DOPO SOPHIA, COSA?

Presentando alla stampa l’accordo raggiunto ieri dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea, accordo politico sul lancio di una nuova operazione intesa a far rispettare l’embargo delle Nazioni Unite sulla fornitura di armi alla Libia, che chiude definitivamente la precedente missione Sophia, il responsabile Esteri dell’UE, lo spagnolo Joseph Borrell, ha dichiarato che «la nuova missione europea dovrà contare sulle navi, su potenti aerei da ricognizione e su satelliti spia. Non andremo a fare una crociera». Per non concedere nulla all’immaginazione, e per rendere più persuasiva ed esplicita la minaccia lanciata a entità geopolitiche non meglio precisate (Turchia? Russia? Egitto? Arabia Saudita? Emirati Arabi Uniti?), Borrel ha voluto ricordato quanto il Generale Claudio Graziano, suo consigliere militare e Presidente del Comitato Militare dell’UE, ebbe a dire qualche tempo fa: «Se è vero che non esiste una soluzione militare alle crisi, è anche vero che non c’è una soluzione alle crisi senza i militari». Lo strumento militare come continuazione dello strumento politico-diplomatico con altri mezzi: sai che novità! «È derivato da Clausewitz il concetto che la guerra sia un normale strumento della politica estera degli Stati. […] La guerra è un fenomeno sociale e rappresenta una continuazione e uno strumento della politica» (Generale Carlo Jean). «La più grande struttura dell’ingiustizia è la stessa industria della guerra», ha detto Papa Francesco. Sbagliato! La più grande struttura dell’ingiustizia è la stessa società capitalistica, la quale rende possibile guerre d’ogni genere (economiche, tecno-scientifiche, armate, ecc.) e fa della vendita (“legale” e “illegale”) delle armi un affarone per chi le fabbrica e le traffica. La “legge del profitto” è cieca: per essa la differenza tra produrre e vendere burro e produrre e vendere cannoni si sostanzia nel verificare quale delle due merci dà un maggior profitto. Detto en passant, «il bilancio dell’export italiano è di circa 5 miliardi di euro l’anno, con circa la metà destinata ai Paesi del Nordafrica come la Libia e il Medio Oriente» (Il Manifesto).

L’Unione Europea e soprattutto l’Italia temono che la presenza militare di Russia e Turchia* in Libia (sono 3.500 i miliziani siriani portati lì dalla Turchia) possa decretare il definitivo passaggio di quest’ultima nella sfera di influenza di Mosca e Ankara, magari dopo una scomposizione regionale del paese africano (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan) secondo le ben note fratture etniche che l’Italia (liberale e fascista) aveva saldato con repressioni, deportazioni e sterminio di massa. Considerato che assicurare il rispetto dell’embargo di armi in Libia si presenta come un’operazione oltremodo problematica, per fare dell’ironia, è evidente che l’attivismo europeo nella crisi libica ha più un significato geopolitico e politico – in chiave di “politica interna” europea. Vedremo se l’accordo tra i diversi Paesi dell’Unione Europea reggerà, anche perché, tanto per dire, gli interessi della Francia non coincidono esattamente con quelli dell’Italia.

La nuova operazione militare sarà concentrata a Est, non su tutta la costa libica come la precedente operazione Sophia, e questo la dice lunga sulla sua ispirazione geopolitica (antiturca). «In particolare Austria, Italia e Ungheria volevano garanzie che la nuova operazione non finisse di fatto per favorire i flussi di migranti nel Mediterraneo centrale, generando il cosiddetto “pull factor”. Borrell ha comunque ricordato che per “la legge del mare, se le navi incontrano persone a rischio di annegare, naturalmente le devono salvare” perché altrimenti “sarebbe contro tutte le leggi internazionali”» (Il Corriere della Sera). Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha invece insistito, anche per non dare preziosi argomenti propagandistici al suo ex compagno di merende Matteo Salvini, sul fatto che  «se ci sarà un pull factor, si ritireranno le navi dalle zone interessate». Tradotto: se la presenza delle navi che dovranno garantire il rispetto dell’embargo stimolerà le partenze dei dannati della terra, noi lo bloccheremo senz’altro. Si va lì non per salvare vite, ma per salvaguardare interessi: il messaggio deve essere e apparire chiaro, a tutti.

Scriveva Enrico Oliari una settimana fa: «In tale marasma si è consumato il viaggio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia, a Tripoli e a Bengasi. Si è trattato di una missione a sorpresa, forse nel disperato tentativo di non far perdere all’Italia la propria zona di influenza. Ora sarà da vedere se ai buoni propositi seguirà concretezza, o se nonostante il fiume di denaro italiano versato in Libia dovremo assistere ancora alle carceri-lager per migranti, dove le donne venivano violentate, le famiglie depredate di tutto, gli uomini torturati, seviziati e persino uccisi» (Notizie Geopolitiche). Venivano? Ma in Libia la violenza contro le donne e gli uomini finiti nelle mani dei “trafficanti di carne umana” non è mai cessata!

* Scrivevo qualche mese fa: «Negli ultimi tre anni l’attivismo della Turchia nel suo ampio cortile di casa ha subito una notevole accelerazione, e a farne le spese potrebbero essere anche gli interessi “energetici” italiani: ”Al centro delle tensioni tra la Turchia e l’Italia, come anche con altri paesi dell’Unione Europea tra cui Francia, Grecia e Germania, vi è lo sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque territoriali di Cipro: Ankara considera da sempre la parte meridionale dell’isola come secessionista, ma l’Eni italiana ha ottenuto da Nicosia concessioni per lo sfruttamento dei fondali. Già nel febbraio dello scorso anno la Turchia aveva bloccato nelle acque di Cipro la nave esplorativa italiana Saipem 12000, che non potendo lì operare era stata poi trasferita in Marocco. Da lì a poco erano giunte nell’area navi esplorative turche. In seguito le autorità di Ankara avevano disposto imponenti esercitazioni navali in prossimità delle acque di Cipro, e ‘Scopo dell’esercitazione – aveva spiegato il ministro della Difesa Hulusi Akar – è quello di mostrare la determinazione e la preparazione al fine di garantire la sicurezza, la sovranità e i diritti marittimi della Turchia’. […] Per dare seguito ai propri diritti di sfruttamento Roma ha inviato in questi giorni nell’area la fregata Federico Martinengo, classe Fremm, insieme ad altre nove unità navali al fine di dimostrare di essere in grado di tutelare i propri interessi, un esempio che a breve potrebbe essere seguito dai francesi e non solo» (G. Eddaly, Notizie Geopolitiche). La crisi cipriota rischia di saldarsi a quella libica con effetti imprevedibili e certamente non orientati alla “pace e prosperità”» (Grossi guai nel nostro cortile di casa).

GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA

Scrive Lucio Caracciolo: «L’eventuale presa di Tripoli da parte del generale Haftar non avrebbe conseguenze definitive, ma comunque i segnali in arrivo dall’ex colonia italiana sono allarmanti. Il rischio di uno scontro indiretto tra Russia e Turchia nel nostro cortile di casa». In effetti gli interessi in gioco per l’Italia nella partita libica sono a dir poco cospicui, e di molteplice natura: economici (leggi: petrolio, gas, infrastrutture), geopolitici, strategici – inclusa la sicurezza del Paese e la sua politica dei flussi migratori. Ma ciò che volevo far notare qui è la schiettezza che esibiscono i migliori servitori degli interessi (imperialistici) del nostro Paese: la partita libica si gioca interamente «nel nostro cortile di casa», ossia in una riserva di caccia che la geopolitica (incrocio tra storia, rapporti di forza tra le Potenze e la dislocazione geografica di un Paese) ha da molto tempo assegnato all’Italia. Un’area che include, oltre la sponda africana, una parte non piccola dei Balcani.

Soprattutto gli “amici” francesi e britannici non perdono di cogliere una sola occasione che possa in qualche modo ostacolare l’iniziativa italiana «nel nostro cortile di casa», e in questo la concorrenza è avvantaggiata, e di molto, dalla sua non disprezzabile dotazione militare. Soprattutto la Gran Bretagna, fresca di Brexit, sta investendo molto nella costruzione di nuove portaerei. Abbiamo visto all’opera il “vantaggio competitivo” anglo-francese nei confronti dell’Italia nel 2011, quando Parigi e Londra decisero di far saltare in aria il vespaio libico per decenni tenuto sotto stretto e violento controllo da Gheddafi, fino ad allora assai coccolato e “assistito” finanziariamente da tutti i governi italiani che si sono succeduti dal 1969 in poi, anno di ascesa al potere dell’ex dittatore di Tripoli – il quale non a torto si vantava di aver contribuito alla salvezza dell’italianissima Fiat nella seconda metà degli anni Settanta. «E adesso anche l’amico Silvio mi lascia nelle mani del nemico che vuole sgozzarmi!». Com’è noto, l’amico Silvio (Berlusconi, si capisce) fu costretto ad accettare obtorto collo (insomma, a subire) l’intervento “umanitario” anglo-francese.

«L’Italia ha perso terreno in Libia, non possiamo negarlo. Ma ora deve riprendersi il ruolo naturale di principale interlocutore, da sempre amico del popolo libico». Questo ha dichiarato il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio di rientro da una missione-lampo a Tripoli, Bengasi e Tobruk – a dimostrazione che come sempre Roma pratica la tradizionale politica estera italiana che consiste nel giocare di sponda con tutti gli attori in campo, per saltare sul carro del vincitore al momento opportuno; una strategia molto disprezzata dagli “amici” europei e che non sempre sortisce gli effetti desiderati dai furbi di casa nostra: a furia di infornare il pane della diplomazia in tutti i forni aperti (o che sembrano tali), Roma rischia di ritrovarsi senza petrolio, senza gas e senza un effettivo controllo politico-militare su quanto avviene nel suo immediato cortile di casa: una vera e propria sciagura nazionale.

Negli ultimi tre anni l’attivismo della Turchia nel suo ampio cortile di casa ha subito una notevole accelerazione, e a farne le spese potrebbero essere anche gli interessi “energetici” italiani: «Al centro delle tensioni tra la Turchia e l’Italia, come anche con altri paesi dell’Unione Europea tra cui Francia, Grecia e Germania, vi è lo sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque territoriali di Cipro: Ankara considera da sempre la parte meridionale dell’isola come secessionista, ma l’Eni italiana ha ottenuto da Nicosia concessioni per lo sfruttamento dei fondali. Già nel febbraio dello scorso anno la Turchia aveva bloccato nelle acque di Cipro la nave esplorativa italiana Saipem 12000, che non potendo lì operare era stata poi trasferita in Marocco. Da lì a poco erano giunte nell’area navi esplorative turche. In seguito le autorità di Ankara avevano disposto imponenti esercitazioni navali in prossimità delle acque di Cipro, e “Scopo dell’esercitazione – aveva spiegato il ministro della Difesa Hulusi Akar – è quello di mostrare la determinazione e la preparazione al fine di garantire la sicurezza, la sovranità e i diritti marittimi della Turchia”. […] Per dare seguito ai propri diritti di sfruttamento Roma ha inviato in questi giorni nell’area la fregata Federico Martinengo, classe Fremm, insieme ad altre nove unità navali al fine di dimostrare di essere in grado di tutelare i propri interessi, un esempio che a breve potrebbe essere seguito dai francesi e non solo» (G. Eddaly, Notizie Geopolitiche). La crisi cipriota rischia di saldarsi a quella libica con effetti imprevedibili e certamente non orientati alla “pace e prosperità”.

Da Limes

«A parole, Russia e Turchia sembrano voler appoggiare la ripresa di un dialogo, ma nei fatti danno supporto sul terreno a Haftar e Sarraj, forse col progetto di “spartirsi” poi la Libia, come avvenuto per la Siria» (L’Avvenire). I Paesi dell’Unione Europea lamentano la latitanza di Washington nella crisi libica, mentre gli americani non intendono fare il lavoro sporco se non sono sicuri di poter portare a casa un successo. «Non vogliamo più sacrificare uomini e dollari per conto degli interessi europei, magari per sentirci poi dire dagli stessi alleati della Nato che siamo i soliti imperialisti a cui piace recitare il ruolo dei poliziotti del mondo»: è la “filosofia” che ispira la politica estera americana negli ultimi trent’anni, e che si è delineata con maggiore nettezza già con la Presidenza Obama.

E in questo contesto assai “problematico”, che rischia di innescare avventure belliche di grandi dimensioni, ben oltre lo schema delle “guerre per procura”, cosa fa l’ONU? «L’ONU, poveretta, quando il conflitto si allarga non conta più niente» (Romano Prodi). Lo avevo sospettato! Nel «covo di briganti» (Lenin) chiamato ONU non si muove foglia che l’Imperialismo non voglia. E quando parlo di Imperialismo, alludo ovviamente in primo luogo alle Potenze mondiali più grandi: Stati Uniti, Cina e Russia, con l’Unione Europea che con affanno e tra mille contraddizioni cerca di darsi una consistenza politico-militare in grado di reggere il confronto con quei tre Paesi. La Gran Bretagna è costretta, almeno in questa fase, a consolidare la sua storica “relazione speciale” con gli Stati Uniti.

Monitorare la partita libica mi pare oggi più che mai importante per chi ha in odio una Società-Mondo che produce sempre di nuovo sfruttamento, oppressione e guerre, e per quel poco che vale annuncio che in caso di “precipitazioni belliche” offrirò alla Patria il mio più totale disfattismo, la mia più totale avversione nei confronti dei suoi interessi più o meno vitali.

PER UNA STRETTA DI MANO…

In fondo il (cosiddetto?) Premier italiano ieri, nella conferenza stampa di fine Conferenza, è stato sincero, e ha peraltro usato un espediente retorico che davvero rappresenta un minimo sindacale di autodifesa politica e di diplomazia: «Se la misura del successo è di dire che oggi a Palermo abbiamo trovato la soluzione a tutti i problemi della Libia, la Conferenza è un insuccesso». Ma chi poteva pretendere dal meeting di Palermo «la soluzione a tutti i problemi della Libia»? Solo uno sciocco, è evidente. I risultati vanno insomma commisurati con le aspettative, le quali devono essere sempre realistiche, soprattutto quando si tratta di problemi connessi con la geopolitica, in generale, e con la Libia in particolare. Questo, credo, sia il succo concettuale della dichiarazione di Conte.

Quali obiettivi si proponeva dunque di centrare il Governo italiano organizzando l’ambiziosa Conferenza di Palermo sulla Libia? In primo luogo si trattava quantomeno di pareggiare i conti con la Francia, la quale negli ultimi anni ha fatto di tutto per creare problemi all’imperialismo concorrente in Libia (e non solo), cioè all’Italia, che da parte sua ha sempre rivendicato per sé un ruolo, economico e geopolitico, di primissimo piano in quel disgraziato Paese, peraltro in gran parte una creazione artificiale di Roma – attraverso l’accorpamento di tre “macro-regioni”: Cirenaica, Tripolitania, Fezzan.

La volontà dell’Italia di segnare il goal del pareggio con la Francia si è materializzata con l’ormai “mitica” foto che racconta la stretta di mano tra Khalifa Haftar, “l’uomo forte della Cirenaica”, e il suo concorrente Fayez al-Serraj, l’uomo debole di Tripoli, alla presenza del sempre sorridente (pare su suggerimento dell’inquietante Rocco Casalino) Giuseppe Conte. Il generale Haftar ha giocato una partita tutta sua, spregiudicata al limite della sfacciataggine e della provocazione (in continuità del resto con la trazione libica: vedi l’ex rais Gheddafi, “il pazzo di Tripoli”). Non partecipando alla Conferenza («Non parteciperemo alla conferenza neanche se durasse cento anni. Non ho nulla a che fare con tutto questo») ma incontrandosi con le rappresentanze politico-diplomatiche dei Paesi che lo sostengono (Russia ed Egitto, in primis), e accreditandosi come soggetto chiave e imprescindibile nell’intrigo libico, Haftar ha certamente vinto la sua “personale” partita, cosa che costituisce di fatto,  “oggettivamente”, una sconfitta per al-Serraj, il quale ha dovuto anche subire il chiaro avvertimento lanciatogli dal rivale cirenaico: «Non si cambia il cavallo mentre si attraversa il fiume», dichiarazione che equivale a una dichiarazione di guerra differita nel tempo – si parla dell’aprile del prossimo anno. Per adesso rimani in sella, domani si vedrà! Il tempo sembra infatti giocare a favore di Haftar, che controlla con pugno di ferro la Cirenaica grazie al sostegno di russi, egiziani e francesi.

L’indebolimento di al-Serraj si può leggere anche seguendo il comportamento della Turchia, la quale ha abbandonato la scena della foto-opportunity finale per segnalare il suo “rammarico” e la sua “delusione” per come sono andate le cose a Palermo. Com’è noto, la Turchia sostiene attivamente l’uomo debole di Tripoli, anche attraverso quella Fratellanza Musulmana che invece è fortemente invisa all’Egitto, che appoggia Haftar, il quale a sua volta considera appunto la Fratellanza come un covo di terroristi al pari di al-Qaida. Per Stefano Stefanini (La Stampa) «sono i fratelli musulmani  il nuovo ostacolo alla stabilità della Libia». La verità è che dal 2011 la crisi libica crea “ostacoli” in quantità industriali ovunque e comunque la si guardi.

«La crisi libica», ha dichiarato il vicepresidente turco Fuat Oktay abbandonando il meeting palermitano, «non si risolverà se pochi continuano a tenere in ostaggio il processo politico per i loro interessi. Coloro che hanno creato le attuali condizioni in Libia non possono essere quelli che salvano il Paese». Verissimo. Solo che tra quei «pochi» bisogna menzionare la stessa Turchia, i suoi interessi geopolitici che si scontrano con quelli dell’Egitto e della Russia. Già da anni gli analisti geopolitici parlano di una riedizione dello storico scontro tra Impero Russo e Impero Ottomano. I tempi cambiano, le aspirazioni imperiali (oggi imperialistiche) dei Paesi rimangono e si rafforzano. D’altra parte è regola universalmente valida quella che vede il rappresentante degli interessi di un dato Paese vedere e denunciare solo gli interessi dei Paesi concorrenti, per cui il “vittimismo” del rappresentante turco non deve stupire.

La Russia conferma il suo ruolo di protagonista fondamentale nel grande gioco che coinvolge l’area del Medio Oriente e del Nord’Africa, e gli ammiccamenti di Roma rivolti alla numerosissima delegazione russa convenuta nel capoluogo siciliano vanno letti anche come segnali rivolti alla Francia e alla Germania, segnali intesi a comunicare a quei Paesi che l’Italia oggi può contare sul sostegno di Mosca, e non solo sulla Libia. Per Piero Ignazi (La Repubblica) «L’Italia all’estero gioca da sola», e sconta il suo ricercato isolamento da Bruxelles; l’esigenza di trovare delle sponde credibili nello scacchiere internazionale è dunque molto forte, e ciò espone il Paese al rischio di stringere alleanze molto pericolose.  La verità è che come sempre Roma cerca di giocare su diversi tavoli, e ciò è tanto più vero oggi, nel momento in cui lo scenario internazionale appare quanto mai fluido, confuso, di difficile interpretazione, se non per il breve (o brevissimo!) periodo. I tempi della geopolitica si sono fatti «interessanti», per dirla con il Presidente degli Stati Uniti, il quale ultimamente se l’è presa con Macron: «Il presidente francese Macron ha appena suggerito che l’Europa costruisca un suo esercito per proteggersi dagli Stati Uniti, dalla Cina e dalla Russia. Si tratta di un insulto. Forse l’Europa dovrebbe prima pagare la sua giusta quota alla Nato, che gli Stati Uniti sovvenzionano in gran parte!». Non c’è dubbio, si tratta davvero di tempi molto “interessanti”…

In conclusione, per gli interessi italiani la Conferenza di Palermo sulla Libia ha avuto successo o no? il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? La parola al Premier italiano: «A me spetta fare il Primo Ministro, non il notista politico. Lascio a voi valutare liberamente se la Conferenza è stato un successo o meno. È un incontro che ha fatto emergere un’analisi largamente condivisa da parte dei libici delle sfide da affrontare, le abbiamo messe a fuoco insieme, ne è nata un’analisi condivisa sui problemi e un’ampia condivisione da parte della comunità internazionale». Tradotto: l’esito della Conferenza va scoperto solo vivendo.

Aggiunta del 15 novembre 2018

Prime verifiche

Nuovi disordini a Tripoli. La Settima brigata occupa lo scalo internazionale. Per Francesco Semprini (La Stampa) «dietro l’azione alle porte della capitale, c’è la delusione per i risultati della Conferenza di Palermo». «Chiusi i lavori della conferenza di Palermo, la Libia torna protagonista in casa propria con una serie di azioni e reazioni corollario dei deboli teoremi formulati al vertice siciliano. È la Settima brigata a farsi sentire di nuovo dopo mesi di quiete seguita agli scontri che hanno travolto la capitale tra la fine di agosto e i primi di settembre. Si tratta dei cosiddetti “insorti” di Tarhuna», un gruppo sponsorizzato dalla Turchia. «Secondo alcune fonti i miliziani sarebbero appoggiati dalla brigata di Salah Badi, un deputato di Misurata diventato capo milizia, considerato da mesi un “cane sciolto” ma molto vicino agli islamisti armati e soprattutto vicinissimo alla Turchia. […] Una interpretazione che gira fra alcuni analisti libici è che però l’attacco della Settima Brigata (composta per buona parte anche da ex gheddafiani) possa essere stata una reazione al fatto che alla riunione di ieri mattina fra Haftar e Serraj erano presenti Egitto e Russia, ma non il Qatar. Secondo un analista “questa è la vera protesta della Turchia: hanno visto che Haftar stava guadagnando terreno politicamente, sostenuto dai loro avversari egiziani e con la copertura della Russia e dell’Italia. I turchi possono tranquillamente aver favorito chi ha voluto lanciare un segnale militare sul terreno”» (Rivista Africa).

Leggi anche:
SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!
DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO
LIBIA E CONTINUITÀ STORICA
A TRIPOLI, A TRIPOLI!
L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”

È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!

Ennesima intervista rilasciata alla stampa dall’uomo che sussurra alla ruspa, insomma da Matteo Salvini. A mio parere degna di una qualche riflessione politica è solo la risposta che il Ministro degli Interni dà in merito alla politica estera italiana in Africa. «Che fine ha fatto la missione italiana in Niger che i francesi hanno bloccato?», chiede Alessandro Farruggia (Quotidiano.net) al Ministro. Risposta: «Bella domanda. I francesi sono un problema, perché la loro è una strategia economica, non umanitaria». Com’è noto, la politica del leader leghista è invece incentrata su rigorosi presupposti etici: prima l’uomo in quanto uomo, poi ogni altro interesse. Si tratta del ben noto sovranismo umanitario estraneo alla volgare cultura materialista dei francesi, i quali pensano solo al vile denaro, all’argent. Ma riprendiamo la risposta: «Noi stiamo lavorando anche con diversi privati ad un piano di investimenti nel Sahel, nei paesi di partenza e di transito. Lo facciamo come Italia, perché come Europa mi fido fino a un certo punto». Bene! bravo! bis! Fidarsi di Bruxelles è bene, non fidarsi è meglio: l’asse franco-tedesco è sempre in agguato. Ecco la perla finale: «I francesi hanno un approccio imperialista e colonialista che non è apprezzato in Africa e quindi qualche paese è disponibile a ragionare di fronte a investimenti veri. Mi piacerebbe che il ministro Salvini, brutto, sporco, cattivo, razzista, fascista, fosse quello che investe seriamente in Africa. Per permettere a quei ragazzi di restare lì a lavorare». Com’è umano lei! E com’è ingiusto che qualcuno lo accusi di razzismo e di fascismo!

Si può però anche dire, volendo essere supercritici, che è facile accusare l’imperialismo e il colonialismo degli altri, tacendo bellamente sull’imperialismo di casa propria. Ma da uno come Salvini non ci si può aspettare altro che questo, ovviamente. Né d’altra parte bisogna pensare che le dichiarazioni del Ministro “populista”  rappresentino una innovazione in materia di politica estera, tutt’altro. È dalla fine della Seconda guerra mondiale che la penetrazione degli interessi economici e geopolitici dell’Italia nel suo tradizionale cortile di casa (Africa del Nord, Balcani) è affidata soprattutto al cosiddetto soft power, fatto non solo di investimenti (soprattutto nell’estrazione di gas e petrolio e nella costruzione di infrastrutture come ponti, porti e dighe) ma anche di “missioni umanitarie” affidate alle ONG. Ed è precisamente questa politica di penetrazione dal basso profilo politico-militare ma di grande efficacia che alla fine ha cozzato con gli interessi dei francesi in un’area che evidentemente essi considerano di loro esclusiva pertinenza. È comunque un fatto che gli interessi strategici italiani in Libia sono minacciati da più parti, come ha chiaramente dimostrato l’intervento “umanitario” internazionale del 2011 ai danni del regime di Gheddafi voluto soprattutto dalla Francia (con il pronto e “fattivo” sostegno della Gran Bretagna e dell’Arabia Saudita) per indebolire appunto la posizione dell’Italia in quel Paese e non solo.

Scrive Francesca Pierantozzi sulla vera natura del contenzioso franco-italiano in Africa: «Negli ultimi tempi tra Roma e Parigi volano parole grosse: irresponsabile e cinica l’Italia che chiude i porti per Macron, arrogante e ipocrita la Francia secondo Salvini. Ma dietro alle scaramucce diplomatiche, quanto pesano gli interessi economici? Quanto pesa il petrolio della Libia, l’Uranio del Niger, il gas del Fezzan, e poi l’oro, il cobalto, il manganese, il litio e le preziose terre rare del Sahel? Sono questi i famosi paesi “di origine e transito” dei flussi migratori che stanno spaccando l’Europa. In Libia, oltre alle idee di Macron e Salvini, si fronteggiano anche Eni e Total. La lotta è ancora impari e a netto vantaggio italiano. Nel 2018 Eni stima una produzione giornaliera di circa 320 mila barili/olio/equivalente (Boe). Nel 2017 la produzione della francese Total è stata di 31.500 barili al giorno. Anche se a marzo Total ha comprato la Marathon Oil Libya, che a sua volta detiene il 16,33 per cento delle concessioni di Waha per 450 milioni di dollari, la produzione dei francesi non supererà i 100 mila barili. La diplomazia di Macron, che per primo ha riconosciuto come interlocutore oltre al premier di Tripoli Serraj – il generale Haftar, signore della Cirenaica e ormai considerato anche signore del petrolio, arriva comunque in ritardo rispetto alle intenzioni di Eni. Il gruppo italiano sta infatti già guardando altrove. A marzo l’amministratore delegato Descalzi ha annunciato che Eni ridurrà la produzione di petrolio in Libia fino a 200mila barili al giorno entro il 2021. In compenso, gli italiani guardano con interesse all’ex francese Algeria, possibile futuro terreno di scontro economico: Descalzi ha firmato di recente una serie di accordi con la Sonatrach, la società di Stato algerina, di cui uno in particolare per l’ esplorazione nel bacino del Berkine. Tra Francia e Italia in Libia non c’è comunque solo il petrolio. Grossi interessi hanno anche Endesa (Enel) e Gdf-Suez, per non citare che i colossi. Senza contare, per l’Italia, il progetto di autostrada che Berlusconi promise a Gheddafi come “risarcimento” della politica coloniale, una litoranea per quasi un miliardo di euro attribuito a Salini Impregilo e di recente confermato, e il gasdotto libico-italiano Green Stream. Stesso tavolo di interessi comuni anche nel Sahel, dove la Francia è presente militarmente dal 2013, prima in Mali con l’operazione Serval, e poi anche in Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad con l’operazione Serval. Sono questi alcuni dei paesi in cui dovrebbero essere installati i famosi hot spot extra europei. Per ora l’Italia è stata estromessa dal dispositivo presente a Niamey, dove sono di stanza solo una quarantina di militari italiani. Il governo Gentiloni aveva parlato di “opportunità enormi per il nostro sistema manifatturiero”, ma per Parigi sono in gioco soprattutto i giacimenti di uranio in Niger (in particolare la miniera di Arlit) che forniscono ad Areva il 30 per cento di uranio utilizzato nelle centrali nucleari di Francia» (il Messaggero).

Insomma, le ragioni per una tensione crescente tra Roma e Parigi ci sono tutte e non appaiono di facile gestione diplomatica. Un “populista” alla Salvini ha quantomeno il merito di non usare sempre e solo l’affettato gergo diplomatico la cui comprensione è preclusa al popolo bue. C’è da dire, per concludere, che anche per quanto riguarda la politica sui migranti Salvini si muove in assoluta continuità con il suo predecessore al Viminale, con quel Marco Minniti che a sua volta fu accusato di praticare una politica fascista. Non c’è niente da fare: la postura politicamente “decisionista” in Italia deve sempre confrontarsi con l’uomo dalla mascella volitiva!

Leggi anche:

DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO

LIBIA E CONTINUITÀ STORICA

A TRIPOLI, A TRIPOLI!

L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”

 

Libia e continuità storica. Cambiando l’ordine cronologico dei regimi politico-istituzionali, il risultato non cambia. E si chiama IMPERIALISMO.

Cambiando l’ordine cronologico dei regimi politico-istituzionali, il risultato non cambia. E si chiama IMPERIALISMO.

 

Saranno pure prive di qualsivoglia fondamento e politicamente poco serie, come si è affrettato a liquidarle il Governo Gentiloni, ma le minacce scagliate contro l’Italia da quello che giornalisticamente passa come «l’uomo forte di Tobruk», ossia dal generale Kalifa Haftar, non è precisamente di quelle che si prestano a una diplomatica – e scaramantica! – alzata di spalle. D’altra parte l’opinione pubblica italiana, alle prese con il Generale Agosto che ordina ben altre operazioni di massa, andava prontamente rassicurata: fatto! Si tratta adesso di vedere se la buona sorte assisterà la “missione umanitaria” organizzata dal nostro Paese. In ogni caso vale la pena di ricordare le minacce che incombono sulla proverbiale inclinazione “pacifista” e “umanitaria” del nostro imperialismo: «Kalifa Haftar in tarda serata ha ordinato alle sue forze di bombardare le navi italiane, secondo quanto riporta in serata l’emittente panaraba Al Arabiya. Per Hatar la presenza di navi straniere rappresenterebbe una “violazione della sovranità nazionale” libica» (ANSA, 2 agosto 2017). E, com’è noto, non si sbaglia prevedendo il peggio – o il meglio, punti di vista – quando la posta in palio si chiama «sovranità nazionale», per quanto malmessa e declassata possa essere la nazione, o solo una parte di essa, che si sente minacciata dal nemico. Negli ambienti diplomatici italiani si sospetta e si sussurra che Parigi abbia, se non caldeggiato o suggerito la postura aggressiva assunta dal rais della Cirenaica nei confronti di Roma, certamente creato le condizioni politiche e “psicologiche” per un atteggiamento così esplicitamente avverso agli interessi italiani.

Intanto l’altro ieri il Qatar ha annunciato una commessa all’Italia per la fornitura di 7 navi da guerra, un contratto firmato con la Fincantieri (1) del valore di 5 miliardi di euro. «Lo ha annunciato da Doha, dov’è in visita, il ministro degli Esteri Angelino Alfano. Stando a indiscrezioni della stampa si tratterebbe di 4 corvette, una nave da sbarco anfibia e due incrociatori. Alfano dal canto suo ha affermato che “si tratta di una vera operazione di sistema, non solo di un contratto di vendita, ma di una collaborazione di lunga durata finalizzata, per i prossimi 15 anni, anche alla manutenzione, all’assistenza tecnologica e all’addestramento con il supporto, per quest’ultimo aspetto, del ministero italiano della Difesa”. L’operazione coinvolgerà mille lavoratori italiani» (G. Keller, Notizie Geopolitiche). Mille italianissimi posti di lavoro: buttali via di questi tempi! È il lato buono dell’Imperialismo! Si scherza, compagno internazionalista, si scherza.

Provo a sintetizzare un editoriale-video di Fabrizio Molinari (La Stampa): «In Libia è in corso una prova di forza fra potenze europee e Stati musulmani che ha in palio l’assetto del Maghreb e che vede in vantaggio la Francia perché è l’unica ad avere una strategia di dimensione regionale. In questo grande gioco il maggiore rivale dell’Eliseo è l’Italia, non solo per i suoi cospicui interessi economici in Tripolitania (2), ma perché attraverso una sapiente politica diplomatica il nostro Paese è riuscito ad affacciarsi sul Sahel (3), ed è proprio questa sua proiezione geopolitica che probabilmente ha messo in allarme la Francia. La sfida è comunque solo all’inizio». Una sfida che come abbiamo visto a proposito della cantieristica navale e del settore finanziario-assicurativo coinvolge diversi aspetti della competizione capitalistica tra imprese e tra sistemi-Paese.

Insomma, nel suo piccolo il cosiddetto imperialismo straccione di casa nostra non rinuncia a tessere, riparare e, all’occasione, estendere la propria rete commerciale, politica e militare nella sua storica riserva di caccia in Africa e in Medio Oriente (4). Cosa che necessariamente lo mette in diretta competizione con l’assai più esperto e robusto imperialismo d’Oltralpe, il quale non perde occasione di ricordare al cugino italiano il prestigiosissimo retaggio coloniale francese e, perché no?, l’esito della Seconda carneficina mondiale. Mentre Parigi esibisce la sua tradizionale e sempre meno credibile grandeur, zitta zitta Roma continua a praticare la sua politica internazionale che in termini puntualmente scientifici potremmo chiamare del chiagni e fotti. Certo, si può sempre fare meglio, come pretendono gli incontentabili del tipo di Alessandro Di Battista («il risultato della situazione in Libia è che i francesi si beccano il petrolio mentre l’Italia i barconi») e del Professore Galli della Loggia: «L’Italia è sola. Dalla questione dei migranti al contenzioso con la Francia è questo il referto che ci consegna la situazione internazionale. E così la solitudine diventa inevitabilmente subalternità e irrilevanza. In tutti gli scenari geopolitici caldi che ci circondano, dall’Ucraina/Russia alla Siria, all’Iraq, alla Turchia, appariamo di fatto a rimorchio degli altri» (Corriere della Sera). Ci vorrebbe un sussulto di dignità nazionale, come quello che vide protagonista Craxi nella mitica notte di Sigonella (ottobre 1985), un colpo di reni geopolitico che ci rimetta in piedi: «Nel Mediterraneo perfino su Malta — della quale pure, se ben ricordo, garantiamo l’indipendenza con un apposito trattato! — non riusciamo ad avere la minima influenza. Sul teatro libico, infine, subiamo da anni le conseguenze dello smacco inflittoci a suo tempo dall’iniziativa franco-inglese con relativi flussi migratori che ci si sono rovesciati addosso». È una vergogna! Mi scuso. È uscito il patriota che c’è in me. Non succederà più!

Fonte: Limes

Per Franco Venturini (Corriere della Sera), «È una missione di deterrenza, quella che la Marina e altre forze italiane svolgeranno davanti alla Tripolitania subito dopo l’approvazione parlamentare». C’è da chiedersi: «missione di deterrenza» nei confronti di chi? Nei confronti dei «trafficanti di carne umana» o dell’attivismo francese? «Criticata da noi stessi per la sua passività», continua Venturini, «la “politica libica” dell’Italia va questa volta elogiata per il suo coraggio. Un coraggio sulla carta superiore a quello dell’incontro Sarraj-Haftar di Parigi. Ma l’esito della nostra discesa in campo, come quello delle buone promesse patrocinate da Macron, resta appeso a un filo. Che è in mano ai libici». Allora possiamo stare tranquilli, diciamo…

Livio Caputo (Il Giornale) interpreta il sentimento di molti compatrioti che patiscono «lo sfrenato protagonismo di Macron»: «Cossiga amava dire che “ad atto di guerra si risponde con atto di guerra”, mentre Andreotti chiosava che “di guance ne abbiamo solo due e dopo il secondo schiaffo bisogna rispondere adeguatamente”. […] La partita è complessa, ma se vogliamo giocarcela con qualche possibilità di successo, non dobbiamo dimenticare che, se vogliamo mantenere un ruolo dì media potenza, non possiamo continuare a ridurre, di bilancio in bilancio, le spese per la politica estera e la difesa». E questo è vero. D’altra parte il debito pubblico italiano fa sentire il suo peso su diversi aspetti del Sistema-Italia, azzoppandone gravemente la capacità competitiva. Una magagna che certo non può togliermi né il sonno né l’appetito. E ho detto tutto!

L’«economista, politologo e saggista Edward N. Luttwak, esperto di strategia militare e di politica internazionale» non ha dubbi: l’Italia deve papparsi la Libia, e gestirla, mutatis mutandis, come ai bei vecchi tempi: «L’unico Stato al mondo che ha la conoscenza, la capacità e la necessità di organizzare la Libia è l’Italia. Gli italiani hanno creato la Libia. La Libia non è mai esistita nella storia fino a quando l’Italia non l’ha costruita. La Cirenaica e la Tripolitania erano divisi perfino all’epoca degli antichi romani: una era provincia greca, l’altra era una provincia che parlava latino. È stata l’Italia che poi ha aggiunto il sud, il Fezzan. L’unico Paese che può portare alla stabilizzazione della Libia è l’Italia e lo può fare molto facilmente perché è un Paese con oltre 60 milioni di abitanti, ha la perfetta capacità di reclutare un esercito sufficiente di 100 – 120 mila soldati. Non queste missioni dove si mandano 173 soldati in Asia, non cretinate di questo tipo, non con mezzi militari, io parlo di occupazione militare. Questa occupazione verrà immediatamente appoggiata da moltissimi libici. Questa cosa andava fatta dall’inizio. I francesi in Libia ci vanno ‘con la mano sinistra’, con lo scopo di mettere le mani su qualche affare: commercio petrolifero o la vendita di qualche aeroplano. I francesi non hanno alcun interesse alla riunificazione della Libia: avere la Francia in Libia, vuol dire avere un Paese non stabilizzato che continua a riversare i suoi problemi sull’Italia. Mentre le poche ciliegie e qualche torta, che ci sono, se le mangiano i francesi. L’Italia è di fronte alla Libia, l’ha creata, ha capacità di stabilizzare la sua ex colonia. In Italia ci sono moltissimi disoccupati che si arruolerebbero ben volentieri nelle forze armate». Riecco il lato buono dell’imperialismo! Non a caso il colonialismo italiano si sviluppò sotto la copertura ideologica sintetizzabile nel concetto, ripreso poi da Mussolini, di Nazione Proletaria.

(1) Ecco cosa ha dichiarato l’Onorevole Stefano Fassina nel corso del dibattuto parlamentare sullo scottante caso Fincantieri-Stx: «Quello che fino a ieri è stato il vostro campione di europeismo e di liberismo oggi riscopre un’antica e grande parola del movimento operaio: nazionalizzazione. Magari lo fa a scopo strumentale, in ogni caso egli dà lustro a una parola che voi avete abbandonato da trent’anni». Ecco la «vera sinistra» secondo Fassina, il quale da buon nipotino di Stalin associa il movimento operaio al Capitalismo di Stato. Merda!
(2) Scriveva Pietro Saccò su Avvenire del 27 marzo del 2011, nel momento in cui l’esito dell’operazione anglofrancese volta a destabilizzare gli interessi italiani in Libia appariva ancora incerto: «In Libia economia vuol dire petrolio. I calcoli del Fondo monetario internazionale dicono che l’attività di estrazione, trasporto e vendita di greggio e gas naturale vale il 92% del prodotto interno lordo libico. Alla fine dello scontro in corso nel Paese, che con 46,4 miliardi di barili di oro nero e 55mila miliardi di metri cubi di gas naturale ha le riserve di idrocarburi più vaste dell’Africa, chi avrà preso il controllo dei giacimenti e dei terminal dove il greggio viene caricato sulle petroliere delle multinazionali avrà l’economia libica nelle proprie mani. E le stime dicono che in Libica c’è ancora molto petrolio che ancora non è stato scoperto. […] Se si guarda al conflitto libico attraverso le lenti della guerra per il petrolio, allora anche l’interventismo del Regno Unito e della Francia ha un aspetto meno solidale e motivazioni più comprensibili, così come si spiegano la maggior cautela dell’Italia e tutte le perplessità della Germania (che con Wintershall è il secondo produttore di greggio nella terra di Gheddafi)». Questo semplicemente per dire che nessuno ha mai dato credito alla natura “umanitaria” e antitotalitaria dell’iniziativa anglofrancese del 2011.
(3) «Quella del Sahel è una guerra dimenticata. I francesi sono alla testa di un’operazione anti terrorismo dall’estate 2014 – il dispositivo Barkhane – che prevede la presenza di 3.000 soldati tra Mauritania, Niger, Burkina Faso, Mali e Ciad, quest’ultimo è l’alleato più importante di Parigi in Africa. I tedeschi hanno una presenza sempre maggiore in Mali, e per la logistica si appoggiano all’aeroporto di Niamey, capitale del Niger. I due alleati europei si muovono in stretto coordinamento con una presenza ormai sempre meno discreta: quella degli Stati Uniti, che hanno speso, secondo The Intercept, 100 mila dollari per l’apertura di una base per i droni Reaper e Predator ad Agadez, snodo di contrabbando di migranti, armi, droga e quant’altro nel cuore del Niger. La Francia ha annunciato nei mesi scorsi un investimento di 42 milioni di euro per l’addestramento delle forze armate di paesi del Sahel e ha inviato nei giorni scorsi tra 50 e 80 uomini delle sue Forze speciali in Niger, al confine con il Mali» (Il Foglio).
(4) «La Marina si ritrova immersa in uno scenario regionale fattosi più competitivo. Con il Mediterraneo nuovamente nell’occhio del ciclone e un arco di instabilità che corre dalle sabbie nordafricane fino alle profondità dell’Anatolia, il relativo disimpegno della flotta statunitense dal bacino offre nuove opportunità di manovra e altrettanti motivi di apprensione. Più dell’ampliamento della presenza russa fra Bosforo, Levante e Cirenaica o della comparsa delle prime unità da guerra cinesi a nord di Suez, preoccupano i piani di riarmo navale di ambiziosi attori regionali come Algeria, Egitto e Turchia, finalizzati a dotare le rispettive Marine di nuove capacità di proiezione del potere militare con cui puntellare la propria politica estera spesso assertiva. Episodi come la campagna anglo-francese di Libia del 2011, inoltre, ricordano come la competizione investa ormai anche i rapporti fra paesi alleati e possa assumere di colpo i tratti di aspri scontri diplomatico-commerciali come quello andato in scena fra Roma e Parigi per la megacommessa navale da quasi 5 miliardi di euro alla Marina del Qatar» (Citazione da La Marina prova a tornare grande, Limes).

Leggi anche:

DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO

A TRIPOLI, A TRIPOLI!

L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL “PARADOSSO AFRICANO”

DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO

italy-lybia013-805x600Qualche giorno fa Niccolò Locatelli registrava con entusiasmo il ritorno della diplomazia italiana nella capitale della nostra ex colonia africana, e spiegava bene la posta in gioco per l’imperialismo made in Italy in Libia: «La visita del ministro dell’Interno italiano Marco Minniti ieri a Tripoli è venuta con un annuncio importante: oggi l’ambasciatore Giuseppe Perrone presenterà le sue credenziali al governo di Faiez Serraj e l’ambasciata d’Italia aprirà i battenti con tanto di servizi consolari. È un colpo importante per la diplomazia tricolore, sotto diversi aspetti. In primo luogo, a Tripoli non è presente neanche l’Onu, per non parlare degli altri paesi occidentali che, a parte una presenza britannica informale, sono del tutto assenti; l’apertura delle loro ambasciate è improbabile a breve termine. […] In secondo luogo, l’apertura dell’ambasciata è un segnale agli altri paesi coinvolti nella crisi, in primis l’Egitto e la Russia che sempre più apertamente sostengono il “governo” rivale del generale Haftar: per Roma il governo legittimo è quello che sta a Tripoli, semmai si tratta di negoziare l’entrata di Haftar in quello schema. A tale scopo, la presenza dell’Italia nel Consiglio di sicurezza Onu potrebbe rivelarsi un asset: se Roma sarà in grado di fare le alleanze giuste, potrà mantenere in piedi l’impalcatura di risoluzioni Onu approvate sotto Obama che danno la golden share non solo della politica ma soprattutto delle transazioni economiche e petrolifere alle strutture basate a Tripoli» (Limes). E infatti come sempre la politica estera (strumento militare incluso) è chiamata in primo luogo a supportare gli interessi economici che fanno capo a imprese pubbliche e private. Questa, e non altra, è l’essenza dell’Imperialismo.

L’entusiasmo del governo Gentiloni si è forse un po’ raffreddato dopo la reazione a dir poco preoccupante del generale Khalifa Haftar, ex uomo di fiducia degli americani quando si trattò di dare il benservito a Gheddafi nel 2011, e che a più riprese ha minacciato di usare i profughi libici e i migranti africani come materiale bellico “umano” («inonderemo le coste italiane di gente povera»), e questo nell’intento di ottenere dall’Italia armi, denaro e consenso politico. Oggi Haftar denuncia «una nuova occupazione militare» da parte dell’Italia. Non c’è da star sereni, diciamo.

Gli interessi strategici italiani in Libia sono minacciati da più parti, come ha chiaramente dimostrato l’«intervento umanitario» del 2011 voluto soprattutto dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Arabia Saudita. Ma in questo momento è soprattutto l’attivismo russo che desta più di una preoccupazione a Roma. «La Russia è già riuscita a mettere il piede in Egitto, altro alleato di Tobruk, dopo che l’amministrazione di Barack Obama ha sostenuto i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi contro l’attuale governo di Abdel Fatah al-Sisi, per cui ad Alessandria sorgerà una base navale russa. Haftar, in cambio del sostegno, ha in questi giorni stretto un’intesa con i russi per la costruzione di una base in Cirenaica e, a quanto riportano i media arabi, starebbe cercando di assicurarsi il controllo delle basi aeree situate nella parte sud-orientale del paese. Lì si avvallerebbe del supporto delle milizie delle tribù fedeli all’ancien régime, cioè al defunto colonnello Muammar Gheddafi, le quali preferirebbero sostenere Tobruk piuttosto che Tripoli» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche).

Secondo il generale Carlo Jean (Quotidiano Nazionale) l’attivismo politico-militare della Russia di Putin in Libia avrebbe più che altro un respiro tattico, e non strategico, perché secondo lui quel Paese non avrebbe le risorse finanziarie adeguate per esporsi a lungo termine in più fronti nello scenario Mediorientale e in Nord-Africa, e lo stesso Presidente russo farebbe piuttosto bene a non sottovalutare il malessere sociale che cresce in Russia. In effetti, non si campa solo di orgoglio nazionale e di spirito di rivincita verso un Occidente che intendeva fare della Grande Russia una Potenza di rango regionale, come sostenne una volta l’odiato Obama. Come reagirà il neo Presidente Trump all’aggressiva politica estera dell’amico Vladimir? Quanto durerà la “luna di miele” tra i due “amici”? Lo scopriremo presto.

Intanto siamo qui a denunciare, per quel che vale, l’attivismo politico-diplomatico del governo italiano in Libia (e altrove: vedi la Diga di Mosul in Iraq), attivismo che fra l’altro ci espone ancor di più al rischio di diventare degli “obiettivi sensibili” nel contesto dell’attuale «Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti».

GUERRA E – COSIDDETTA – PACE

aut trÈ dal 2003, dai tempi della Seconda guerra in Iraq, che intellettuali francesi “non allineati” (al pensiero mainstream progressista) come Alain Finkielkraut e André Glucksmann martellano le posizioni “pacifiste” europee, rubricate come Spirito di Monaco e vetero pacifismo ideologico. Ad esempio, dalle colonne dell’International Herald Tribune del 12 marzo 2003 Glucksmann rimproverò i governi di Parigi e Berlino di riprodurre «gli argomenti dei “Movimenti per la Pace” staliniani» della guerra fredda. Un’accusa che, al netto della posizione guerrafondaia sostenuta dall’intellettuale francese in difesa dei Sacri Valori Occidentali, ebbe allora il merito di mettere in luce tutta l’ambiguità della “politica estera” europea in generale, e di quella franco-tedesca in particolare. Sempre concesso che si possa parlare con qualche fondamento di una “politica estera” europea. Come il lettore ricorderà, allora si parlò di una Nuova Europa (i «volenterosi» amici di Bush: Inghilterra, Italia e Spagna) e di Vecchia Europa (gli avversari dell’intervento militare in Iraq, con alla testa la Francia di Jacques Chirac).

Gli ultimi avvenimenti in Ucraina e in Libia hanno riaperto anche in Italia il dibattito “teorico” intorno all’atteggiamento europeo in materia di conflitti armati: ha ancora senso parlare di ripudio della guerra quando nel cuore stesso dell’Europa e a due passi dalla Sicilia divampano conflitti che rischiano di incenerirci mentre proferiamo le rituali e sempre più stucchevoli frasi pacifiste? Scriveva ieri Stefano Folli (La Repubblica): «La Libia ha creato quasi all’improvviso un fatto nuovo che rende obsoleti certi comportamenti e richiama tutti alla serietà. […] La campana della Libia suona per tutti, salvo che per le forze che si pongono fuori del sistema». Sarà forse per questo che chi scrive non l’ha sentita, almeno nei termini in cui li ha posti il bravo editorialista: «La minaccia è reale e incombente, tocca da vicino gli interessi italiani e si somma all’emergenza dei profughi». Non c’è dubbio: la campana libica suona per gli interessi strategici del Paese, che rischia di farsi scavalcare non solo dalla più aggressiva, esperta e militarmente attrezzata Francia, come ai tempi della “guerra umanitaria” contro Gheddafi, ma anche dall’Egitto, la cui ombra già si estende sulla Cirenaica. La campana della guerra sistemica (non solo militare) suona per gli interessi strategici del Paese, appunto, non certo per gli interessi delle classi subalterne, e certamente non per chi scrive, almeno nel significato qui messo in luce.

Ernesto Galli della Loggia prende molto sul serio, per criticarla da par suo (ossia con intelligenza e fine sarcasmo), l’ideologia pacifista che condannerebbe l’Europa all’impotenza e che la esporrebbero a pericoli esistenziali di cui ancora non ci rendiamo conto: «Gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla».

Della Loggia ridicolizza soprattutto il vezzo politically correct tutto europeo di ricondurre la Guerra in generale, il fatto bellico come concetto, a «inutile strage» secondo la celebre definizione papale applicata alla Grande Guerra: «Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. In base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti “inutili”? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?» (Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2015). Il titolo dell’interessante articolo dell’editorialista è molto significativo: Cattiva coscienza europea.

In che senso della Loggia parla di cattiva coscienza europea? È preso, e solo in parte correttamente, detto: «La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei “guerrafondai” schiavi della “cultura delle armi” e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici. E invece è vero proprio il contrario». Sono i temi che il “falco” Robert Kagan propose nel suo Paradiso e potere (Mondadori, 2003) a proposito dell’ambiguo rapporto tra le due sponde dell’Atlantico: «L’Europa sta voltando le spalle al potere. […] Sta entrando in un paradiso poststorico di pace e relativo benessere: la realizzazione della “pace perpetua” di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale la vera sicurezza, la difesa e l’affermazione dell’ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza». Colombe contro falchi, Kant versus Hobbes, Venere contro Marte.

Naturalmente niente di tutto questo, a uno sguardo meno superficiale – diciamo pure meno ideologico – della questione. D’altra parte, declinare la potenza e la forza di un Paese a partire dalla sua dimensione politico-militare è sbagliato, soprattutto nel contesto della società-mondo del XXI secolo, nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto e di tutti al Moloch capitalistico. Viceversa, sarebbe praticamente impossibile spiegare la forza di attrazione e la potenza sistemica della Germania del secondo dopoguerra. Lo stesso confronto USA-URSS, vinto in modo fin troppo netto dagli americani, fu innanzi tutto un confronto economico, tecnologico e scientifico, nonostante l’opinione pubblica fosse attratta dagli aspetti ideologici (il cosiddetto conflitto fra democrazia e “totalitarismo comunista”: sic!) e militari (sfilate di carri armati e di missili, guerre per procura, e così via) della contesa. Anche la debolezza strutturale (industriale, in primis) dell’imperialismo russo di oggi, non a caso definito dagli analisti di geopolitica secondo la figura retorica (ma non per questo meno veritiera) del gigante dai piedi d’argilla, credo avvalori la tesi qui sostenuta.

1302524382452_guerra_libia_500Ma ritorniamo a Galli della Loggia. Egli spiega senz’altro la prassi degli individui e delle nazioni sulla base della loro ideologia; io, viceversa, mi sforzo di individuare i presupposti storico-sociali, attuali e lontani, delle ideologie, che cerco di spiegare sulla scorta di precisi interessi. Per dirla con il solito Marx, io cerco di fare di un problema ideologico una questione essenzialmente “pratica”, mentre della Loggia rimane sul terreno ideologico e da lì scaglia le sue frecce critiche. Per quanto mi riguarda, l’ideologia pseudo pacifista degli europei per un verso è servita a mascherare un fatto epocale indiscutibile: lo strapotere degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale, che ha annichilito ogni velleità di Grande Potenza da parte dei maggiori Paesi europei, Inghilterra e Francia comprese, che  a ben guardare alla fine risulteranno essere le vere sconfitte di quel conflitto (alludo ovviamente al loro “glorioso” passato coloniale); e per altro verso quell’ideologia è stata sempre usata in chiave polemica dal Vecchio Continente nei confronti degli USA, a volte per smarcarsi da iniziative politico-militari decise da Washington che non rientravano nei suoi interessi strategici, e sempre per contribuire il meno possibile in termini finanziari e politici al mantenimento dell’Alleanza atlantica. Fare del male (l’egemonia statunitense) un bene, avvantaggiarsi quanto più possibile dell’ombrello americano offrendo all’alleato d’Oltre Oceano il meno possibile in tutti i sensi: l’ideologia cosiddetta pacifista degli europei è stata messa al servizio di questa scaltra strategia, che infatti da sempre è stata oggetto delle critiche americane. «È facile affettare pose pacifiste delegando ad altri il lavoro sporco!».

L’opportunismo delle “colombe” europee nei confronti dei “falchi” americani non va dunque letto come un difetto ideologico da parte delle prime, bensì come una politica che risponde a precisi, e il più delle volte inconfessati, interessi.

«Oscuramente», continua Galli della Loggia, «gli europei avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza». Come ho cercato di argomentare, non si tratta di un rifiuto ideologico della guerra, né di astratte paure legate al retaggio storico, ma piuttosto di interessi sistemici che rendono problematica la decisione degli “europei” di accedere al fatto bellico. Tutti hanno visto come la “pace” e l’ideologia pacifista hanno reso più potente che mai la Germania,  cosa che «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (C. Jean, Manuale di geopolitica). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile a breve/medio termine, e certamente non auspicabile.

Ascoltiamo l’ultima lamentela antipacifista di Galli della Loggia: «L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello “Stato islamico”, cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo “per mantenere la pace”». Sull’ipocrisia “pacifista” made in Italy non ho nulla da aggiungere.

quarta spondaHo invece qualcosa da dire a proposito di quanto ha scritto Tommaso Di Francesco sul Manifesto del 14 febbraio in risposta al virile «siamo pronti a com­bat­tere» esternato dal Ministro degli Esteri italiano: «piut­to­sto che un impeto leo­par­diano, asso­mi­glia al solito disprezzo dell’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione e anche dell’Onu, la cui egida viene strumen­tal­mente evo­cata ma considerata più che per­dente». Non c’è guerra, o preparazione di un qualsiasi intervento militare da parte del Bel Paese che non evochi, nella testa dei pacifisti, l’Art 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra… Ora, sul piano storico quell’articolo non attesta la natura pacifista della «Repubblica nata dalla resistenza»: ne attesta piuttosto la natura di Paese sconfitto nella Seconda Carneficina Mondiale. Dopo l’occupazione militare angloamericana e la resa incondizionata ottenuta a suon di bombardamenti aerei sulle città italiane, le potenze Alleate ottengono dall’Italia la ratifica di Paese vinto che non cercherà mai più la strada della guerra per accrescere in potenza. Di più: il suo potenziale bellico viene messo a disposizione di istituzioni sovranazionali (NATO e ONU) per consentire «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; e difatti l’Italia «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Su questa base giuridica all’Italia è consentita la guerra in guisa di piccola o media potenza assoggetta ai vincoli imperialistici che le derivano appunto dall’esito della seconda guerra mondiale. Analogo discorso deve naturalmente farsi per la Germania e il Giappone*.

Insomma, sulla base del citatissimo nonché mitico Articolo 11 della Costituzione l’Italia può benissimo impegnarsi in una guerra internazionale, naturalmente secondo le modalità prescritte da chi di fatto ha scritto quell’Articolo: gli Stati Uniti. È d’altra parte un fatto che all’ombra dell’articolo 11 l’Italietta è riuscita nel corso della Guerra Fredda a ritagliarsi un ruolo di piccola/media potenza nella sua tradizionale riserva di caccia: Balcani, Vicino Oriente, Nord’Africa. Nell’ultimo quarto di secolo questo ruolo si è alquanto indebolito, per una serie di motivi che adesso tralascio di citare e analizzare. E qui ritorniamo all’inquietante attualità.

* «Nella sede del partito di Abe, c’è un ufficio apposito, con tanto di targhetta, per la revisione della Costituzione ultrapacifista imposta dagli Usa vittoriosi. Non ci sarebbe niente di male a cambiare dopo oltre 60 anni una Carta fondamentale dettata dallo straniero: qualsiasi altro Paese l’avrebbe già fatto.  Il problema è che le bozze di revisione fatte circolare hanno fatto accapponare la pelle a molti costituzionalisti» (Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore, 2012).

SOCIALNAZIONALISMO

In Venezuela si nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i “sovranisti” di mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo: alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e “rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche – e soprattutto – la Bielorussia di Lukashenko. «Nel 2007 il presidente del Venezuela Hugo Chávez ha descritto la Repubblica di Bielorussia come uno “stato modello”» (Bielorussia e Venezuela: La costruzione del mondo multipolare, Aurora, 27 aprile 2012). Beh, se l’ha detto il caudillo venezuelano c’è da fidarsi.

Il problema, per dir così, è che io sono contro ogni modello di Stato capitalistico, soprattutto quando affetta pose “rivoluzionarie”, come quello fascista, o nazista ovvero stalinista. Il Sovrano che sventola la bandiera rossa è in assoluto quello che più disprezzo. Sono anarchico? No, sono antistalinista. E quindi antisovranista: l’equazione è bell’e fatta! Lo Stato come decisore di ultima istanza, nonché come «violenza concentrata e organizzata della società» (Marx), è il mio Nemico, qualunque forma esso assuma – democratica, “socialista”, “partecipata”, “sovranista”.

«Le cinque priorità principali del governo bielorusso sono le seguenti: 1 Mantenere l’uguaglianza e l’innalzamento del tenore di vita dei lavoratori. 2 Mantenere una piena occupazione dell’economia. 3 Investimenti nell’istruzione e nella ricerca scientifica. 4 La protezione e lo sviluppo di una forte base produttiva locale. 5 Sovranità nazionale inviolabile» (Aurora, cit.). Un programma che uno stalinista dei vecchi tempi – o un nazionalsocialista degli anni Trenta – avrebbe potuto sottoscrivere tranquillamente. Dove il primo punto va letto nel senso di una sopravvivenza da schiavi salariati assicurata a tutti e per tutta la vita dal Leviatano. Un progresso umano davvero “rivoluzionario”.

«La visione del presidente Lukashenko di un mondo multipolare minaccia i sostenitori del Nuovo Ordine Mondiale». Ai sovranisti di Aurora, forse nostalgici della «guerra fredda», piace dunque una competizione imperialistica “pluralistica”, e sotto questo aspetto essi si fanno portavoce degli interessi delle Potenze che oggi rivendicano un posto al sole nell’agone della guerra globale (economica, scientifica, politica, militare, ideologica). Quale interesse abbiano le classi dominate del pianeta a schierarsi con uno degli “attori” (magari quello a più alto tasso di statalismo) della competizione interimperialistica rimane un mistero. O forse è la mia indigenza concettuale che non mi permette di apprezzare la fine dialettica del sovranista. Non posso escluderlo, almeno in linea di principio.

Detto en passant, prendo di mira le posizioni di Aurora non tanto per polemizzare con i suoi redattori, quanto piuttosto per prendere posizione contro una tendenza politica mondiale che la crisi economica sta rafforzando.

«La barbara distruzione della Jamahirya libica dovrebbe servire da lezione per qualsiasi persona intelligente, di ciò che i paesi della NATO intendono per “diritti umani”, “democrazia” e “dominio della legge”». La giusta denuncia dell’imperialismo occidentale non implica affatto l’adesione agli interessi dei suoi nemici, i quali, ancorché “straccioni”, vantano la stessa sostanza sociale ultrareazionaria del primo. Certo, se uno pensa che la Jamahiriya libica fosse «una prospera economia socialmente orientata»… «Socialmente orientata»: bel concetto di società, complimenti! L’intangibilità della Sovranità Nazionale è un concetto borghese che nel XXI secolo trasuda violenza da tutti i pori, e fa il paio con la posizione di chi teorizza la tendenziale fine dello Stato Nazionale nell’attuale congiuntura “Imperiale”. Entrambi i punti di vista non fanno i conti con la realtà del processo sociale colto dal punto di vista delle classi subalterne.

«Le relazioni venezuelano-bielorusse sono un esempio unico di ciò che la diplomazia internazionale, in un mondo socialista, potrebbe significare per l’umanità». Quando il sovranista, che sogna un Capitalismo di Stato – perché di questo si tratta – a forte vocazione autarchica e assai bellicoso (sul piano interno come su quello internazionale), parla di “socialismo” come si fa a non sghignazzare e a non sentirsi dei giganti del pensiero sociale?

IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!

Sic transit gloria mundi

Il pensiero più vero, sull’uccisione del sanguinario e macchiettistico Re dei Re dell’Africa, lo ha espresso il suo ex solidale geopolitico Silvio Berlusconi: l’imperialismo, sotto forma di sacro interesse nazionale, deve continuare, come lo show della nota battuta. Gheddafi è morto? Avanti il prossimo leader, meglio se «democraticamente eletto». Non raramente al Sultano di Arcore capita di dire la verità sul cattivo mondo che ci ospita, semplicemente perché l’odioso politicamente corretto che impazza nella leadership politica nazionale e mondiale nella sua «rozza» mente non trova molto appigli. Come all’ubriaco, a Berlusconi capita di dire verità scomode per la «convivenza civile» e il bon ton politico-istituzionale.

Egli è dietro a ogni magagna...

Filippo Ceccarelli, sulla Repubblica Delle Manette di oggi, fa finta di indignarsi: «Ma come, fino a ieri erano pappa e ciccia, e adesso il Cavaliere se ne esce con il gergo teologico: Sic transit gloria mundi! Ma che vuol dire?» Significa che la realpolitik che sorregge gli interessi nazionali (vedi alla voce Profitti e Petrolio) non guarda in faccia a nessuno. D’altra parte, lo stesso Ceccarelli ricorda come dal 1969, anno della “mitica” cosiddetta «Rivoluzione Verde» che spodestò il monarca libico Idris El-Senussi, tutti gli statisti e i più grandi imprenditori (uno su tutti: Gianni agnelli) del Bel Paese hanno fatto affari con l’ex colonnello di Tripoli. Ovviamente, aggiungo.

La cosa più ipocrita e politicamente corretta è uscita fuori dalla rinsecchita bocca di Emma Bonino: la leader Radicale si di dice rammaricata perché «il dittatore libico non meritava la bella morte in battagliai, ma il giudizio equo e non vendicativo di una Corte di Giustizia Internazionale». Ne deduco che la morte causata dai bombardamenti aerei democraticamente stabiliti dagli Alleati venuti in soccorso alla «Rivoluzione Popolare» (dalle mie parti si dice: «Cornuto chi ci crede!») sono da giudicarsi equi e non vendicativi. Come sempre, la verità sta dalla parte dei vincenti.

Il Fascio Quotidiano ha titolato: «Così muore un dittatore». Qualche allusione alla situazione italiana? Intanto il Pacifismo nostrano e internazionale ha mostrato ancora una volta la sua completa sudditanza politica nei confronti della politica dei partiti e degli Stati. Non c’è dubbio che se al posto del progressista-abbronzato Obama ci fosse stato un repubblicano bianco e «liberista selvaggio»; e se il Mostro di Arcore non fosse stato “amico” del defunto Rais di tripoli, qualche oceanica manifestazione contro «l’intervento imperialista in Libia» l’avremmo vista. Pazienza! Confidiamo nelle prossime elezioni politiche in Italia e nella non lontana tornata presidenziale negli Stati uniti. Cornuto chi ci crede – con rispetto parlando, sia chiaro.

INFERNO E POTERE

Lo stesso ambiguo atteggiamento tenuto da gran parte dei pacifisti a comando si inscrive, al netto dell’ipnotico effetto generato dalla Sfinge Abbronzata (Obama) e del solito riflesso condizionato antiberlusconiano (Gheddafi non era “amico del Cavaliere Nero?), in quest’esercizio di maestria politica che ha distinto le classi dirigenti di questo Paese dall’Unità in poi, ma anche prima (la politica preunitaria di Cavour lo testimonia ampiamente).

Nel Maggio 2001 l’allora Presidente della Commissione europea Romano Prodi spiegava quanto segue: «Nei rapporti fra gli Stati europei, lo Stato di diritto ha sostituito i brutali rapporti di forza […] Portando a compimento l’integrazione (europea), diamo al mondo l’esempio riuscito di un metodo per la Pace» (Discorso all’Institut D’Études Politiques di Parigi). Detto, fatto. Anzi no! In effetti, tutti gli eventi che si sono prodotti sullo scacchiere internazionale da allora in poi si sono incaricati di smentire la grigia speranza dello statista Italiano. Basti pensare alla spaccatura che si realizzò nel Vecchio Continente all’epoca dell’intervento militare in Iraq, nel 2003. Non poteva andare diversamente.

Lungi dall’aver liquidato i rapporti di forza, lo Stato di diritto continua ad essere essenzialmente una questione di rapporti di forza, sul versante interno, nei rapporti tra dominanti e dominati, e sul fronte esterno, nei rapporti tra gli Stati. L’attuale crisi internazionale, poi, sta letteralmente coprendo di ridicolo l’idea di un’Europa unita nonché «esempio riuscito di un metodo per la pace»: con le mosse e contromosse architettate dai francesi, dagli inglesi, dai tedeschi e dagli italiani, per fregarsi a vicenda, sembra di assistere ai vecchi film del genere colonial-imperialista. Ossia al «Grande Gioco» delle Potenze Europee dei tempi che furono, che evidentemente non sono affatto passati. Naturalmente «Grande Gioco» mutatis mutandis, cambiando quel che c’è da cambiare, che non è poco, soprattutto se pensiamo alle nuove Potenze mondiali che aspirano all’egemonia globale (economica, politica, tecnologica) del Pianeta. Eppure, nel loro piccolo, i Paesi «Alleati» non smettono di nutrire grandi ambizioni.

Soprattutto la Francia, in questo frangente, si sta distinguendo nella cara e vecchia politica del fatto compiuto, per ragioni che naturalmente non hanno niente a che vedere con l’umanitarismo dei nostri cugini d’oltralpe, sempre più sciovinisti e ammalati di grandeur man mano che la potenza sistemica del loro Paese declina. Lo smacco subito a Gennaio e a Febbraio dalla Francia nelle sue ex colonie nordafricane, ha certamente pesato sull’attivismo a tutto campo di Sarkozy.

Dal canto suo, l’Italia, entrata obtorto collo nella «Missione Umanitaria» perché è il solo Paese «Alleato» che rischia di uscire con le ossa spezzate dall’affaire libico, si barcamena nella sua tradizionale politica tesa ad ottenere il massimo possibile investendo il meno possibile (in termini di risorse economiche e di sangue). Politica classica di una piccola potenza che coltiva grandi – e storicamente non illegittime – aspirazioni, la quale non raramente postula l’ambiguità, l’opportunismo e financo il tradimento delle alleanze. È l’italico «machiavellismo» che da sempre le Potenze Europee ci rimproverano e che gli osservatori superficiali e provinciali di casa nostra non capiscono. Lo stesso ambiguo atteggiamento tenuto da gran parte dei pacifisti a comando si inscrive, al netto dell’ipnotico effetto generato dalla Sfinge Abbronzata (Obama) e del solito riflesso condizionato antiberlusconiano (Gheddafi non era “amico” del Cavaliere Nero?), in quest’esercizio di maestria politica che ha distinto le classi dirigenti di questo Paese dall’Unità in poi, ma anche prima (la politica preunitaria di Cavour lo testimonia ampiamente).

Scriveva Robert Kagan: «Ci sono ancora inglesi che ricordano l’impero, francesi che anelano alla gloire, tedeschi che aspirano a un posto al sole. Per il momento questi impulsi sono incanalati nel grande progetto europeo, ma potrebbero anche trovare espressioni più tradizionali» (Paradiso e Potere, 2003). Certo, c’è tutto questo; ma ci sono soprattutto gli interessi dei singoli Stati europei, e c’è il «grande progetto europeo» che si sta sempre più rivelando ciò che è sempre stato, e cioè il tentativo di mettere sotto tutela la Germania, e di realizzare una massa critica (politica, economica e militare) in grado di competere con le nuove Potenze Mondiali. La vocazione «pacifista» dell’Europa è un mito costruito sulle ceneri della Seconda guerra mondiale dalle armate americane e sovietiche. Per riprendere il titolo e capovolgendo il senso del libro di Kagan, l’Europa non è il «Paradiso», né il «Potere» (ossia l’Imperialismo in tutte le sue manifestazioni) riguarda solo gli Stati Uniti d’America. L’Inferno è dovunque.

TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO

L’odissea non è solo all’alba, ma ad ogni secondo che il Capitale manda in terra. E dappertutto.

Barack O'Bush

I pacifisti sono come ipnotizzati dalla sfinge Obama: come sarebbe stato tutto più semplice, se al suo posto ci fosse stato il bianco, petroliere, conservatore e guerrafondaio Bush, antropologicamente «imperialista»! E invece… Invece tocca farsi questa scottante domanda: è possibile che l’imperialismo non abbia né colore (oltre quello dei soldi e del petrolio) né ideologia (che non sia quella che emana dalla potenza sistemica di un Paese)? Oh, amletico dubbio!

Ci mancava la ciliegina sopra l’escrementizia torta tricolore di questi italianissimi giorni di festeggiamento, ed eccola arrivare, forse inaspettata – ma quanto opportuna! –, sotto forma di patriottismo bellico, l’espressione più violenta e verace della Sacra Unità Nazionale.

Per tranquillare le coscienze progressiste, il Presidentissimo Napolitano ha immediatamente fatto sapere che la Missione italiana in Libia si muove perfettamente dentro la cornice costituzionale dell’Articolo 11. Che sollievo! In effetti, basta chiamare la guerra «ingerenza umanitaria», peraltro esercitata sotto l’egida dell’ONU, questo brutto simulacro di «democrazia planetaria», e il gioco di prestigio è fatto. È dalla missione in Libano dell’’82 che l’Italia sposta truppe a destra e a manca, nel pieno rispetto della Costituzione «nata dalla resistenza» (appunto!), e solo gli ingenui possono credere alla natura pacifista del mitico articolo 11, peraltro impostoci – alla stessa stregua di Germania e Giappone – dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale.

"L'etica ha preso il sopravvento"

Il generale Franco Angioni, che della missione libanese del 1982 fu il primo comandante, e che oggi milita nei ranghi del partito democratico, ha dichiarato all’Unità del 20 Marzo che «l’etica ha preso il sopravvento». Finalmente! Quindi la missione internazionale in Libia sarebbe una questione di valori. E non c’è dubbio: di valori… di scambio.

A ragione il riluttante Bossi teme che i francesi e gli inglesi vogliono soffiarci il nostro gas e il nostro petrolio, senza contare il disastro che si annuncia con lo tsunami dei profughi di guerra: «con la scusa dell’intervento umanitario stanno tentando di mettercela in quel posto» (Il Giornale, 20 Marzo 2011). Oh, amabile schiettezza del reazionario che non si vergogna di apparire tale! Come sempre, bisogna ascoltare e leggere i politici che non hanno la fregola del politicamente corretto per apprendere qualche verità intorno a questo tristo mondo. E, detto per inciso, la parlamentare leghista eletta a Lampedusa non è affatto una stravaganza della pur bizzarra politica italiota. I giorni a seguire si incaricheranno di dimostrarlo, anche perché la sua politica leghista rischia di venir scavalcata a “destra” dai suoi compaesani.

Valentino Parlato ha giustamente osservato che in questa faccenda i valori etici stanno a zero, perché siamo in presenza di «un conflitto per il petrolio» (Il Manifesto, 20 Marzo 2011). Stimo assistendo, ha continuato il vecchio leader della sinistra dura e pura, «alla rinascita del famoso imperialismo». No, perché «rinascita»? In realtà, il «famoso» Imperialismo non solo non è mai uscito dalla scena (magari per far posto al più intellettualmente sofisticato e politicamente ambiguo «Impero» alla Toni Negri), ma si è col tempo espanso, radicato e rafforzato su scala planetaria sotto forma di economia capitalistica. Tutto il pianeta giace sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici. Il «fatto bellico», come diceva quello, non è che la continuazione del «fatto politico» con altri mezzi, e quest’ultimo, a sua volta e «in ultima analisi», si fonda sul «fatto economico», lungo una «filiera dialettica» di reciproche influenze di «struttura» e «sovrastruttura» che qui sarebbe fin troppo pletorico illuminare. Ma quando c’è di mezzi il petrolio, non c’è «filiera dialettica» che tenga!

Gli Stati non agiscono mai sulla base di considerazioni etiche o «umanitarie», o sulla scorta di coerenze politiche e – siamo seri! – ideali, ma unicamente su input di precisi interessi strategici di varia natura (economica, politica, militare, ecc.). Il fatto che oggi tutti i leader «alleati», da Berlusconi a Obama, da Sarkozy a Cameron, stiano mettendo in scena l’apoteosi dell’ipocrisia, ebbene questo non è nemmeno un buon argomento di polemica, talmente suona scontato. È la realpolitik degli Stati, di questi mostri a sangue freddo, bellezza!

Le stesse Organizzazioni Non Governative, che si stanno anche loro mobilitando in gran fretta per soccorrere le vittime degli «effetti collaterali», sono, loro malgrado, perfettamente integrate nel Sistema della competizione globale tra gli Stati, in tempo di «pace» come in tempo di guerra, perché il cattivo mondo ha estremo bisogno dei buoni di spirito, grasso – o balsamo – per i duri ingranaggi del dominio. Anche la prassi «umanitaria» delle ONG non è che la continuazione della guerra generale contro l’umanità portata avanti con altri mezzi. Ma non è un po’ esagerato mettere sullo stesso piano di responsabilità il militare che spara e il chirurgo che interviene sulle vittime della guerra? Domanda legittima. Il fatto è che non sono io ad operare questo cinico riduzionismo etico, ma la fin troppo astuta dialettica del dominio, che mi limito a illuminare, per poterla infilzare almeno sul piano della critica politica.

Certo, scrive Parlato, Gheddafi è sempre stato un feroce dittatore, e tuttavia poteva almeno vantare una funzione nel quadro dell’indipendenza nazionale del suo Paese, senza contare il fatto che noi italiani forse siamo sul punto in cui dovremo rimpiangerlo. Per il “comunista” del Manifesto gli interessi nazionali, della Libia e dell’Italia, sono dunque valori che conservano un grande significato. E ha ragione da vendere, sebbene sia una ragione ultrareazionaria. Valentino Parlato vive perennemente nel rimpianto: «forse sarebbe stato meglio morire democristiani e craxiani, anziché berlusconiani», si lamenta sovente. Forse ci conveniva lasciare Gheddafi al suo posto. Qualcuno lo conforti, compassionevolmente.

A proposito di interessi nazionali: il fascistissimo Padellaro ha scritto, sul Fatto del 20 Marzo, che bisogna cacciare immediatamente il puttaniere Berlusconi, perché senza riacquistare il prestigio nazionale che merita, l’Italia non potrà competere con la leadership anglo-francese. Nonostante quel che dice il Ministro La Russa, se il Cavaliere di Arcore rimane in sella dovremo consegnare le nostre chiavi di casa ai francesi e agli inglesi: che disdetta! Prego, provvedere con un bel colpo di Stato. L’Egitto, dopo tutto, insegna…

A TRIPOLI, A TRIPOLI!

Promemoria storico per i futuri eventi che si produrranno nell’italico cortile di casa.

Mentre falchi neocons e colombe obamiane svolazzano, ali nelle ali, sopra il cielo nordafricano, là dove rigogliosa fiorisce la “primavera democratica” (a proposito, che fine hanno fatto i pacifisti “senza se e senza ma” che scendevano in piazza a ogni sospiro del cattivo Bush? Forse aspettano di sostenere il Comitato per la Pace proposto dal camerata Chàvez?). Mentre il solito progressista francese, dopo aver stigmatizzato il “cinismo” e l’”assenza di visione strategica” della realpolitik occidentale, si augura pei i “Paesi in rivolta” un futuro di “democrazia, diritti umani, pace sociale e prosperità” (praticamente l’eldorado capitalistico!). Mentre la progressista Lucia Annunziata saluta con entusiasmo l’”ingerenza umanitaria” annunciata dal ministro Frattini (non prima di aver elargito all’imbranato imperialismo italiano una serie di buoni consigli: quando si dice essere più realisti del re!). Insomma, mentre la competizione imperialistica si accende nel nostro cortile di casa (o Quarta Sponda che dir si voglia), forse può tornare utile la “pillola” storica che segue.

Nel 1905 il ministro degli Esteri Antonio Di San Giuliano lamentava il fatto che «il problema meridionale non è stato ancora affrontato seriamente dal Parlamento e dal governo. Ancora meno seriamente si è affrontato il problema coloniale». In quell’anno la linea di espansione imperialistica dell’Italia puntava soprattutto verso il Sud, in direzione della «quarta sponda» africana, ma già andavano delineandosi chiaramente altre due, assai più promettenti ma anche foriere di acute tensioni nell’agone internazionale, direttrici geopolitiche: verso l’area balcanico-danubiana e verso l’Asia Minore. Naturalmente non è il solo San Giuliano a vedere nell’espansione coloniale una «valvola di sfogo» per una pressione demografica che esuberava le esigue capacità di assorbimento del mercato del lavoro nazionale. Per rendersene conto basta vedere cosa scriveva ad esempio il De Felice nel 1911: «A 13 ore da Catania, quasi quanto Milano dista da Roma, coraggiosi emigranti catanesi, cacciati dalle ostilità ottomane, mi riferiscono esistere agrumeti, vigneti, oliveti ecc. estesissimi […] I visitatori catanesi mi parlano dell’esistenza di vastissime miniere di zolfo, d’antimonio, di carbon fossile, e tutto ciò […] a poche ore da Catania […] Convinto che la sorte del proletariato della Sicilia e del Mezzogiorno è intimamente legata al problema della colonizzazione della Tripolitania, desidero ardentemente che l’Italia ufficiale si ritiri dall’infausta Eritrea, penetrando civilmente nella Tripolitania e Cirenaica, che non costerà nemmeno un colpo di fucile» (De Felice, intervista al Giornale d’Italia del 23 novembre 1911). È il tempo in cui il popolo canta «Tripoli, bel suol d’amore, sarai italiana al rombo del cannon!»; com’è noto, la famosa canzone di Gea della Garisenda invitava tutti gli italiani «A Tripoli!» La tremenda disfatta di Adua (marzo 1896), che aveva provocato la caduta del ministero Crispi, sembra dimenticata per sempre; il Via dall’Africa! pronunciato da Andrea Costa alla Camera dei deputati appare uno slogan invecchiato partorito da una mente disfattista.

Tuttavia, contrariamente agli auspici dei colonialisti «dal volto umano», l’impresa libica costerà «lacrime, sudore e sangue» al proletariato italiano, il quale dopo l’iniziale ubriacatura sciovinista che aveva creato il vuoto attorno all’opposizione socialista, dovette infine svegliarsi per fare i conti con il peggioramento delle proprie condizioni di vita. Tra i motivi che indussero la classe dominante italiana a prendere tempo nella fatale estate del 1914, a rinviare ogni decisione sull’entrata in guerra del Paese, occorre senz’altro annoverare i postumi dolorosi di quell’impresa, che certo non potevano fomentare nelle masse il necessario «sentimento nazionale» né un adeguato spirito bellicoso. Tra l’altro il Bel Paese si rese allora responsabile del primo massiccio impiego di armi chimiche in un conflitto, mentre l’aviazione tricolore dimostrò tutte le tragiche potenzialità della nuova Arma nell’ambito della moderna guerra. Italiani, brava gente. Forse.

In effetti, l’avventura coloniale italiana in Libia non si spiega soltanto o soprattutto con cause immediatamente economiche, anche perché quel Paese non era certo una terra promessa, né offriva sbocchi tali da poter alleviare la recessione dell’industria italiana. Essa va invece collocata all’interno di quel disegno strategico che vide l’Italia di inizio Novecento perseguire con una certa coerenza (sempre nei limiti dell’italica “saggezza geopolitica”: chiedere alla Germania…) il suo ingresso nel Grande Gioco delle potenze europee. E ciò tanto più nel momento in cui l’indebolimento della Turchia le schiudeva l’opportunità di una sua agevole penetrazione nell’entroterra dell’Impero Ottomano, nell’ambito della sua promettente politica espansionistica nell’area balcanica.

[Tratto da: Sebastiano Isaia, Uno statista all’ombra dell’elefante, in Meridionalismo d’accatto, 2008.]