Per Simon Tomlinson (Daily Mail), «Tsipras è il bravo ragazzo che tutti vorrebbero essere e il politico onesto al quale tutti si vogliono affidare». Non c’è dubbio. Mi correggo: forse un più equilibrato quasi tutti sarebbe stato più aderente alla verità, e quantomeno con quel “quasi” Tomlinson non avrebbe inglobato di fatto anche chi scrive nel ridicolo partito filogreco e antitedesco che da domenica scorsa imperversa nel Mezzogiorno d’Europa. Tutti pazzi per Alexis Tsipras? Diciamo quasi tutti. Al limite, tutti salvo chi scrive. È, la mia, una puntualizzazione dovuta a “partito preso”? Si tratta di un meschino settarismo spiegabile solo con l’invidia che un perdente può provare nei confronti di un leader giovane, bello e vincente? Può darsi: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Ma, confermato che il politico è personale, c’è dell’altro.
Si tratta di questo: il successo politico di Syriza conferma ancora una volta che quando i dominati brancolano privi di autonomia politica nella notte della crisi sociale, i dominanti sanno sempre trovare la carta giusta per vincere la partita della conservazione. Oggi pescando a “sinistra”, domani pescando a “destra”, dopodomani chissà dove. Tanto per dire, se la carta Syriza dovesse andar male, e la crisi sociale del Paese dovesse aggravarsi, Atene ha già pronte altre carte da giocare, tipo Alba Dorata e KKE, il partito veterostalinista che osteggia il nuovo governo greco nel nome di un Capitalismo di Stato (chiamato ovviamente “socialismo-comunismo”: sic!) e di un sovranismo politico-economico che può piacere giusto a personaggi come Marco Rizzo, presidente di un sedicente Partito Comunista che sostiene le ragioni del KKE e che oggi ricompare sui media per vantare la presenza tra le sue “rivoluzionarie” fila di Gianni Vattimo. Nientemeno! Della serie: Miseria di certa filosofia. Ma anche: A volte ritornano.
Non bisogna avere paura di Syriza, scriveva alla vigilia delle mitiche elezioni greche Chrìstos Bòtzios, ex ambasciatore di Grecia presso la Santa Sede: «Syriza non va confuso con il Partito Comunista di Grecia (KKE) che in parlamento rappresenta quasi il 5% dell’elettorato ed è espressione di una dura linea marxista che rifiuta ogni collaborazione con Syriza, anzi lo accusa di non essere diverso nella sua filosofia politica dagli altri partiti borghesi» (Limes, 22 gennaio 2015). Vediamo un breve saggio di questa «dura linea marxista».
«Da 25 anni la Russia non è più un paese socialista», sostiene Dimitris Koutsoumpas, segretario generale del Comitato Centrale del KKE. Già con questa semplice affermazione, peraltro condivisa dal 99 virgola qualcosa per cento dell’opinione pubblica mondiale, Koutsoumpas rende evidente il bel concetto di “socialismo” che gli frulla in testa. «Sintetizzando, il KKE è a favore della cancellazione unilaterale del debito, del disimpegno dall’UE e dalla NATO, con potere ed economia operaio-popolare. Crediamo che i lavoratori possano organizzare la produzione e utilizzare i grandi potenziali dei fondi di ricchezza con pianificazione scientifica a livello nazionale concentrata alla soddisfazione di tutte le loro esigenze attuali, senza le catene dei monopoli, dell’UE e delle altre unioni imperialiste». Non so chi legge, ma io ci sento puzza di «socialismo (leggi Capitalismo di Stato) in un solo Paese». Eppure, non bisogna essere dei geni per capire che «in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. Alla fine voi [leader europei riluttanti nei confronti degli Stati Uniti d’Europa] personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa» (E. Scalfari, La Repubblica, 25 gennaio 2015). Cambiando un po’ (ma solo un po’) la fraseologia pseudo comunista di chiara matrice stalinista, il programma “anticapitalista” del KKE potrebbe apparire potabile anche a un nazionalsovranista di destra assetato di dignità nazionale.
Scriveva ieri Massimo Gramellini (La Stampa): «In Grecia, si riduce il ceto medio alla miseria e si creano condizioni sociali pre-rivoluzionarie, lasciando a fronteggiarsi sul terreno una élite di privilegiati e un popolo di disperati. […] Mettere la maggioranza dei cittadini nelle condizioni di avere qualcosa da perdere fu la straordinaria intuizione della politica occidentale del secolo scorso, il vaccino contro ogni populismo estremista. Date a qualcuno una casa e una rata da pagare, e ne avrete fatto un potenziale conservatore». Quando la miseria incalza e la “coscienza di classe” latita, persino una minestra calda garantita tutti i giorni, e magari un fucile in spalla per difendere la “dignità nazionale” dai cattivoni di turno, possono apparire agli occhi di milioni di persone azzannate dalla crisi quanto di meglio possa offrire loro il pessimo mondo che li (ci) ospita. Per questo quando leggo sul Manifesto che «Questo paese distrutto dalla guerra economica e governato dalla Troika oggi trova la forza di riacciuffare la speranza», mi rendo conto di quanto si sia svalutato ultimamente il concetto di “speranza”: siamo davvero ai livelli dell’inflazione tedesca dei primi anni Venti.
«Tsipras», scrive il già citato Gramellini, «ha preferito allearsi con una forza quasi xenofoba da cui tutto lo divide, tranne la volontà di ribellarsi a questa Europa. Il nemico del mio nemico è mio amico. La stessa logica dei comitati di liberazione che, durante la seconda guerra mondiale, indusse monarchici e comunisti a combattere fianco a fianco “l’invasor” evocato da Bella ciao». Questa evocazione storica, che la dice lunga sui bellicosi tempi che attraversiamo, mi consente per un verso di riaffermare, per quel pochissimo che vale, la mia tetragona ostilità nei confronti di tutte le fazioni capitalistiche che si stanno scontrando in Europa (sotto le diverse insegne politico-ideologiche: europeismo, sovranismo, liberismo, statalismo, rigorismo, keynesismo, ecc.) sulla pelle dei nullatenenti e dei ceti medi in via di proletarizzazione; e per altro verso, di fare la riflessione ultraminoritaria che segue.
È vero: gli opposti si toccano. Ma per toccarsi, gli opposti devono insistere sullo stesso piano. Un esempio storico? Ne azzardo uno, in clima con i “giorni della memoria” (come se la memoria bastasse a tenere a bada la bestia dell’irrazionalità radicata nella società disumana e disumanizzante) e sempre mutatis mutandis: l’alleanza Hitler-Stalin che inaugurò la Seconda carneficina mondiale. Germania nazista e Unione Sovietica stalinista all’inizio della guerra poterono “toccarsi” perché entrambi i Paesi condividevano la stessa natura sociale (alludo al capitalismo, ovviamente) e molti interessi geopolitici (spartirsi l’Europa continentale e le colonie delle potenze “demoplutocratiche”, ad esempio). Poi il “traditore” Adolf invase l’Unione Sovietica e mise nelle condizioni l’Inghilterra di Churchill di stringere un’alleanza con il “diavolo rosso” secondo la nota logica: «Il nemico del mio nemico è mio amico». Ma questa logica presuppone appunto la condivisione dello stesso “terreno di classe”, e difatti l’Inghilterra di Churchill nel 1918-19, quando la Russia dei Soviet si pose alla testa del processo rivoluzionario in Europa, sostenne l’Armata Bianca controrivoluzionaria che combatteva l’Armata – allora ancora – Rossa di Lenin e di Trotsky. Nella fase finale della Seconda guerra mondiale (la Resistenza come continuazione della guerra imperialista con altri mezzi e nelle mutate circostanze), monarchici e “comunisti badogliani” si trovarono fianco a fianco a combattere «l’invasor» perché, appunto, marciavano sullo stesso “terreno di classe”, concetto sintetizzato nella parola Patria, o nella locuzione «superiori interessi nazionali».
Dove c’è Patria, c’è dominio di classe. Lo so che dicendo questo irrito tanto il nazionalsovranista, soprattutto quello di “sinistra” che ama accampare complesse strategie tattiche per convincere se stesso che l’internazionalismo marxiano va declinato in termini “dialettici”. Buona “declinazione dialettica”, che debbo dire?
A proposito di Tsipras e di Bella ciao, ecco cosa scrive A. Terrenzio, tifoso di Alba Dorata e del Front National di Marine Le Pen, su Conflitti e strategie: «Tsipras ed il suo movimento collaborazionista e al guinzaglio della Troika, aldilà dei proclami, non sembra poter rappresentare nessun tipo di problema per gli Junker, i Draghi od i Katainenn di turno; non cambierà, la situazione del popolo greco, se non riuscendo a spuntare degli accordi o degli “sconticini” sulla mole di debito, in cambio di ulteriori quote di sovranità. Il popolo greco si vedrà gabbato e vedrà le “speranze” e le promesse di Tsipras, trasformarsi, prima in farsa e poi in un’inevitabile tragedia greca, in un’eterogenesi dei fini che lascerà i greci con l’amaro in bocca e con le tasche vuote per aver dato fiducia ad un leader, che un giorno stringe la mano a Soros o ad Obama, e l’altro coglioneggia il popolo cantando “bella ciao”» (Conflitti e strategie). Più che cantare Bella ciao, lascia capire il nazionalsovranista duro e puro, bisogna prendere piuttosto le metaforiche (almeno per adesso!) armi della politica e preparasi alla Resistenza contro la Germania, la Troika, l’America e contro tutte le forze asservite al Finanzcapitalismo mondialista: Sovranità o morte! Personalmente lavoro per la morte della Sovranità (capitalistica).
I compagni italiani sono invece da sempre avvezzi a ingoiare rospi d’ogni taglia e colore, e Luciana Castellina ce ne offre una plastica dimostrazione commentando l’«alleanza di scopo» tra Syriza e l’Anel di Panos Kammenos,: «Equivoci infatti nell’immediato ce ne sono stati. Quando la notizia della decisione ha cominciato a diffondersi ero ancora ad Atene e ho così potuto condividere con qualche compagno di Syriza le reazioni all’accaduto. Inutile negare: sorpresa, imbarazzo, anche incomprensione. Peggio quando ho incrociato gli italiani della Brigata Kalimera che si erano attardati a rientrare in patria dopo la festosa nottata di domenica. Dio mio, il patto del Nazareno? Io credo che il nostro compagno Alexis abbia fatto la cosa giusta. Il ministero della difesa in mano ad Anel? Vista la tradizione greca, crearsi qualche punto d’appoggio contro eventuali avventure dei militari, non è una brutta idea» (Il Manifesto, 27 gennaio 2015). Tutt’altro! E poi, si può giustificare il Patto Ribbentrop-Molotov che segnò l’inizio del Secondo macello imperialista («l’Unione Sovietica doveva coprirsi il fianco occidentale, troppo esposto ai tedeschi e ai nemici del socialismo»), e non si può mandar giù il Patto Tsipras- Kammenos? Via, non scherziamo!
Intanto la «Tendenza Comunista di Syriza» mugugna, anzi implora: «La Tendenza Comunista di SYRIZA implora ed invita la dirigenza di SYRIZA di non procedere ad alcuna collaborazione con ANEL. Rivolgiamo un ultimo appello alla dirigenza di SYRIZA, ma anche a quella del KKE, di prendere coscienza della gravità delle proprie responsabilità storiche e stabilire un solido governo di coalizione socialista. L’unica scelta politica possibile che abbiamo è la coalizione socialista tra SYRIZA e KKE» (Dichiarazione della Tendenza comunista di Syriza). Siamo già alla scissione? Vedremo. Dal canto suo, pare che il KKE stia ammorbidendo le sue posizioni “antiborghesi”. Come scrive la Castellina, subito dopo la clamorosa vittoria di Syriza, «il KKE ha aperto uno spiraglio ad un voto positivo su singoli provvedimenti che “il popolo” (cioè il KKE) giudicherà buoni. Troppo poco per formare il governo, che aveva bisogno, subito, di almeno altri due deputati, non male in prospettiva». Una prospettiva che non mi affascina neanche un poco.
Insomma, tra simpatizzanti di Alexis Tsipras, “comunisti” di varia tendenza (tutti, beninteso, provenienti dalla tradizione stalinista: la storia, purtroppo, non è acqua fresca che scorre senza conseguenze), nazionalsovranisti senza se e senza ma, pare di assistere a una ridicola macchietta vista nel Belpaese decine di volte. Alla fine, proprio il leader di Syriza, con il suo onesto servizio patriottico (da notare anche il nuovo dinamismo greco sul terreno della politica estera: vedi, ad esempio, i rapporti di Atene con Russia e Turchia), appare quello più serio. «Tsipras è un conservatore un po’ incendiario, facciamogli posto», scriveva Giuliano Ferrara qualche giorno fa. Una provocazione? Non necessariamente, e d’altra parte non sono pochi in Europa quelli che vedono in Tsipras e in Mario Draghi* la “strana coppia” che potrebbe davvero «cambiare verso all’Europa, perché l’austerità sta strangolando tutti. Con Matteo Renzi la pensiamo alla stessa maniera sulla necessità dello sviluppo e sull’uscita da questo rigore alla tedesca che sta danneggiando tutti i cittadini europei» (A. Tsipras, intervista rilasciata al Messaggero). E chi, in Italia, non è contro il «rigore alla tedesca»? «Dalla Puglia di Vendola alla Arcore del Cavaliere, si leva dunque un unico grido: “Forza Tsipras”» (A. Cangini, Quotidiano Nazionale). Dalla Sicilia di chi scrive si leva invece un sonoro… Lasciamo perdere, che è meglio.
Ultima ora Ansa: «”Non andremo ad una rottura distruttiva per entrambi sul debito: il governo di Atene è pronto a negoziare con partner e finanziatori per una soluzione giusta e duratura per il taglio del debito greco”. Lo ha detto Alexis Tsipras aprendo il suo primo consiglio dei ministri». Forse Ferrara non ha sbagliato di molto. Forse.
* Per una crescita vigorosa dell’economia greca «puntiamo sul quantitative easing, e la Bce non si azzardi ad escluderci», aveva dichiarato il 5 gennaio a Repubblica il «comunista ma non rivoluzionario» (che faccio, rido?) Yanis Varoufakis, oggi ministro delle Finanze. Molti rinfacciano a Varoufakis le considerazioni apparse sul suo blog il 3 giugno del 2012: «Raccomando di non leggere il programma di Syriza» perché non vale la carta su cui è scritto. Esso è pieno di buone intenzioni e di promesse che non possono e non saranno soddisfatte». Vedremo se il «comunista non rivoluzionario» sarà coerente con questa impostazione “realista”.
Anche Thomas Piketty, l’eroe degli egualitari del XXI secolo, legge «questa rivoluzione democratica venuta dal Sud» come un serio tentativo, il secondo dopo quello dell’Evento QE di Francoforte, di «cambiare verso» all’Unione Europea.
Scrive Joseph Halevi, professore di economia all’Università di Sydney e simpatizzante, con qualche riserva, di Syriza: «Il KKE, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo, che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale». Come si vede, Halevi non mette in discussione la tesi di fondo del KKE circa la natura sociale dell’Unione Sovietica e le cause che ne hanno provocato l’ingloriosa fine. Del partito stalinista greco l’economista “marxista” critica solo l’approccio «schematico» e il «settarismo totale». Un po’ pochino, mi sembra.
In difesa dell’amico Yanis Varoufakis, criticato “da sinistra” per il suo eclettismo dottrinario che pescherebbe da Marx e da Keynes, sempre Halevi sostiene: «La Grecia è un paese come l’Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta. Marxista è un sistema di idee che c’hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra» (Intervista a Contropiano.org, 30 gennaio 2015). E puoi, sopra ogni altra cosa e come dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la storia del “movimento comunista internazionale”, dire, scrivere e praticare concetti che con il vecchio comunista di Treviri non hanno nulla a che fare, di più: che ne sono la più completa negazione. Più si conoscono i “marxisti” e meglio si comprende la nota puntualizzazione marxiana: «Non sono marxista». Figuriamoci chi scrive!
«Yanis è, a mio avviso, strategicamente più leninista che marxista»: e allora dichiaro la mia estraneità anche nei confronti del “leninismo” e di ogni altro ideologico “ismo” usato a capocchia nei salotti buoni del sinistrismo internazionale.