ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ACCORDO ATOMICO DI LOSANNA

obama-rohani-rouhani-iran-stati-uniti-560950Cerchiamo di fare il punto, “a volo d’uccello” e senza alcuna pretesa di organicità e completezza, sullo «storico accordo» (preliminare!) sul nucleare iraniano sottoscritto a Losanna il 2 aprile dall’Iran e dai Paesi del 5+1 – una formula geopolitica che la dice lunga sulla Bilancia del Potere mondiale a settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale.

«È un grande giorno» ha esultato John Kerry, che somiglia sempre più a un cowboy perennemente ubriaco; «Si preverrà la bomba nucleare [iraniana] e il mondo d’ora in poi sarà più sicuro», ha invece commentato il sobrio Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che adesso deve fare i conti con i tanti “falchi” che svolazzano nel Congresso. «L’accordo con l’Iran», ha precisato Obama proprio per tranquillizzare i “falchi” (numerosi in entrambi i partiti del regime americano), «non si basa sulla fiducia, ma su verifiche senza precedenti». Vedremo presto fino a che punto gli “oltranzisti”, che rimproverano al Presidente una ritirata strategica dal Medio oriente, si sentiranno rassicurati da quella precisazione.

Se Angela Merkel (la “+1” della formula magica) in una nota diramata dalla portavoce ha fatto sapere che «siamo vicini come mai prima a un accordo che rende impossibile il possesso delle armi atomiche dell’Iran», il suo Ministro degli Esteri ha dichiarato che è ancora troppo presto per cantare vittoria, anche perché nelle more (i dettagli tecnici dell’accordo dovranno essere definiti entro il 30 giugno) può sempre infilarsi la coda del demonio.

Per Federica Mogherini, Alto rappresentate per la politica estera Ue (qualunque cosa tale qualifica voglia dire), «abbiamo fatto un passo storico verso un mondo migliore»: nientedimeno! È giustificato tutto questo ottimismo? Naturalmente la risposta varia col variare delle prospettive dalle quali si osserva la cosa. Infatti, alcuni Paesi hanno esultato ad accordo annunciato, mentre altri sono caduti in una depressione a dir poco cosmica. Ci sono insomma Paesi che pensano di aver vinto e Paesi che pensano di aver perso, e ovviamente tutti, vincenti e perdenti, credono di avere ragione. Ed è proprio così. Si tratta dunque di capire da quale parte pende la bilancia della Ragione – e del Potere.

Scrive Maurizio Molinari, uno degli analisti di politica estera più seri del Paese: «Vincono Obama e Rohani, i leader che più hanno voluto l’accordo. Il presidente Usa perché convinto che il dialogo con i nemici rafforza la leadership americana nel mondo e, in questo caso, disinnesca la minaccia atomica di Teheran. Il presidente iraniano perché vede riconosciuto il diritto all’arricchimento dell’uranio e ha la possibilità di far ripartire l’economia e gli investimenti grazie alla progressiva riduzione delle sanzioni. Perdono Israele, Arabia Saudita, Egitto e gli altri Paesi sunniti protagonisti di forti pressioni su Usa e Ue per evitare un’intesa che ritengono pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Anche la Russia esce indebolita perché il dialogo fra Usa e Iran che ora inizia consegna nuove opzioni a Obama, riducendo gli spazi per Mosca» (La Stampa, 3 aprile 2015).

L’Arabia Saudita non ha usato mezzi termini nel manifestare il proprio disappunto circa l’esito della trattativa svizzera: «Gli Stati Uniti ci hanno tradito stringendo un cattivo e pericoloso accordo con il nostro nemico storico». Il Premier israeliano Benjamin Netanyahu, fresco del successo elettorale costruito sulla paura della minaccia terroristica “convenzionale” e nucleare, ha lanciato un twitter a dir poco… atomico: «Ogni accordo deve riportare indietro in maniera significativa le capacità nucleari dell’Iran e fermare il suo terrorismo e la sua aggressione». Nello stesso messaggio Netanyahu ha allegato una mappa del Medio Oriente, sovrastata dalla scritta Le aggressioni dell’Iran durante i negoziati nucleari, che riporta le scorribande iraniane degli ultimi mesi: dallo Yemen, alla Siria, dal Libano, all’Iraq.

Ancora Molinari: «Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran sia più lontano dall’atomica. Le intese resteranno in vigore per 10 anni, con successivi 5 anni di obblighi per Teheran. Usa e Ue ritengono di aver bloccato la corsa dell’Iran all’atomica soprattutto perché l’impianto al plutonio di Arak viene bloccato, il carburante usato spostato all’estero e l’arricchimento dell’uranio limitato a 50/60 centrifughe modello IR-1, della prima generazione, nell’impianto di Natanz. Ma a tal fine saranno di vitale importanza le verifiche dell’Agenzia atomica Onu, i cui ispettori per i prossimi 15 anni dovranno certificare il rispetto degli impegni sottoscritti». Insomma, Teheran accetta (o sembra di voler accettare) un marcamento assai stretto in materia di nucleare militare in cambio di una maggiore agibilità economica e politica. Ed è esattamente questa prospettiva che temono le potenze regionali, le quali hanno sempre guardato con ostilità al dinamismo e alla complessità della società civile iraniana che la «rivoluzione khomeinista» del 1979 non è riuscita a imbrigliare. Israele per un verso non si fida del regime iraniano, che a giorni alterni promette di cancellarla dalla carta geografica del Medio oriente(Gerusalemme prendeva molto sul serio le minacce di Ahmadinejad); e per altro verso teme di perdere il tradizionale ruolo di partner strategico privilegiato degli americani.  In ogni caso, Israele è costretta oggi a muoversi secondo il noto assunto: il nemico del mio nemico (strategicamente e contingentemente meno pericoloso) è mio amico – almeno tatticamente, nel breve/medio periodo. Di qui la sua intesa con la coalizione sunnita ostile a Teheran.

Alla luce del (potenziale) accordo di giovedì si chiarisce dunque meglio anche il contesto caotico che oggi vediamo nello Yemen: «Qui, da oltre una settimana Riyad guida una coalizione sunnita nei raid aerei (con l’appoggio logistico e d’intelligence degli Usa) contro i ribelli sciiti huthi. Dopo aver conquistato Sana’a, questi hanno continuato la loro avanzata verso Sud, sostenuti dall’Iran. L’intervento di Riyad si spiega proprio con il timore che la tessera yemenita si incastri nel mosaico di Teheran» (S. Surme, Notizie Geopolitiche, 3 aprile 2015). E difatti ho scritto in premessa che il quadro «si chiarisce», non che «si semplifica»: tutt’altro! Appare d’altra parte evidente come l’equilibrio geopolitico della regione mediorientale (ma non solo: vedi Nord ‘Africa) sia a un passo dal collassare definitivamente, con conseguenze oggi difficilmente prevedibili. Anche i movimenti che si stanno producendo all’interno della galassia Jihadista vanno letti alla luce di questo processo sociale – non riducibile certo a una lotta settaria spiegabile in termini di cattiva interpretazione del Corano, secondo una risibile ma assai popolare tesi.

Sergio Romano, esibendo il suo proverbiale realismo politico, ha dichiarato che, «paradossalmente», l’esistenza dell’arma atomica allontana lo spettro della stessa guerra convenzionale, come dimostrano i casi dell’Iraq (attaccato perché non possedeva l’atomica) e della Corea del Nord (risparmiata perché possiede quella micidiale arma di “dissuasione”). Egli dà per ovvia l’implementazione da parte dell’Iran di un programma militare “atomico”, nelle forme e nei tempi che gli saranno dettati dalla situazione interna e internazionale. Un’ovvietà che naturalmente Israele, la sola potenza regionale provvista di un moderno arsenale atomico, non può certo condividere. A ragione (la sua ragione), peraltro.

E a questo punto è d’uopo, come si dice, fare la seguente breve precisazione. All’interno dello scenario che stiamo considerando non esistono “torti” e “ragioni” astrattamente considerati, ma legittimi interessi capitalistici che si confrontano e si scontrano lungo direttrici geopolitiche e sociali che negano in radice ogni prospettiva di emancipazione umana. È qui che insiste la differenza fondamentale tra il punto di vista geopolitico di considerare la competizione interimperialistica, il quale non solo non mette in questione l’ordine sociale mondiale, ma si sforza di sostenerlo dando scientifici consigli alle classi dominanti dei diversi Paesi*, e il punto di vista critico-radicale, che all’opposto intende attaccare analiticamente e politicamente quell’ordine. Ciò va detto anche contro chi confonde lo status quo geopolitico con lo status quo sociale, e che per questo nella – cosiddetta – lotta antimperialista azzarda “soluzioni tattiche” la cui “dialettica” si risolve in una capitolazione agli interessi di questo piuttosto che di quell’imperialismo globale o regionale. I due piani (geopolitico e sociale) vanno apprezzati come momenti “dialetticamente connessi” del processo sociale considerato alla scala mondiale (che è poi la dimensione più adeguata ai rapporti sociali capitalistici), e come tali vanno trattati dal punto di vista  della lotta di classe anticapitalista. L’autonomia di classe va ricercata e praticata a ogni livello della prassi sociale (della conflittualità sociale), e a “360 gradi”. Ma qui è meglio chiudere la parentesi “dottrinaria” – rimando ai miei post dedicati al tema appena accennato.

Daniele Capezzone, memore del suo passato radicale (nell’accezione pannelliana del termine), ha per la milionesima volta scomodato il Patto di Monaco: «Mi auguro che il mondo ascolti con più attenzione le parole e il monito ripetuti ancora pochi minuti fa dal Primo ministro israeliano Netanyahu, che, a mio avviso molto giustamente, mette in guardia rispetto all’ipotesi di accordo con l’Iran. […] Dinanzi a ciò, l’accordo in corso rischia di assomigliare a quello di Monaco 1938. E tutti farebbero bene a ricordare cosa disse a quel proposito Churchill, criticando l’intesa europea con i nazisti: “Avevate la possibilità di scegliere tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore, e avrete la guerra”». È ciò che, con qualche cautela in più e molta più intelligenza politica, sostiene il Wall Street Journal, il quale ha scritto che in astratto l’accordo potrebbe pure andare bene, se fosse stato sottoscritto con Paesi che, «come l’Olanda e il Costarica», rispettano il diritto internazionale, cosa che non può dirsi a proposito dell’Iran, un Paese che, sempre secondo il giornale ultraconservatore statunitense, ha fatto della menzogna, della sistematica violazione del diritto internazionale e della negazione dei diritti umani la propria cifra più peculiare. Anche The Washington Post condivide un simile pessimismo (o scetticismo), sostenendo che l’accordo di Losanna sembra avvantaggiare soprattutto l’economia iraniana, rafforzando in prospettiva i suoi progetti di espansione regionale. Il New York Times ha invece scritto che l’accordo è «solido, credibile e promettente», e soprattutto senza altre alternative che non siano quelle che spianano il terreno a una devastante ennesima guerra: è la linea di difesa obamiana.

«Oggi a Losanna si è aperta la strada perché l’Iran nel medio periodo torni ad essere una nazione normale, a cui verrebbero tolte le sanzioni finanziarie e sul petrolio a fine giungo. Un Paese che possa tornare a pieno titolo nel consesso mondiale e nella rete dei commerci internazionali con i suoi 80 milioni di abitanti, in maggioranza giovani desiderosi di abbracciare i valori e lo stile di vita occidentali» (V. Da Rold, Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2015). Un piatto capitalisticamente assai ghiotto**. Il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che sa di dover fare buon viso a cattivo gioco dinanzi alla formula 5+1, ha subito rivendicato per l’Italia un posto al sole, ricordando la speciale relazione che lega i due Paesi già all’epoca in cui l’Eni di Mattei siglò un accordo “rivoluzionario” con la Società Nazionale Iraniana del Petrolio per la ricerca e lo sfruttamento petrolifero in una vasta zona del Golfo Persico***.

iranL’apertura di un nuovo scenario nelle relazioni tra la Persia («chiamiamo le cose con il loro nome», come invita a fare oggi Lucio Caracciolo) e l’Occidente è destinata comunque a rompere equilibri consolidati nella società iraniana e nel sistema di potere che ha guidato il Paese per oltre tre decenni. «La revoca delle sanzioni desta preoccupazione anche in Iran. Qui alcuni circoli economici e industriali guardano con timore alla revoca di un embargo grazie al quale sono state accumulate immense fortune per via dell’isolamento del paese e della forzata autarchia, soprattutto in ambito tecnologico. E la percezione dell’accordo come riapertura del dialogo con gli Stati Uniti desta preoccupazioni e malumori, in un sistema che sull’opposizione all’Occidente e al suo dominus ha costruito la propria impalcatura politica e istituzionale» (N. Pedde, Limes, 3 aprile 2015). Le «manifestazioni spontanee di giubilo» che si sono viste a Teheran subito dopo l’annuncio del raggiunto accordo fatto dal capo negoziatore iraniano Abbas Araqchi sicuramente avranno fatto storcere il muso a più di un leader iraniano “duro e puro”. Come ricordava ieri Franco Venturini sul Corriere della Sera, «l’ambiguo Khamenei, e dietro di lui i militari, i nazionalisti, gli avversari personali del presidente Rohani», sono pronti in ogni momento a tirare fuori l’accusa di tradimento qualora l’accordo svizzero sul nucleare dovesse creare “scompensi” di qualche tipo all’interno della società iraniana. Insomma, siamo appena agli inizi di una vicenda che certamente vale la pena seguire da vicino.

iran_province_strategiche_820* Un solo esempio: «Quanto a noi. Non c’è dubbio che per l’Italia la via verso il compromesso fra le tre potenze regionali determinanti nel nostro Sud-Est – cui potremmo aggiungere la Turchia – sia di gran lunga preferibile al caos attuale, dove prosperano i “califfi” , scorrono i veleni dei conflitti settari e si rafforzano le rotte dei traffici clandestini che minacciano la nostra sicurezza, inquinano la nostra economia, infragiliscono la nostra coesione sociale, financo istituzionale. Forse mai come oggi rimpiangiamo l’occasione persa oltre dieci anni fa dal governo Berlusconi, quando rifiutò l’invito iraniano a partecipare ai negoziati per timore di irritare gli americani (sic). Dobbiamo quindi affidarci ai nostri partner. Nella speranza che nelle loro agende ci sia un piccolo spazio per i nostri interessi» (L. Caracciolo, Limes, 4 aprile 2015).

** «Otto miliardi di euro all’anno. Questo era l’export italiano in Iran prima delle sanzioni. Se tornassero i tempi d’oro (per ora è solo una speranza, bisogna vedere con che tempi i divieti verranno abrogati) sarebbe un bel contributo alla nostra ripresa economica. L’Eni aveva una presenza storica nel Paese, che oggi è quasi azzerata. […]Anche Finmeccanica era molto presente nell’Iran pre-sanzioni; la controllata Ansaldo Energia ci aveva costruito diverse centrali elettriche. Per l’azienda sarebbe economicamente interessante anche solo fare lavori di manutenzione e di aggiornamento tecnologico sulle turbine a gas di cui ha disseminato il Paese. Fra i gruppi industriali, la Fiat nel 2005 aveva firmato un accordo per costruire un impianto per produrre 100 mila auto all’anno; tutto bloccato nel 2012, chissà se il discorso potrà riprendere. Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria, segnala che “in questi anni abbiamo giocato d’anticipo per mantenere aperte le porte, invitando spesso rappresentanti iraniani a fiere e manifestazioni”» (L. Grassia, La Stampa, 4 aprile 2015). L’intelligenza “geopolitica” del grande capitale italiano non si discute.

*** Accordo che, detto di passata, violando la regola del 50 e 50 nella spartizione degli utili allora praticata nel Medio Oriente dalle famigerate Sette Sorelle molto indignò il cartello internazionale del petrolio. L’accordo del 1957 fissò le seguenti quote: 75% degli utili al partner iraniano 25% all’Eni. La CGIL allora appoggiò la “spericolata” iniziativa dell’Eni qualificandola come «antimonopolistica» e certamente vantaggiosa per i sacri interessi nazionali, mentre il PCI tanto si rallegrò per il rafforzamento della presenza dello Stato nell’economia, secondo la tradizionale linea statalista che corre senza soluzione di continuità dal regime fascista a quello post fascista. Quell’accordo si trova ancora oggi nei libri di scuola iraniani.

ALCUNE RIFLESSIONI SUL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

armi-interna-nuova1. Anche il Made in Italy collabora fattivamente alla carneficina in atto nella maledetta Striscia di Gaza: «L’Italia supera Francia e Germania messe insieme nell’export di armi verso Israele: tra i paesi dell’Ue siamo di gran lunga il primo fornitore di sistemi militari dello Stato israeliano, con un volume di vendite che è oltre il doppio di quello totalizzato da Parigi o Berlino. Anzi, da soli quasi eguagliamo Francia, Germania e Regno Unito. Lo dicono i dati dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa. In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani (G. Baioni, Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2014). Si tratta di un giro d’affari niente male (oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012), tanto più in tempi di crisi come quelli che stiamo attraversando. Naturalmente le orme del Made in Italy sono visibili anche nel macello siriano.

Quindi, quando a volte ci sembra di vedere la famosa «luce in fondo al tunnel», teniamo in considerazione anche il fuoco delle armi di preziosa fattura italiana che tutto il mondo ci invidia.

Raid_Isareliani_Gaza_Cina_stop-495x2762. Riferendosi all’operazione militare in corso a Gaza, il Premier israeliano Benyamin Netanyahu ha dichiarato l’altro ieri che «nessuna guerra è più giusta di questa», e che nemmeno i pur esecrabili “effetti collaterali” della Just War possono mettere in ombra questa – supposta – elementare verità. Com’è noto, la guerra ha fatto registrare ieri l’ennesimo “effetto collaterale”, che ha avuto l’effetto di spedire anzitempo nell’altro mondo diverse persone, e fra queste non pochi bambini, secondo un macabro trend ormai inarrestabile.

Giovanni Caprara, attraverso un’interessante riflessione di natura politico-filosofica, ha cercato di mettere in discussione il concetto di Just War applicato all’attuale conflitto israelo-palestinese, soprattutto mettendo in risalto il carattere asimmetrico di quest’ultimo. L’iniziativa militare decisa dal governo di Tel Aviv, sostiene Caprara, non è in grado di discriminare fra soldati e civili, e questo fatto fa venire meno in radice ogni discorso intorno alla sua giustizia: «La difesa non può a sua volta tramutarsi in abuso. Formalmente, come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo» (Notizie Geopolitiche, 29 luglio 2014). La verità è che ciò che rende giusta (giustificata) la guerra agli occhi di chi la impone non va ricercato nei fumi dell’ideologia e della propaganda, la cui funzione è quella di ingannare la gente chiamata a difendere in armi supposti valori e «diritti inalienabili», ma sul terreno degli interessi che fanno capo alle classi dominanti.

Mi permetto di citare un mio post di qualche giorno fa: «In guerra si ha dunque il Diritto di sterminare la gente, peraltro senza fare alcuna distinzione fra militari e cosiddetti civili: anzi, nelle guerre moderne sono proprio i “civili” il vero obiettivo strategico da colpire, e giustamente il perdente Hitler osservò a proposito del Secondo macello mondiale che “in questa guerra totale esiste un solo fronte”». Non è usando il metro borghese della Giustizia e dei – cosiddetti – Diritti Umani che i dominati riusciranno a prendere le corrette misure del Moloch, affinché ogni loro tentativo emancipativo non si capovolga in un frustrante sforzo di Sisifo.

3. Per Alessandra Noseda, «Non si deve escludere a priori che Israele abbia veramente commesso crimini di guerra, però la posta in gioco è talmente alta per tutto l’Occidente che trovo di stampo tendenziosamente antisemita oltre che stupido sollevare il problema adesso, in pieno terribile conflitto. Anche nel Vangelo Cristo insegna ad amare il prossimo come sé stessi, sancendo il dovere all’autodifesa» (Ticino Live, 30 luglio 2014). Ma è la guerra del XXI secolo (ma anche quella “antifascista” del XX, per la verità) a essere criminale “in sé e per sé”!  E affermo questo non sulla scorta di sempre opinabili ragionamenti giuridici (dove a dire l’ultima parola dirimente sono sempre i rapporti di forza fra le classi e fra gli Stati), bensì a partire da un punto di vista che considera il Diritto come sinonimo di Dominio di classe. In questo senso Israele ha il pieno Diritto di promuovere una guerra, giustificandola come sempre accade in questi casi con la necessità di difendere la vita dei propri cittadini. Anche la Russia, mutatis mutandis, si è regolata in questo modo a proposito della Crimea.

Chi tira in ballo la categoria Occidente, riprendendo il famigerato schema del conflitto tra le civiltà, mostra di non comprendere la natura sociale del conflitto in corso, e rimane vittima della propaganda di regime. Fare l’apologia del «diritto-dovere all’autodifesa», magari scomodando il Povero Cristo (sale e aceto sulle ferite dell’antisemita!), significa assumere il punto di vista delle classi dominanti. Qui rimando al breve post Due popoli, due disgrazie.

Non sono un antisionista, nel senso che non mi batto per l’eliminazione di Israele dalla carta geopolitica del pianeta: io mi batto per l’eliminazione di tutti gli Stati, a cominciare da quello italiano, dalla carta sociale della Terra. Lo so: vasto programma! Il fatto è che la mia ambizione è seconda solo a quella dell’eterno ebreo immaginato dalla paranoia nazista. Tutto questo però non mi impedisce di considerare lo Stato israeliano alla stessa stregua di ogni altro Stato di questo capitalistico mondo, ossia come il cane da guardia di uno status quo sociale radicato in rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. È questa “coscienza di classe” che contrappongo all’ideologia politico-religiosa ebraica che cementa tutti gli israeliani dietro lo stemma di Davide. Va da sé che questo sforzo è reso mille volte più difficile dall’antisemitismo, che non raramente assume la maschera dell’antisionismo, e in questo la citata Noseda ha ragione.  Sotto questo aspetto, le ultime manifestazioni parigine a sostegno del popolo palestinese la dicono lunga.

Scriveva Bernard Henri Lévy a proposito di queste manifestazioni: «A coloro che, fra questi, avevano realmente a cuore la causa di Gaza e sfilavano con striscioni su cui si evocavano le decine di innocenti uccisi dall’inizio della controffensiva israeliana, non saremo così crudeli da chiedere perché non sono mai lì, mai, sullo stesso selciato parigino, per piangere, non le decine, ma le decine di migliaia di altri innocenti uccisi, da circa quattro anni, nell’altro Paese arabo che è la Siria». Forse «non sono mai lì» per non indebolire il «fronte antimperialista» (leggi antiamericano e antisraeliano), che evidentemente annovera tra le sue fila il macellaio di Damasco. Per quel che vale, faccio sapere che considero quel «fronte» grondante sangue imperialista almeno quanto quello egemonizzato dagli Stati Uniti. In questo peculiare senso parlo di Imperialismo Unitario* – non Unico.

hamas4. Su un muro della mia città ieri campeggiava la scritta che segue: «Con la Resistenza Palestinese». Seguivano falce, martello e stella d’ordinanza, che fa tanto nostalgia canaglia – ma non per chi scrive, avvezzo a saudade d’altro tipo. “Ben scritto!”, ho subito pensato. “Anzi no!”, ho immediatamente ripensato. Insomma, dinanzi alla coraggiosa scritta murale ho esercitato un minimo sindacale di… resistenza critica.

E mi sono chiesto: cosa occorre intendere esattamente per «Resistenza Palestinese»? Come si configura, in concreto, questa «Resistenza»? Certo, chi si muove per ideologici riflessi condizionati è dispensato dal porsi simili antipatiche domande, e si risparmia così anche il rischio di passare per un fiancheggiatore, magari “a sua insaputa”, dello «Stato Sionista». Ma pensare pericolosamente deve essere l’ambizione di chi aspira alla verità, soprattutto quando essa è scomoda, non alla popolarità, soprattutto quando è di facile accesso.

Come ho scritto altre volte, il «movimento di resistenza palestinese» capeggiato da Hamas è una disgrazia per gli stessi diseredati palestinesi, a causa del progetto politico, dell’ideologia e degli organici legami che questa fazione politico-militare ha con diverse potenze regionali.

Scrive Umberto De Giovannangeli: «La popolazione civile di Gaza è oggetto-soggetto del cinismo di Hamas. Oggetto, perché ostaggio di scelte su cui non può influire. Soggetto, perché, nonostante finanziamenti tagliati sull’asse Cairo-Riyad (ma resta il portafoglio del Qatar), a Gaza funziona ancora il “Welfare verde” di Hamas: quella rete di associazioni caritatevoli che hanno sempre garantito alla costola palestinese della Fratellanza un seguito di massa nella società civile palestinese, anzitutto nei suoi settori più deboli. Gaza, dunque, non è solo assediata (e ora invasa) dall’esercito israeliano. Gaza è ancora prigioniera di se stessa. Hamas “usa” la guerra per provare a risollevare il proprio credito nel composito ed eterodiretto fronte della Resistenza palestinese. Un credito che si era fortemente ridotto in questi ultimi tempi, fiaccato dalla concorrenza sempre più agguerrita dei salafiti e dal venir meno di alleati munifici, come i Fratelli egiziani ma anche Teheran e Arabia Saudita. Con bombe e razzi, Netanyahu e i capi di Hamas (ai quali la guerra serve anche a mascherare i dissidi interni e la sempre più evidente lontananza del braccio militare, le Brigate Ezzedin al-Qassam, dalla direzione politica) provano a fissare il tempo, puntando a mantenere lo status quo che garantisce a entrambi una rendita di posizione» (Limes, 18 luglio 2014). La posizione politico-militare di Hamas nel contesto del fronte palestinese è così precaria e minacciata da fazioni più “estremiste”, che persino «gli Stati Uniti considerano Hamas fonte di stabilità all’interno della Striscia di Gaza, tant’è che “Se Hamas se ne andasse, potremmo dover affrontare qualcosa di molto peggiore”, ha detto il Pentagono domenica con evidente riferimento a quanto sta accadendo in Iraq, Siria e Libia» (Notizie Geopolitiche, 29 luglio 2014).

Lanciare razzi da Gaza per colpire in modo indiscriminato la popolazione civile che abita nel territorio israeliano, anche per rispondere al lancio dei ben più tecnologicamente avanzati e micidiali missili targati Israele, risponde pienamente alla logica della guerra borghese reazionaria. La borghesia che aspira all’indipendenza nazionale può sorvolare su questa “sottigliezza”, ma non può certo farlo chi ha a cuore, in primo luogo, l’emancipazione delle classi subalterne, comprese quelle coinvolte direttamente nel conflitto di cui si parla. La «fraterna unione» dei proletari di tutti i Paesi contro il Capitale (a prescindere dalla sua nazionalità, dal suo “colore”, dalla sua “religione”): questa aspirazione ideale e politica è il criterio che informa le mie valutazioni anche per ciò che riguarda l’infinito conflitto israelo-palestinese. E che non sia la mia utopistica posizione a rinviare sine die la soluzione della rognosissima e nauseabonda Questione, questo almeno è un fatto indiscutibile.

Personalmente rifiuto e condanno una «Resistenza Palestinese» che assume i connotati del terrorismo indiscriminato, che pur di conseguire nel modo più efficace e rapido – cosa che peraltro diviene sempre più illusoria – l’obiettivo dello Stato Palestinese, non si pone il problema di risparmiare la vita dei civili. Questo tipo di «Resistenza» segue la stessa logica della guerra imperialista dello Stato israeliano. Chi contrappone alla carneficina dei civili palestinesi la carneficina dei civili israeliani;

chi manda a morte centinaia di bambini obbligandoli a scavare i famosi tunnel, non avrà mai la mia simpatia, la quale, detto per inciso, non vale un fico secco. Ma non è questo il punto.

israel-palestine5. Altre volte ho scritto come le classi dominanti del Medio Oriente hanno usato la Questione Palestinese per conseguire obiettivi ultrareazionari di natura interna (dare in pasto il «Grande Satana» e il «Piccolo Satana» alle masse oppresse, sfruttate e affamate mediorientali) e internazionale (la conquistare del solito agognato «posto al sole»).

«Qui si parla della Palestina, dunque dei conflitti e delle contraddizioni che attraversano il mondo arabo. La contraddizione tra lo storico progetto coloniale, fatto di saccheggi ed egemonia, e gli interessi, i diritti e le aspirazioni della nazione araba, che viaggiano assieme allo storico e progressivo progetto di liberazione nazionale, garante dell’unità dei popoli arabi e della difesa del loro benessere, dei loro diritti e della loro dignità» (dal blog Palestina Rossa). Chi continua a ragionare in questi termini non ha ancora capito che la fase storicamente progressiva della borghesia araba si è chiusa per sempre almeno da quarant’anni.  La «Nazione Araba» è una menzogna che la storia e la cronaca smentiscono sempre di nuovo servendosi soprattutto del sangue delle «masse arabe». L’ideologia panaraba gronda mistificazione e miseria sociale da tutte le parti.

080417-zahar-hamas* Nel senso che tutto il pianeta è nelle mani del Capitale giunto nella sua “fase” imperialista.

Leggi:

GAZA E IL «DISEGNO APOCALITTICO» DI GIULIETTO CHIESA

PRESI TRA DUE FUOCHI.

GAZA E DINTORNI. Il senso della mia solidarietà.

DUE POPOLI, DUE DISGRAZIE

Un punto di vista critico-radicale sulla questione israeliano-palestinese

fate-l-amore-con-la-guerra-573374Presentazione

Lo scritto che il lettore si appresta a leggere, si compone di appunti di studio redatti dall’autore nel 2006. L’intento è quello di contribuire a fare chiarezza «sulle radici di questa guerra dei Cento Anni, versione mediorientale» (Paolo Maltese), ma di provarci a partire non da una prospettiva geopolitica o genericamente storico-politica, bensì muovendo da un punto di vista dichiaratamente critico-radicale, ossia anticapitalista.

Le radici della Società-Mondo che ospita il conflitto* qui in discussione affondano in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che è in sé la quintessenza della guerra di tutti contro tutti. Sotto questo aspetto, quanto accade da decenni in Medio Oriente non contraddice affatto l’andazzo generale del mondo. Come sempre, e in ogni sfera della prassi sociale colta nella sua dimensione nazionale e internazionale, l’eccezione getta un potente fascio di luce sulla regola, sulle sue radici storico-sociali celate nell’oscurità dell’ideologia dominante, la quale, marxianamente, è l’ideologia che fa capo alle classi dominanti.

Spero naturalmente di non aggiungere confusione alla già cospicua confusione che nei decenni si è accumulata intorno alla rognosissima Questione, che in troppi hanno interesse a mantenere apparentemente indecifrabile e priva di sbocchi, nonché sempre calda e anzi sul punto di esplodere da un momento all’altro, guerra dopo guerra, tregua dopo tregua, fallito “accordo di pace” dopo fallito “accordo di pace”. Il tutto in primo luogo sulla pelle dei diseredati palestinesi e su quella delle classi dominate israeliane – in troppi, anche nella cosiddetta “sinistra di classe”, dimenticano che Israele, come ogni altro Paese del capitalistico mondo, ha una sua peculiare struttura classista con la quale occorre fare i conti in termini sia analitici che politici.

Come il lettore avrà modo di verificare, giungeremo a trattare la questione israelo-palestinese nella sua attuale configurazione storica e geopolitica solo alla fine, partendo da lontano («Da troppo lontano», potrebbe obiettare qualcuno, forse non del tutto a torto) e in modo che l’aspetto palestinese del problema risulti solo abbozzato e comunque sacrificato all’elemento giudaico, per dirla con un linguaggio che echeggia posizioni non amichevoli nei confronti degli ebrei. In questo senso il titolo che ho voluto dare a questo modesto lavoro, e che non ho voluto cambiare perché esso coglie in ogni caso un aspetto del problema che per me è importante porre in evidenza (la comune disgrazia di ebrei e palestinesi, pur se a partire da storie e condizioni sociali diverse), non appare del tutto conforme alla sua sostanza. In ogni caso ciò non preclude certo all’autore di ritornare in futuro sul tema con un diverso approccio, e magari tenendo conto anche delle critiche dei lettori.

Lo sterminio degli ebrei scientificamente pianificato e attuato dai nazisti con la complicità di gran parte del popolo tedesco (e non solo tedesco), dimostra in primo luogo come anche nella società borghese, che pure era sbocciata contro i vecchi pregiudizi radicati nel pensiero non rischiarato né dalla ragione né dalla razionalità scientifica, le crisi sociali che periodicamente sconvolgono il mondo strutturato in classi sociali siano il terreno fertile per ogni sorta di pregiudizio e di credo irrazionale. Come scrisse una volta Marcuse a Heidegger, rinfacciandogli l’entusiastica adesione al nazismo, «sembra che la semente sia davvero caduta su un terreno fertile». Il terreno, beninteso, rimane fertile. Più fertile che mai, per certi aspetti. Anche nella dimensione della società dominata dal Capitale, che nella sua ossessiva ricerca del massimo profitto ha portato la conoscenza scientifica e le sue implicazioni tecnologiche a livelli prima inimmaginabili, l’arcaico capro espiatorio assolve ottimamente il suo disumano ufficio. Metti nelle mani del Pregiudizio più antico la tecnoscienza moderna (non mi riferisco solo agli strumenti di morte, ma anche ai moderni strumenti di informazione elettronici:  vedi gogna mediatica e messaggi virali), e avrai creato l’inferno sulla Terra. Dante dovrebbe riscrivere interamente l’Inferno! Naturalmente questa riflessione coglie in pieno, mutatis mutandis, anche il sole atomico acceso dagli americani a Hiroshima e a Nagasaki. E non solo.

Il “materialista storico” che cerca cause puramente economiche che possano  spiegare l’Evento Olocausto, fa mostra di un determinismo economico davvero triviale e impotente; tra l’altro, egli dimentica ciò che una volta disse Marx a proposito dell’ideologia come forza materiale. Il concetto da mettere al centro di quell’Evento è quello che rinvia direttamente al carattere disumano e disumanizzante della società classista. Questo carattere spiega anche l’uso economico che fu fatto degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ossia degli ebrei adoperati dai tedeschi nell’industria bellica e in altri settori produttivi come forza lavoro da sfruttare il più intensamente possibile per determinarne una rapida “obsolescenza”. Al confronto, la schiavitù delle società antiche appare una condizione idillica. Anche in quel caso, però, l’obiettivo fondamentale che i nazisti intesero cogliere fu l’annientamento degli ebrei attraverso il lavoro, il quale, com’è noto, rende… liberi…

Nella famosa, e per alcuni famigerata, intervista a Der Spiegel del 1966, Heidegger sostenne che «Solo un dio può ancora salvarci». A mio modesto avviso solo l’uomo in quanto uomo può ancora salvarci, perché se l’uomo non esiste tutto il male possibile è sempre incombente su questa Terra. A ben vedere, il peggio che ci possa capitare è già in corso, da moltissimo tempo, e non smette di peggiorare. Più che sulla banalità del male, dovremmo piuttosto interrogarci sulla radicalità del male. È da questa prospettiva concettuale e politica che ho affrontato il problema posto al centro di questo studio.

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* A proposito del conflitto israelo-palestinese, ma anche del conflitto russo-ucraino e dei mille conflitti che insanguinano il pianeta, ieri ho pubblicato su Facebook questo brevissimo post ironico (?):

ONU: NON SI MUOVE FOGLIA CHE L’IMPERIALISMO NON VOGLIA

Si dice e si scrive: «Tutto il mondo è attraversato da guerre, piccole o grandi che siano. Ovunque si contano migliaia di morti e feriti. E l’ONU sta a guardare! Ma allora, a che serve l’ONU?» Già, a che serve questo «covo di briganti»? Non sarà che all’ONU non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione europea a trazione tedesca) non voglia? Sono enigmi che mi tolgono il sonno, e pure l’appetito!

GAZA E IL «DISEGNO APOCALITTICO» DI GIULIETTO CHIESA

guerra-a-Gaza-20-luglio-2014Giulietto Chiesa a proposito dell’ennesimo bagno di sangue a Gaza:

«Non perdiamo di vista il quadro. Chi muove tutte queste pedine insieme vuole andare “oltre”. L’obiettivo è la Russia. Ecco perché io occupo gran parte del mio tempo a seguire questo disastro. E l’altro obiettivo (segnatamente per Israele e l’Arabia saudita) è l’Iran. Questi due obiettivi equivalgono a un salto di qualità bellico incalcolabile. Gaza è la cartina di tornasole di un disegno apocalittico. Muoviamoci per fermarlo».

Chi, come Giulietto Chiesa, si muove sul terreno della lotta interimperialistica, e appoggia un polo imperialista (magari quello formato dalla Russia, dalla Cina, dall’Iran ecc.) contro un altro (magari quello cosiddetto “occidentale” a trazione americana) è parte integrante del denunciato «disegno apocalittico». Come altre volte detto (dal sottoscritto), per le classi dominate di tutto il pianeta si tratta di attaccare lo status quo SOCIALE, non di difendere l’attuale status quo GEOPOLITICO ovvero di crearne uno nuovo.

Pensare di poter appoggiare “tatticamente” uno dei poli imperialisti per creare i presupposti di uno sconvolgimento sociale di portata planetaria è una mera illusione, dimostrata dalla storia passata e recente, non certo dal modestissimo personaggio che scrive queste due righe. Certo, partecipando alla contesa interstatale, magari, nella fattispecie, dalla parte delle nazioni che osteggiano Israele, e che per questo spingono il «covo di briganti» (Lenin) chiamato ONU a decidere delle sanzioni contro il «piccolo Satana», può dare a qualcuno la sensazione di “fare qualcosa di concreto”, di menare le mani, di non fare solo chiacchiere (vedi sempre chi scrive); ma è appunto un’impressione che non permette di riflettere sulla cosa essenziale: fare la cosa giusta. E oggi per me fare la cosa giusta significa denunciare tutti i protagonisti statali-nazionali della contesa, grandi o piccoli che siano. Senza la famosa – ma a quanto pare poco compresa – autonomia di classe per i dominati non c’è altro “destino” che non sia la maledetta coazione a ripetere del Dominio, magari sotto il cielo di un nuovo equilibrio geopolitico.

Il «disegno apocalittico» che per me va fermato e distrutto si chiama dominio capitalistico. Continuare a surrogare la nostra attuale impotenza di dominati, una tragica realtà che va riconosciuta fino in fondo («la verità è rivoluzionaria», diceva quello), con la potenza dei dominanti, a prescindere da chi essi siano, significa rimanere intrappolati in eterno in quel maligno Disegno.

10511070_754564331256627_8034170653332294280_nAggiunta da Facebook (27 luglio 2014)

ONU: NON SI MUOVE FOGLIA CHE L’IMPERIALISMO NON VOGLIA

Si dice e si scrive: «Tutto il mondo è attraversato da guerre, piccole o grandi che siano. Ovunque si contano migliaia di morti e feriti. E l’ONU sta a guardare! Ma allora, a che serve l’ONU?» Già, a che serve questo «covo di briganti»? Non sarà che all’ONU non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione europea a trazione tedesca) non voglia? Sono enigmi che mi tolgono il sonno, e pure l’appetito!

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LA STRINGENTE LOGICA DEL MONOPOLIO DELLA VIOLENZA

PRESI TRA DUE FUOCHI.

GAZA E DINTORNI. Il senso della mia solidarietà.

LA STRINGENTE LOGICA DEL MONOPOLIO DELLA VIOLENZA

156583433Leggo da Israele.net: «Poche ore dopo la notizia dell’arresto di sei estremisti ebrei accusati dell’efferato omicidio del 16enne palestinese Muhammad Abu Khdeir, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso le sue condoglianze alla famiglia della vittima. “Desidero inviare le mie sentite condoglianze alla famiglia dell’adolescente – ha detto Netanyahu – e garantisco loro che porteremo davanti alla giustizia i colpevoli. Nella nostra società non c’è posto per questi assassini”».

Qualche ora dopo, il Premier israeliano ha ordinato la rappresaglia contro Hamas: «Non useremo i guanti con i terroristi». A Gaza i morti palestinesi sono già numerosi, tra questi donne e bambini. I soliti immancabili “effetti collaterali”.

Vediamo se ho capito bene: se uccidi qualcuno per vendicare qualche torto (al netto della soggettività della cosa, si capisce) bypassando la normale catena di comando, passi per un odioso criminale, a volte perfino per un terrorista; se invece uccidi per conto dello Stato non c’è problema, anzi rischi pure una bella medaglia e un avanzamento di grado.

In guerra si ha dunque il Diritto di sterminare la gente, peraltro senza fare alcuna distinzione fra militari e cosiddetti civili: anzi, nelle guerre moderne sono proprio i “civili” il vero obiettivo da colpire, e giustamente il perdente Hitler osservò a proposito del Secondo macello mondiale che «in questa guerra totale esiste un solo fronte». In “pace” lo Stato si arroga il Diritto di sanzionare pesantemente la più piccola delle “violenze private”.

La stessa pena di morte, più che una funzione di deterrenza ha piuttosto il significato di una vendetta individuale e sociale mediata dallo Stato, che com’è noto detiene il monopolio della violenza, concepito dai corifei dello status quo sociale come un mirabile avanzamento di civiltà. A me pare che questa civiltà (borghese) trasudi violenza, disumanità e ipocrisia da ogni poro. Ma è solo una mia impressione. A proposito: sto parlando del mondo, non – solo – di Israele.

aaaAggiunta da Facebook (22 luglio 2014)

MACELLERIA SOCIALE. A Gaza e non solo

«Israeliani di tutto il mondo, unitevi!», scrive oggi sul Foglio Giuliano Ferrara mutuando l’Elefantino di Treviri. «Un paese costretto a uccidere per non essere ucciso. Le ragioni dell’inimicizia e del terrorismo sono le stesse a Gaza e a Mosul. Anche i cristiani dovrebbero unirsi, invece di fare sofismi di tipo umanitario». Non c’è spazio, aggiunge Ferrara, per dubbiosi tentennamenti che tradiscono una miserabile inconsistenza etica: o si sta dalla parte di Israele o si sta dalla parte di Hamas e dei suoi alleati che vogliono distruggere la stessa civiltà occidentale. È questo l’aut-aut posto oggi dall’Elefantino di Roma.

Personalmente rimango fedele allo slogan originale: Proletari di tutto il mondo unitevi, per superare la disumana e violenta dimensione del dominio di classe!

Per ragioni di tempo mi limito a rimandare i lettori a tre post sulla scottante e sempre più complessa/fetida questione. Qui mi limito a ribadire che chi fa «appello alle Nazioni Unite e ai governi di tutto il mondo», magari al fine di «adottare misure immediate per attuare un embargo militare totale e giuridicamente vincolante verso Israele», mostra di non comprendere la natura ultrareazionaria delle Nazioni Unite e dei «governi di tutto il mondo», e si mette con ciò stesso sullo stesso terreno della competizione interimperialistica fra le potenze mondiali e regionali.

Le Nazioni Unite e i «governi di tutto il mondo» (a cominciare da quelli che insistono nell’esplosiva area mediorientale) sono parte del problema, non della sua soluzione. Come sempre, le strade che portano al rafforzamento dello status quo sociale (ho scritto SOCIALE, non GEOPOLITICO) sono lastricate di eccellenti intenzioni.

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PRESI TRA DUE FUOCHI.

GAZA E DINTORNI. Il senso della mia solidarietà.

 

 

 

 

GAZA E DINTORNI. Il senso della mia solidarietà.

Un lettore del precedente post sul conflitto israeliano-palestinese mi scrive: «È la schiacciante superiorità economico-militare di Israele rispetto alla Palestina a rendere ingiustificabili e criminali le sue ritorsioni e a legittimare il vittimismo terroristico di Hezbollah. Ma se Hezbollah è terrorista lo stato di Israele?» Di qui, la breve riflessione che segue.

Lo Stato israeliano è uno Stato terrorista. Esattamente come tutti gli altri Stati capitalistici del mondo. Ciò che io rigetto è lo status di anomalia quasi antropologica che tanti amici dei palestinesi attribuiscono a Israele, la cui genesi affonda in un processo storico segnato dalla violenza più disumana.

Detto di passata, la violenza terroristica fu usata anche dagli israeliani “sionisti” contro gli arabi e gli inglesi nel periodo immediatamente precedente la proclamazione dello Stato israeliano.

Da sempre sostengo la causa palestinese, e proprio per questo da sempre denuncio la politica “filopalestinese” delle potenze regionali (Medio Oriente allargato) volta a fare della Questione Palestinese uno strumento di politica interna e internazionale, celato dietro l’ideologia pan-arabista o “antimperialista”. Sic! Se non si comprende che anche i Paesi cosiddetti filopalestinesi sono parte del problema (lo stesso discorso vale per Hezbollah), e non della soluzione, ci si muove alla cieca, con somma soddisfazione di alcuni players, non necessariamente meno odiosi degli altri. Tutt’altro!

Costruire un fronte di solidarietà tra palestinesi e strati sociali subalterni israeliani per restringere lo spazio di manovra dello Stato israeliano e costringerlo per questa via a cedere su tutta la linea: era, ed è – in linea puramente teorica, purtroppo –, la via maestra per chiudere una volta per tutte la rognosissima e decomposta Questione. Una via bombardata negli ultimi sessantaquattro anni da tutte le parti: dagli israeliani, ovviamente, ma anche dagli egiziani, dai libanesi, dai siriani e così via; nonché dalle potenze internazionali: dagli Stati Uniti alla Russia, passando per le ex potenze coloniali. Via maestra, beninteso, dal mio punto di vista. Ad esempio, Ahmadinejad, e quelli che la pensano come lui intorno alla Questione Palestinese, sostengono un ben diverso punto di vista, com’è noto.

Le divisioni politiche interne al mondo palestinese, che da sempre ne hanno indebolita la leadership, sono il prodotto del complesso scenario che ci sta dinanzi ormai da decenni, del gioco di potenze grandi e piccole giocato sulla pelle dei palestinesi, delle masse arabe e delle classi subalterne israeliane, queste ultime continuamente ricattate dalle esigenze di sicurezza nazionale. Esigenze che, ovviamente, respingo al mittente, per così dire.

I razzi lanciati da Gaza in modo indiscriminato sul territorio israeliano certamente non aiutano a creare un clima di fraterna solidarietà tra i palestinesi e gli israeliani che andrebbero sottratti alla propaganda nazionalista del loro Stato.

Anziché lanciarci nella solita politica sloganistica del siamo tutti palestinesi!, che va avanti da sessantaquattro anni, e, a quanto pare, con scarsi risultati, dovremmo piuttosto riflettere sulla complessità della situazione, per non arrenderci impotenti alla coazione a ripetere di fin troppo facili e scontate solidarietà, più o meno “antisioniste” e “antimperialistiche”.

Per come la vedo io, la denuncia della politica aggressiva e assassina del governo israeliano appare tanto più forte e fondata se è accompagnata dalla denuncia degli altri attori regionali e mondiali in campo, non meno responsabili di Israele nel mantenere sempre aperta e sanguinante la piaga palestinese, e se mostra il legame tra l’attuale leadership palestinese e qualcuno di quegli attori: ad esempio, Siria e Iran.

Questa riflessione (ultraminoritaria: lo riconosco) appare talmente bizzarra al pensiero “solidaristico” mainstream al punto di far sorgere dubbi circa la mia posizione nei confronti dello Stato israeliano, che ovviamente detesto (mi mantengo nei limiti dell’eufemismo, è chiaro) con tutte le mie forze, esattamente come detesto con pari intensità tutti gli Stati di questo mondo violento e disumano.

GIOCHI DI GUERRA ALL’OMBRA DEL PROFETA

«L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso» (Franco Battiato, Up Patriots To Arms).

Com’è noto, nella primavera del 1993 apparve l’articolo di Samuel Huntington, pubblicato su Foreign Affairs, sullo scontro tra le civiltà. Un articolo che, come si dice, fece epoca: «La mia tesi è che la fonte prima di conflitto in questo nuovo mondo non sarà né essenzialmente ideologica né essenzialmente economica.  Le grandi divisioni all’interno dell’umanità e la fonte di conflitto predominante avranno carattere culturale. Gli stati nazione resteranno i protagonisti più potenti degli affari mondiali ma i principali conflitti della politica globale avranno luogo tra nazioni e gruppi di civiltà diverse. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le faglie tra civiltà saranno i fronti di battaglia del futuro».

Finita la guerra fredda, sconfitto su tutti i fronti (economico, politico, scientifico, culturale) il Nemico fronteggiato nel corso di quasi mezzo secolo, gli Stati Uniti avevano bisogno di una nuova ideologia, o, per dirla con il Nichi nazionale, di una nuova «narrazione» sulla cui base incardinare la loro visione strategica adatta ai nuovi tempi, e Huntington cercò di rispondere a questa esigenza, peraltro in concorrenza con il teorico della fine della storia Francis Fukuyama. Gli eventi che seguirono parvero dargli ragione. Naturalmente alludo all’11 Settembre.

Scriveva Edward Said nel novembre del 2001, mentre le squadre di soccorso scavavano sotto le macerie ancora fumanti delle Twin  Towers alla – vana – ricerca di superstiti: «Viviamo momenti di tensione ma è meglio pensare in termini di comunità che detengono il potere e comunità che ne sono prive, di secolari politiche di raziocinio e ignoranza, e di principi universali di giustizia e ingiustizia, piuttosto che smarrirsi in astrazioni che possono essere fonte di soddisfazione momentanea ma producono scarsa auto-consapevolezza. La tesi dello “scontro di civiltà” è una trovata tipo “Guerra dei mondi”, più adatta a rafforzare un amor proprio diffidente che la conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo» (Più che di civiltà è scontro di ignoranze, La Repubblica, 1 novembre 2001).

Nella giusta critica della rozza, semplicistica e pericolosa tesi di Huntington l’intellettuale palestinese scomparso nel 2003 commise, a mio avviso, un grave errore di valutazione (di matrice illuministica, per così dire, come peraltro si ricava già dal titolo), che lo portò a «smarrirsi in astrazioni» altrettanto inconcludenti sotto il profilo storico e reazionarie sul piano dell’iniziativa politica. Per non «smarrirsi in astrazioni» sul terreno dei rapporti tra ciò che chiamiamo Occidente e Islam occorre prendere in considerazione concetti “forti” quali imperialismo, scontro interimperialistico, lotta fra fazioni capitalistiche, potenza e impotenza sociale, ecc.. Solo all’interno di questa costellazione concettuale le questioni culturali e “antropologiche”, che ovviamente esistono e che hanno una grande importanza sul piano della prassi e dell’analisi critica di essa, si riempiono di viva sostanza storica e sociale. Solo a partire dall’analisi delle grandi forze sociali che spingono, e spesse volte strattonano, il processo storico mondiale si  può costruire la «conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo».

I concetti appena evocati dovrebbero informare anche l’analisi di quanto sta accadendo in tutto il mondo musulmano dopo la diffusione del film «blasfemo» L’innocenza dei musulmani, giudicato dalle frange più radicali del fondamentalismo islamico «un altro capitolo nella guerra crociata contro le terre del Profeta». Lo stesso Mohamed Morsi, il presidente egiziano venuto in visita in Italia, nel cuore della Civiltà Cristiana, ha dichiarato senza peli sulla lingua che «il Profeta è una linea rossa invalicabile». Chi tocca il Profeta muore: questo continua a essere l’imperativo categorico che sovrasta la Comunità devota ad Allah, anche dopo la cosiddetta «primavera araba», ultima infatuazione degli intellettuali progressisti occidentali – «Il processo democratico continua, anche se lentamente e non senza problemi», ha scritto ad esempio Loretta Napoleoni nel suo libro Contagio: già, non senza problemi…

Siamo di fronte a un ennesimo episodio di scontro tra le civiltà? O stiamo assistendo all’esplodere di un vasto movimento antimperialista cementato da un’ideologia religiosa? Ovvero, per dirla con Edward Said, siamo dinanzi a «uno scontro di ignoranze», più che di civiltà? A mio avviso, nulla di tutto questo. Si tratta piuttosto di un ennesimo esempio di come le “moltitudini” prive di coscienza rimangano facilmente vittima delle ideologie più reazionarie e, quindi, degli interessi che fanno capo alle classi dominanti o solo ad alcune delle sue fazioni che oggi aspirano al potere in esclusiva, ovvero a strati sociali e a gruppi politico-ideologici che sognano un’impossibile ritorno indietro delle società musulmane.

A proposito di linea rossa, ieri il premier israeliano ha dichiarato ai media americani che «il programma nucleare iraniano deve rappresentare per il mondo libero una linea rossa invalicabile»: il Presidente degli Stati Uniti deve imparare la lezione cubana impartita da Kennedy ai russi. Il clima in Medioriente si arroventa, e il regime iraniano naturalmente ha gettato benzina sul fuoco della “blasfemia”: «L’Iran condanna con forza gli insulti alle figure sacre dell’Islam», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, che ha accusato Washington di alimentare «l’odio culturale e gli insulti alle figure sacre dell’Islam, destinati a scatenare una guerra contro l’Islam». Per capire quanto inadeguata sia una lettura in chiave astrattamente culturale delle tensioni che da oltre mezzo secolo travagliano quell’area del mondo, è sufficiente ricordare l’alleanza di fatto che si costituì tra Israele, Iran e Siria ai tempi della lunga guerra tra Iran e Iraq. Come sempre, anche allora ai palestinesi toccò in sorte il triste ruolo di merce di scambio tra potenze regionali assetate di petrolio e di potere. All’ombra del Profeta si bruciano i corpi e le coscienze delle moltitudini.

Come ho scritto in diversi articoli, nel mondo musulmano il Verbo del Profeta può essere usato, indifferentemente, per tutte le cause: per quella del “progresso” (ossia dello sviluppo capitalistico, non importa se di tipo “occidentale” o “autoctono”), come per quella della “conservazione”, e questo in assoluta analogia con quanto è accaduto nel resto del mondo nel corso dei secoli. Non è la religione presa in sé che favorisce o impedisce il processo sociale – colto in tutta la sua dimensione esistenziale: dall’economia alla psicologia degli individui, dai rapporti sociali alle relazioni fra uomo e donna, e via di seguito. Non è a partire dalla religione che possiamo ricostruire la storia passata e presente delle civiltà, mentre piuttosto è la prassi sociale, a cominciare dall’attività che crea e distribuisce la ricchezza sociale, che spiega non tanto la religione quanto le sue cangianti interpretazioni.

Permettetemi una correzione alla precedente tesi: per tutte le cause, tranne che per quella che sostiene l’emancipazione delle classi dominate e di tutta l’umanità: a questa altezza storica e sociale il Verbo del Profeta è inconsistente.

Non a caso prima ho parlato di “moltitudini” prive di coscienza, non semplicemente «ignoranti», ossia non illuminate dalla razionalità scientifica e dal pensiero laico. D’altra parte di questa coscienza di classe: coscienza della propria situazione sociale e delle eccezionali potenzialità storiche che in essa si celano, sono prive anche le classi dominate del resto del pianeta, e infatti anch’esse vanno appresso all’ideologia dominante e ai gruppi di potere che si contendono le fette più cospicue della ricchezza sociale. Atea o religiosa, la demagogia che si nutre del malessere sociale è ovunque in agguato, per sacrificare corpi e coscienze sull’altare del potere. C’è da sperare – e da lottare – che siano le faglie tra le classi sociali i fronti di battaglia del futuro. Ovunque.

SIRIA: UN MINIMO SINDACALE DI “INTERNAZIONALISMO”

Il massacratore di Damasco se la ride

L’Ufficio stampa del CC del KKE ha diramato un comunicato nel quale si condanna l’«aggressione imperialista in Siria». Tra le altre cose vi si legge: «Un intervento militare imperialista in Siria provocherà una significativa distruzione materiale e umana nel paese, e in aggiunta priverà il popolo palestinese di un alleato stabile nella sua lotta, un alleato dei movimenti antimperialisti nella regione, e spianerà altresì la strada all’aggressione imperialista contro l’Iran, con il pretesto del suo programma nucleare».

Premetto che non intendo affatto polemizzare con il partito stalinista basato in Grecia, non sono ancora caduto tanto in basso; mi servo piuttosto di quella posizione perché essa esprime una diffusa corrente di opinione all’interno del «Movimento di opposizione sociale», soprattutto quello più avvezzo a sostenere posizioni riconducibili al cosiddetto «internazionalismo proletario». E qui, come vuole il noto luogo comune, la domanda sorge spontanea: si tratta di autentico “internazionalismo” o non piuttosto del decrepito terzomondismo riverniciato per l’occasione? La domanda è, per dirla col gergo giudiziario, suggestiva, nel senso che suggerisce la risposta. E non è un male.

Che tutto quello che sta avvenendo – e si sta preparando – intorno alla Siria non abbia nulla a che fare con i «Diritti Umani» è cosa che qui do per acquisita: dalla microscopica Italia alla gigantesca Cina si estende un’unica Società-Mondo contrassegnata dal disumano rapporto sociale capitalistico. Sotto il vasto cielo del Capitalismo mondiale nessun Paese può dunque impartire agli altri lezioni di “umanità”. Questo è un minimo sindacale critico che adesso non approfondisco, perché qui il mio referente non è «la classe», ma piuttosto le sue “avanguardie”.

Un altro minimo sindacale della critica è inquadrare la vicenda di cui parliamo nella rubrica dell’Imperialismo. Ma quando parlo di Imperialismo non mi riferisco solo alle potenze occidentali, o solo alle grandi potenze mondiali come la Cina e la Russia: in quel concetto inglobo anche gli altri attori della vicenda, a iniziare dalla Siria e dall’Iran.

Un internazionalismo degno di questo nome rigetta come la peste la scelta di campo tra gli opposti carnefici, e nulla cambia il significato imperialista della cosa, nemmeno l’evidente squilibrio di potenza fra le forze in campo. Pesce grande mangia pesce piccolo: questo è il significato della competizione capitalistica mondiale, e chi ha a cuore solo gli interessi delle classi dominate, e si batte per una prospettiva di reale emancipazione degli individui dalla vigente Società-Mondo, deve rifiutare la falsa scelta tra il sanguinario più forte e quello più debole. Un tempo la chiamavano «indipendenza di classe», o «autonomia di classe». Lenin inquadrò la “dialettica del pesce” nella teoria dello sviluppo ineguale del Capitalismo.

Sulla faccia della terra non esiste un solo Stato che meriti di essere sostenuto dagli internazionalisti, magari solo «transitoriamente» e «tatticamente»: la teoria di Lenin sui movimenti nazionali antimperialistici ebbe senso nel tempo in cui diverse grandi aree del mondo (basti pensare allo stesso spazio geopolitico russo, alla Cina, all’India, al Medio Oriente, all’Africa) giacevano sotto il diretto dominio politico-militare, e non solo economico, delle grandi potenze, e potevano ancora dire qualcosa di progressivo sul piano dello sviluppo storico – nel senso dello sviluppo capitalistico, beninteso. Da molto tempo questa fase storica si è chiusa, e riproporre nel XXI secolo quello schema è francamente ridicolo.

(Sia detto di passata: Lenin tenne sempre fermo il punto dell’autonomia politico-organizzativa del proletariato anche all’interno delle rivoluzioni nazionali, e subordinò sempre la prassi dei comunisti a quell’imprescindibile condizione. Lo stalinismo ribaltò, di fatto, questa impostazione «classista»: di qui la tragedia della rivoluzione cinese del 1927 e la trasformazione del PCC in partito rivoluzionario nazional-popolare, ossia borghese).

«La Repubblica Araba di Siria continua ad essere vittima di una cospirazione nella strategica area del Vicino Oriente, oggetto di un’aggressione che diventa di giorno in giorno sempre più dura e spietata. È per questo che il Coordinamento Progetto Eurasia e il Comitato “Giù le mani dalla Sira!” impegnati, fin dal primo giorno della cospirazione a far emergere la verità e portare solidarietà al governo e al popolo siriano aggredito, ritengono più che mai necessario continuare a scendere in piazza per sensibilizzare i cittadini del nostro paese». Questa posizione va respinta nella maniera più recisa: la solidarietà ai popoli non va mai, in nessun caso, estesa ai governi ultrareazionari (come lo sono tutti i governi del pianeta: dall’Italia al Venezuela, dagli Stati Uniti a Cuba, dal Giappone alla Cina) che li opprimono e che difendono l’ordine sociale capitalistico – non importa quanto questo Capitalismo sia arretrato o sviluppato, statalista o liberista. Questo è, a mio modesto avviso, l’ABC dell’«internazionalismo proletario», soprattutto nell’epoca in cui lo stesso concetto di popolo – o di moltitudine, nella variante radicale-borghese 2.0 – non ha molta pregnanza storica e, soprattutto, politica. Invece, c’è gente che spinge il proprio “internazionalismo” fino a negare i massacri perpetrati dalle piccole o piccolissime potenze regionali, solo perché esse rischiano di finire ingoiate da potenze ben più forti e strutturate sul piano capitalistico-imperialistico.

Allora bisogna stare a guardare, senza far niente, la lotta tra pescecani di diversa taglia? Nemmeno per idea! Anche perché le vittime di questa guerra sono in primo luogo le classi dominate. Di qui, l’esigenza di condannare «senza se e senza ma» tutti gli attori della contesa; certo, a partire da quelli più prossimi a noi, dall’Italia, sia in quanto membro di una determinata alleanza imperialistica, come in quanto essa ha degli interessi nazionali peculiari da difendere nell’area mediorientale. Nella notte buia dell’Imperialismo la vacca italiana è, per un “internazionalista” italiano, quella più nera delle altre.

Veniamo adesso al luogo comune della Siria e dell’Iran come alleati storici della causa palestinese. In realtà, Paesi come l’Iran, l’Egitto, la Siria, il Libano e la Giordania condividono, pur con modalità e graduazioni differenti, le stesse responsabilità storiche di Israele in fatto di putrefazione della «Questione Palestinese». Quei Paesi, tra loro concorrenti sul terreno della leadership regionale in quella delicata parte di mondo, si sono serviti di quell’annosa e purulenta «Questione» come strumento di lotta politica, economica, ideologica e, non di rado, militare, sul piano interno come su quello internazionale. È un fatto che di palestinesi ne hanno sfruttati, oppressi e massacrati più i loro “Fratelli Arabi”, che l’odiato demonio Stellato.

Come scriveva Paolo Maltese in un bel libro dei primi anni Novanta del secolo scorso, «È semplicistico e deviante ritenere che sia sufficiente risolvere la questione palestinese per portare la pace in Medio Oriente. Piuttosto essa è stata pure, col suo peso lacerante, utile come alibi per camuffare antagonismi e problemi interni del mondo arabo» (Nazionalismo Arabo Nazionalismo Ebraico, 1789-1992, Mursia, 1994).  Assai illuminante è proprio il ruolo che ha avuto la Siria in questo sporco affare: «Nell’aprile 1971, Assad non solo proibì alle formazioni palestinesi presenti in Siria di lanciare attacchi contro Israele, ma obbligò pure le formazioni che dipendevano da al Saiqa, cioè il gruppo controllato dalla Siria, di abbandonare il paese per trasferirsi anche loro nel sud del libano … Quello di Assad fu dunque, anche, un calcolo proiettato sul futuro: attendere, e vedere che cosa poteva accadere in Libano, per poi cercare di approfittarne, come difatti farà, intervenendo dapprima per proteggere i falangisti cristiano-maroniti contro i palestinesi, e massacrando così questi ultimi, nel 1976, nel campo di Tall el Zaatar senza sollevare in Europa particolare scandalo, a differenza, invece, di quel che accadrà col massacro dei campi di sabra e Chatila ad opera dei falangisti alleati di Israele; e permettendo poi ai dissidenti filo-siriani dell’OLP di scacciare nell’83 da Tripoli i palestinesi di Arafat».

E sapete in che cosa si specializzarono questi «dissidenti filo-siriani»? Nel terrorizzare e massacrare altri palestinesi, quelli che non si mostravano troppo sensibili alla causa dell’imperialismo stracciano della Siria: «All’interno del movimento palestinese – anche nella sinistra – c’è chi considera i contadini palestinesi costretti ad andare a lavorare in Israele traditori della causa palestinese, e usano le bombe negli autobus che trasportano i pendolari palestinesi» (Intervista a un militante del Fronte Democratico Palestinese, Combat, maggio 1986).

E qui, per adesso, mi fermo.

Per un approfondimento rimando a un capitolo di un mio studio sulla questione israelo-palestinese dell’estate 2006 intitolato Due popoli, due disgrazie.

BOMBA IRANIANA E TERZOMONDISMO2.0

Noam Chomsky ha uno strano – si fa per dire – modo di denunciare il sionismo israeliano e l’imperialismo statunitense: appoggiare, di fatto, le ragioni dei nemici altrettanto imperialistici e aggressivi di Israele e Stati Uniti. Nel suo articolo pubblicato dal Manifesto Chomsky si diffonde in una perorazione del nucleare iraniano e in una criminalizzazione del nucleare israeliano, per concludere che «il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran». «Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione» (N. Chomsky, La bomba iraniana, Il Manifesto, 18 marzo 2012). Ora, non bisogna essere veterani della Cia per capire che le classi dominanti (un concetto che evidentemente fa il solletico alla Scienza Sociale2.0) dell’Iran hanno tutto l’interesse a possedere tanti missili a testata nucleare, non solo «come fattore di dissuasione» (un delicato eufemismo che Chomsky non usa per Israele, chissà perché…), ma come strumento di espansione e di pressione nell’area mediorientale, ossia nel cortile di casa della potenza iraniana. Lo Stato Iraniano ha tutto il diritto (borghese) di possedere la bomba «fine di mondo», allo stesso titolo degli altri Stati capitalistici, vicini e lontani.

Ma chi combatte «per la pace e per la libertà dei popoli» deve mettersi dal punto di vista delle classi dominanti, ovunque esse opprimano e sfruttino uomini e donne? Se il Terzomondismo puzzava peggio di una carogna trent’anni fa, figuriamoci oggi! Chi crede che «tatticamente» convenga appoggiare l’imperialismo più straccione, per indebolire quello contingentemente più forte, non solo è un povero illuso e manifesta tutta la sua indigenza storica, ma entra, forse suo malgrado, nel merito della competizione interimperialistica per schierarsi con questo o quel Paese, con questa o quell’alleanza imperialistica. Il fatto che nel XXI secolo tutto il Pianeta stia sotto il cielo del Capitalismo, ai terzomondisti di ritorno non dice niente.

Demoniaca Potenza!

Pur di mettere in cattiva luce Israele, Chomsky arriva ad accreditare la bizzarra tesi del «tenente colonnello Warner Farr», secondo la quale «”un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è ovvio, è impiegarle negli Stati Uniti”, presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele». In buona sostanza, si vuole stabilire un’analogia tra Israele e la Corea del Nord, Paese che campa letteralmente di terrore nucleare: «Se non mi aiutate sparo missili nucleari a destra e a manca!» D’altra parte, l’11 Settembre 2001 non è forse stato pianificato dai sionisti, in combutta con i petrolieri americani? Mi pare che Giulietto Chiesa continui a vendere – nel senso mercantile della parola – questa perla. Ma se sbaglio, mi scuso con i complottisti di tutto il mondo. Dalla perorazione “pacifista” di Chomsky non esce bene  solo l’Iran, ma fanno la loro bella figura anche «I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, che hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio», la Cina e la Russia che «si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia». Detto di passata, l’India è oggi il primo Paese  importatore di armi al mondo. Qualcuno vuol forse negare alle classi dominanti indiane il diritto di armarsi come vogliono e quanto vogliono?

Insomma, tutti i paesi imperialistici, ultrareazionari e aggressivi del Pianeta vanno bene, salvo Israele e Stati Uniti. Sento puzza di bruciato. Mi sono sbagliato: si tratta di cacca, in guisa “antimperialista”.

IL SACRIFICIO NON VUOLE CAPRI ESPIATORI MA VERITÀ

Se dicessi che non me lo aspettavo, che la cosa mi ha colto di sorpresa, non direi il vero. Me lo aspettavo, eccome: conosco bene i miei polli “pacifisti”!

A cosa alludo? All’individuazione delle «vere responsabilità» che fanno capo al brutale assassinio di Vittorio Arrigoni.

Per molti sostenitori italiani della Causa Palestinese non ci sono dubbi: «in ultima analisi» (ma per non pochi di essi anche in primissima, in ossequio alla Teoria del Complotto Sionista Mondiale), è a Israele che bisogna attribuire quelle responsabilità. Seguono, sempre in ordine di responsabilità, i Paesi del Cinico Occidente che si attardano a sostenere l’Anomalia geopolitica incistatasi in Medio Oriente all’indomani del Secondo macello mondiale; essi, infatti, col loro «atteggiamento complice» hanno favorito l’ascesa dei fondamentalisti islamici tra le «Masse Arabe», in generale, e nel seno del Popolo Palestinese, in particolare. In gran parte si tratta di vere e proprie balle ideologiche, logorate dai fatti ma ancora lungi dal voler prendere congedo.

In realtà, Paesi come l’Iran, l’Egitto, la Siria, il Libano e la Giordania condividono, pur con modalità e graduazioni differenti, le stesse responsabilità storiche di Israele in fatto di putrefazione della «Questione Palestinese». Quei Paesi, tra loro concorrenti sul terreno della leadership regionale in quella delicata parte di mondo, si sono serviti di quell’annosa e purulenta «Questione» come strumento di lotta politica, economica, ideologica e, non di rado, militare, sul piano interno come su quello internazionale. È un fatto che di palestinesi ne hanno sfruttati, oppressi e massacrati più i loro “Fratelli Arabi”, che l’odiato demonio Stellato.

Come scriveva Paolo Maltese in un bel libro dei primi anni Novanta del secolo scorso, «È semplicistico e deviante ritenere che sia sufficiente risolvere la questione palestinese per portare la pace in Medio Oriente. Piuttosto essa è stata pure, col suo peso lacerante, utile come alibi per camuffare antagonismi e problemi interni del mondo arabo» (Nazionalismo Arabo Nazionalismo Ebraico, 1789-1992).

Questo Vittorio Arrigoni non lo ha capito – come d’altra parte non lo hanno capito i suoi compagni del Manifesto e larga parte della cosiddetta estrema sinistra; egli è rimasto vittima, non solo di un Mondo Cinico e Baro su scala planetaria, ma anche di un’analisi politica e sociale sbagliata, perché malignamente fecondata dall’ideologia Terzomondista, sopravvissuta al XX secolo sotto nuove spoglie. Un’ideologia che, tra l’altro, non gli ha permesso di vedere con chiarezza la natura della posta in gioco nel Mondo Musulmano, dal Nord Africa al Medio Oriente, la quale mette in collisione sempre più dura chi ha tutto da perdere da una rapida «occidentalizzazione» (leggi: sviluppo capitalistico) di quelle società, e chi invece guarda a quella «opzione» come la sola possibile via di fuga dall’arretratezza.

In piccolo Gaza riproduce questa lotta intestina al Mondo Arabo, e Arrigoni ha pagato la sua diabolica origine occidentale («Crociata») nonostante militasse dalla parte dell’estremismo palestinese, quello che vuole distruggere lo Stato d’Israele. Il sangue versato vuole verità, non capri espiatori, soprattutto quando la verità è dura da mandar giù.

La distruzione dello «Stato Sionista» è una parola d’ordine sbagliata sotto tutti i punti di vista (quello Stato merita di scomparire alla stregua di ogni altro Stato presente sulla faccia della Terra, nè più nè meno), che serve solo a sostenere coloro che hanno interesse a mantenere sempre viva e dolorosa l’infezione sociale e nazionale che si è generata nel «Sacro Suolo di Palestina» sessant’anni fa. A causa del Complotto Sionista? No, a causa del processo storico mondiale. Auschwitz compresa.