UN TSIPRAS BUONO PER OGNI GUSTO?

eliastabakeas_tsiprasPer Simon Tomlinson (Daily Mail), «Tsipras è il bravo ragazzo che tutti vorrebbero essere e il politico onesto al quale tutti si vogliono affidare». Non c’è dubbio. Mi correggo: forse un più equilibrato quasi tutti sarebbe stato più aderente alla verità, e quantomeno con quel “quasiTomlinson non avrebbe inglobato di fatto anche chi scrive nel ridicolo partito filogreco e antitedesco che da domenica scorsa imperversa nel Mezzogiorno d’Europa. Tutti pazzi per Alexis Tsipras? Diciamo quasi tutti. Al limite, tutti salvo chi scrive. È, la mia, una puntualizzazione dovuta a “partito preso”? Si tratta di un meschino settarismo spiegabile solo con l’invidia che un perdente può provare nei confronti di un leader giovane, bello e vincente? Può darsi: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Ma, confermato che il politico è personale, c’è dell’altro.

Si tratta di questo: il successo politico di Syriza conferma ancora una volta che quando i dominati brancolano privi di autonomia politica nella notte della crisi sociale, i dominanti sanno sempre trovare la carta giusta per vincere la partita della conservazione. Oggi pescando a “sinistra”, domani pescando a “destra”, dopodomani chissà dove. Tanto per dire, se la carta Syriza dovesse andar male, e la crisi sociale del Paese dovesse aggravarsi, Atene ha già pronte altre carte da giocare, tipo Alba Dorata e KKE, il partito veterostalinista che osteggia il nuovo governo greco nel nome di un Capitalismo di Stato (chiamato ovviamente “socialismo-comunismo”: sic!) e di un sovranismo politico-economico che può piacere giusto a personaggi come Marco Rizzo, presidente di un sedicente Partito Comunista che sostiene le ragioni del KKE e che oggi ricompare sui media per vantare la presenza tra le sue “rivoluzionarie” fila di Gianni Vattimo. Nientemeno! Della serie: Miseria di certa filosofia. Ma anche: A volte ritornano.

Non bisogna avere paura di Syriza, scriveva alla vigilia delle mitiche elezioni greche Chrìstos Bòtzios, ex ambasciatore di Grecia presso la Santa Sede: «Syriza non va confuso con il Partito Comunista di Grecia (KKE) che in parlamento rappresenta quasi il 5% dell’elettorato ed è espressione di una dura linea marxista che rifiuta ogni collaborazione con Syriza, anzi lo accusa di non essere diverso nella sua filosofia politica dagli altri partiti borghesi» (Limes, 22 gennaio 2015).  Vediamo un breve saggio di questa «dura linea marxista».

«Da 25 anni la Russia non è più un paese socialista», sostiene  Dimitris Koutsoumpas, segretario generale del Comitato Centrale del KKE. Già con questa semplice affermazione, peraltro condivisa dal 99 virgola qualcosa per cento dell’opinione pubblica mondiale, Koutsoumpas rende evidente il bel concetto di “socialismo” che gli frulla in testa. «Sintetizzando, il KKE è a favore della cancellazione unilaterale del debito, del disimpegno dall’UE e dalla NATO, con potere ed economia operaio-popolare. Crediamo che i lavoratori possano organizzare la produzione e utilizzare i grandi potenziali dei fondi di ricchezza con pianificazione scientifica a livello nazionale concentrata alla soddisfazione di tutte le loro esigenze attuali, senza le catene dei monopoli, dell’UE e delle altre unioni imperialiste». Non so chi legge, ma io ci sento puzza di «socialismo (leggi Capitalismo di Stato) in un solo Paese». Eppure, non bisogna essere dei geni per capire che «in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. Alla fine voi [leader europei riluttanti nei confronti degli Stati Uniti d’Europa] personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa» (E. Scalfari, La Repubblica, 25 gennaio 2015). Cambiando un po’ (ma solo un po’) la fraseologia pseudo comunista di chiara matrice stalinista, il programma “anticapitalista” del KKE potrebbe apparire potabile anche a un nazionalsovranista di destra assetato di dignità nazionale.

Scriveva ieri Massimo Gramellini (La Stampa): «In Grecia, si riduce il ceto medio alla miseria e si creano condizioni sociali pre-rivoluzionarie, lasciando a fronteggiarsi sul terreno una élite di privilegiati e un popolo di disperati. […]  Mettere la maggioranza dei cittadini nelle condizioni di avere qualcosa da perdere fu la straordinaria intuizione della politica occidentale del secolo scorso, il vaccino contro ogni populismo estremista. Date a qualcuno una casa e una rata da pagare, e ne avrete fatto un potenziale conservatore». Quando la miseria incalza e la “coscienza di classe” latita, persino una minestra calda garantita tutti i giorni, e magari un fucile in spalla per difendere la “dignità nazionale” dai cattivoni di turno, possono apparire agli occhi di milioni di persone azzannate dalla crisi quanto di meglio possa offrire loro il pessimo mondo che li (ci) ospita. Per questo quando leggo sul Manifesto che «Que­sto paese distrutto dalla guerra econo­mica e gover­nato dalla Troika oggi trova la forza di riac­ciuf­fare la speranza», mi rendo conto di quanto si sia svalutato ultimamente il concetto di “speranza”: siamo davvero ai livelli dell’inflazione tedesca dei primi anni Venti.

«Tsipras», scrive il già citato Gramellini, «ha preferito allearsi con una forza quasi xenofoba da cui tutto lo divide, tranne la volontà di ribellarsi a questa Europa. Il nemico del mio nemico è mio amico. La stessa logica dei comitati di liberazione che, durante la seconda guerra mondiale, indusse monarchici e comunisti a combattere fianco a fianco “l’invasor” evocato da Bella ciao». Questa evocazione storica, che la dice lunga sui bellicosi tempi che attraversiamo, mi consente per un verso di riaffermare, per quel pochissimo che vale, la mia tetragona ostilità nei confronti di tutte le fazioni capitalistiche che si stanno scontrando in Europa (sotto le diverse insegne politico-ideologiche: europeismo, sovranismo, liberismo, statalismo, rigorismo, keynesismo, ecc.) sulla pelle dei nullatenenti e dei ceti medi in via di proletarizzazione; e per altro verso, di fare la riflessione ultraminoritaria che segue.

È vero: gli opposti si toccano. Ma per toccarsi, gli opposti devono insistere sullo stesso piano. Un esempio storico?  Ne azzardo uno, in clima con i “giorni della memoria” (come se la memoria bastasse a tenere a bada la bestia dell’irrazionalità radicata nella società disumana e disumanizzante) e sempre mutatis mutandis: l’alleanza Hitler-Stalin che inaugurò la Seconda carneficina mondiale. Germania nazista e Unione Sovietica stalinista all’inizio della guerra poterono “toccarsi” perché entrambi i Paesi condividevano la stessa natura sociale (alludo al capitalismo, ovviamente) e molti interessi geopolitici (spartirsi l’Europa continentale e le colonie delle potenze “demoplutocratiche”, ad esempio). Poi il “traditore” Adolf invase l’Unione Sovietica e mise nelle condizioni l’Inghilterra di Churchill di stringere un’alleanza con il “diavolo rosso” secondo la nota logica: «Il nemico del mio nemico è mio amico». Ma questa logica presuppone appunto la condivisione dello stesso “terreno di classe”, e difatti l’Inghilterra di Churchill nel 1918-19, quando la Russia dei Soviet si pose alla testa del processo rivoluzionario in Europa, sostenne l’Armata Bianca controrivoluzionaria che combatteva l’Armata – allora ancora – Rossa di Lenin e di Trotsky. Nella fase finale della Seconda guerra mondiale (la Resistenza come continuazione della guerra imperialista con altri mezzi e nelle mutate circostanze), monarchici e “comunisti badogliani” si trovarono fianco a fianco a combattere  «l’invasor» perché, appunto,  marciavano sullo stesso “terreno di classe”, concetto sintetizzato nella parola Patria, o nella locuzione «superiori interessi nazionali».

Dove c’è Patria, c’è dominio di classe. Lo so che dicendo questo irrito tanto il nazionalsovranista, soprattutto quello di “sinistra” che ama accampare complesse strategie tattiche per convincere se stesso che l’internazionalismo marxiano va declinato in termini “dialettici”. Buona “declinazione dialettica”, che debbo dire?

A proposito di Tsipras e di Bella ciao, ecco cosa scrive A. Terrenzio, tifoso di Alba Dorata e del Front National di Marine Le Pen, su Conflitti e strategie: «Tsipras ed il suo movimento collaborazionista e al guinzaglio della Troika, aldilà dei proclami, non sembra poter rappresentare nessun tipo di problema per gli Junker, i Draghi od i Katainenn di turno; non cambierà, la situazione del popolo greco, se non riuscendo a spuntare degli accordi o degli “sconticini” sulla mole di debito, in cambio di ulteriori quote di sovranità. Il popolo greco si vedrà gabbato e vedrà le “speranze” e le promesse di Tsipras, trasformarsi, prima in farsa e poi in un’inevitabile tragedia greca, in un’eterogenesi dei fini che lascerà i greci con l’amaro in bocca e con le tasche vuote per aver dato fiducia ad un leader, che un giorno stringe la mano a Soros o ad Obama, e l’altro coglioneggia il popolo cantando “bella ciao”» (Conflitti e strategie). Più che cantare Bella ciao, lascia capire il nazionalsovranista duro e puro, bisogna prendere piuttosto le metaforiche (almeno per adesso!) armi della politica e preparasi alla Resistenza contro la Germania, la Troika, l’America e contro tutte le forze asservite al Finanzcapitalismo mondialista: Sovranità o morte! Personalmente lavoro per la morte della Sovranità (capitalistica).

I compagni italiani sono invece da sempre avvezzi a ingoiare rospi d’ogni taglia e colore, e Luciana Castellina ce ne offre una plastica dimostrazione commentando l’«alleanza di scopo» tra Syriza e l’Anel di Panos Kammenos,: «Equi­voci infatti nell’immediato ce ne sono stati. Quando la noti­zia della deci­sione ha comin­ciato a dif­fon­dersi ero ancora ad Atene e ho così potuto condividere con qual­che compagno di Syriza le rea­zioni all’accaduto. Inu­tile negare: sorpresa, imba­razzo, anche incom­pren­sione. Peg­gio quando ho incro­ciato gli ita­liani della Bri­gata Kali­mera che si erano attar­dati a rien­trare in patria dopo la festosa not­tata di dome­nica. Dio mio, il patto del Nazareno? Io credo che il nostro com­pa­gno Ale­xis abbia fatto la cosa giu­sta. Il mini­stero della difesa in mano ad Anel? Vista la tra­di­zione greca, crearsi qual­che punto d’appoggio con­tro even­tuali avven­ture dei mili­tari, non è una brutta idea» (Il Manifesto, 27 gennaio 2015). Tutt’altro! E poi, si può giustificare il Patto Ribbentrop-Molotov che segnò l’inizio del Secondo macello imperialista («l’Unione Sovietica doveva coprirsi il fianco occidentale, troppo esposto ai tedeschi e ai nemici del socialismo»), e non si può mandar giù il Patto Tsipras- Kammenos? Via, non scherziamo!

Intanto la «Tendenza Comunista di Syriza» mugugna, anzi implora: «La Tendenza Comunista di SYRIZA implora ed invita la dirigenza di SYRIZA di non procedere ad alcuna collaborazione con ANEL. Rivolgiamo un ultimo appello alla dirigenza di SYRIZA, ma anche a quella del KKE, di prendere coscienza della gravità delle proprie responsabilità storiche e stabilire un solido governo di coalizione socialista. L’unica scelta politica possibile che abbiamo è la coalizione socialista tra SYRIZA e KKE» (Dichiarazione della Tendenza comunista di Syriza). Siamo già alla scissione? Vedremo. Dal canto suo, pare che il KKE stia ammorbidendo le sue posizioni “antiborghesi”. Come scrive la Castellina, subito dopo la cla­mo­rosa vit­to­ria di Syriza, «il KKE ha aperto uno spi­ra­glio ad un voto posi­tivo su sin­goli provvedimenti che “il popolo” (cioè il KKE) giu­di­cherà buoni. Troppo poco per for­mare il governo, che aveva biso­gno, subito, di almeno altri due depu­tati, non male in prospettiva». Una prospettiva che non mi affascina neanche un poco.

Insomma, tra simpatizzanti di Alexis Tsipras, “comunisti” di varia tendenza (tutti, beninteso, provenienti dalla tradizione stalinista: la storia, purtroppo, non è acqua fresca che scorre senza conseguenze), nazionalsovranisti senza se e senza ma, pare di assistere a una ridicola macchietta vista nel Belpaese decine di volte. Alla fine, proprio il leader di Syriza, con il suo onesto servizio patriottico (da notare anche il nuovo dinamismo greco sul terreno della politica estera: vedi, ad esempio, i rapporti di Atene con Russia e Turchia), appare quello più serio. «Tsipras è un conservatore un po’ incendiario, facciamogli posto», scriveva Giuliano Ferrara qualche giorno fa. Una provocazione? Non necessariamente, e d’altra parte non sono pochi in Europa quelli che vedono in Tsipras e in Mario Draghi* la “strana coppia” che potrebbe davvero «cambiare verso all’Europa, perché l’austerità sta strangolando tutti. Con Matteo Renzi la pensiamo alla stessa maniera sulla necessità dello sviluppo e sull’uscita da questo rigore alla tedesca che sta danneggiando tutti i cittadini europei» (A. Tsipras, intervista rilasciata al Messaggero). E chi, in Italia, non è contro il «rigore alla tedesca»? «Dalla Puglia di Vendola alla Arcore del Cavaliere, si leva dunque un unico grido: “Forza Tsipras”» (A. Cangini, Quotidiano Nazionale). Dalla Sicilia di chi scrive si leva invece un sonoro… Lasciamo perdere, che è meglio.

Ultima ora Ansa: «”Non andremo ad una rottura distruttiva per entrambi sul debito: il governo di Atene è pronto a negoziare con partner e finanziatori per una soluzione giusta e duratura per il taglio del debito greco”. Lo ha detto Alexis Tsipras aprendo il suo primo consiglio dei ministri». Forse Ferrara non ha sbagliato di molto. Forse.

 

* Per una crescita vigorosa dell’economia greca «puntiamo sul quantitative easing, e la Bce non si azzardi ad escluderci», aveva dichiarato il 5 gennaio a Repubblica il «comunista ma non rivoluzionario» (che faccio, rido?) Yanis Varoufakis, oggi ministro delle Finanze. Molti rinfacciano a Varoufakis le considerazioni apparse sul suo blog il 3 giugno del 2012: «Raccomando di non leggere il programma di Syriza» perché non vale la carta su cui è scritto. Esso è pieno di buone intenzioni e di promesse che non possono e non saranno soddisfatte». Vedremo se il «comunista non rivoluzionario» sarà coerente con questa impostazione “realista”.

Anche Thomas Piketty, l’eroe degli egualitari del XXI secolo, legge «questa rivoluzione democratica venuta dal Sud» come un serio tentativo, il secondo dopo quello dell’Evento QE di Francoforte, di «cambiare verso» all’Unione Europea.

imagesAggiunta del 5 febbraio 2015

Scrive Joseph Halevi, professore di economia all’Università di Sydney e simpatizzante, con qualche riserva, di Syriza: «Il KKE, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo,  che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale». Come si vede, Halevi non mette in discussione la tesi di fondo del KKE circa la natura sociale dell’Unione Sovietica e le cause che ne hanno provocato l’ingloriosa fine. Del partito stalinista greco l’economista “marxista” critica solo l’approccio «schematico» e il «settarismo totale». Un po’ pochino, mi sembra.

In difesa dell’amico Yanis Varoufakis, criticato “da sinistra” per il suo eclettismo dottrinario che pescherebbe da Marx e da Keynes, sempre Halevi sostiene: «La Grecia è un paese come l’Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta. Marxista è un sistema di idee che c’hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra» (Intervista a Contropiano.org, 30 gennaio 2015). E puoi, sopra ogni altra cosa e come dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la storia del “movimento comunista internazionale”, dire, scrivere e praticare concetti che con il vecchio comunista di Treviri non hanno nulla a che fare, di più: che ne sono la più completa negazione. Più si conoscono i “marxisti” e meglio si comprende la nota puntualizzazione marxiana: «Non sono marxista». Figuriamoci chi scrive!

«Yanis è, a mio avviso, strategicamente più leninista che marxista»: e allora dichiaro la mia estraneità anche nei confronti del “leninismo” e di ogni altro ideologico “ismo” usato a capocchia nei salotti buoni del sinistrismo internazionale.

USCIRE DALL’EURO O DAL CAPITALE? LA “PROVOCAZIONE” È POSTA

Ieri, nel corso del suo intervento al convegno sulle piccole e medie imprese organizzato dai Radicali Italiani a Padova, Emma Bonino ha dichiarato quanto segue: «Quando parliamo di equità non dobbiamo dimenticare che a novembre del 2011 eravamo sull’orlo del baratro. La prima misura di equità è stata salvare il Paese dal fallimento, perché il suo fallimento avrebbe implicato una maggiore sofferenza per tutti, a cominciare dai più deboli». Concordo in pieno con questa affermazione, o, meglio, ne condivido il concetto generale.

Infatti, nell’ambito della vigente società la salute di un Paese, ossia dello status quo capitalistico, molto spesso fa la differenza fra la sopravvivenza “dignitosa” e la miseria più nera di gran parte dei suoi cittadini. Solo in un caso il fallimento di un Sistema- Paese ha il benigno significato della promozione di nuovi e più avanzati rapporti sociali: in caso di rivoluzione sociale. In questo caso non solo i «più deboli» non ne sarebbero danneggiati, ma anzi se ne avvantaggerebbero grandemente, essendo peraltro essi stessi i protagonisti assoluti di quel catastrofico evento.

La rivoluzione sociale, quando non è una frase vuota buona da spendere nei salotti benecomunisti, non può darsi che come fallimento di un Paese, come catastrofe, anzi: come feconda catastrofe, nella misura in cui essa “getta” le fondamenta di un edificio sociale superiore. (E mi scuso per la vetusta metafora “strutturalista”, che forse mi deriva da mio padre: un muratore!). Per questo Carlo Cafiero ha potuto scrivere che «L’operaio ha fatto tutto; e l’operaio può distruggere tutto, perché può tutto rifare».

Alla vigilia del “fatale” voto in Grecia i teorici della bancarotta «qui e subito», nel seno degli odierni rapporti sociali, e quelli che pongono il falso dilemma: uscire o non uscire dall’euro? uscire o non uscire dall’Unione Europea? farebbero bene a riflettere sul reale significato politico delle loro posizioni “rivoluzionarie”. Soprattutto dovrebbero chiedersi se la vera, ancorché oggi puramente teoretica, domanda da porsi non sia piuttosto la seguente: uscire o non uscire dal Capitalismo?

Chi pensa che l’uscita del Paese (Grecia? Spagna? Portogallo? Italia?) dall’Unione Europea e/o dall’euro sia “oggettivamente” un passo nella giusta – anticapitalistica? – direzione inganna se stesso e chi è disposto a concedergli fiducia. Il sovranismo politico ed economico, come quello espresso in Grecia soprattutto dai partiti della “sinistra radicale” (da Syriza al KKE) è il veleno che una parte della classe dominante europea sta cercando di inoculare nelle vene delle classi subalterne, sempre sensibili ai richiami del nazionalismo, soprattutto in tempi di crisi economica. Come ho scritto altrove, il sovranismo è un’opzione tutta interna alla contesa intercapitalistica, tanto sul fronte interno, quanto su quello esterno. Il fatto che, come informava ieri, gongolando, Il Manifesto, la campagna elettorale di Syriza si è chiusa al canto di Bella ciao la dice lunga sul socialnazionalismo di questa formazione politica. Evidentemente c’è un «invasor» da cacciare fuori dalle amate sponde nazionali.

Il Capitale, in tutta la sua maligna dimensione sociale e in tutta la sua portata internazionale, e non la falsa alternativa fra economia nazionale e integrazione economica sovranazionale, è il vero problema, ed è precisamente a partire da questa radicale consapevolezza che bisogna organizzare le lotte contro la politica dei sacrifici, tanto nella sua configurazione rigorista (o “tedesca”) quanto nella sua variante progressista e sovranista. Senza alcun riguardo per la salute del Paese. Fuori da questa prospettiva valgono solo le ragioni del Capitale, nazionale e internazionale, così ben rappresentate da Emma Bonino, non a caso la più onesta, intelligente e meritocratica dei leaders italioti.

Dimenticavo: la “teoretica” non è separata da un abisso dalla prassi; ovvero: essa getta ponti sull’abisso.

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.