Cerchiamo di fare il punto, “a volo d’uccello” e senza alcuna pretesa di organicità e completezza, sullo «storico accordo» (preliminare!) sul nucleare iraniano sottoscritto a Losanna il 2 aprile dall’Iran e dai Paesi del 5+1 – una formula geopolitica che la dice lunga sulla Bilancia del Potere mondiale a settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale.
«È un grande giorno» ha esultato John Kerry, che somiglia sempre più a un cowboy perennemente ubriaco; «Si preverrà la bomba nucleare [iraniana] e il mondo d’ora in poi sarà più sicuro», ha invece commentato il sobrio Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che adesso deve fare i conti con i tanti “falchi” che svolazzano nel Congresso. «L’accordo con l’Iran», ha precisato Obama proprio per tranquillizzare i “falchi” (numerosi in entrambi i partiti del regime americano), «non si basa sulla fiducia, ma su verifiche senza precedenti». Vedremo presto fino a che punto gli “oltranzisti”, che rimproverano al Presidente una ritirata strategica dal Medio oriente, si sentiranno rassicurati da quella precisazione.
Se Angela Merkel (la “+1” della formula magica) in una nota diramata dalla portavoce ha fatto sapere che «siamo vicini come mai prima a un accordo che rende impossibile il possesso delle armi atomiche dell’Iran», il suo Ministro degli Esteri ha dichiarato che è ancora troppo presto per cantare vittoria, anche perché nelle more (i dettagli tecnici dell’accordo dovranno essere definiti entro il 30 giugno) può sempre infilarsi la coda del demonio.
Per Federica Mogherini, Alto rappresentate per la politica estera Ue (qualunque cosa tale qualifica voglia dire), «abbiamo fatto un passo storico verso un mondo migliore»: nientedimeno! È giustificato tutto questo ottimismo? Naturalmente la risposta varia col variare delle prospettive dalle quali si osserva la cosa. Infatti, alcuni Paesi hanno esultato ad accordo annunciato, mentre altri sono caduti in una depressione a dir poco cosmica. Ci sono insomma Paesi che pensano di aver vinto e Paesi che pensano di aver perso, e ovviamente tutti, vincenti e perdenti, credono di avere ragione. Ed è proprio così. Si tratta dunque di capire da quale parte pende la bilancia della Ragione – e del Potere.
Scrive Maurizio Molinari, uno degli analisti di politica estera più seri del Paese: «Vincono Obama e Rohani, i leader che più hanno voluto l’accordo. Il presidente Usa perché convinto che il dialogo con i nemici rafforza la leadership americana nel mondo e, in questo caso, disinnesca la minaccia atomica di Teheran. Il presidente iraniano perché vede riconosciuto il diritto all’arricchimento dell’uranio e ha la possibilità di far ripartire l’economia e gli investimenti grazie alla progressiva riduzione delle sanzioni. Perdono Israele, Arabia Saudita, Egitto e gli altri Paesi sunniti protagonisti di forti pressioni su Usa e Ue per evitare un’intesa che ritengono pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Anche la Russia esce indebolita perché il dialogo fra Usa e Iran che ora inizia consegna nuove opzioni a Obama, riducendo gli spazi per Mosca» (La Stampa, 3 aprile 2015).
L’Arabia Saudita non ha usato mezzi termini nel manifestare il proprio disappunto circa l’esito della trattativa svizzera: «Gli Stati Uniti ci hanno tradito stringendo un cattivo e pericoloso accordo con il nostro nemico storico». Il Premier israeliano Benjamin Netanyahu, fresco del successo elettorale costruito sulla paura della minaccia terroristica “convenzionale” e nucleare, ha lanciato un twitter a dir poco… atomico: «Ogni accordo deve riportare indietro in maniera significativa le capacità nucleari dell’Iran e fermare il suo terrorismo e la sua aggressione». Nello stesso messaggio Netanyahu ha allegato una mappa del Medio Oriente, sovrastata dalla scritta Le aggressioni dell’Iran durante i negoziati nucleari, che riporta le scorribande iraniane degli ultimi mesi: dallo Yemen, alla Siria, dal Libano, all’Iraq.
Ancora Molinari: «Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran sia più lontano dall’atomica. Le intese resteranno in vigore per 10 anni, con successivi 5 anni di obblighi per Teheran. Usa e Ue ritengono di aver bloccato la corsa dell’Iran all’atomica soprattutto perché l’impianto al plutonio di Arak viene bloccato, il carburante usato spostato all’estero e l’arricchimento dell’uranio limitato a 50/60 centrifughe modello IR-1, della prima generazione, nell’impianto di Natanz. Ma a tal fine saranno di vitale importanza le verifiche dell’Agenzia atomica Onu, i cui ispettori per i prossimi 15 anni dovranno certificare il rispetto degli impegni sottoscritti». Insomma, Teheran accetta (o sembra di voler accettare) un marcamento assai stretto in materia di nucleare militare in cambio di una maggiore agibilità economica e politica. Ed è esattamente questa prospettiva che temono le potenze regionali, le quali hanno sempre guardato con ostilità al dinamismo e alla complessità della società civile iraniana che la «rivoluzione khomeinista» del 1979 non è riuscita a imbrigliare. Israele per un verso non si fida del regime iraniano, che a giorni alterni promette di cancellarla dalla carta geografica del Medio oriente(Gerusalemme prendeva molto sul serio le minacce di Ahmadinejad); e per altro verso teme di perdere il tradizionale ruolo di partner strategico privilegiato degli americani. In ogni caso, Israele è costretta oggi a muoversi secondo il noto assunto: il nemico del mio nemico (strategicamente e contingentemente meno pericoloso) è mio amico – almeno tatticamente, nel breve/medio periodo. Di qui la sua intesa con la coalizione sunnita ostile a Teheran.
Alla luce del (potenziale) accordo di giovedì si chiarisce dunque meglio anche il contesto caotico che oggi vediamo nello Yemen: «Qui, da oltre una settimana Riyad guida una coalizione sunnita nei raid aerei (con l’appoggio logistico e d’intelligence degli Usa) contro i ribelli sciiti huthi. Dopo aver conquistato Sana’a, questi hanno continuato la loro avanzata verso Sud, sostenuti dall’Iran. L’intervento di Riyad si spiega proprio con il timore che la tessera yemenita si incastri nel mosaico di Teheran» (S. Surme, Notizie Geopolitiche, 3 aprile 2015). E difatti ho scritto in premessa che il quadro «si chiarisce», non che «si semplifica»: tutt’altro! Appare d’altra parte evidente come l’equilibrio geopolitico della regione mediorientale (ma non solo: vedi Nord ‘Africa) sia a un passo dal collassare definitivamente, con conseguenze oggi difficilmente prevedibili. Anche i movimenti che si stanno producendo all’interno della galassia Jihadista vanno letti alla luce di questo processo sociale – non riducibile certo a una lotta settaria spiegabile in termini di cattiva interpretazione del Corano, secondo una risibile ma assai popolare tesi.
Sergio Romano, esibendo il suo proverbiale realismo politico, ha dichiarato che, «paradossalmente», l’esistenza dell’arma atomica allontana lo spettro della stessa guerra convenzionale, come dimostrano i casi dell’Iraq (attaccato perché non possedeva l’atomica) e della Corea del Nord (risparmiata perché possiede quella micidiale arma di “dissuasione”). Egli dà per ovvia l’implementazione da parte dell’Iran di un programma militare “atomico”, nelle forme e nei tempi che gli saranno dettati dalla situazione interna e internazionale. Un’ovvietà che naturalmente Israele, la sola potenza regionale provvista di un moderno arsenale atomico, non può certo condividere. A ragione (la sua ragione), peraltro.
E a questo punto è d’uopo, come si dice, fare la seguente breve precisazione. All’interno dello scenario che stiamo considerando non esistono “torti” e “ragioni” astrattamente considerati, ma legittimi interessi capitalistici che si confrontano e si scontrano lungo direttrici geopolitiche e sociali che negano in radice ogni prospettiva di emancipazione umana. È qui che insiste la differenza fondamentale tra il punto di vista geopolitico di considerare la competizione interimperialistica, il quale non solo non mette in questione l’ordine sociale mondiale, ma si sforza di sostenerlo dando scientifici consigli alle classi dominanti dei diversi Paesi*, e il punto di vista critico-radicale, che all’opposto intende attaccare analiticamente e politicamente quell’ordine. Ciò va detto anche contro chi confonde lo status quo geopolitico con lo status quo sociale, e che per questo nella – cosiddetta – lotta antimperialista azzarda “soluzioni tattiche” la cui “dialettica” si risolve in una capitolazione agli interessi di questo piuttosto che di quell’imperialismo globale o regionale. I due piani (geopolitico e sociale) vanno apprezzati come momenti “dialetticamente connessi” del processo sociale considerato alla scala mondiale (che è poi la dimensione più adeguata ai rapporti sociali capitalistici), e come tali vanno trattati dal punto di vista della lotta di classe anticapitalista. L’autonomia di classe va ricercata e praticata a ogni livello della prassi sociale (della conflittualità sociale), e a “360 gradi”. Ma qui è meglio chiudere la parentesi “dottrinaria” – rimando ai miei post dedicati al tema appena accennato.
Daniele Capezzone, memore del suo passato radicale (nell’accezione pannelliana del termine), ha per la milionesima volta scomodato il Patto di Monaco: «Mi auguro che il mondo ascolti con più attenzione le parole e il monito ripetuti ancora pochi minuti fa dal Primo ministro israeliano Netanyahu, che, a mio avviso molto giustamente, mette in guardia rispetto all’ipotesi di accordo con l’Iran. […] Dinanzi a ciò, l’accordo in corso rischia di assomigliare a quello di Monaco 1938. E tutti farebbero bene a ricordare cosa disse a quel proposito Churchill, criticando l’intesa europea con i nazisti: “Avevate la possibilità di scegliere tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore, e avrete la guerra”». È ciò che, con qualche cautela in più e molta più intelligenza politica, sostiene il Wall Street Journal, il quale ha scritto che in astratto l’accordo potrebbe pure andare bene, se fosse stato sottoscritto con Paesi che, «come l’Olanda e il Costarica», rispettano il diritto internazionale, cosa che non può dirsi a proposito dell’Iran, un Paese che, sempre secondo il giornale ultraconservatore statunitense, ha fatto della menzogna, della sistematica violazione del diritto internazionale e della negazione dei diritti umani la propria cifra più peculiare. Anche The Washington Post condivide un simile pessimismo (o scetticismo), sostenendo che l’accordo di Losanna sembra avvantaggiare soprattutto l’economia iraniana, rafforzando in prospettiva i suoi progetti di espansione regionale. Il New York Times ha invece scritto che l’accordo è «solido, credibile e promettente», e soprattutto senza altre alternative che non siano quelle che spianano il terreno a una devastante ennesima guerra: è la linea di difesa obamiana.
«Oggi a Losanna si è aperta la strada perché l’Iran nel medio periodo torni ad essere una nazione normale, a cui verrebbero tolte le sanzioni finanziarie e sul petrolio a fine giungo. Un Paese che possa tornare a pieno titolo nel consesso mondiale e nella rete dei commerci internazionali con i suoi 80 milioni di abitanti, in maggioranza giovani desiderosi di abbracciare i valori e lo stile di vita occidentali» (V. Da Rold, Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2015). Un piatto capitalisticamente assai ghiotto**. Il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che sa di dover fare buon viso a cattivo gioco dinanzi alla formula 5+1, ha subito rivendicato per l’Italia un posto al sole, ricordando la speciale relazione che lega i due Paesi già all’epoca in cui l’Eni di Mattei siglò un accordo “rivoluzionario” con la Società Nazionale Iraniana del Petrolio per la ricerca e lo sfruttamento petrolifero in una vasta zona del Golfo Persico***.
L’apertura di un nuovo scenario nelle relazioni tra la Persia («chiamiamo le cose con il loro nome», come invita a fare oggi Lucio Caracciolo) e l’Occidente è destinata comunque a rompere equilibri consolidati nella società iraniana e nel sistema di potere che ha guidato il Paese per oltre tre decenni. «La revoca delle sanzioni desta preoccupazione anche in Iran. Qui alcuni circoli economici e industriali guardano con timore alla revoca di un embargo grazie al quale sono state accumulate immense fortune per via dell’isolamento del paese e della forzata autarchia, soprattutto in ambito tecnologico. E la percezione dell’accordo come riapertura del dialogo con gli Stati Uniti desta preoccupazioni e malumori, in un sistema che sull’opposizione all’Occidente e al suo dominus ha costruito la propria impalcatura politica e istituzionale» (N. Pedde, Limes, 3 aprile 2015). Le «manifestazioni spontanee di giubilo» che si sono viste a Teheran subito dopo l’annuncio del raggiunto accordo fatto dal capo negoziatore iraniano Abbas Araqchi sicuramente avranno fatto storcere il muso a più di un leader iraniano “duro e puro”. Come ricordava ieri Franco Venturini sul Corriere della Sera, «l’ambiguo Khamenei, e dietro di lui i militari, i nazionalisti, gli avversari personali del presidente Rohani», sono pronti in ogni momento a tirare fuori l’accusa di tradimento qualora l’accordo svizzero sul nucleare dovesse creare “scompensi” di qualche tipo all’interno della società iraniana. Insomma, siamo appena agli inizi di una vicenda che certamente vale la pena seguire da vicino.
* Un solo esempio: «Quanto a noi. Non c’è dubbio che per l’Italia la via verso il compromesso fra le tre potenze regionali determinanti nel nostro Sud-Est – cui potremmo aggiungere la Turchia – sia di gran lunga preferibile al caos attuale, dove prosperano i “califfi” , scorrono i veleni dei conflitti settari e si rafforzano le rotte dei traffici clandestini che minacciano la nostra sicurezza, inquinano la nostra economia, infragiliscono la nostra coesione sociale, financo istituzionale. Forse mai come oggi rimpiangiamo l’occasione persa oltre dieci anni fa dal governo Berlusconi, quando rifiutò l’invito iraniano a partecipare ai negoziati per timore di irritare gli americani (sic). Dobbiamo quindi affidarci ai nostri partner. Nella speranza che nelle loro agende ci sia un piccolo spazio per i nostri interessi» (L. Caracciolo, Limes, 4 aprile 2015).
** «Otto miliardi di euro all’anno. Questo era l’export italiano in Iran prima delle sanzioni. Se tornassero i tempi d’oro (per ora è solo una speranza, bisogna vedere con che tempi i divieti verranno abrogati) sarebbe un bel contributo alla nostra ripresa economica. L’Eni aveva una presenza storica nel Paese, che oggi è quasi azzerata. […]Anche Finmeccanica era molto presente nell’Iran pre-sanzioni; la controllata Ansaldo Energia ci aveva costruito diverse centrali elettriche. Per l’azienda sarebbe economicamente interessante anche solo fare lavori di manutenzione e di aggiornamento tecnologico sulle turbine a gas di cui ha disseminato il Paese. Fra i gruppi industriali, la Fiat nel 2005 aveva firmato un accordo per costruire un impianto per produrre 100 mila auto all’anno; tutto bloccato nel 2012, chissà se il discorso potrà riprendere. Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria, segnala che “in questi anni abbiamo giocato d’anticipo per mantenere aperte le porte, invitando spesso rappresentanti iraniani a fiere e manifestazioni”» (L. Grassia, La Stampa, 4 aprile 2015). L’intelligenza “geopolitica” del grande capitale italiano non si discute.
*** Accordo che, detto di passata, violando la regola del 50 e 50 nella spartizione degli utili allora praticata nel Medio Oriente dalle famigerate Sette Sorelle molto indignò il cartello internazionale del petrolio. L’accordo del 1957 fissò le seguenti quote: 75% degli utili al partner iraniano 25% all’Eni. La CGIL allora appoggiò la “spericolata” iniziativa dell’Eni qualificandola come «antimonopolistica» e certamente vantaggiosa per i sacri interessi nazionali, mentre il PCI tanto si rallegrò per il rafforzamento della presenza dello Stato nell’economia, secondo la tradizionale linea statalista che corre senza soluzione di continuità dal regime fascista a quello post fascista. Quell’accordo si trova ancora oggi nei libri di scuola iraniani.