«emancipazione della donna», le «libertà borghesi», i «diritti umani» e tutti quei «valori occidentali» che tanto inorgogliscono l’opinione pubblica che vive nei luoghi di nascita del moderno capitalismo. Il fatto è che quel Dio si trova a dover fare i conti con una divinità ben più potente e tirannica, la cui Chiesa non sta né a New York né a Pechino, ma ovunque si celebri la Santa Messa del Profitto. Amen!

Mentre scrivo la situazione nei paesi investiti dallo tsunami sociale appare ancora fluida e contraddittoria, perché il cavallo dell’insofferenza alla miseria e all’oppressione è montato tanto da coloro che vogliono mantenere lo status quo, tanto da quelli che coltivano l’opposto interesse. Nemmeno un nuovo compromesso tra questi interessi è da escludersi. Il processo sociale reclama comunque i suoi diritti, e come sempre a pagare il conto salatissimo del «progresso civile» sono gli ultimi, i quali non saranno mai i primi. Salvo che, beninteso, in caso di rivoluzione sociale. Ma questa è tutta un’altra storia.