È dal 2003, dai tempi della Seconda guerra in Iraq, che intellettuali francesi “non allineati” (al pensiero mainstream progressista) come Alain Finkielkraut e André Glucksmann martellano le posizioni “pacifiste” europee, rubricate come Spirito di Monaco e vetero pacifismo ideologico. Ad esempio, dalle colonne dell’International Herald Tribune del 12 marzo 2003 Glucksmann rimproverò i governi di Parigi e Berlino di riprodurre «gli argomenti dei “Movimenti per la Pace” staliniani» della guerra fredda. Un’accusa che, al netto della posizione guerrafondaia sostenuta dall’intellettuale francese in difesa dei Sacri Valori Occidentali, ebbe allora il merito di mettere in luce tutta l’ambiguità della “politica estera” europea in generale, e di quella franco-tedesca in particolare. Sempre concesso che si possa parlare con qualche fondamento di una “politica estera” europea. Come il lettore ricorderà, allora si parlò di una Nuova Europa (i «volenterosi» amici di Bush: Inghilterra, Italia e Spagna) e di Vecchia Europa (gli avversari dell’intervento militare in Iraq, con alla testa la Francia di Jacques Chirac).
Gli ultimi avvenimenti in Ucraina e in Libia hanno riaperto anche in Italia il dibattito “teorico” intorno all’atteggiamento europeo in materia di conflitti armati: ha ancora senso parlare di ripudio della guerra quando nel cuore stesso dell’Europa e a due passi dalla Sicilia divampano conflitti che rischiano di incenerirci mentre proferiamo le rituali e sempre più stucchevoli frasi pacifiste? Scriveva ieri Stefano Folli (La Repubblica): «La Libia ha creato quasi all’improvviso un fatto nuovo che rende obsoleti certi comportamenti e richiama tutti alla serietà. […] La campana della Libia suona per tutti, salvo che per le forze che si pongono fuori del sistema». Sarà forse per questo che chi scrive non l’ha sentita, almeno nei termini in cui li ha posti il bravo editorialista: «La minaccia è reale e incombente, tocca da vicino gli interessi italiani e si somma all’emergenza dei profughi». Non c’è dubbio: la campana libica suona per gli interessi strategici del Paese, che rischia di farsi scavalcare non solo dalla più aggressiva, esperta e militarmente attrezzata Francia, come ai tempi della “guerra umanitaria” contro Gheddafi, ma anche dall’Egitto, la cui ombra già si estende sulla Cirenaica. La campana della guerra sistemica (non solo militare) suona per gli interessi strategici del Paese, appunto, non certo per gli interessi delle classi subalterne, e certamente non per chi scrive, almeno nel significato qui messo in luce.
Ernesto Galli della Loggia prende molto sul serio, per criticarla da par suo (ossia con intelligenza e fine sarcasmo), l’ideologia pacifista che condannerebbe l’Europa all’impotenza e che la esporrebbero a pericoli esistenziali di cui ancora non ci rendiamo conto: «Gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla».
Della Loggia ridicolizza soprattutto il vezzo politically correct tutto europeo di ricondurre la Guerra in generale, il fatto bellico come concetto, a «inutile strage» secondo la celebre definizione papale applicata alla Grande Guerra: «Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. In base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti “inutili”? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?» (Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2015). Il titolo dell’interessante articolo dell’editorialista è molto significativo: Cattiva coscienza europea.
In che senso della Loggia parla di cattiva coscienza europea? È preso, e solo in parte correttamente, detto: «La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei “guerrafondai” schiavi della “cultura delle armi” e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici. E invece è vero proprio il contrario». Sono i temi che il “falco” Robert Kagan propose nel suo Paradiso e potere (Mondadori, 2003) a proposito dell’ambiguo rapporto tra le due sponde dell’Atlantico: «L’Europa sta voltando le spalle al potere. […] Sta entrando in un paradiso poststorico di pace e relativo benessere: la realizzazione della “pace perpetua” di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale la vera sicurezza, la difesa e l’affermazione dell’ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza». Colombe contro falchi, Kant versus Hobbes, Venere contro Marte.
Naturalmente niente di tutto questo, a uno sguardo meno superficiale – diciamo pure meno ideologico – della questione. D’altra parte, declinare la potenza e la forza di un Paese a partire dalla sua dimensione politico-militare è sbagliato, soprattutto nel contesto della società-mondo del XXI secolo, nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto e di tutti al Moloch capitalistico. Viceversa, sarebbe praticamente impossibile spiegare la forza di attrazione e la potenza sistemica della Germania del secondo dopoguerra. Lo stesso confronto USA-URSS, vinto in modo fin troppo netto dagli americani, fu innanzi tutto un confronto economico, tecnologico e scientifico, nonostante l’opinione pubblica fosse attratta dagli aspetti ideologici (il cosiddetto conflitto fra democrazia e “totalitarismo comunista”: sic!) e militari (sfilate di carri armati e di missili, guerre per procura, e così via) della contesa. Anche la debolezza strutturale (industriale, in primis) dell’imperialismo russo di oggi, non a caso definito dagli analisti di geopolitica secondo la figura retorica (ma non per questo meno veritiera) del gigante dai piedi d’argilla, credo avvalori la tesi qui sostenuta.
Ma ritorniamo a Galli della Loggia. Egli spiega senz’altro la prassi degli individui e delle nazioni sulla base della loro ideologia; io, viceversa, mi sforzo di individuare i presupposti storico-sociali, attuali e lontani, delle ideologie, che cerco di spiegare sulla scorta di precisi interessi. Per dirla con il solito Marx, io cerco di fare di un problema ideologico una questione essenzialmente “pratica”, mentre della Loggia rimane sul terreno ideologico e da lì scaglia le sue frecce critiche. Per quanto mi riguarda, l’ideologia pseudo pacifista degli europei per un verso è servita a mascherare un fatto epocale indiscutibile: lo strapotere degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale, che ha annichilito ogni velleità di Grande Potenza da parte dei maggiori Paesi europei, Inghilterra e Francia comprese, che a ben guardare alla fine risulteranno essere le vere sconfitte di quel conflitto (alludo ovviamente al loro “glorioso” passato coloniale); e per altro verso quell’ideologia è stata sempre usata in chiave polemica dal Vecchio Continente nei confronti degli USA, a volte per smarcarsi da iniziative politico-militari decise da Washington che non rientravano nei suoi interessi strategici, e sempre per contribuire il meno possibile in termini finanziari e politici al mantenimento dell’Alleanza atlantica. Fare del male (l’egemonia statunitense) un bene, avvantaggiarsi quanto più possibile dell’ombrello americano offrendo all’alleato d’Oltre Oceano il meno possibile in tutti i sensi: l’ideologia cosiddetta pacifista degli europei è stata messa al servizio di questa scaltra strategia, che infatti da sempre è stata oggetto delle critiche americane. «È facile affettare pose pacifiste delegando ad altri il lavoro sporco!».
L’opportunismo delle “colombe” europee nei confronti dei “falchi” americani non va dunque letto come un difetto ideologico da parte delle prime, bensì come una politica che risponde a precisi, e il più delle volte inconfessati, interessi.
«Oscuramente», continua Galli della Loggia, «gli europei avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza». Come ho cercato di argomentare, non si tratta di un rifiuto ideologico della guerra, né di astratte paure legate al retaggio storico, ma piuttosto di interessi sistemici che rendono problematica la decisione degli “europei” di accedere al fatto bellico. Tutti hanno visto come la “pace” e l’ideologia pacifista hanno reso più potente che mai la Germania, cosa che «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (C. Jean, Manuale di geopolitica). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile a breve/medio termine, e certamente non auspicabile.
Ascoltiamo l’ultima lamentela antipacifista di Galli della Loggia: «L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello “Stato islamico”, cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo “per mantenere la pace”». Sull’ipocrisia “pacifista” made in Italy non ho nulla da aggiungere.
Ho invece qualcosa da dire a proposito di quanto ha scritto Tommaso Di Francesco sul Manifesto del 14 febbraio in risposta al virile «siamo pronti a combattere» esternato dal Ministro degli Esteri italiano: «piuttosto che un impeto leopardiano, assomiglia al solito disprezzo dell’articolo 11 della nostra Costituzione e anche dell’Onu, la cui egida viene strumentalmente evocata ma considerata più che perdente». Non c’è guerra, o preparazione di un qualsiasi intervento militare da parte del Bel Paese che non evochi, nella testa dei pacifisti, l’Art 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra… Ora, sul piano storico quell’articolo non attesta la natura pacifista della «Repubblica nata dalla resistenza»: ne attesta piuttosto la natura di Paese sconfitto nella Seconda Carneficina Mondiale. Dopo l’occupazione militare angloamericana e la resa incondizionata ottenuta a suon di bombardamenti aerei sulle città italiane, le potenze Alleate ottengono dall’Italia la ratifica di Paese vinto che non cercherà mai più la strada della guerra per accrescere in potenza. Di più: il suo potenziale bellico viene messo a disposizione di istituzioni sovranazionali (NATO e ONU) per consentire «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; e difatti l’Italia «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Su questa base giuridica all’Italia è consentita la guerra in guisa di piccola o media potenza assoggetta ai vincoli imperialistici che le derivano appunto dall’esito della seconda guerra mondiale. Analogo discorso deve naturalmente farsi per la Germania e il Giappone*.
Insomma, sulla base del citatissimo nonché mitico Articolo 11 della Costituzione l’Italia può benissimo impegnarsi in una guerra internazionale, naturalmente secondo le modalità prescritte da chi di fatto ha scritto quell’Articolo: gli Stati Uniti. È d’altra parte un fatto che all’ombra dell’articolo 11 l’Italietta è riuscita nel corso della Guerra Fredda a ritagliarsi un ruolo di piccola/media potenza nella sua tradizionale riserva di caccia: Balcani, Vicino Oriente, Nord’Africa. Nell’ultimo quarto di secolo questo ruolo si è alquanto indebolito, per una serie di motivi che adesso tralascio di citare e analizzare. E qui ritorniamo all’inquietante attualità.
* «Nella sede del partito di Abe, c’è un ufficio apposito, con tanto di targhetta, per la revisione della Costituzione ultrapacifista imposta dagli Usa vittoriosi. Non ci sarebbe niente di male a cambiare dopo oltre 60 anni una Carta fondamentale dettata dallo straniero: qualsiasi altro Paese l’avrebbe già fatto. Il problema è che le bozze di revisione fatte circolare hanno fatto accapponare la pelle a molti costituzionalisti» (Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore, 2012).