L’IMPERIALISMO AMERICANO TRA REALTÀ E “NARRAZIONE”

L’ultima monografia di Limes dedicata agli Stati Uniti (America contro tutti) è a mio avviso molto interessante soprattutto perché cerca di fare piazza pulita dei tanti luoghi comuni che negli ultimi anni si sono addensati intorno alla cosiddetta America di Trump, in particolare, e più in generale intorno al presente e al prossimo futuro degli Stati Uniti, considerati da molti analisti geopolitici e da molti politici di tutto il mondo come una Potenza mondiale ormai condannata a un declino sistemico pressoché inarrestabile e inevitabile. Come si dice in questi casi, le cose sono più complesse di come appaiono alla luce delle “narrazioni” messe in campo non solo dai nemici degli Stati Uniti, ma dagli stessi politici americani, sempre pronti a cavalcare “lo spirito del tempo” soprattutto in chiave elettoralistica. E in quel Paese “lo spirito del tempo” ormai dal 2008 parla il linguaggio “isolazionista”.

La “narrazione” spesso, anzi quasi sempre, è più forte della realtà, e sicuramente la prima è agli occhi della mitica “opinione pubblica” molto più suggestiva della seconda; ed esattamente sulla scorta di questo “disdicevole” dato di fatto che i politici, soprattutto quelli basati in Occidente, fin troppo frequentemente prendono decisioni del tutto sbagliate, soprattutto sul terreno della politica estera: è un po’ questa la “filosofia” che ispira America contro tutti – Limes, 12/2019.

Scrive Dario Fabbri: «Per capire il momento della superpotenza occorre trascurare la retorica nazionalista di Trump. Gli Stati Uniti sono passati dalla fase imperialista a quella compiutamente imperiale. Sfidando il resto del mondo. E i rischi, domestici ed esterni, che tale aggressività comporta». A mio avviso la fase «compiutamente imperiale» della Potenza americana cade interamente all’interno del concetto “classico” di imperialismo, non è che l’imperialismo americano come si manifesta nel XXI secolo. Probabilmente il termine Impero (imperiale) in certe orecchie suona meglio, politicamente parlando, rispetto a quello di Imperialismo, più connotato del primo anche dal punto di vista ideologico. Ma non è qui il luogo per approfondire l’importante questione. Riprendiamo dunque la citazione: «L’America è imperiale, inquieta, contro tutti. L’inaggirabile cogenza della condizione egemonica, unita alla fatica percepita dalla cittadinanza, l’ha resa tanto universalistica quanto aggressiva nei confronti di clientes e nemici. Anziché regredire allo stato di nazione promesso da Trump, negli ultimi tre anni ha puntellato il proprio ruolo, cresciuto in freddezza, esposizione globale, solipsismo. A dispetto di una vulgata che la vuole in ritirata, ha aumentato il contingente militare dispiegato in ogni continente, l’attività di compratore sistemico, il numero di immigrati che accoglie sul proprio territorio. Ha continuato ad accollare agli altri il suo benessere attraverso il mostruoso debito pubblico, a usare carsicamente la retorica umanitaria per occultare la politica estera, a controllare le rotte marittime del pianeta. Per fissità dell’architettura imperiale, nata spontaneamente, impossibile da estinguere col solo arbitrio. Contro la volontà della popolazione che, provata dal mantenimento della primazia, vorrebbe tornare nazione. Stretta tra l’impossibilità di sottrarsi al proprio destino e la voglia di distacco, in questa fase la superpotenza considera il caos uno strumento della sua azione, almeno finché non ne lambisce gli interessi strategici. Promuove il non interventismo che ne riduce la fatica, pretende che i satelliti spendano di più per accedere al suo sistema. Finendo per considerare ogni interlocutore come un nemico. Per cui risulta simultaneamente in lotta con Cina e Russia, Germania e Giappone, Turchia e Iran, Gran Bretagna e Australia, Canada e Corea del Sud, Venezuela e Messico, perfino Italia. Attraverso il contenimento, le azioni dimostrative, i dazi, le sanzioni».

Limes, 12/2019

Secondo Fabbri (*) l’America di Trump è «la medesima che aveva promesso Obama, sebbene con una narrazione molto diversa da quella trumpiana. Partendo da questo punto abbiamo provato ad indagare lo stato di salute dell’impero. Sintetizzando e semplificando, ci troviamo di fronte a una classica fatica imperiale di un Paese che si trova a essere in una certa fase storica superpotenza contro la propria volontà, inevitabilmente, e che vive con fastidio crescente il proprio ruolo di gendarme del mondo. Bisogna partire dal presupposto che solo rarissimamente un singolo uomo è in grado di mutare la traiettoria di un Paese, e questo vale anche per Trump.

Non dobbiamo dimenticare che esistono quelle strutture che Franco chiama lo Stato profondo, che non è nient’altro che gli apparati dello Stato federale, cioè vari ministeri che gestiscono l’impero nella sua dimensione globale. Trump può sempre dire che sono i cattivoni dello Stato profondo che non rispettano la volontà popolare, che contraddicono lo spirito del tempo che vuole che gli americani presenti ai quattro angoli del pianeta ritornino tutti a casa. Come diceva Lucio Caracciolo poco fa, ciò che sostenevano Trump e Obama durante la campagna presidenziale del 2016 conta pochissimo, appunto perché il singolo soggetto non ha le capacità di cambiare la traiettoria di una collettività». In un post del 2016 (Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”) ho messo in luce i non pochi punti di continuità tra la politica estera praticata dal Nobel per la Pace (della serie: quando la fantasia fa impallidire l’immaginazione!) Obama e quella annunciata dal rissoso Trump.

Riprendo la citazione: «In questi ultimi tre anni leggendo i media si ha avuta l’impressione che la politica estera ed economica degli Stati Uniti sia cambiata di 360 gradi; l’impressione cioè che siano diventati essenzialmente chiusi, isolazionisti, nazionalisti, serrati nei confronti dell’immigrazione, protezionisti, dediti al disimpegno e al ritiro in tutti i quadranti del pianeta. C’è qualcosa che non torna in questa narrazione. Perché gli Stati Uniti sono così arrabbiati, se stanno ottenendo esattamente quello che Trump diceva e dice di volere, ossia tornarsene a casa e costringere gli altri Paesi a pagare di più l’accesso al loro sistema? Bisogna distinguere tra realtà e narrazione. Obama e Trump hanno promesso agli americani di tornarsene a casa, di chiudersi e di far pagare agli altri sia il fardello militare quanto quello commerciale perché questo gli americani volevano sentirsi dire, niente di più niente di meno. Ma indagando scopriamo che lo smantellamento dell’impero globale non c’è stato, che in questi anni l’impero americano si è confermato nella sua interezza e che anzi ha esteso la sua presenza nel globo, invece di tornarsene a casa. Gli Stati Uniti sono meno protezionisti di tre anni fa, così come  sono meno chiusi verso l’esterno, verso  l’immigrazione rispetto a tre anni fa. Tutti i dati confermano questa analisi. Se dovessimo spiegare in breve il perché di tutto questo, diremmo con una formula che dall’impero non ci si può dimettere. Dimettersi da impero diventa impossibile nel momento in cui lo si è; se gli americani decidessero di ritirarsi in convento gli altri li verrebbero a cercare, come accadrebbe al grande fuorilegge che decidesse di passare ad una vita puramente legale dopo aver sparso tanta violenza nella sua carriera. Nessun impero può abbandonare la traiettoria che ha più o meno volontariamente intrapreso. Non c’è verso, e le ragioni concrete di questa impossibilità sono legate all’atteggiamento sentimentale degli americani, anche di quelli che propendono per un ritorno a casa, per un abbandono degli interessi globali: essi non vorrebbero mai abbandonare lo status di numero uno del pianeta, per usare un’espressione molto americana».

Gli Stati Uniti sono condannati a essere una superpotenza; essi sono un impero globale loro malgrado: questa tesi può avere un qualche senso solo a patto che la si illumini con il concetto di interesse: per perseguire i suoi interessi sistemici (economici, finanziari, tecno-scientifici, militari, ideologici, ecc.) l’imperialismo americano è ovviamente “costretto” a difendere, consolidare ed espandere con tutti i mezzi necessari le sue posizioni conquistate nell’arco di oltre un secolo. Non solo non ci si può dimettere dal potere mondiale, ma soprattutto non si ha alcun interesse a farlo. Il limite fondamentale del pensiero geopolitico è quello di non prendere in considerazione il concetto e la realtà del dominio di classe, il concetto e la realtà del rapporto sociale capitalistico, e quindi esso ragiona sempre in termini di nazioni considerate come soggetti socialmente e politicamente omogenei al loro interno. Il punto di vista geopolitico non vede classi sociali e interessi di classe, ma Nazioni, Stati e Popoli, tutti concetti che occultano la natura classista delle Nazioni, degli Stati e dei Popoli. Chi decide la politica estera di un Paese è la classe dominante di quel Paese, oppure la sua frazione che contingentemente si impone sulle altre orientando, con le buone o con le cattive (o con un mix di entrambe), le scelte dello Stato. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario.

Limes, 12/2019

Anche per Colin Dueck Redazione Limes«La politica estera dell’istrionico inquilino della Casa Bianca è meno originale di quanto sembri. The Donald è un attore razionale. Il modo in cui l’amministrazione Trump pensa il mondo non può che essere di notevole interesse per gli osservatori stranieri. Per comprenderlo è prima fondamentale chiarire i ruoli e le prospettive dei numerosi attori coinvolti a Washington nella gestione dei dossier internazionali. Le decisioni prese da Donald Trump non sono casuali, per quanto a molti possa sembrare così. Derivano, almeno parzialmente, da specifiche interpretazioni elaborate nel corso dei decenni. Il fatto che il presidente diffonda le proprie posizioni soprattutto tramite interviste in radio – e non in contesti convenzionali come i paludati think tank washingtoniani – viene interpretato dagli analisti più dogmatici come la prova che il presidente non abbia alcuna visione del mondo. Formidabile errore».

Ultimamente la visione del mondo del Presidente americano sembra essersi allargata fino a contemplare lo spazio: «Il presidente Donald Trump ha firmato la legge che istituisce le forze spaziali, sesta branca delle forze armate statunitensi accanto ad esercito (Army), marina (Navy), aeronautica (Air Force), Marine e Guardia Costiera. Annunciata nel 2018, la nuova armata spaziale americana è da considerarsi ufficialmente istituita con la firma da parte del presidente del budget militare annuale da 738 miliardi di dollari. “La nostra resilienza basata sulle capacità spaziali è cresciuta enormemente ed oggi lo spazio è diventato un campo di battaglia per il suo dominio”, ha osservato il segretario alla Difesa Usa, Mark Esper. “Mantenere il predominio americano nello spazio è ora la missione delle forze spaziali degli Stati Uniti”, ha aggiunto» (La Repubblica). Imperialismo spaziale! Le annunciate missioni esplorative sulla Luna e su Marte si collocano in questo scenario di sfida totale.

Federico Petronisi si è occupato «della dimensione militare dell’impero americano»: «Se avete dei dubbi se per caso l’America sia o no un impero, andate a vedere il suo schieramento militare all’estero e scoprirete che esattamente come nella dimensione finanziaria non è mai esistito un debito così alto, una potenza così indebitata, nella storia non è mai esistito un impero mondiale così esteso dal punto di vista militare, non è mai esistita una Rete di basi militari così estesa. Le installazioni militari all’estero – almeno ottocento, forse molte più – sono l’impronta della postura imperiale. La scelta di impiantarsi nel mondo deriva dalle lezioni della seconda guerra mondiale. Il contenimento dell’Eurasia è la priorità. Ma chi comanda davvero? […] Compongono una rete immensa e innumerata, ai quattro angoli del pianeta, dal Giappone all’Honduras, dalle sabbie arabiche ai ghiacci groenlandesi, dai verdi colli di Baviera e Palatinato al ceruleo atollo di Wake. Sono indeterminate come indeterminato è il limite geografico del primato a stelle e strisce – coincidente con il mondo stesso, in attesa del cosmo. Ripropongono il mito della frontiera, catapultata in Eurasia dopo aver soggiogato Nordamerica e Oceano Pacifico. […] Soprattutto, le basi sono l’espressione più manifesta della natura imperiale del primato degli Stati Uniti. Sottrarre terreni alla sovranità altrui, stanziare militari in paesi stranieri, controllare proprietà o averle nella propria disponibilità mette a nudo lo squilibrio dei rapporti di forza tra Numero Uno e resto del mondo. Investe la sfera del comando, essenza stessa dell’impero. […] Infine, le basi investono le funzioni più salienti del mantenimento del primato statunitense: contenimento e deterrenza dei nemici, sedazione dei potenziali avversari, rassicurazione dei soci, intervento rapido in caso di crisi, controllo degli stretti e dei mari, creazione di una rete di comunicazione planetaria».

Per Petroni non è possibile fare un esatto conteggio delle basi e delle istallazioni militari americane all’estero per tre motivi: il primo motivo ha un’ovvia natura strategica, in quanto la profonda ambiguità circa il numero e la dislocazione geografica delle basi militari americane serve a non dare troppe informazioni ai nemici, i quali se «sapessero dove e come sono presenti gli americani nel mondo si difenderebbero meglio e attaccherebbe meglio la potenza americana in caso di guerra». Il secondo motivo chiama in causa quei Paesi che ospitano le basi o un qualche tipo di istallazione militare statunitense ma che cercano di occultare o comunque minimizzare la cosa agli occhi dell’opinione pubblica nazionale, magari avvezza alla demagogica propaganda antiamericana: è il classico caso dell’Arabia Saudita – non a caso la patria di Bin Laden. C’è poi da considerare la riluttanza che una parte non piccola degli americani coltiva nei confronti della «proiezione imperiale» del loro Paese, che se da una parte titilla l’orgoglio nazionale, dall’altra è vissuta da molti cittadini statunitensi come una permanente fonte di problemi e di costi. «L’impero comporta un fardello che non tutti gli americani sono disposti a sopportare».

La mappa che vien fuori dalla presenza militare statunitense nel mondo(*) «rappresenta plasticamente la strategia geopolitica degli Stati Uniti. Collegando le principali installazioni militari ci siamo resi conto che queste formavano effettivamente uno strumento assai utile per capire che cosa ci stanno a fare gli Stati Uniti nel mondo; la loro strategia è immutata dalla seconda guerra mondiale, e prevede di impedire che in Eurasia sorga un rivale o una coalizione di rivali che posso mettere a repentaglio l’egemonia mondiale americana. Pensateci bene: Seconda guerra mondiale, sfida a nipponici e tedeschi; Guerra Fredda, impedire ai sovietici di conquistare la Germania e l’Europa occidentale; la fase attuale prevede proprio di impedire a Cina, Russia e in misura minore anche all’Iran di costruirsi delle sfere di influenza dalle quali escludere l’America, sottraendole così il controllo dei mari che è la dimensione più pura del potere globale americano – anche perché il novanta per cento delle merci che acquistiamo e ci scambiamo viaggiano sul mare. Questa linea, dicevo, illustra plasticamente la strategia degli Stati Uniti perché ci fa vedere dove l’America si difende in posizione avanzata per contenere i propri rivali. La sua presenza militare in Europa serve sia a mantenere in una condizione imbelle la Germania, che è l’ossessione strategica degli Stati Uniti da un secolo a questa parte, e l’Europa tutta; sia, ovviamente, a impedire una per quanto improbabile avanzata russa e a tenere la pressione sulla Russia». Discorso analogo vale per la loro presenza in Medioriente, con l’Iran che recita il ruolo di nemico strategico principale da tenere sotto costante assedio. Alla Cina «bisogna tassativamente impedirle di uscire dai propri asfittici confini nazionali, e che la stessa Cina percepisce come opprimenti, e infatti essa sta lavorando per costruirsi una sfera di influenza a partire dal Mar Cinese Meridionale per andare molto oltre».

La conclusione: «Quindi vedete subito che gli Stati Uniti non si stanno affatto ritirando, perché da settant’anni a questa parte, anzi più di settanta o ottant’anni a questa parte, la loro sicurezza non si gioca più nel Golfo del Messico, sulle coste atlantiche o sulle coste del Pacifico ma si gioca a casa degli altri, e questo destino non se lo sono assegnato loro stessi, sarebbero rimasti volentieri dentro i loro confini nazionali». Qui vale il commento fatto sopra: non si tratta affatto del destino, o della mera oggettività dei processi storici: si tratta soprattutto di giganteschi interessi, si tratta del potere sistemico della classe dominante statunitense.

(*) Qui cito dalla presentazione della rivista di Limes che ha avuto luogo a Roma il 20 gennaio scorso e che è scaricabile da Radio radicale.

LA WELTANSCHAUUNG DEL CAPITALE

floating-docklands-surf-park-melbourne-damian-rogers-designboom-330selSu Limes (17 novembre) Enrico Beltramini fa un’analisi delle cause che hanno prodotto la secca sconfitta politica di Barack Obama, resa evidente dall’ultima tornata elettorale di midterm, e cerca di individuare il tema forte che potrebbe rilanciare nel prossimo futuro l’America del Nord come potenza globale in grado di vincere le sfide del XXI secolo – il riferimento al Celeste Imperialismo cinese è, come si dice, nelle cose. Beltramini disegna un quadro della società americana a tinte fosche*, comunque tale da evocare senz’altro il concetto di crisi di identità, di una crisi esistenziale di ampio respiro e a largo spettro: «Frustrati da un’economia che manda segnali ambigui, preoccupati per la possibilità che l’annunciata ripresa sia poco più che una chimera, in preda a una profonda ansia, gli americani si chiedono da dove proverrà il senso ultimo delle cose».

Da quale sfera della prassi sociale arriverà dunque questo «senso ultimo»? Cosa sarà in grado di ripristinare il tradizionale ottimismo degli americani? L’economia? la politica? la difesa (intesa come «sistema industriale-militare»)? la religione, oppure, dulcis in fundo, la tecnologia? In effetti, secondo Beltramini è proprio dalla tecnologia che può arrivare quella scossa strutturale capace di rispondere adeguatamente alla ricerca di senso degli americani e al bisogno di riaffermare la leadership sistemica mondiale statunitense, «così urgentemente richiesta dal paese».

Ed eccoci finalmente arrivati al saggio di vero e proprio feticismo tecnologico che intendo condividere con il lettore: «Se nei prossimi vent’anni si rendesse autonoma dalla Difesa e arrivasse a dominare il capitalismo, la tecnologia può diventare – nel vuoto creato dalla crisi di politica e religione – la forza egemone, o quantomeno la fonte di leadership degli Stati Uniti. Perché questo avvenga occorre un ulteriore elemento: che la tecnologia si doti di un’autocoscienza (come si sarebbe detto nell’Ottocento). La tecnologia deve produrre una nuova Weltanschauung». Qui siamo già oltre, ben oltre, il concetto di tecnologia intelligente. Qui davvero ha senso parlare del Capitale come spirito del mondo. Perché la tecnologia e la scienza che la presuppone in modo sempre più stringente sono in realtà la quintessenza del capitalismo. Il solo immaginare una Weltanschauung della tecno-scienza come cosa diversa dalla Weltanschauung del Capitale la dice lunga sulla scienza sociale borghese, sempre più impigliata in quel velo tecnologico che non le consente di cogliere il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che si cela dietro la compatta materialità delle cose.

«Se la tecnologia arrivasse a dominare il capitalismo»: come se essa fosse cosa diversa dal capitalismo! Com’è noto, per Marx si può parlare propriamente, in senso stretto, di moderno capitalismo solo con l’introduzione nel processo di produzione della tecno-scienza, la quale provocò il passaggio dalla «sussunzione formale del lavoro al capitale» a quella «reale», realizzando in tal modo il rapporto sociale veramente peculiare della nostra epoca storica. chris-labrooy-tales-of-auto-elasticity-designboom-021Come la scienza è l’intelligenza del Capitale concepito in quanto potenza sociale, così la tecnologia è il suo più potente mezzo teso a incrementare incessantemente la produttività del lavoro, ossia lo sfruttamento del «capitale umano» e il saccheggio della natura. «Nella macchina la scienza realizzata appare di fronte agli operai come capitale. […] La scienza, come prodotto intellettuale generale dello sviluppo sociale, agisce come forza produttiva del capitale di contro al lavoro, appare come sviluppo del capitale» (Marx, Il Capitale, capitolo sesto inedito). Ma di certo non proverò nemmeno a convincere della bontà di queste astruserie dottrinarie chi concepisce lo stesso Capitale, non come potenza sociale e come rapporto sociale, bensì alla stregua di una mera tecnologia economica al servizio degli individui, ai quali spetterebbe la responsabilità del suo buono o cattivo uso: «il coltello, ad esempio, può fare del bene ma può anche fare del male». Insomma, anche il Capitale sarebbe una questione di libero arbitrio.

È appena il caso di ricordare al lettore di questo blog che per il sottoscritto la Weltanschauung del Capitale si compendia nella ricerca del massimo profitto, con tutto quello che ne segue necessariamente in ogni aspetto della nostra esistenza, ridotta a riserva di caccia messa a disposizione di una bestia sempre più famelica e aggressiva. thomas-heatherwick-studio-pier-55-hudson-river-new-york-designboom-330selX«Oggi la tecnologia si propone già in una versione ludica –  tecnologie per il buon vivere – e salvifica – per sconfiggere la morte e il dolore. Si è dunque proposta di ridisegnare non soltanto l’umano ma anche il cosmologico. È proprio grazie a questa crescente autodefinizione intellettuale che essa potrebbe avere la possibilità di guidare l’America nei prossimi decenni». Nei passi appena citati insiste, ovviamente all’insaputa dell’autore e al di là del riferimento specifico (gli Stati Uniti), il concetto di totalitarismo sociale del Capitale che cerco di sviluppare con maniacale insistenza.

10419057_811020108944382_6609911148612413765_n*Aggiunta da Facebook

NON È UN MONDO PER BAMBINI. SOPRATTUTTO SE SONO POVERI…

Scrive Alessandro Mauceri su Notizie Geopolitiche (18 novembre): «Il problema dei bambini poveri costretti a vivere per strada non è nuovo. Il fatto è che il problema persiste e, anzi, pare che la situazione stia peggiorando. Il National Center on Family Homelessness ha lanciato l’allarme: un bambino su trenta è senzatetto. E questo non in qualche sperduto paese africano, ma nei civilissimi Stati Uniti d’America. Secondo i risultati dello studio dal titolo “America’s Youngest Outcasts”, nel 2013, due milioni e mezzo di bambini americani non ha una casa. Solo nell’ultimo anno la povertà infantile è cresciuta dell’8%. E la situazione non è migliore in altri Paesi “civili” del mondo. La verità, però, è che i senzatetto sono la prova tangibile e viva del fallimento di un certo sistema di gestire la società, un sistema basato solo sul denaro e sui beni di consumo. Un sistema che non ha in nessuna considerazione i diritti umani, neanche quando sono quelli di un bambino. Anzi, di milioni di bambini». Si chiama sistema capitalistico, caro Mauceri. Scriveva infatti nel 2011, sempre su Notizie Geopolitiche, Enrico Oliari commentando il rapporto del Centro nazionale per le famiglie senzatetto diffuso negli Stati Uniti nel dicembre di quell’anno:

«A riportare i dati sono, ovviamente, fonti estere, poiché sia la stampa statunitense che i politici a stelle e strisce stragi urano che le cose nel Paese dello zio Sam continuano ad essere perfette. È un po’ come vedere i telefilm americani alla tv, dove tutti sono snelli ed agili, ma poi, scendendo dalla scaletta dell’aereo a New York piuttosto che a San Francisco, ci si rende conto di rotondità evidenti e piuttosto ingombranti. D’altro canto la bugia del “Paese delle libertà” si è improvvisamente eclissata nel momento in cui centinaia di newyorkesi, impegnati nelle pacifiche manifestazioni dell’Occupied Wall Street, sono state arrestate e malmenate dalla polizia: se non vi fossero stati i grattacieli ed il marcato accento slang, si sarebbe pensato alle scene di un film di repertorio di un paese del blocco sovietico. D’altronde è essenziale per gli Usa e per la politica estera tenere alta la linea e mostrare urbi et orbi che là, nella terra del capitalismo, le cose vanno sempre bene. Madama la marchesa».

Come si dice, tutto il mondo è Paese, anzi: Capitalismo. Capitalismo con caratteristiche americane, capitalismo con caratteristiche cinesi, capitalismo con caratteristiche europee, e così via: ce n’è per tutti i gusti. Quanto ai cosiddetti «diritti umani» lamentati da Mauceri, è meglio stendere un velo pietosissimo.

COSE ALBANESI!

enver_hoxha_agrarian_reformDopo l’umiliante Caporetto calcistica in terra brasiliana, consoliamoci con il brillante successo geopolitico che l’italico imperialismo ha fatto registrare in sede UE: «Come preannunciato lo scorso 6 giugno, il Consiglio Ue ha dato il via libera allo status di Paese candidato all’ingresso nell’Unione europea all’Albania, cosa che verrà ufficializzata dai capi di Stato e di governo nel vertice di Ypres di giovedì e venerdì. A differenza di Francia, Germania, Gran Bretagna, Danimarca e Olanda, che si sono sempre detti contrari, l’Italia, è stata sempre in prima linea per chiedere l’adesione di Tirana all’Ue ed oggi a Lussemburgo il sottosegretario per gli Affari europei Sandro Gozi ha confermato che “riteniamo sia assolutamente fondamentale riconoscere all’Albania lo status di paese candidato e accelerare il processo di adesione di tutti i Balcani occidentali, a partire da Albania e Serbia”» (Notizie Geopolitiche, 24 giugno 2014).

Sulla presenza del capitale del Bel Paese nell’Est europeo rimando a Il capitale italiano guarda sempre più a Est.

Compulsando Limes, la nota rivista di geopolitica, per avere altri ragguagli sulla confortante notizia di cui sopra, mi sono imbattuto in uno spassosissimo articolo di Giovanni Armillotta (da me preso di mira in un post del 2013: Geopolitica e coscienza di classe) dedicato nientemeno che alla difesa di Enver Hoxha, l’ultimo dittatore “comunista” dell’Albania.

La cosa più curiosa è che il buon Armillotta non è uno dei tanti “comunisti” nostalgici che appestano Miserabilandia, ma un ex (?) socialista che ci tiene a farci sapere di essere stato «uno dei tre cittadini del nostro paese – tutt’e tre iscritti al Partito socialista italiano, che allora esprimeva il vertice governativo – che si vide pubblicare ufficialmente sulla stampa albanese il formale telegramma di condoglianze per la scomparsa di Enver Hoxha (11 aprile 1985). Fui in compagnia di Sandro Pertini e Bettino Craxi» (L’Albania e il Pci in ginocchio da Tito, Limes, 8 settembre 2009).

Enver-Hoxha-a-destra-con-StalinPer farla breve, Armillotta rinfaccia ai “comunisti” italiani di aver sempre sputacchiato su Enver Hoxha, trattato come un rozzo e violento tiranno, mentre al contempo leccavano le suole delle scarpe di Stalin e (successivamente) di Tito e di altri dittatori “comunisti” lorde del sangue di centinaia di migliaia di poveri disgraziati finiti per qualche motivo nel tritacarne del “comunismo rispettabile”.

«Mentre il nostro Partito comunista incensava il brutale regime di Tito, gli stessi politici condannavano Hoxha, colpevole di non essersi allineato a Mosca e di resistere alle mire espansionistiche della vicina Jugoslavia, un immenso campo di concentramento a cielo aperto. Chi era il vero mostro?» Armillotta ricorda con perfida ironia agli ex compagni del PCI i massacri perpetrati nella «“democrazia” titista, i campi di concentramento del socialismo jugoslavo» e altre magagne occorse nei «Paesi socialisti» (dalla Russia alla Cina, dalla Romania alla Corea del Nord) da essi frequentati senza alcun senso di colpa e anzi con colpevole complicità politica.

«In Yugoslavia e non in Albania iniziarono a sorgere i famigerati campi di concentramento del tipo Goli-otok (isola calva), una specie di Auschwitz nelle condizioni del “socialismo jugoslavo”. In quei campi non patirono sofferenze, non furono mutilati e sterminati solo i cominformisti, ma pure i semplici oppositori e, fra loro, anche centinaia di cossovari e altri albanesi residenti nelle repubbliche di Montenegro e Macedonia, nonché alcuni illusi comunisti italiani che si erano rifugiati nel “paradiso” titista portandosi il tricolore con la stella rossa sul campo bianco. In totale nei Goli-otok furono internate 30 mila persone, delle quali circa 4 mila trovarono la morte per torture o sfinimento (i campi furono chiusi nel 1988. Però la direzione jugoslava aveva la sfrontatezza di accusare l’Albania che aveva trasformato il paese in una “caserma dove regnava lo stivale dei militari!”». Ecco dunque quale era la “democrazia titista”, esaltata nel nostro paese dalla seconda metà degli anni Cinquanta sino al 1990».

Armillotta ne ha anche per quelli del Manifesto: «ai filocinesi all’amatriciana non andava giù che gli albanesi avessero mandato a quel paese anche Mao. Basta far mente locale alle patetiche lacrime di circostanza [versate] all’indomani di Piazza Tiananmen». Che spasso, questo difensore dello stalinismo con caratteristiche albanesi! Guardate adesso come egli recupera in chiave geopolitica la funzione di Enver Hoxha: «Riusciamo a frenare un moto d’irritazione nel ricordare le ingiurie de Il manifesto, che si preoccupava per il Canale d’Otranto, bloccato da un regime autoritario. Forse per i radiati di ieri sarebbe stato auspicabile il problema finanziario e geopolitico che avrebbe rappresentato per l’Italia e la Nato la presenza dei Sovietici a tre minuti di MIG dalla Puglia?». Non c’è che dire, un capolavoro “dialettico” degno di un Gianni De Michelis!

Seguono alcuni passi tratti da un mio articolo del 1991 (Catastrofe del “modello jugoslavo”) pubblicato su Filo Rosso. Giusto per non incorrere nelle ire antititoiste di Armillotta.

mulegreeceQuando il 25 febbraio 1980 la Jugoslavia firmò a Bruxelles l’accordo di cooperazione con la CEE, il quale prevedeva un prestito di 300 milioni di dollari e una serie di agevolazioni nella sfera commerciale per la traballante Federazione, a tutti gli analisti (tranne ai soliti patetici ricercatori di “Terze Vie”) apparve chiaro come in quel giorno si ufficializzasse il completo fallimento di quello che nel secondo dopoguerra era passato alla storia come “modello jugoslavo di socialismo”.

Ciò che Pintor e compagni oggi definiscono «la straordinaria architettura politica e sociale realizzata da Tito», metteva finalmente a nudo le magagne strutturali del cosiddetto “socialismo autogestionario”, durato quattro decenni con il sostegno politico-ideologico di quei “comunisti critici” occidentali che non volevano rassegnarsi a un modello sovietico sempre meno presentabile alle classi subalterne come credibile e auspicabile alternativa al capitalismo. Ogni velleità di autonomia politico-economica, fatta pagare soprattutto al proletariato delle repubbliche meridionali, mostrava definitivamente la corda e presentava il salatissimo conto.

La Yugoslavia, anticipando di qualche anno il miserrimo destino degli altri Paesi oggi “ex socialisti” del Vecchio Continente, iniziava a ruotare intorno ai capitalismi più forti d’Europa.

Ma cosa aveva di socialista quella «straordinaria architettura» venuta fuori dal secondo macello mondiale? Naturalmente niente, nel modo più assoluto. Si trattava di un’architettura capitalistica centrata su un apparato politico assai dispotico e centralizzato che aveva nella Serbia il suo centro di gravità.

[…]

Il tanto celebrato e mitizzato «modello autogestionario» elaborato dal gruppo dirigente titino, lungi dall’essere stato un esperimento originale di costruzione del socialismo, non fu altro che il tentativo di modernizzare un Paese plurinazionale che in trent’anni di storia “unitaria” non era riuscito a creare un omogeneo terreno economico, politico, etnico, ecc. dai confini con l’Austria a quelli con l’Albania. […] La cosiddetta autogestione aziendale non si sostanziò mai in una esaltazione della «democrazia aziendale», all’interno della quale l’operaio veniva a recitare un ruolo di comando e non di mera forza-lavoro sussunta sotto il capitale, come invece sostennero molti antistalinisti italiani ed europei (insomma, i soliti terzisti smentiti puntualmente dal processo sociale); essa all’opposto finì per esaltare grandi e piccoli interessi aziendali, locali, nazionali, e le magagne strutturali vennero a galla non appena l’opera di ricostruzione postbellica fu conclusa, peraltro con un certo successo. […] Alla fine il sistema non ha più retto: disorganizzazione produttiva, deperimento tecnologico, alta inflazione, alta disoccupazione, bassi salari, gap crescente fra il Nord sviluppato (Slovenia e Croazia) e il Sud “depresso” e assistito dallo Stato.

[…]

Scrive Vladimir Dapcevic: «Nel 1948, una parte dei dirigenti jugoslavi, soprattutto Tito e Kardelj, ha completamente liquidato la politica internazionalista ed è passata su posizioni nazionaliste borghesi. Questa politica jugoslava nazional-borghese non poteva alla fine che provocare, subito dopo, l’esplosione del nazionalismo in tutte le repubbliche» (Il Manifesto, 6 agosto 1991). In realtà il gruppo dirigente che si formò intorno al carismatico Tito fu sempre, al di là della retorica “internazionalista” comune agli stalinisti d’ogni latitudine, «su posizioni nazionaliste borghesi», e lo dimostrò al di là di ogni ragionevole dubbio appena la situazione glielo permise.

Mutatis mutandis, il maresciallissimo Tito non fece che applicare alla situazione jugoslava l’arcinota teoria della «via nazionale al socialismo» a suo tempo teorizzata a Mosca per dare un sostegno ideologico all’accumulazione capitalistica a tappe forzate e a ritmi accelerati. Questa teoria postulava la necessità per ogni Paese conquistato al “socialismo” di muoversi lungo il sentiero più congeniale al proprio retaggio storico, alla propria struttura sociale, alla propria cultura e, last but not least, ai propri interessi nazionali.

[…]

Già la Costituzione del 1974 sancì il dato di fatto di una Federazione che non era riuscita a far convivere nel suo seno differenti nazionalità, etnie, culture. «La sfortuna della Jugoslavia», sostiene Jovan Miric, un serbo contrario a ogni genere di nazionalismo, «è stata quella di non essere mai riuscita la Federazione a diventare uno Stato moderno e democratico. A dirigerla c’è sempre stato un pugno d’uomini» (Il Manifesto, 14 settembre 1991).

Lo sciovinismo grande serbo non solo non è morto con la Costituzione del ’48, ma si è dato anche una prospettiva più ampia e ambiziosa, che alla fine si è dimostrata velleitaria, dando corpo a una politica estera che guardava oltre il vecchio e angusto orticello balcanico, per proiettarsi nel grande gioco fra le potenze. Alludiamo alla politica titina volta a costituire il cosiddetto fronte dei non allineati, un polo imperialista “terzista” in grado di smarcarsi dall’influenza geopolitica delle due superpotenze mondiali.

Oggi solo i “comunisti” rifondati delle nostre poco amate sponde sembrano versare nostalgiche lacrime sul «ruolo importante della Jugoslavia nel movimento dei non allineati», come si legge su un loro documento del 20 agosto ’91, e c’è da scommettere che molti di loro rimpiangono il ruolo di grande potenza recitato dall’Unione Sovietica nel corso del mezzo secolo che ci sta alle spalle.

L’UCRAINA DA LENIN A LUCIO CARACCIOLO

Lenin-reading-Pravda-c_19-007Gratta molti comunisti, e troverai degli sciovinisti gran-russi (Lenin).

Secondo Lucio Caracciolo, per gli abitanti di Kiev che hanno abbattuto l’ultima statua di Lenin, quest’ultimo «non è solo il padre dell’impero sovietico che li oppresse per settant’anni, è il fustigatore dell’indipendentismo ucraino che alla fine della prima guerra mondiale aveva sperato di emanciparsi dalla stretta russa. L’autore dell’ultimatum contro i secessionisti “borghesi”, con cui il 17 dicembre 1917 il nascente potere sovietico volle chiarire che non avrebbe tollerato l’indipendenza ucraina» (1). Ma le cose, almeno per ciò che riguarda il rapporto tra Lenin e l’Ucraina del suo tempo, stanno davvero così? Vediamo.

In effetti il 4 (17) dicembre il Consiglio dei Commissari del Popolo presieduto da Lenin presentò alla Rada di Kiev un ultimatum, che imponeva: 1. di cessare ogni attività disgregatrice al fronte; 2. di proibire l’afflusso di forze controrivoluzionarie verso il Don; 3. di abbandonare l’alleanza con Kaledin; 4. di restituire in Ucraina le armi ai reggimenti rivoluzionari e ai reparti della Guardia Rossa. A Caracciolo tuttavia sfugge un insignificante – faccio dell’ironia – particolare: la Russia, considerata in tutta la sua estensione geopolitica (ossia Grande Russia e nazionalità oppresse), a quel tempo fu attraversata da una tempesta rivoluzionaria che mise all’ordine del giorno il superamento della fase borghese iniziata nei primi mesi del ’17, e che aveva messo fine al regime zarista. Il tutto, in stretta connessione con quanto andava producendosi nel resto del Vecchio Continente, soprattutto in Germania, dove il proletariato d’avanguardia sembrava poter «fare come in Russia». Sembrava, appunto. Ma questo è un altro capitolo della storia.

Alle smaliziate orecchie di Caracciolo la tesi leniniana secondo la quale «I comunisti della Russia e dell’ucraina, con un lavoro comune e paziente, [si battono] per la distruzione del giogo dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, per la repubblica federativa sovietica mondiale» (2), deve naturalmente suonare come puramente propagandistica. E ideologica gli deve apparire lo sforzo leniniano di tenere insieme la dimensione classista del processo sociale rivoluzionario russo, e la sua dimensione nazionale, che originava dal retaggio storico della Russia.

Ciò testimonia la sua assoluta incomprensione di quel processo, che egli legge attraverso schemi, concetti e categorie mutuate dalla dottrina geopolitica, mentre ovviamente l’approccio critico-rivoluzionario alla storia della Rivoluzione d’Ottobre gli è precluso dalla sua concezione (borghese) dei rapporti tra le classi, tra gli Stati, tra le Nazioni e via dicendo. D’altra parte, bisogna sempre considerare l’ombra e il discredito che lo stalinismo ha gettato su quella Rivoluzione, rispetto alla quale esso si è posto non in continuità, magari contraddittoria e non del tutto coerente, bensì in radicale, totale e drammatica cesura, insomma come controrivoluzione. Possiamo dunque, in tutta onestà, essere troppo severi nel considerare le “lacune” storiche del nostro accreditato esperto di cose geopolitiche? Io non me la sento. Personalmente sono disposto a concedergli l’attenuante stalinismo. Piuttosto, bisogna esercitare la massima ostilità critica nei confronti di chi, da sedicente “comunista”, continua a interpretare lo stalinismo come la continuazione dell’Ottobre con altri mezzi, nelle mutate circostanze interne e internazionali.

360_putin_illo_1219Checché ne possa pensare Caracciolo dall’alto della sua scienza geopolitica (3), affermo senza alcun dubbio che l’aggressivo imperialismo energetico di Vladimir Putin è, mutatis mutandis, in assoluta continuità storica con l’Impero zarista e con l’Imperialismo staliniano sorto dalle ceneri della Rivoluzione d’Ottobre. La metaforica anima di Lenin non ha nulla a che spartire con l’esistenza e la vitalità della «Madre Russia». Per questo quando una statua di Lenin cade in un luogo qualsiasi dell’immenso spazio Russo e russificato, personalmente non posso che sorridere, pensando malignamente agli stalinisti ancora attivi nel Bel Paese: come le macerie del famigerato Muro, quelle miserabili statue cadono sulla loro zucca sedicente “comunista”.

Scriveva Trotsky il 29 maggio 1920, dal suo “mitico” vagone militare: «Oggi, maggio 1920, nuove nubi si addensano sulla Russia sovietica. La borghese Polonia, col suo attacco all’Ucraina, ha dato il via alla nuova offensiva dell’imperialismo mondiale contro la Repubblica sovietica […] L’armata rossa guidata dagli operai comunisti distruggerà la borghese Polonia, e questo dimostrerà ancora una volta la potenza della dittatura del proletariato, infliggendo così un duro colpo allo scetticismo borghese (kautskismo) ancora presente nel movimento della classe operaia […] Noi combattiamo per L’Internazionale Comunista e per la rivoluzione proletaria internazionale. La posta è grande da entrambe le parti, e la lotta sarà dura e dolorosa. Noi speriamo nella vittoria, poiché ne abbiamo ogni diritto storico» (4). Chissà se Caracciolo è in grado di apprezzare in tutta la sua portata storica la radicale differenza che passa tra una guerra rivoluzionaria e una guerra “ordinaria”, ossia imperialistica, del tipo di quella che insanguinò l’Europa nel periodo 1914-18, e di quella che annegherà nel sangue il mondo nel 1940-45. Non credo. D’altra parte, se non si è in grado di afferrare quella differenza non si può comprendere la reale posta in gioco che allora si giocò nella Grande Russia e in Ucraina.

Come ricorda Edward H. Carr, «Tra le nazioni dell’impero zarista, le sole a rivendicare l’indipendenza completa subito dopo la rivoluzione di febbraio furono la Polonia e la Finlandia» (5). Com’è noto, il diritto delle nazioni oppresse all’autodecisione costituiva un punto assai importante del programma bolscevico, e più di una volta Lenin accusò il governo russo insediatosi al potere dopo la caduta dello zar di attuare nei confronti delle nazioni oppresse dalla Grande Russia la stessa politica reazionaria dei vecchi tempi: «La rivoluzione è limitata al fatto che al posto dello zarismo e dell’imperialismo abbiamo una pseudo repubblica, sostanzialmente imperialistica, nella quale persino i rappresentanti degli operai e dei contadini rivoluzionari non sanno comportarsi democraticamente verso la Finlandia e l’ucraina, cioè senza temere la loro separazione» (6). Lenin concepiva l’autodecisione non come un mero espediente tattico, ma come il solo approccio possibile in un Paese che da secoli opprimeva nazioni, popoli, etnie, culture: il veleno nazionalistico che scorreva anche nelle vene del proletariato delle nazioni oppresso poteva venir depotenziato, e poi del tutto superato a vantaggio di un approccio internazionalista delle contraddizioni sociali, solo manifestando, nel Paese oppressore, la massima disponibilità a soddisfare le rivendicazioni nazionali dei popoli oppressi, anche quelle orientate alla separazione delle loro nazioni di riferimento dal centro oppressore.

Il caso ucraino differiva molto da quello polacco e finlandese: «La zona più estesa, la Ucraina orientale, faceva parte dell’impero russo, ma l’Ucraina occidentale, che comprendeva la zona orientale della Galizia, era sotto la dominazione austriaca, e in Galizia la classe dominante era quella dei proprietari terrieri polacchi che avevano alle loro dipendenze contadini ucraini» (7). Si comprende, allora, la forte propensione antipolacca dimostrata dai contadini ucraini durante la guerra russo-polacca del 1920-21. «Non vi fu mai la possibilità che l’Ucraina potesse diventare davvero uno Stato sovrano indipendente, separato dalla Russia. Se i tedeschi avessero vinto la guerra, avrebbe potuto essere creata un’Ucraina formalmente indipendente, ma in realtà satellite della Germania; ma dopo la sconfitta tedesca non vi fu altra possibilità che la creazione di un’Ucraina sovietica, strettamente unita alla Russia» (8).

rougeCome precisa Carr, «Il nazionalismo ucraino era, in sostanza, più antisemitico e antipolacco che antirusso […] La supremazia politica di Mosca o di Pietrogrado poteva dar luogo a risentimenti in una nazione la cui capitale era più antica di mosca e di Pietrogrado. Ma questa capitale, Kiev, era essa stessa una capitale russa. Un nazionalismo ucraino che si fosse fondato anzitutto e soprattutto su un sentimento di ostilità alla Russia non avrebbe incontrato molto favore trai contadini. Per quanto riguarda il proletariato, la situazione era complicata dal fatto che un proletariato ucraino non esisteva. I nuovi centri industriali, la cui importanza era venuta rapidamente crescendo alla svolta del secolo, erano popolati per la maggior parte da immigrati venuti dal Nord; Char’kov, la maggiore città industriale ucraina, era anch’essa quasi esclusivamente gran-russa» (9). A differenza che in Polonia e Finlandia, «che disponevano d’una numerosa e ben sviluppata classe dirigente locale – agraria e feudale in Polonia, commerciante e borghese in Finlandia – (Carr)», il nazionalismo in Ucraina non aveva mai avuto una grande presa, e la stessa cosa vale per la Bielorussia, la cui struttura sociale era ancora più arretrata di quella ucraina.

Scriveva Trotsky nel suo capolavoro sulla Rivoluzione d’Ottobre: «Rosa Luxemburg sosteneva che il nazionalismo ucraino, che era stato in precedenza un semplice “divertimento” per una dozzina di intellettuali piccolo-borghesi, era stato artificialmente gonfiato al lievito della formula bolscevica del diritto delle nazioni all’autodecisione». Qui mi limito a ricordare le non poche divergenze che sulla questione nazionale divisero Lenin (favorevole in linea di principio all’autodecisione delle nazioni oppresse) e la Luxemburg (sfavorevole in linea di principio all’autodecisione). «Nonostante la sua intelligenza luminosa», continua Trotsky, Rosa Luxemburg «commetteva un errore storico assai grave: i contadini dell’Ucraina non avevano formulato in passato rivendicazioni nazionali per la semplice ragione che, in genere, non aveva raggiunto il livello della politica. Il merito principale della rivoluzione di febbraio, diciamo pure l’unico merito, ma del tutto sufficiente, consistette appunto nell’offrire finalmente la possibilità di parlare a voce alta alle classi e alle nazionalità più oppresse della Russia» (10). Dichiararsi disponibile alla secessione della nazione oppressa, o in qualche modo limitata nei suoi diritti nazionali e culturali, per il soggetto rivoluzionario proletario radicato nella nazione dominante ha il significato di un doveroso mettere le mani avanti, per togliere qualsiasi alibi al sentimento nazionale. Naturalmente Lenin capiva meglio di qualunque altro comunista quanto chimerica fosse l’idea piccolo-borghese dell’uguaglianza tra le nazioni, soprattutto nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico. E difatti, egli non pose mai la questione nazionale sul terreno della libertà e dell’uguaglianza, ma sempre su quello degli interessi della rivoluzione sociale anticapitalistica.

In ogni caso, quanto debole, politicamente e socialmente, fosse il nazionalismo ucraino, che pure segnò una certa ripresa dopo la Rivoluzione di febbraio, lo testimonia la linea politica filo-tedesca e filo-polacca seguita di volta in volta dalla Rada di Kiev, costituitasi nel marzo 1917 sotto la presidenza dello storico Hruševskijche, e che aveva nell’intellettuale Vinničenko e nell’autodidatta Petljura i suoi due massimi esponenti. Naturalmente alla Rada premeva soprattutto scongiurare l’avanzata della marea rossa, che nell’estate del ’17 si era appalesata con la formazione di Soviet di operai e di soldati a Kiev e in altre parti dell’Ucraina. C’è da dire, en passant, che mentre i bolscevichi ucraini scontavano una certa impreparazione organizzativa, surrogata in qualche modo dalla chiara visione strategica di Lenin, nell’Ucraina orientale erano molto attivi i partigiani capeggiati dal contadino anarchico (o «anarco-comunista») Nestor Machno, i quali «combattevano ora per i bolscevichi ora contro di loro» in vista di una non meglio definita Comune contadina. Questo per dire quanto ribollente dal punto di vista sociale fosse l’Ucraina d’allora, insanguinata peraltro dall’esercito controrivoluzionario di Denikin foraggiato dall’imperialismo occidentale, e segnata dalla carestia e dal dilagare di gravi malattie infettive.

Come ammise lo stesso Vinničenko, non solo la Rada non poté mai fondarsi su una vasta base popolare, ma i consensi della popolazione ucraina andavano sempre più orientandosi verso i bolscevichi, che almeno sembravano poterla difendere dal tirannico giogo dei tedeschi e dei polacchi. Solo i cannoni dei tedeschi e i fucili dei polacchi allungarono l’agonia del governo provvisorio di Kiev, e quando Petljura, il 2 dicembre 1919, firmò un accordo con il governo polacco che prevedeva l’abbandono da parte dell’Ucraina delle rivendicazioni sulla Galizia orientale, e per il Paese un futuro di satellite nel neo costituito Impero Polacco, il fragile e contraddittorio nazionalismo polacco fece bancarotta. Infatti, niente ossessionava di più il contadino ucraino che i grandi proprietari polacchi.

La stessa adesione dell’Ucraina a quella che sarebbe diventata la RSFSR, si spiega in larga misura con gli interessi dei contadini ucraini di scongiurare la prospettiva di una vittoria dei «bianchi», i quali «non nascondevano la loro volontà di restaurare il vecchio regime e di restituire ai proprietari fondiari le terre di cui si erano impossessati i contadini» (11). La paura dei contadini ucraini di perdere le terre da essi confiscate nell’estate del 1917, e le forti divisioni nazionalistiche, politiche, sociali e religiose che opponevano la parte orientale del Paese alla sua parte occidentale, resero possibile il realizzarsi di quella alleanza politico-sociale che fu alla base della creazione di un’Ucraina Sovietica nell’ambito della nuova Russia rivoluzionaria.
Quanto ambigua, instabile, strutturalmente fragile e alla fine insostenibile fosse quell’alleanza, che da virtuosa si trasformò rapidamente in viziosa, è ciò che ho cercato di spiegare nel mio lavoro sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre Lo scoglio e il mare.

lenin_statua_500«Nell’aprile 1917 Lenin diceva: “se gli Ucraini vedono che abbiamo una repubblica dei soviet, non si distaccheranno; ma se abbiamo una repubblica di Miljukov, si distaccheranno”. Anche questa volta aveva ragione» (12). La controrivoluzione stalinista che da lì a poco avrebbe seppellito l’intera esperienza rivoluzionaria segnata dal genio strategico leniniano non può cancellare questa eccezionale pagina di storia, per intendere la quale, però, non è sufficiente l’intelligenza e la cultura dello scienziato geopolitico.

(1) L. Caracciolo, La statua di Lenin, l’Ucraina contro la Russia e la scelta dell’Europa, Limes, 11 dicembre 2013.
(2) Lenin, Lettera agli operai e ai contadini dell’Ucraina in occasione delle vittorie riportate su Denikin, Opere, XXX, p. 265, Editori Riuniti, 1967.
(3) «Il 24 agosto 1991 l’Ucraina si è proclamata indipendente – peraltro nei confini disegnati dal potere sovietico, prima da Lenin poi da Stalin e in ultimo da Krusciov» (L. Caracciolo, La statua…). Il «potere sovietico» da Lenin a Krusciov è un’assoluta assurdità, per apprezzare la quale bisogna però conquistare un punto di vista critico-rivoluzionario sulla Rivoluzione d’Ottobre.
(4) L. Trotsky, Introduzione alla prima edizione inglese (1920) di Terrorismo e Comunismo.
(5) E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, p. 279, Einaudi, 1964.
(6) Lenin, Discorso al Primo Congresso dei Soviet, 4 (17) giugno 1917, 30, XXV, 1967.
(7) G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista, IV, Laterza, 1977.
(8) Ivi.
(9) E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, p. 283.
(10) L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, II, p. 936, Mondadori, 1978.
(11) G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista.
(12) L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, II, p. 954.

L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA

mosca-interna-nuovaMa, tanto se si adotta un criterio materialista per valutare la Russia, quanto se la si giudica da un punto di vista idealista (ossia se si considera la sua potenza come un fatto palpabile oppure conformemente alla visione che se ne fa la cattiva coscienza dei popoli europei), il problema resta lo stesso: in quale modo questa potenza ha potuto raggiungere tali dimensioni, suscitando da un lato la appassionata denuncia, e dall’altro il furibondo diniego del pericolo che essa costituiva per il mondo intero con la sua aspirazione a ricreare le basi per una “monarchia universale”? (1).

Cresce d’intensità il confronto economico-politico tra L’Unione europea e la Russia a proposito del futuro assetto dell’area geopolitica un tempo dominata dall’Unione Sovietica.  Soprattutto i polacchi denunciano apertamente il tentativo «neo-imperialista» della Russia di ridurre a ragione, attraverso intimidazioni, ricatti e corruzioni, l’Ucraina, che sembrerebbe propensa a firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea già al summit sul partenariato orientale che si terrà il prossimo novembre a Vilnius.

In effetti, Mosca sta facendo di tutto per convincere Kiev a entrare nell’unione doganale Euroasiatica, cui già partecipano Bielorussia e Kazakistan e che dovrebbe diventare operativa entro il 2015. Naturalmente il piatto forte che la Russia ha messo sul tavolo dei negoziati con l’Ucraina riguarda il prezzo del gas che la prima vende alla seconda: il Cremlino ha promesso di ribassarlo generosamente in caso di adesione all’Unione doganale dei “fratelli ucraini”. La cosa dovrebbe apparire a Kiev tanto più allettante (e minacciosa) se si considera l’opposto trattamento che Mosca sta riservando agli ex «Paesi dell’Est». La Lituania, ad esempio, «sostiene di essere costretta a pagare il gas [russo] a un prezzo superiore del 35 per cento rispetto a quello fissato per la Germania. L’Unione europea ha annunciato un’azione legale contro la compagnia energetica Gazprom, accusata di aver aumentato ingiustificatamente i prezzi del gas venduto ai paesi dell’Europa dell’est» (2).

Naturalmente le azioni dell’Imperialismo, qualunque esso sia, hanno sempre delle precise giustificazioni, e si dispiegano sulla base di un diritto che promana direttamente dagli interessi e dalla forza di questo stesso Imperialismo. Da questo preciso punto di vista, e nella fattispecie qui analizzata: la Potenza nazionale russa, possiamo affermare che la Gazprom si sta muovendo sullo scacchiere europeo in modo assai oculato, oltre che aggressivo.

L’Ucraina non ha ancora assunto una posizione definitiva sulla faccenda, e appare divisa al suo interno: «Ci sono i global player, c’è chi spera nel mercato europeo, chi invece punta al legame stretto con la Russia, a seconda del rispettivo interesse. Quel che è certo è che la crisi economico-finanziaria ha colpito un paese che oggi per sopravvivere dipende dagli aiuti esteri. Le casse dello Stato non godono infatti di buona salute. E mentre le trattative con il Fondo monetario internazionale sono bloccate, la liquidità arriva solo dalla Russia» (3).

Kiev vorrebbe dare un sì senza riserve all’accordo di libero scambio con l’Unione europea, ma al contempo essa non vuole compromettere i suoi già “delicati” rapporti con Mosca, alla quale ha offerto la propria adesione all’unione Euroasiatica in qualità di «membro osservatore». Il vicepremier russo Igor Shuvalov ha seccamente respinto al mittente la proposta di Kiev, perché secondo la Russia «la membership dell’Ucraina non può essere a metà, deve essere piena». Il virile Vladimir Putin non perde occasione per ricordare a Kiev tutte le spiacevoli conseguenze cui l’Ucraina andrebbe incontro qualora rifiutasse la partnership con il “Paese fratello”: «Parliamo chiaro oggi perché domani non vogliamo essere accusati di incoerenza o doppio gioco».  A Kiev è ancora fresco il ricordo del freddo inverno del 2006, quando Mosca interruppe improvvisamente la fornitura del suo gas in risposta alla cosiddetta «rivoluzione arancione» che ne contestava il nuovo prezzo quadruplicato. La brutalità esibita è uno dei tratti distintivi della diplomazia inaugurata da Putin nei confronti dell’«estero vicino», cui fa preciso riscontro un giro di vite repressivo sul terreno della politica interna.

Come sempre è la Germania che sta cercando di trovare il solito «punto di equilibrio» tra i diversi interessi espressi dagli attori in campo, mentre gli euroburocrati di Bruxelles sono concentrati sugli aspetti legali dei dossier aperti sul tavolo. Ad esempio, sulle dubbie qualità “democratiche” del regime ucraino (vedi il caso dell’ex premier Yulia Tymoshenko, oggi leader dell’opposizione, ancora in carcere per «abuso di potere») Berlino è disposta a chiudere un occhio, se Kiev continua a guardare con sempre maggiore interesse verso Ovest. D’altra parte, un’occidentalizzazione più marcata delle istituzioni politiche dell’Ucraina sancirebbe un più solido ancoraggio del Paese all’Unione europea a trazione germanica.

Significativo è anche l’ interesse, condiviso con la Polonia, dell’Ucraina nei confronti delle tecnologie che rendono possibile l’estrazione del petrolio dagli scisti bituminosi (shale oil). L’italiana ENI si è già resa disponibile nel caso in cui le autorità ucraine dovessero passare da un generico interesse alla concretizzazione di un serio piano energetico basato sulla nuova tecnologia estrattiva.

Sul terreno del fracking la Polonia sembra essere il Paese europeo meglio piazzato, insieme all’Inghilterra. Secondo stime attendibili, i giacimenti di shale gas della Polonia sono i più grandi d’Europa, ed è da almeno due anni che nel Paese è partita la corsa in grande stile al gas che ha come protagoniste diverse compagnie nazionali e internazionali. La Rzeczpospolita di Varsavia sostiene che «il pozzo di Lębork nel nord della Polonia produce ottomila metri cubi di gas di scisto al giorno da oltre un mese. La produzione è troppo piccola per essere definita commerciale, ma è il miglior risultato ottenuto in Europa con la tecnica del fracking fino a oggi. Secondo l’Istituto geologico polacco (Pig) le riserve di gas di scisto del paese ammonterebbero a 768 miliardi di metri cubi, tra le più ricche del continente. Rzeczpospolita afferma che “il gas di scisto ha un potenziale enorme che potrebbe cambiare l’assetto energetico della Polonia e la situazione geopolitica mondiale”» (4). Una notizia che certamente non mancherà di suscitare qualche apprensione a Mosca.

Com’è noto è negli Stati Uniti che la nuova tecnologia estrattiva di petrolio e gas sta avendo il maggiore, e in parte sorprendente, impatto economico, e le conseguenze nella dimensione geopolitica della contesa imperialistica non si sono fatte attendere, soprattutto per ciò che riguarda i rapporti di Potenza tra l’America del Nord, che ha conquistato una certa autonomia economica nei riguardi delle materie prime energetiche prodotte in Medio Oriente, e la Cina, che invece sempre più ne dipende. Ma su questo importante punto qui mi limito a questo solo accenno.

______~1Per la Russia naturalmente è importante avere dalla sua parte l’Ucraina, non solo per riportarla dentro il suo spazio egemonico, se non di vero e proprio dominio, ma anche per gestire meglio, attraverso appunto la mediazione di quel Paese, i suoi rapporti politici e commerciali con l’Europa occidentale. D’altra parte occorre ricordare che insieme a Russia e Bielorussia l’Ucraina diede vita l’8 dicembre 1991 alla Comunità degli Stati Indipendenti sulle ceneri della dissolta Unione Sovietica, e ciò spiega il risentimento di Mosca nei confronti di Kiev, accusata senza troppe cautele diplomatiche dai “fratelli” russi di voler tradire una causa comune, un’impresa geopolitica e geoeconomica iniziata di comune accordo. Comune accordo fino a un certo punto, beninteso. Per molti aspetti Kiev subì il nuovo soggetto di diritto internazionale (la CSI), facendo buon viso a cattivo gioco. In effetti, fin da subito l’Ucraino manifestò la preoccupazione di finire tra le grinfie dell’orso russo, e proprio quando l’ottenuta indipendenza ne aveva stuzzicato l’appetito nazionalistico e l’aspirazione a un ruolo di potenza regionale, anche sulla scorta del cospicuo arsenale ereditato dall’Unione Sovietica e degli aiuti economici che gli Stati Uniti e la Germania si premurarono di farle avere. Già alla fine del 1992 l’Ucraina uscì dall’area del rublo e implementò misure di controllo sui flussi commerciali con la Russia e la Bielorussia, rendendo di fatto inefficace lo «spazio economico unico» post-sovietico caldeggiato da Mosca. Come scriveva Jean Daniel nel ’94, segnalando la ripresa dell’Imperialismo russo dopo lo shock post-sovietico, «L’Ucraina è una grande nazione con 52 milioni di abitanti, che si estende dalla Russia caucasica alla Polonia, all’Ungheria e alla Romania. Come aveva fatto notare Zbignev Brzezinski, ex consigliere strategico di Jimmy Carter, un’Ucraina indipendente è una regione privilegiata per contenere l’espansionismo russo» (5).

«L’Ucraina e la Polonia», continuava Daniel, «vogliono far parte della Nato in quanto temono la Russia, sia pure liberata dal comunismo. Dal loro punto di vista, i russi non sono affatto cambiati in quanto a mire imperialiste». La citazione mi serve solo per ribadire che lungi dall’essere un regime comunista, né ideale (sic!) né reale (strasic!), quello stalinista fu un regime sociale capitalistico a forte vocazione imperialista, sulla scia della tradizionale politica di Potenza Grande-Russa denunciata da Lenin fino agli ultimi giorni della sua vita. Se le mummie potessero parlare! (6).

imagesDopo la disgregazione dell’Unione Sovietica nel dicembre del 1991, e il conseguente ripiegamento strategico globale della Potenza russa che portò i suoi attuali confini ad essere «molto più vicini a quelli che lo Stato aveva alla fine del XVII secolo sotto lo zar Aleksej Michajlovic, che non a quelli dell’URSS o della Russia imperiale dell’inizio del nostro secolo» (7), Mosca sembrava aver perso qualsiasi capacità di iniziativa sul terreno della contesa interimperialistica. Fatta salva qualche velleitaria e nostalgica “sparata” propagandistica che non riusciva neanche un poco a nascondere la drammaticità della situazione: «L’indipendenza della Bielorussia e dell’Ucraina è avvertita come una lacerazione contro natura. Mille anni di storia non possono essere cancellati» (8).

D’altra parte la crisi economico-sociale del Paese, covata lungo decenni di bassa produttività sistemica e di scarso dinamismo capitalistico, e le sue convulsioni politico-istituzionali culminate nel fallito (o pseudo?) golpe dell’agosto 1991, lasciavano allo Stato russo ben pochi margini di manovra su quel terreno; una ritirata geopolitica quanto più ordinata possibile, in attesa di tempi migliori, sembrò allora essere la sola iniziativa realisticamente praticabile. Tanto più che in ballo c’era la tenuta stessa della Federazione Russa – basti pensare alla guerra in Cecenia.

Ma già nel ’94 furono visibili i primi indiscutibili segnali di una forte reazione della Russia alla propria crisi interna e internazionale, e l’iniziativa sul terreno geopolitico, soprattutto in direzione del cosiddetto «estero vicino», ossia delle ex repubbliche sovietiche resesi indipendenti da Mosca, ebbe fin dall’inizio le materie prime energetiche come il suo asse centrale di riferimento. «Petrolio e gas sono prodotti prevalentemente nella Federazione russa (80-85 per cento circa) e alimentano l’industria dell’estero vicino, cioè delle altre repubbliche ex sovietiche […] La rete energetica diventa strumento di pressione politica, se non oggetto di rovinosi (per l’Armenia) sabotaggi (in Georgia)» (9). È stato però Putin a conferire una certa coerenza politico-ideologica alla controffensiva energetica: «È il coronamento della strategia di Putin, da lui fissata nel 1994 nella sua tesi per il dottorato di ricerca, sull’uso delle risorse naturali come strumento di potenza» (10).

George Friedman conferma questa lettura: «Putin capì che per ragioni sia interne che estere avrebbe dovuto portare un minimo di ordine nell’economia. La Russia aveva riserve energetiche enormi, ma era incapace di competere sui mercati mondiali nell’industria e nei servizi. Così Putin si concentrò sull’unico vantaggio che la Russia aveva: l’energia e altri beni primari. Per fare questo dovette assicurarsi un certo grado di controllo sull’economia — non così tanto da riportare la Russia verso un modello sovietico, ma abbastanza da lasciarsi indietro il modello liberale che la Russia credeva di avere. O, messa diversamente, abbastanza da lasciarsi il caos alle spalle. Il suo strumento fu Gazprom, una compagnia a maggioranza statale la cui missione era di sfruttare l’energia russa per stabilizzare il paese e creare una base per lo sviluppo. Contemporaneamente, mentre disfaceva il liberismo economico, Putin impose controlli sul liberalismo politico, limitando i diritti politici» (11).

Secondo Leonardo Tirabassi Il neo imperialismo russo porta il nome di Alexander Dugin, ideologo, «nazional-bolscevico, ammiratore di Evola e Guenon, nonché fondatore del movimento Eurasia, docente di geopolitica all’Accademia militare russa e consigliere di Putin».

«Il punto d’avvio è una visione della politica di potenza, realista, dove la geopolitica, nuova visione del mondo post moderna, al posto dei vecchi “ismi”, occupa il ruolo centrale di tutta la costruzione neotradizionalista per concludersi in un antiamericanismo forsennato. Se gli Stati Uniti sono la nazione con un “destino manifesto”, la Russia non è da meno: ad essa spetta il ruolo di guida dell’alleanza eurasiatica contro lo strapotere atlantico. Ancora una volta terra contro mare, Sparta contro Atene. Nel mondo esistono più poli di potere, ogni popolo ha il suo destino e compito di Mosca è di difendere la propria tradizione ortodossa e slava. Ecco allora la traduzione strategica: alleanza tra i paesi dell’ex Unione Sovietica, riproposizione della logica delle sfere di influenza, asse con la rivoluzione nazionalpopolare dell’ariano Iran, sguardo benevolo verso la Cina. Sembra di riascoltare un disco già sentito: la “grande proletaria”, l’impero romano, l’arci italiano, l’anticapitalismo romantico contro le potenze anglosassoni. Ma non si sorrida sdegnati delle approssimazioni teoriche o dall’antisemitismo o dalla rozzezza politica: l’uso del petrolio e del gas come armi stanno davanti a noi a rendere credibile qualsiasi sogno o sragionamento» (12). C’è da dire che non pochi socialnazionalisti italiani in guisa “antimperialista” sostengono, in chiave antiamericana, la visione strategica di Alexander Dugin, dimostrando che il Muro di Berlino è caduto invano sulle loro grette teste di stalinisti duri e puri.

C’è un aspetto molto importante del rapporto Russia-Ucraina che occorre prendere in considerazione, perché illumina i limiti della «strategia energetica» di Mosca, radicati nella perdurante arretratezza sistemica del Capitalismo russo. Questa condizione è naturalmente un altro cattivo lascito dell’Unione Sovietica – il cui «socialismo reale» altro non fu in realtà che un Capitalismo di Stato con le carte non propriamente in regola, considerato il tutt’altro che disprezzabile peso che la cosiddetta «economia informale» (privata) ebbe sempre nell’economia sovietica. Scrive Laurynas Kasčiūnas su Veidas di Vilnius: «Gli uomini d’affari kazaki e bielorussi ne parlano sempre più apertamente. In seno all’Unione doganale euroasiatica le imprese russe, non potendo concorrere con le moderne società europee o americane sul mercato mondiale, cominciano a praticare un protezionismo interno e ad allontanare dal mercato di un determinato settore le imprese degli altri paesi membri dell’Unione doganale. Questo punto è molto importante per l’Ucraina, perché le sue imprese sono i concorrenti diretti della Russia, in particolare nel settore agroalimentare, chimico, automobilistico e metallurgico» (13). L’Ucraina corre insomma il rischio di venir risucchiata nell’arretratezza capitalistica della Russia, la cui struttura economica poggia ancora – e per certi aspetti oggi più che in passato – sull’esportazione delle materie prime e su un’industria pesante (siderurgica e chimica) molto obsoleta, mentre lo sviluppo di un dinamico e tecnologicamente avanzato settore industriale appare per l’essenziale ancora di là da venire.

Scrive Gian Paolo Caselli: «È l’eterno problema della modernizacja russa, indispensabile per sottrarre il paese alla dipendenza per il suo sviluppo dal gas e dal petrolio; attualmente il settore energetico nel suo complesso produce infatti il 20 per cento del reddito nazionale e il 50 per cento del bilancio statale. Dati i bassi investimenti nel settore manifatturiero, visto l’attuale andamento della produzione industriale, la sperata diversificazione non sta per niente avvenendo. È pur vero che l’integrazione fra le economie russa, bielorussa e kazaka in un mercato comune è ormai funzionante, ma essa sembra avere obiettivi più politici che di efficienza economica. In molti documenti governativi come Strategia 2000, in dichiarazioni di alti esponenti dell’amministrazione, viene sempre posto come obiettivo quello di trasformare l’economia russa in una economia basata sulla conoscenza e sulla ricerca scientifica […] Sarebbe necessario aumentare in modo significativo l’attività di investimento reale, ma il capitalismo russo non sembra in grado di operare questa trasformazione, preferendo esportare capitali all’estero, 76 miliardi di dollari nel 2011, 46 miliardi nel 2012 (14).

Parlare di «riforme strutturali» idonee a “modernizzare” il sistema capitalistico è, in Russia come ovunque nel mondo (vedi il Bel Paese), più facile a dirsi che a farsi, perché esse impattano su interessi economici e su equilibri di potere che ovviamente gli strati sociali interessati al mantenimento dello status quo difendono con tutti i mezzi necessari. Fino a quando l’economia basata sulle materie prime “tira”, avvantaggiandosi di prezzi ascendenti o comunque sufficientemente alti, l’attuale leadership moscovita non ha alcun interesse a modificare una strategia economico-politica che sta conseguendo indubbi successi sul piano interno e – soprattutto – internazionale. Questo naturalmente non significa che nei piani alti del Cremlino non si producano sempre di nuovo tensioni politico-ideologiche intorno alla strada da seguire per assecondare nel modo migliore gli interessi strategici del Paese, tenendo presente che in ultima analisi è la Potenza economica (e quindi tecno-scientifica) che sorregge le ambizioni di Potenza tout court di una grande nazione.

Russian_Empire_(orthographic_projection)_svgIntanto Putin guarda sempre più a Est, ai mercati del Pacifico, a cominciare da quello cinese, passando dall’immenso Eldorado chiamato Siberia: «Il terzo mandato da presidente di Vladimir Vladimirovic Putin sarà segnato da quello che lui stesso ha definito come “la priorità geopolitica più importante per la Russia”: lo sviluppo della Siberia orientale e dell’Estremo oriente russi […] La Siberia orientale e l’Estremo oriente da soli occupano circa i due terzi dell’intero territorio russo e conservano nel loro sottosuolo, insieme alla parte occidentale della Siberia, circa il 70% delle risorse minerarie del paese: l’85% di riserve di gas, il 60% di petrolio, il 75% di carbone, il 70% di alluminio eccetera» (15). Mosca sta investendo molte risorse finanziarie in questo progetto che proietta la Potenza russa nell’area più dinamica – e potenzialmente più bellicosa – del capitalismo mondiale. Si tratta di vedere se la struttura capitalistica del Paese sarà all’altezza delle ambizioni strategiche dell’Imperialismo russo.

Pare che i separatisti siberiani, che rappresentano una notevole parte della popolazione (26 milioni di anime, in rapida decrescita) che abita l’immensa e fredda regione, non sono particolarmente entusiasti della «priorità geopolitica» putiniana. Ma c’è da scommettere che il virile Vladimir Vladimirovic non si lascerà “commuovere” tanto facilmente dalle proteste dei sibiryak.

Naturalmente lo scrigno siberiano fa gola a tutti: «Data l’instabilità politica della regione mediorientale, tutti i paesi asiatici dell’estremo oriente desiderano ridurre la propria dipendenza dal greggio del Medio Oriente. L’alternativa più attraente è l’estremo oriente russo, le cui vaste risorse energetiche sono ancora poco sfruttate. Per sviluppare i giacimenti siberiani occorre spendere molti miliardi di dollari e programmare il trasporto del greggio verso i mercati di consumo: verso la Cina ed il suo cuore industriale, o verso un porto russo del Mar del Giappone? Da qui è nato uno scontro politico e finanziario» (16). D’Orlando non dimentica di ricordare una verità storica che certamente non si armonizza con la storia mainstream della Seconda guerra imperialistica scritta dai vincenti: «Sessant’anni fa il Giappone fu indotto a lanciare l’attacco di Pearl Harbor proprio dall’embargo sul petrolio e su altre materie prime decretato dal presidente Roosevelt pochi mesi prima».

Concludo con un’ultima notizia, tutta da verificare: «Nonostante le continue minacce di chiudere i mercati ad est, il Consiglio dei ministri dell’Ucraina ha preso la decisione di avvicinarsi all’Unione Europea e di firmare in novembre a Vilnius, in Lituania, il cambio di rotta definitivo: ha scelto così, davanti all’out out, di abbandonare la strada dell’Unione doganale proposta da Mosca per aprirsi completamente a occidente. Il consigliere di Putin, Sergej Glaziev, ha affermato che “i produttori ucraini perderanno i mercati russi, bielorussi e kazaki. Anche la cooperazione nel campo della meccanica dovrà passare test molto severi. Aggiungere dazi comporta la fine della cooperazione in molti rami dell’economia”, ma, nonostante l’industria specialmente siderurgica dell’Ucraina sia ancora molto collegata a quella russa, Kiev sembra intenzionata a percorrere fino in fondo la sua strada. In questa chiave lo scoglio Timoshenko appare come del tutto superabile ed anzi, una moneta di scambio da mettere sul tavolo delle trattative con i nuovi alleati» (17). Come si dice in questi casi, seguiremo gli sviluppi della scottante questione.

Vedi anche:

Intrigo ucraino.
Quando una statua di Lenin (o di Marx) cade.

(1) Karl Marx, Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo, p. 150, L’erba voglio, 1978.
(2) EUobserver, 4 ottobre 2013.
(3) Stefano Grazioli, Ue o Russia? Per l’Ucraina è iniziato il conto alla rovescia, Limes, 3 ottobre 2013.
(4) Polonia: il gas di scisto scorre, da Presseurop, 28 agosto 2013.
(5) Jean Daniel, L’imperialismo russo, La Repubblica, 20 marzo 1994.
(6) «Curiosamente il termine nazionalsocialismo comparve per la prima volta nella storia – almeno per quanto ne so – in Russia, alla fine del ’22, nel fuoco dello scontro che vide Stalin, diventato da poco tempo segretario generale del partito, opporsi ai fautori di una integrazione morbida delle tre repubbliche sovietiche autonome del Caucaso (Armenia, Georgia e Azerbajdžan) nell’ambito della Federazione Sovietica centrata su Mosca. Lenin si schiera subito dalla parte dei “morbidi” contro l’atteggiamento “grande-russo” di Stalin, definito, soprattutto dai suoi compatrioti georgiani, “nazionalsocialista”. “Politicamente responsabile di tutta questa campagna, veramente nazionalista-grande-russa, bisogna considerare, naturalmente, Stalin e Dzerginski” (Lenin, Appunti del 31 dicembre 1922, Opere, XXXVI, p. 444, Editori Riuniti, 1969)». Così scrivevo in una nota di Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924). Il PDF è scaricabile da questo blog. Qui aggiungo quest’altra frecciata leniniana al noto georgiano «socialnazionalista»: «Il georgiano che considera con disprezzo questo aspetto della questione [ossia la necessità di una “grande prudenza, di un grande tatto e una grande capacità di compromesso”], quel georgiano in sostanza viola gli interessi della solidarietà proletaria di classe» (ivi, p. 442).
(7) Andrej Zubov, Mosca contro Berlino: il duello prossimo venturo, Limes, n. 1-94.
(8) Charles Urjewicz,  Il gigante senza volto, Limes, n. 1-94.
(9) Piero Sinatti, La riconquista geoeconomica dell’impero russo, Limes, n. 1-94. «A sua volta, la Russia importa macchinari e attrezzature (meccaniche ed elettroniche) e mezzi di trasporto, con una quota superiore al 40% del totale […] La crisi ha toccato due aspetti di particolare vulnerabilità del Paese, la dipendenza economica e finanziaria dal ciclo delle materie prime e il livello di indebitamento estero del settore privato. Con la riduzione delle entrate petrolifere, i saldi di bilancio pubblico e di conto corrente russi si sono deteriorati» (Gianluca Salsecci, Russia, un’economia ad alto potenziale di crescita di fronte alle sfide della crisi globale, Intesa Sanpaolo, 2009).
(10) Articolo redazionale, La Russia gioisce: siamo di nuovo una superpotenza, Il Giornale, 23 dicembre 2006.
(11) George Friedman, Una piccola Guerra Fredda: Russia, Europa e Stati Uniti, Conflitti e strategie, 9 settembre 2013.
(12) Leonardo Tirabassi, Il neo imperialismo russo porta il nome di Alexander Dugin, L’Occidentale, 4 ottobre 2008.
(13) L. Kasčiūnas, Perché l’Ucraina sceglie l’Europa, Veidas, 7 ottobre 2013.
(14) Gian Paolo Caselli, Madre Russia, la “nuova”Germania:ora è la più grande economia d’Europa, Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2013.
(15) Mauro De Bonis, Le Russie di Putin, Limes, 7 maggio 2012.
(16) Maurizio D’Orlando, Tokyo contro Pechino per l’oleodotto siberiano, Asia News. it,  12 gennaio 2004.
(17) Notizie geopolitiche, 13 ottobre 2013.

LA MACELLERIA SIRIANA SECONDO AMMAR BAGDASH

siria-strage-degli-innocentScrive Ammar Bagdash, segretario del Partito – cosiddetto, ed è già un eufemismo – Comunista Siriano: «Nell’analisi dei comunisti siriani le condizioni [della guerra civile] sono state create anche dalle contraddizioni create dalle misure liberiste in economia adottate intorno al 2005. Questa politica ha prodotto tre effetti negativi: un aumento della polarizzazione sociale; la crescita dell’emarginazione sociale nelle periferia di Damasco; il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Ciò ha favorito le forze reazionarie, come i Fratelli musulmani, che si sono appoggiati sul sottoproletariato, soprattutto rurale» (da Contropiano.org). Questo retroterra sociale del conflitto siriano è omogeneo un po’ a tutti i Paesi che a più riprese e con diverse modalità hanno conosciuto le cosiddette “Primavere arabe”: si tratta, in effetti, di un doloroso processo capitalistico di ristrutturazione sistemica volto a superare vecchissime magagne strutturali e istituzionali che rendono sempre più difficile l’esistenza di quei Paesi nel nuovo contesto regionale e mondiale creato dall’ultima ondata global. Gli analisti economici e politici parlano di «modernizzazione capitalistica», un processo sociale che in Medio Oriente e in Nord’Africa ha avuto un andamento assai irregolare e contraddittorio a causa di fattori di natura nazionale (divisioni interne alle classi dominanti dei Paesi di cui si tratta), regionale (forte rivalità fra le nazioni dell’area geopolitica in questione) e internazionale (sfruttamento imperialistico e retaggio del vecchio assetto coloniale).

Si tenga presente che in Egitto nel 2004 Mubarak varò quelle «misure liberiste in economia» che generarono un vasto malcontento sociale e la reazione, prima sottotraccia e poi sempre più evidente e attiva, dell’esercito egiziano, assai interessato al mantenimento dello status quo. Appena un anno dopo, secondo le informazioni del nostro “comunista”, anche Assad vara un programma di «riforme strutturali» tese a dinamizzare un’economia sempre più asfittica e obsoleta. Come sempre e ovunque, le «riforme strutturali» creano tensioni sociali che alla fine trovano il modo di avere delle conseguenze politiche, e ciò tanto più se quelle «riforme» mettono in questione interessi materiali e politici molto radicati a tutti i livelli della gerarchia sociale. Che i Fratelli musulmani, in Siria come in Egitto, nuotino come pesci nella torbida acqua della miseria sociale ciò non deve stupire nessuno, mentre molto deve far riflettere chi si aspetta la nascita della coscienza rivoluzionaria, e magari la sua formalizzazione in partito politico, dal mero aggravamento dell’oppressione economica e politica ai danni delle “masse diseredate”. Purtroppo le cose sono un tantino più complesse, e la lezione iraniana del ’79, per rimanere nel quadrante geopolitico qui trattato, deve sempre ammonirci in questo senso. Naturalmente non ho ricette preconfezionate da vendere.

536fb2f75a1cb6a372b51c688f2788b0_L«In Siria», dice Bagdash, «le forze reazionarie volevano ripetere quanto era accaduto in Egitto e Tunisia. Ma lì si trattava di due paesi filo-imperialisti. Nel caso della Siria era diverso». Perché mai diverso? La domanda è puramente retorica. Come si capirà tra poco. In effetti, qui si chiarisce la natura “comunista” del nostro amico siriano, il quale giudica imperialisti solo i Paesi occidentali, a iniziare naturalmente dal Grande Satana: gli Stati Uniti d’America, e a seguire dal Piccolo Satana (Israele), lunga mano dell’imperialismo americano in Medio Oriente.

«In Siria, a differenza di Iraq e Libia, c’è sempre stata una forte alleanza nazionale. I comunisti collaborano con il governo dal 1966, ininterrottamente». E già solo questo fatto chiarisce, al di là di ogni ragionevole dubbio, quanto Bagdash c’entri con il comunismo: nulla. Magari ha molto a che fare con il nazionalismo, non so se di matrice panaraba, un veleno per le classi subalterne che è tale ormai a ogni latitudine del pianeta, perfino in quei rari luoghi in cui si pone ancora, peraltro in una forma sempre più residuale, una questione nazionale – è il caso della Palestina; ma con il comunismo… A meno che per “comunismo” non intendiamo riferirci a una fra le mille forme nazionali, una più miserabile dell’altra, che ha assunto lo stalinismo. In questo caso il nostro amico ritorna a essere comunista (senza virgolette!) e chi scrive rivendica con orgoglio l’etichetta di anticomunista viscerale.

«La Siria non avrebbe potuto resistere contando solo sull’esercito. Ha retto perché ha potuto contare su una base popolare. Inoltre può contare sull’alleanza con l’Iran, la Cina, La Russia». Il tentativo di presentare la Siria alla stregua di un Paese in qualche modo “progressista” e antimperialista, e l’Iran, la Cina e la Russia come Paesi immacolati sul piano della contesa interimperialistica è quantomeno ridicola, e trova la sua unica legittimazione in quel Terzomondismo che, come ho più volte sostenuto, già negli anni  Settanta non aveva più alcuna pregnanza storica e sociale in gran parte del pianeta, mentre bene esso si prestava come copertura politico-ideologica degli imperialismi concorrenti a quelli occidentali. «Dal nostro V Congresso abbiamo valutato l’Iran sulla base di come si rapporta all’imperialismo. La nostra parola d’ordine è per un Fronte Internazionale contro l’imperialismo». Qui per «imperialismo» s’intende appunto l’Occidente e tutti i Paesi che in qualche modo collaborano con gli Stati Uniti d’America. Che l’antiamericanismo non connoti affatto una posizione autenticamente internazionalista e antimperialista, mentre supporta benissimo gli appetiti di grandi e piccole potenze (nella fattispecie: l’Iran), non convincerà mai i teorici del «nemico principale», individuato sempre e immancabilmente nel Grande Satana a stelle e strisce.

siria-assad-massacro-pacifinti-focus-on-israel«Ci sono reazionari pro-imperialisti come i Fratelli musulmani e progressisti come Hezbollah o lo stesso Iran. Non sono un amante del modello iraniano ma sono nostri alleati nella lotta contro l’imperialismo». Questa griglia concettuale, a ben considerare, spiega anche il patto russo-tedesco del ’39: infatti, nella lotta contro l’imperialismo “maggiore” (gli anglo-americani) anche il nazismo poteva apparire come una forza autenticamente “progressista”. Poi, com’è noto, i nazisti tradirono la fiducia del Grande Stalin. Ma questa è – forse – un’altra storia, anche se a me appare la stessa ripugnante storia che il dominio sociale capitalistico non smette di scrivere anche ai nostri giorni, mutatis mutandis.

La dialettica tra reazionari progressisti e reazionari «pro-imperialisti» è qualcosa che sfugge alla mia comprensione. D’altra parte, com’è noto, la mia indigenza in materia di dialettica materialistica è grande. Ma non me ne dispiaccio più di tanto, anche alla luce di certe analisi sociali e geopolitiche. Mi si lasci nell’indigenza, please!

Anche se la popolarità del regime siriano avesse un minimo di fondamento, e non fosse un miserabile condimento propagandistico a uso dei massacratori di regime, i soggetti autenticamente rivoluzionari dovrebbero adoperarsi per mettere in crisi questa presunta popolarità, la quale testimonia, in Siria come ovunque nel mondo, l’impotenza sociale e politica dei dominati. Invece, con la scusa dell’unità nazionale antimperialista (sic!) certi personaggi che amano nascondersi dietro la barba dell’ubriacone di Treviri reiterano da decenni il loro escrementizio sostegno alle classi dominanti o a singole fazioni di esse.

«La nostra è una lotta internazionalista». Quasi ci credo. Quasi. «Un esperto russo mi ha detto: “Il ruolo della Siria adesso assomiglia a quello della Spagna contro il fascismo”». Davvero un augurio di pace! Infatti, la guerra civile spagnola fu, com’è noto, il preludio e la prova generale della Seconda guerra mondiale. Questo al netto della fumisteria ideologica che allora accecò, in Spagna e altrove in Europa (ma anche negli Stati Uniti), tanti proletari e militanti politici che si mobilitarono a sostegno di interessi nazionali (in guisa monarchica o repubblicani, franchista o antifascista) e internazionali (Paesi fascisti versus Paesi democratici) reazionari. Comunque la si pensi sulla natura sociale della guerra civile spagnola (so di sostenere un punto di vista ultra minoritario anche su questo terreno), appare meschino il tentativo di riproporre lo schema spagnolo per spiegare il bagno di sangue siriano, i cui protagonisti nazionali (governativi e ribelli), regionali e internazionali congiurano contro la vita di uomini, donne, vecchi e bambini per conseguire obiettivi che niente hanno a che fare con il bene del «popolo», per non parlare degli interessi dei salariati urbani e contadini, sempre più negletti.

Intanto abbiamo appreso che ai “comunisti” siriani piace chiacchierare con gli “esperti” russi, e forse anche con gli “esperti” cinesi, o venezuelani. Oltre che, s’intende, con gli “esperti” iraniani. La tattica “antimperialista” rende molto collaborativo il “comunista”.

sirA proposito di guerra mondiale, ecco un’ottima analisi geopolitica firmata da Lucio Caracciolo: «In Siria si combatte la prima guerra mondiale locale. Mondiale perché vi sono coinvolte le massime potenze planetarie e regionali. Anzitutto, i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. A supportare i ribelli che da due anni cercano di rovesciare il regime di Baššār al-Asad agiscono Francia, Gran Bretagna e, molto più tiepidi, Stati Uniti d’America; sul fronte opposto, la Russia è in prima linea, con la Cina, come d’abitudine, alquanto defilata. Poi, i principali attori regionali: Turchia, Qatar e Arabia Saudita guidano lo schieramento anti-Asad; Iran e affiliati libanesi (Hizbullāh) sono impegnati sul terreno a protezione del cliente di Damasco. Mentre Israele prepara contromisure nel caso il conflitto rompesse i modesti argini siriani per incendiare l’intero Levante. Certo, nessuno tra i cinque Grandi e le potenze mediorientali è finora coinvolto direttamente nel conflitto. Ma tutti vi sono a vario titolo invischiati: forze speciali occidentali e soprattutto iraniane; “brigate internazionali” jihadiste e hizbullāh; agenti d’influenza e mercenari d’ogni colore; copiose forniture d’armi – specie russe e arabe del Golfo; fiumi di denaro per tenere in piedi i combattenti impegnati su territori in macerie, sull’orlo della fame; soft power ovvero disinformazione, in cui eccellono le solite emittenti panarabe, Aljazeera (Doha) e al-Arabiya  (Ryad) su tutte (Lucio Caracciolo, La perla di Lawrence, Limes, 4 marzo 2013 ).

Siamo insomma dinanzi a una guerra ultrareazionaria da ogni parte la si guardi. Contro la guerra imperialista, a cominciare da quella che si dà come competizione economica (presupposto della contesa politico-militare tra le nazioni), le classi dominate hanno una sola carta da giocare: quella del disfattismo antinazionale, dell’autonomia di classe, della lotta contro la guerra e per migliori condizioni di vita e di lavoro. È questo il messaggio che, abbastanza velleitariamente, mi sento di lanciare alla moltitudine diseredata del Medio Oriente dal cuore del Capitalismo mondiale – mi riferisco all’Occidente genericamente inteso, non al Bel Paese, con rispetto parlando.

«Ho incontrato recentemente il responsabile dell’Olp e mi ha detto “Se cade la Siria addio Palestina”». Questo la dice lunga sulla perdurante disgrazia del popolo palestinese, la cui leadership da sempre si muove alla coda delle potenze regionali, come d’altra parte oggi appare inevitabile considerati i rapporti di forza che nell’area mediorientale si sono cristallizzati negli ultimi sessantacinque anni. «La politica di Hafez al-Assad nei confronti della causa palestinese è stata sempre improntata al più freddo cinismo. La liberazione della Palestina è stata subordinata agli interessi nazionali siriani e in particolare alla salvaguardia del regime. Malgrado la retorica antisraeliana e gli appelli alla solidarietà panaraba, il regime ha sempre cercato di raggiungere una soluzione di compromesso basata sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 242 del 1967 e n. 338 del 1973 (cessazione delle ostilità in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967). Inoltre, l’alleanza tattica con l’OLP o con questa o quella fazione palestinese ha sempre mirato a dominare la compagine politica palestinese per utilizzarla come carta negoziale nei confronti di Stati Uniti e Israele» (E. Bartolomei, Sei luoghi comuni da sfatare, Sinistra Critica, 17 luglio 2013).

Mi permetto di citarmi (Siria: un minimo sindacale di “internazionalismo”, 1 giugno 2012):

«Come scriveva Paolo Maltese in un bel libro dei primi anni Novanta del secolo scorso, “È semplicistico e deviante ritenere che sia sufficiente risolvere la questione palestinese per portare la pace in Medio Oriente. Piuttosto essa è stata pure, col suo peso lacerante, utile come alibi per camuffare antagonismi e problemi interni del mondo arabo” (Nazionalismo Arabo Nazionalismo Ebraico, 1789-1992, Mursia, 1994). Assai illuminante è proprio il ruolo che ha avuto la Siria in questo sporco affare: “Nell’aprile 1971, Assad non solo proibì alle formazioni palestinesi presenti in Siria di lanciare attacchi contro Israele, ma obbligò pure le formazioni che dipendevano da al Saiqa, cioè il gruppo controllato dalla Siria, di abbandonare il paese per trasferirsi anche loro nel sud del libano … Quello di Assad fu dunque, anche, un calcolo proiettato sul futuro: attendere, e vedere che cosa poteva accadere in Libano, per poi cercare di approfittarne, come difatti farà, intervenendo dapprima per proteggere i falangisti cristiano-maroniti contro i palestinesi, e massacrando così questi ultimi, nel 1976, nel campo di Tall el Zaatar senza sollevare in Europa particolare scandalo, a differenza, invece, di quel che accadrà col massacro dei campi di sabra e Chatila ad opera dei falangisti alleati di Israele; e permettendo poi ai dissidenti filo-siriani dell’OLP di scacciare nell’83 da Tripoli i palestinesi di Arafat”.

E sapete in che cosa si specializzarono questi “dissidenti filo-siriani”? Nel terrorizzare e massacrare altri palestinesi, quelli che non si mostravano troppo sensibili alla causa dell’imperialismo straccione della Siria: “All’interno del movimento palestinese – anche nella sinistra – c’è chi considera i contadini palestinesi costretti ad andare a lavorare in Israele traditori della causa palestinese, e usano le bombe negli autobus che trasportano i pendolari palestinesi” (Intervista a un militante del Fronte Democratico Palestinese, Combat, maggio 1986)».

manifestazionisiriaPer Bagdash «Non si può realizzare alcun progresso sociale, o la democrazia, se si è subalterni a forze esterne. La parola d’ordine è difendere la sovranità nazionale, e difendere le condizioni di vita». A mio modesto avviso non c’è salvezza per i dominati d’ogni parte del mondo fino a quando essi non romperanno la catena del patriottismo e non si renderanno autonomi dalla politica borghese, nelle diverse forme che essa può assumere nei diversi Paesi e nelle diverse circostanze.

MA CHE POPOLO D’EGITTO!

11638171_smallPubblico due miei brevi “pezzi” postati su Facebook ieri (Egitto!) e oggi come contributo alla riflessione intorno ai fatti egiziani. Rinvio anche a:
SI FA PRESTO A DIRE “RIVOLUZIONE”!
TEORIA E PRASSI DELLA «RIVOLUZIONE».
A proposito della «Primavera Araba»

MA CHE POPOLO D’EGITTO!

Chi oggi dice ai militari egiziani: «Bravi, avete fatto quel che andava fatto, ma adesso, per favore, restituite il potere al popolo», mostra, nascosta dietro un imbarazzante quanto sottilissimo velo di ingenuità, tutta la sua indigenza politica e analitica. Solo chi non conosce la storia dell’Egitto moderno può guardare con simpatia all’esercito, strumento di sfruttamento economico diretto (vedi il ruolo che esso ha giocato e continua a giocare nell’economia egiziana, come d’altra parte in quasi tutte le economie dei Paesi un tempo «in via di sviluppo», Cina compresa), di violenta repressione del conflitto sociale, di capillare controllo sociale e di promozione delle ambizioni di potenza della nazione nella delicata area geopolitica di sua “competenza”.

L’esercito è parte in causa nella guerra tra fazioni borghesi (nell’accezione storico-sociale, e non banalmente sociologica, della locuzione) che accompagna ormai da molti anni il lento processo di “modernizzazione” della società egiziana.

E solo chi è impigliato nella rete dell’ideologia dominante (borghese) può usare il concetto di «popolo», il quale, in Egitto e altrove, cela una realtà sociale fatta di classi, semi-classi, ceti e di tante stratificazioni sociali comunque irriducibili a quel concetto. In Egitto come in ogni altra parte del mondo il «popolo» è una parolina magica evocata dai “sicofanti” per far scomparire la divisione classista della società e il rapporto sociale di dominio e sfruttamento che informa l’attività “umana” in tutto il pianeta. Soprattutto nel XXI secolo il «popolo» è una truffa tentata ai danni dei dominati.

Personalmente mi auguro una rapida emancipazione dal velenoso spirito patriottico e “populista” delle «masse diseredate», in Egitto e dappertutto.

11638176_smallEGITTO!

Riflettendo alla radio sul «colpo di Stato popolare-militare» che è andato in scena (è proprio il caso di dirlo) in Egitto, ieri sera Carlo Panella ha ripreso, invertendolo, il noto aforisma marxiano: «la prima volta come farsa, la seconda come tragedia». Panella, che si vende ai media come esperto di cose mediorientali, paventa per l’Egitto un bagno di sangue al cui confronto gli incidenti che hanno segnato la prima “rivoluzione” egiziana, quella che pensionò (sempre con l’aiutino del papà-esercito)  Mubarak, appaiono ben poca cosa, un gioco da ragazzi. Scrive oggi Panella: «I sedici morti della notte di martedì nei cortili dell’Università di al Azhar e nel quartiere popolare del sud del Cairo di Giza segnano una “svolta storica” nel mondo arabo. Sono ben più che i nuovi caduti del rivolgimento iniziato nel gennaio del 2011: sono le prime vittime del jihad tra piazza araba e piazza araba. Sono l’immediata, diretta conseguenza dell’irresponsabile appello al “martirio” della sua piazza lanciato lunedì da Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani: “Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione!”» (Il Foglio, 4 luglio 2013).

Vedremo come andranno le cose. Tuttavia è possibile dire fin da ora che la contesa politico-religiosa non costituisce affatto il cuore del problema, il quale pulsa piuttosto, come sempre, nei processi sociali che lavorano, per così dire, il tessuto sistemico di un Paese, colto nel suo necessario rapporto con il resto del mondo. Dimensione sociale e dimensione geopolitica vanno infatti sempre tenute insieme, soprattutto quando si analizza la realtà di un Paese storicamente così significativo e strategicamente assai importante (decisivo nell’area mediorientale e nel mondo arabo) com’è indubbiamente l’Egitto. Ho trovato interessanti, per la comprensione di ciò che sta accadendo in quel Paese, tre articoli pubblicati da Limes, che mi sono permesso di sintetizzare per metterli a disposizione di chi ne fosse interessato.

Egitto, assalto e saccheggio alla sede dei fratelli musulmaniDopo il golpe, l’Egitto può ancora salvarsi
di Alessandro Accorsi – 4 luglio 2013

Mohamed Morsi non è più il presidente egiziano.È stato deposto dai militari con un golpe, anche se molti si rifiutano di chiamarlo così.

I manifestanti si rifiutano perché, effettivamente, il colpo di Stato non sarebbe stato possibile senza le enormi sollevazioni popolari che hanno portato 30 milioni di egiziani in strada. Si rifiutano, anche se quello che è successo non si può chiamare propriamente rivoluzione e non sarebbe stata parimenti possibile senza i carri armati in strada a evitare scene da guerra civile.

Alle forze armate non conviene riprendere il potere anche perché, finalmente, sono tornati ai livelli di prestigio persi dopo l’esperienza di governo dello Scaf. Il potere logora chi ce l’ha in Egitto, quindi meglio una “democrazia controllata” di un governo militare.

Si rifiutano di chiamarlo golpe – pur denunciando l’intervento dei militari – anche gli Stati Uniti, che da un lato si sono resi conto di aver scommesso sul cavallo sbagliato, dall’altro chiedono un ritorno immediato del potere ai civili. Chiamarlo golpe, inoltre, comporterebbe la sospensione da parte del Congresso degli aiuti militari e civili necessari per far ripartire l’economia e, soprattutto, garantire la stabilità del comunque instabile confine con Israele.

Gli Usa sono stati gli ultimissimi alleati dei Fratelli Musulmani, difendendo fino a poche ore prima dello scadere dell’ultimatum dei militari la legittimità del presidente Morsi. Dopo aver appoggiato Mubarak e le dittature militari nella regione e in giro per il mondo, Obama aveva scommesso sull’Islam politico e sulla possibilità di spingere i Fratelli a moderarsi e democratizzarsi. L’ha fatto, però, appoggiandosi ai falchi del movimento.

11638175_smallLa vera storia della rivoluzione egiziana
di Sam Tadros – 4 febbraio 2011

L’esercito egiziano è immensamente popolare, grazie alla mitologia della politica: è in tutti i gangli del regime, ma la popolazione lo vede come ad esso alieno. Lo considera pulito (non come il governo, corrotto), efficiente (costruiscono i ponti in fretta), e soprattutto sono gli eroi che hanno sconfitto Israele nel 1973 (inutile discutere al riguardo con un egiziano). Quando i carri armati e le truppe sono apparsi per strada la gente ha pensato che l’esercito stesse dalla loro parte, qualsiasi cosa ciò significasse. Il presidente continuava a rimandare la propria dichiarazione: il popolo si stava preparando all’annuncio delle dimissioni di Mubarak.

Dal 1952 il regime egiziano si basa su una coalizione fra esercito e burocrati che risponde al modello di Stato autoritario di O’Donnell. L’esercito controlla l’economia e il potere reale: ex-generali sono a capo di aziende statali e ricoprono posizioni amministrative di alto livello. L’esercito stesso ha un enorme braccio economico tramite il quale controlla dalle imprese di costruzioni ai supermercati. Le cose hanno iniziato a cambiare verso la fine degli anni Novanta.

Tutti sanno che Gamal Mubarak, il figlio del presidente, stava studiando per succedergli. In realtà Hosni non è mai stato entusiasta di questo scenario, vuoi perché  aveva intuito le ridotte capacità del figlio, vuoi perché  l’esercito non sembrava troppo convinto della successione. La moglie di Hosni invece era totalmente dalla parte del figlio. Gamal piano piano saliva i gradini dell’Ndp, trascinando su due gruppi della coalizione al potere: i tecnocrati dell’economia con studi in Occidente e fiducia nel Washington Consensus e la crescente business community. Insieme stavano cambiando l’economia egiziana e il partito.

I tecnocrati stavano facendo miracoli: l’economia sotto il governo Nazif mostrava picchi di crescita clamorosi. La moneta era deprezzata, affluivano investimenti dall’estero, aumentavano le esportazioni. Persino la crisi mondiale non si faceva sentire più di tanto. Il problema drammatico era che nessuno si prendeva la briga di spiegare e difendere questa politica economica (che stava portando il paese verso un sistema capitalistico vero e proprio) all’opinione pubblica egiziana.

Tale processo di ristrutturazione dell’economia colpiva la popolazione, abituata a dipendere per tutti i suoi bisogni dal governo e intontita dalla stanca retorica socialista. Non conta molto che il paese stesse crescendo: la gente non se ne rendeva conto. Non che i benefici non arrivassero a tutti, ma ci si era abituati allo Stato che faceva da balia, e non si capiva perché  non dovesse più essere così.

Gli uomini d’affari hanno approfittato dei miglioramenti economici, e iniziato ad avere aspirazioni politiche. Hanno avuto il seggio parlamentare che dava loro l’immunità, ma con Gamal hanno fiutato qualcosa di più grande. Questi voleva rimodellare l’Ndp come un vero partito più che come una massa di organizzazioni che operavano dentro lo Stato. I businessmen come Ahmed Ezz (il magnate dell’acciaio) grazie a Gamal hanno preso il controllo del partito, e con esso del potere.

All’esercito Gamal e i suoi compari non sono mai piaciuti. Lui non ha mai fatto il militare, e i suoi amici stavano mettendo in discussione il potere delle forze armate nell’economia (con le riforme liberali dei tecnocrati) e nella politica (ora che il partito diventava un’organizzazione seria). All’improvviso per fare carriera in Egitto non serviva più la leva ma una tessera di partito.

Egitto, assalto e saccheggio alla sede dei fratelli musulmaniEgitto: una rivoluzione a spese dell’economia
di Giovanni Mafodda – 18 febbraio  13

L’economia egiziana, pesantemente toccata dall’inizio della rivolta, ha iniziato a vedere momenti particolarmente difficili dal 2011, ben prima dell’elezione di Mohammed Morsi a presidente. Le previsioni di crescita per quest’anno non superano il 2%. La disoccupazione giovanile è al 25%, cifra che spaventa in un paese dove solo 3 cittadini su dieci sono sopra i trenta anni. Declino del turismo, blocco degli investimenti, inflazione crescente, forte indebitamento e deficit statale alto, caratterizzano, per il resto, un’economia che appare oltre ogni possibilità di autonomo recupero. Le uniche fonti di valuta estera a non aver subito i contraccolpi della rivolta anti Mubarak di due anni fa derivano dagli introiti dei transiti navali nel Canale di Suez e dalle rimesse degli emigranti.

Lo scorso novembre, l’Egitto aveva raggiunto un accordo preliminare con il Fondo monetario internazionale per un finanziamento di 4,8 miliardi di dollari, a un tasso di poco superiore all’1%, il più basso sul mercato della finanza internazionale, nell’ambito di un programma che prevede un cambio sostanziale del tanto deprecato sistema dei sussidi e una nuova, impopolare, impostazione in tema fiscale. Il presidente Morsi è stato però costretto a un precipitoso dietro front, dopo la fortissima reazione della popolazione alle previste misure di incremento degli introiti fiscali mediante l’imposizione di nuove tasse su acqua, carburante e consumi elettrici, nonché su alcuni beni di largo consumo come sigarette, bevande e liquori. Tutte misure pubblicizzate come altamente progressive, ma in realtà largamente penalizzanti per le classi media e meno agiata. “Come stringere la cinghia attorno a pance che già hanno fame”, è stato osservato.

Le riserve in valuta estera sono scese da 36 miliardi di dollari registrati prima della destituzione di Mubarak – a 15 miliardi e vanno assottigliandosi sempre di più, a un ritmo di circa un miliardo di dollari al mese. Una condizione che la stessa banca centrale egiziana ha definito “minima e a un livello critico”.

Com’è opinione generale nello stesso governo, la priorità numero uno per Morsi è mettere mano alla disastrata condizione fiscale del paese, che presenta un doppio deficit di bilancia dei pagamenti e di budget statale, e prossimo a una crisi di bilancio che sarebbe devastante. Servono circa 23 miliardi di dollari per tamponare il deficit previsto per l’anno fiscale 2012/2013. La stessa cifra fu necessaria anche per finanziare il deficit del bilancio precedente, il primo post-rivoluzionario, appianato poi con i proventi della raccolta di risparmio interno e delle riserve finanziarie in valuta. Non fu semplice neanche allora, ma lo stato finanziario del paese risulta oggi molto più indebolito ed il compito è sicuramente più gravoso.

Con un accordo siglato al Cairo dal presidente Morsi e da Catherine Ashton, capo delle relazioni esterne dell’UE, a novembre Bruxelles ha promesso all’Egitto un pacchetto di aiuti per un totale di 5 miliardi di euro per i prossimi due anni. La Banca europea degli investimenti e la Banca europea di ricostruzione e sviluppo garantiranno 2 miliardi di euro ciascuna, mentre 1 miliardo è previsto arrivare dai paesi appartenenti all’UE.nel maggio del 2011, le trattative per un prestito di 3,2 miliardi di dollari da parte del Fmi furono interrotte anche a causa dell’opposizione salafita all’interno dell’ora disciolto parlamento. Quest’ultima sosteneva che il prestito fosse contro la Sharia in quanto i previsti tassi di interesse erano da considerarsi come usura, posizione tutt’altro che unanimemente accettata all’interno dello stesso partito salafita al-Nour.

Ma il clima da “due passi avanti e uno indietro” che si continua a respirare dalle parti del Cairo circa l’accordo con il Fmi, più che un problema di natura religiosa, riguarda in definitiva il ristrettissimo spazio di manovra che il governo ha davanti a sé per attuare un consistente piano di risanamento dei conti pubblici. Destinato a produrre ulteriori, dolorose ristrettezze per una popolazione ormai abituata a rispondere con le barricate. “A meno che non riesca a tirare fuori dalla manica con rapidità un paio di grassi conigli, è difficile possa trovare il supporto che gli serve”, ha commentato Elijah Zarwan, rappresentante al Cairo del Consiglio europeo per le relazioni estere, la difficile posizione del presidente Morsi.

GEOPOLITICA E COSCIENZA DI CLASSE

la musa metafisica c carràGiovanni Armillotta rivendica su Limes «la struttura marxiana» quale eccellente strumento di analisi dei fenomeni geopolitici, soprattutto per ciò che riguarda il processo di globalizzazione. Su un articolo del 25 marzo 2013 pubblicato appunto sulla nota rivista italiana di geopolitica, Armillotta svolge alcune interessanti «considerazioni sulla presa di potere di fascisti, nazisti e bolscevichi», con l’obiettivo, davvero ammirevole, di smitizzare «luoghi comuni di destra e di sinistra», sebbene «La ragione di questo articolo non è certo quella di illustrare il senso politico, sociale o economico del vocabolo “rivoluzione”» (Numeri e rivoluzione in Europa).

Prima di vedere i tre casi storici portati ad esempio dal Nostro analista geopolitico, è forse utile comprendere il suo punto di vista geopolitico, il quale a me pare molto interessante, se non altro perché si sforza di resistere al luogocomunismo del politicamente corretto made in Occidente. Cito da un intervento di Armillotta pronunciato il 6 ottobre 2011: «La manipolazione delle rivolte nel mondo arabo; l’aggressione alla Libia, la perdita d’identità e valore dell’Europa in una sorta di silenziosa e rassegnata colonizzazione e trasformazione in melting pot di Serie B, di cui le ricchissime classi politiche sono insensibili; la tenzone con la Cina temuta da Washington sua “erede”, e le crisi dei debiti sovrani sono al centro dei grandi rivolgimenti in atto. Obama non è altro che uno dei migliori alleati dei piani dei neoconservatori. Gli stessi che sognano un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal protagonismo armato degli Stati Uniti, ampliatosi durante la presidenza di Barack Hussein. Un progetto cullato dalla famiglia Bush e portato avanti da Obama. Il democratico è riuscito però a vendersi molto bene dati i luoghi comuni di cui è il massimo portatore nella versione tradizionale: bianco cattivo (Bush figlio), nero buono (Obama), ma entrambi sventolanti lo stars and stripes del capitale finanziario e dell’imperialismo unipolare» (Capire le rivolte arabe, geopolitica, 1 novembre 2011).

Avevo detto che si tratta di un punto di vista interessante, non condivisibile nella sua interezza, anche perché la riflessione di Armillotta potrebbe prestarsi a certe interpretazioni antiamericane e complottiste – alla Giulietto Chiesa, per intenderci – che non ho mai condiviso e che anzi ho sempre combattuto in quanto funzionali agli interessi di potenza che fanno capo a una delle fazioni imperialistiche che competano nell’agone mondiale. Non conosco altro autentico antimperialismo che non sia quello dell’anticapitalismo di classe irriducibile agli interessi di tutte le potenze e di tutti gli Stati in competizione, anche a quelli più deboli e soccombenti nella situazione contingente. Il principio geopolitico secondo il quale «il nemico del mio nemico è mio amico» non ha cittadinanza alcuna nel pensiero critico-rivoluzionario. Nello studio Il mondo è rotondo ho esposto il mio punto di vista “geopolitico”. Veniamo adesso ai tre casi pseudo rivoluzionari di Armillotta.

«L’obiettivo – scrive il Nostro – è sfatare vulgate che albergano a destra (il significato di “rivoluzione” nella mitologia fascista) e a sinistra (l’orrore e il rifiuto della Rivoluzione d’Ottobre, svoltasi “in modo autoritario”, e l’accoglimento, al contrario, del modello liberal-capitalistico statunitense)». Armillotta inizia con la mitologia “rivoluzionaria” fascista. Dopo un breve excursus storico volto a ricordare l’ascesa politico-elettorale del Partito fascista, egli conclude: «Era forse  una rivoluzione? No! Nel passaggio si lasciò immutata la forma di governo, di Stato e di produzione. Cambiò solo il presidente del Consiglio, che, dopo aver assunto la guida col largo consenso degli italiani, agì come sappiamo». Ineccepibile, a mio modo di vedere.

volk_reich_furer_460Passiamo al caso tedesco. Anche qui il Nostro ricorda a grandi linee l’ascesa politico-elettorale del Nazionalsocialismo nel fatale 1933 per concludere con la solita domanda: fu quella nazista «una rivoluzione? Si rovesciò con la violenza la Repubblica di Weimar? No! Nemmeno questa era una rivoluzione. Ci fu poi il cambiamento di norme legislative, possibile solo grazie all’appoggio prima elettorale e poi parlamentare da parte di secondi e poi di terzi». Apro una piccolissima parentesi. Nel 1932 anche Carl Schmitt mise in guardia gli elettori tedeschi dal rischio  insito nel successo elettorale del Partito guidato da Adolf Hitler: «Chiunque contribuisce a dare il 31 luglio la maggioranza ai nazionalsocialisti si comporta come un folle […], dà infatti a questo movimento politico e ideologico ancora immaturo la possibilità di modificare la costituzione, di fondare una chiesa di Stato, di sciogliere i sindacati ecc. […] Si finirebbe per offrire completamente la Germania a questo gruppo e tutto ciò sarebbe estremamente pericoloso» (cit. tratta da J. W. Bendersky, C. Schmitt teorico del Reich, Il mulino, 1983 ). Poi quel «movimento politico ideologico» maturò in fretta e il pericolo estremo per la Repubblica di Weimar si convertì, agli occhi di Schmitt, in un potente fattore «katéchontico» in chiave controrivoluzionaria.

Prima di venire al terzo, e a mio avviso più interessante esempio storico addotto da Armillotta, mi permetto di citarmi, per chiarire in modo sintetico come cerco di impostare il rapporto geopolitica-rivoluzione, e così mantenermi all’altezza della prospettiva dalla quale il Nostro guarda il mondo e la storia.  Almeno ci provo! Cito da un mio post di due anni fa dedicato alla cosiddetta primavera araba.

«Tunisia, Algeria, Egitto: ma davvero stiamo assistendo a delle rivoluzioni in diretta televisiva? Davvero le mitiche masse arabe diseredate, attive a pochi chilometri dalle nostre coste meridionali, stanno impartendo una dura lezione di Rivoluzione al sonnecchiante e obeso proletariato occidentale? Insomma, ha ragione il bifolco manettaro dell’Italia dei Valori, quando suggerisce ai giovani, ai disoccupati e a chi non ne può più del Nero Cavaliere, di “fare come in Egitto“? Calma e gesso. Già i consigli populisti-giustizialisti dei manettari di casa nostra dovrebbero metterci sulla buona strada, nella ricerca di una risposta non banale a quelle domande. Non farò un’analisi della situazione sociale dei Paesi nordafricani oggi in ebollizione; cercherò piuttosto di afferrare e tirare un solo filo politico della questione, a mio avviso di notevole interesse, anche teorico. Per le analisi sociali e geopolitiche accurate c’è sempre tempo. Avendo da sempre criticato la concezione feticista – ideologica – delle parole, non starò qui ad impiccarmi su un termine (rivoluzione), peraltro quanto mai abusato e inflazionato dal marketing politico e pubblicitario (scusate la distinzione…). Ma al suo concetto però sì! Ebbene, se con rivoluzione vogliamo intendere un processo sociale alla fine del quale la vecchia classe dominante viene spazzata via dal potere (economico, politico, ideologico, sociale tout court) dalla classe prima dominata, la quale costruisce una nuova società (non solo un nuovo governo), certamente quello che sta accadendo in Africa settentrionale e che rischia di terremotare il Medio Oriente non entra nei “parametri” appena citati. Non solo la posta in gioco in quei Paesi non è il potere sociale, ma i movimenti di protesta che li attraversano di fatto tendono a rafforzare le fazioni della classe dominante che hanno interesse a cambiare regime politico, chi per rallentare il processo di modernizzazione, chi invece per accelerarlo.

Non basta che le moltitudini affamate e oppresse scendano in strada, e che usino anche le forme più violente della lotta politica, per poter – per così dire – scomodare il concetto (non la parola) di rivoluzione. Infatti, non di rado le fazioni della classe dominante si combattono a suon di “rivoluzioni”. In Cina gli imperatori promuovevano Celesti Rivoluzioni per regolare i conti con le dinastie nemiche. “Sparare sul quartier generale!“, diceva l’Imperatore Mao ai tempi della cosiddetta «Rivoluzione Culturale Proletaria». La stessa “rivoluzione komeinista” di fine anni Settanta ci dice fino a che punto la rabbia delle classi dominate può venir usata per scopi ultrareazionari.
Il quid che ormai da moltissimo tempo manca ai movimenti sociali, in Occidente come in Oriente, a Nord come a Sud del mondo, è ciò che con antica – ma non per questo meno vera – fraseologia possiamo chiamare “soggettività politica“, ossia la coscienza delle classi dominate di poter coltivare interessi diametralmente opposti da quelli “generali del Paese”, i quali fanno capo, in modo più o meno diretto, alle classi dominanti.

È possibile la rivoluzione (nel significato radicale appena delineato) nella Società-Mondo del XXI secolo? È su questa domanda che, a mio avviso, vale la pena di spendere qualche riflessione, magari dopo aver spento la televisione che ci mostra la povera gente dare il sangue per i salvatori della patria di turno».

l'eq pol meditVeniamo, per concludere rapidamente, allo scottante caso bolscevico.

Scrive Armillotta: «Il 25 ottobre [7 novembre] 1917, il “piccolo” partito bolscevico fece la rivoluzione – questa sì che lo fu – poiché vi erano le condizioni sociali e politiche adatte. Se i bolscevichi avessero rifiutato “il modo autoritario”, non sarebbe successo nulla». Qui il Nostro intende forse dire che le vere rivoluzioni non si fanno rispettando le “sacre” procedure democratiche, le quali hanno, all’avviso di chi scrive, una stringente funzione politico-ideologica controrivoluzionaria, ma piuttosto contro di esse. Ora, ciò che rese controrivoluzionaria la democrazia borghese russa che pure era nata da pochissimo, fu il tentativo leniniano di saldare il processo di radicalizzazione sociale attivo in Russia ormai da parecchi mesi con l’analogo processo che investiva tutti i Paesi europei coinvolti nella Grande guerra imperialista. Quando il Partito di Lenin decise di fare della rivoluzione sovietica l’avanguardia della rivoluzione proletaria internazionale, la democrazia russa nata in primavera subì un processo di invecchiamento eccezionalmente rapido, e in pochi mesi il neonato – borghese – apparve agli occhi della coscienza di classe alla stregua di un vecchio decrepito. Contro il materialismo volgare (determinista) dei menscevichi Lenin provò che la storia poteva fare i famosi “salti”! Non «La rivoluzione contro il Capitale» (di Marx), come scrisse allora il poco dialettico Gramsci, quanto piuttosto la rivoluzione russa inserita a pieno titolo nel processo storico mondiale, il quale aveva messo all’ordine del giorno, almeno nei Paesi capitalisticamente avanzati, la rivoluzione contro il rapporto sociale capitalistico.

L’accelerazione dei tempi storici gioca brutti scherzi al pensiero adialettico e privo di radicalità analitica e politica.

Il «modo autoritario» di cui parla Armillotta a proposito dell’iniziativa rivoluzionaria bolscevica, che si compendiò nella dirompente parola d’ordine Tutto il potere ai Soviet (fuori e contro la democrazia borghese), ha senso, almeno a parere di chi scrive, solo nel contesto storico e concettuale appena delineato a grandi linee. Il Nostro scienziato di geopolitica, nonostante rivendichi un approccio marxiano all’analisi storica (l’articolo preso in esame si chiude citando la famosa prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica), mostra di non aver ben compreso la natura della Rivoluzione d’Ottobre e della successiva Controrivoluzione stalinista. Ecco la prova: «Cossiga direbbe [ai cosiddetti ex e post “comunisti” ancora in circolazione che rinnegano «il modo autoritario» che permise nel ’17 ai bolscevichi di “prendere il potere”]: “Per mantenere ed esser fedeli alla vostra identità storica, voi non potete né condannare né rinnegare Stalin e lo stalinismo, senza i quali voi forse oggi neanche sareste!” (La storia non si fa con i ‘se’ e i ‘ma’», Liberazione, 15 maggio 2004, Inserto, p. III)». Contro i figli e i nipoti dello stalinismo Cossiga e Armillotta hanno ragione da vendere; ma «che ci azzecca», come dice il noto manettaro caduto in disgrazia, Stalin e lo stalinismo con la Rivoluzione d’Ottobre? «Il modo autoritario» del Partito di Lenin cosa ha a che fare con l’autoritarismo controrivoluzionario dello stalinismo?* Detto en passant, Stalin non ebbe alcun ruolo di rilievo in quella rivoluzione.

Qui siamo in presenza di un salto storico-logico che si trasforma in un risibile capitombolo, il quale, tra l’altro, mette in luce tutti i limiti della concezione geopolitica borghese, la quale non sa penetrare la natura di classe della Potenza materiale e sociale che giustamente essa pone al cuore dell’analisi delle relazioni internazionali. «La geopolitica», scrive il Nostro, «non è altro che lo studio e la comprensione delle trasformazioni della struttura a livello mondializzato». Non c’è dubbio. Ma se non si coglie la sostanza qualitativa di questa «struttura», ossia il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che la rendono possibile sempre di nuovo, il profondo significato storico, sociale e politico dei processi geopolitici rimane inespresso.

È qui che insiste la differenza fondamentale tra un punto di vista apologetico, ancorché “strutturalista”, sulla Potenza sociale colta nella sua dimensione geopolitica, e il punto di vista critico-radicale: il primo rimane quasi ipnotizzato dalla prassi del Dominio e dalle “affascinanti” categorie filosofiche e politiche chiamate a fornirne la teoria (potenza, forza, violenza, ecc.); il secondo non fa che svelare il carattere disumano e potenzialmente transitorio – sul piano storico – di quella prassi.

COPERTINA* «Il filo rosso concettuale cui alludevo sopra è la trasformazione del carattere storico e sociale (ciò che un tempo si definiva «la natura di classe») del Partito Bolscevico a opere di potenti forze materiali agenti nelle profondità della società russa. Di che si tratta? Di questo: lo stesso partito che nell’ottobre del 1917 era riuscito a trasformare una devastante crisi sociale in un’occasione rivoluzionaria in grado di travalicare i confini borghesi tracciati dal movimento popolare-democratico iniziato nel febbraio dello stesso anno, a un certo punto si converte in un potentissimo strumento controrivoluzionario che ricaccia violentemente indietro l’esperienza sovietica, confinandola ben dentro l’orizzonte borghese. Come vedremo, non esiste un vero momento di svolta, un singolo «evento di rottura», una soluzione di continuità databile con assoluta – «scientifica» – precisione, proprio in ragione del carattere processuale del fenomeno indagato; in effetti, si deve parlare di un accumulo di contraddizioni che alla fine provocheranno il dialettico «salto qualitativo»… all’indietro. (Anche il concetto di «massa critica» può forse andare bene a rendere la dialettica della cosa).

Indietro, si badi bene, non in termini assoluti, ma in rapporto alle possibilità emancipatrici che l’Ottobre aveva aperto sulla scala mondiale, prim’ancora che nazionale. Sul piano storico generale la controrivoluzione stalinista rappresentò il peculiare modo in cui la Russia entrò nella modernità capitalistica del XX secolo.

In realtà non abbiamo a che fare con lo stesso partito – e questo è il «risvolto dialettico» che bisogna bene apprezzare –, nel senso che nonostante il vecchio e glorioso marchio di fabbrica (a cui si aggiunge quello nuovo di «Partito Comunista Russo»), nonostante i vecchi riferimenti teorici e politici (del resto sempre più formali e dogmatici), e nonostante il vecchio e prestigioso personale politico («i compagni di Lenin»!), agiscono al suo interno, e attraverso di esso si proiettano all’esterno, vecchie e nuove potenti forze storico-sociali (sostanzialmente: il tradizionale imperialismo Grande-Russo e l’accumulazione capitalistica). Così, un partito che definisce se stesso, in ottima fede, come «comunista», e che crede di agire «per il comunismo» (persino i vecchi leader bolscevichi «purgati» negli anni Trenta accetteranno l’infamia della calunnia e il plotone d’esecuzione come «male necessario per il trionfo della causa») diventa un partito totalitario nazionale-capitalistico.

E tutto questo passa completamente sopra le teste degli stessi protagonisti, i quali non controllano più gli avvenimenti, non padroneggiano più le forze della storia, ma ne diventano piuttosto gli strumenti, i vettori, gli agenti, nonché l’oggettiva proiezione politica e ideologica. I cosiddetti «comunisti» si comportano come gli alienati e impotenti individui capitalistici di cui parla Marx: dominati da ostili potenze occulte essi non sanno quello che fanno e ciò che veramente sono. È il trionfo della dialettica materialistica del comunista di Treviri!» (Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre – 1917-1924. Scarica il PDF).

ECONOMIA E POTENZA DEGLI STATI

Nel post dello scorso giovedì, criticando la colossale fandonia di Barbara Spinelli sulla Germania (la ricerca della primazia economica come prerogativa dei soli tedeschi), facevo notare come la dimensione economica si collochi sempre più, e in misura sempre più imperativa e totalitaria, al cuore della prassi sociale, fino a penetrare la sostanza più intima degli individui, ridotti al rango di lavoratori (più o meno “manuali”, più o meno “intellettuali”), funzionari a diverso titolo del capitale, consumatori, clienti, contribuenti e, vista la stagione, comandati alle «sudate e meritate» ferie. Se, per riprendere la famosa tesi del materialismo volgare, l’uomo è ciò che mangia, non c’è dubbio che nel XXI secolo egli a malapena si distingue da una merce o da un codice fiscale.

Il Capitale ha una natura imperialista in questo senso peculiare, che per sopravvivere esso deve necessariamente sussumere sotto il suo Diritto, che si compendia nella bronzea legge del profitto, l’intero spazio esistenziale degli individui: non solo la produzione, non solo il mercato, non solo i luoghi del consumo, ma anche i corpi e le anime degli individui. Inutile dire che è nel denaro, nel demoniaco «equivalente universale», che questa natura espansiva e totalitaria trova la sua massima espressione, fino al punto da generare  la feticistica impressione di una sua “ontologica” autonomia esistenziale: per un verso esso appare alla stregua di cosa naturale, e per altro verso come mero strumento tecnico al servizio della società. La sua esistenza reale in quanto espressione del lavoro sociale mondiale, e quindi di peculiari rapporti sociali, è un “filosofema” che la prassi quotidiana sembra negare nel modo più evidente. Di qui, appunto, la sua dimensione feticistica, oggetto più consono alla cura dello psicoanalista e del teologo, che allo studio del rigoroso “scienziato sociale”.

La cosiddetta guerra fredda (molto “calda” ai confini dell’Impero) tenne celato il sordo conflitto economico che ebbe come protagonisti indiscussi i partener dell’Alleanza centrata sugli Stati Uniti. Venuto meno uno dei due poli dell’antagonismo (il Patto di Varsavia), il cemento politico-ideologico che aveva tenuto insieme il fronte del «Capitalismo liberale» si è progressivamente indebolito, lasciando venire a galla il fondale. Sotto questo aspetto si può senz’altro dire che gli americani avevano lo stesso interesse dei russi al mantenimento dello status quo interimperialistico generato dalla seconda guerra mondiale, tanto più  che i primi avevano potuto lucrare cospicui vantaggi economici in virtù della loro funzione di leader politici riconosciuti. Basti pensare alla svalutazione del dollaro agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e agli accordi del Plaza del settembre 1985, entrambi aventi peraltro come maggiore obiettivo il Giappone. Ma fare i conti senza l’oste, ossia senza tenere nella giusta considerazione il fondamento di ogni potenza passata, presente e futura, è una prassi che alla fine mostra tutti i suoi limiti.

Alla fine degli anni Ottanta, ossia alla vigilia dell’ennesima accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica, il quadro della contesa sistemica mondiale presentava questa situazione: la potenza “sovietica” perdente su tutti i fronti (da quello economico a quello tecnologico-scientifico, da quello politico-ideologico a quello militare) e in paurosa crisi; la potenza americana vincente ma in declino, il Giappone vincente e in poderosa ascesa in tutti i quadranti del globo (dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dal Sud-Est asiatico al Canada è un fiorire di imprese economiche attivate dal Capitale nipponico), la Germania trionfante, la Cina alle soglie di quel «grande balzo in avanti» che la proietterà al vertice del Capitalismo mondiale. Lungi dall’essersi dileguato, o indebolito, come avevano teorizzato gli apologeti della «buona e sostenibile globalizzazione», assai numerosi nel Vecchio Continente, il fondamento materiale dell’Imperialismo (il concetto più adeguato al termine globalizzazione) si è piuttosto rafforzato in una misura che, ad esempio, ha reso possibile eventi che un tempo postulavano dichiarazioni di guerra e movimento di eserciti: vedi, appunto, la miserabile dissoluzione del Patto di Varsavia e l’unificazione tedesca. La pressione dell’economia ha avuto ragione di ogni volontà politica, non secondo un processo deterministico, bensì sulla scorta di quella che potremmo chiamare dialettica della necessità: poste alcune importanti premesse le conseguenze insistono in un campo di possibilità piuttosto ristretto, e comunque ben definito sul piano storico-sociale. In questo senso, ad esempio, ho parlato della Germania come «Potenza fatale», ossia per rimarcare i fattori oggettivi della sua forza sistemica e, quindi, della sua necessaria funzione storica, soprattutto nel contesto europeo.

Scrive Christian Harbulot: «Le teorie economiche dominanti in Occidente non colgono il cambio di paradigma in corso: la conquista dei mercati come fattore di sviluppo e di potenza degli stati, l’economia come arma» (L’economia come arma, Limes 3-2012). Non vorrei passare per quello che la sa più lunga degli altri, ma non posso esimermi dal formulare l’antipatica domanda: ma dove sta «il cambio di paradigma»? Alcuni scoprono solo oggi ciò che l’ultrasecolare prassi capitalistica ha mostrato in ogni luogo del pianeta, e anziché rallegrarsi per la tardiva, quanto feconda, acquisizione sentono l’irresistibile bisogno di teorizzare «cambi di paradigma» che esistono solo nelle loro teste. Dopo aver giustamente criticato gli intellettuali europei, soprattutto quelli francesi, «riluttanti a riconoscere il peso riacquisto dai conflitti economici nelle relazioni internazionali», Harbulot scrive: «L’accrescimento di potenza attraverso l’espansione economica è il motore del dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile». Non c’è dubbio. Ma ciò non prova affatto un «cambio di paradigma», piuttosto conferma la natura eminentemente economica di un “vecchio” fenomeno sociale: l’Imperialismo, che alcuni teorici dell’Impero avevano trattato come un cane morto sulla scorta di una filosofia della storia fin troppo “postmoderna”. Tutti i dati forniti dal francese e tutti i fatti da lui accuratamente descritti, a cominciare dalla strategia del controllo preventivo dei mercati e delle materie prime, rientrano naturalmente nella rubrica dell’Imperialismo, e per rendersene conto basta compulsare anche solo rapidamente il classico libro di John Atkinson Hobson del 1902.

Con ciò voglio forse sostenere che il “nuovo” Imperialismo è identico a quello “vecchio”? Nemmeno per idea. Infatti, al confronto col primo il secondo impallidisce come un bambino che avesse visto l’Uomo Nero. Un secolo e passa di sviluppo capitalistico non è trascorso invano, e oggi l’Imperialismo ha quella natura esistenziale cui ho fatto cenno all’inizio. Ma il paradigma è sempre lo stesso: il Capitale come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento di ogni cosa esistente, a partire dagli individui. È la vitale ricerca del profitto che lo porta a inglobare nel proprio spazio tutti i momenti della totalità sociale: individui, materie prime, mercati, stati, nazioni, continenti: tutto.

Proprio per rispondere al «dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile», ma io aggiungo, in una prospettiva storica che guarda anche al passato, degli Stati Uniti e del Giappone, i paesi del Vecchio Continente hanno cercato nel corso di parecchi decenni di costruire un’area economica integrata, ma la crisi economica per un verso ha fatto esplodere le vecchie contraddizioni immanenti al progetto europeista (progetto imperialista al cento per cento), e per altro verso ha posto l’aut-aut che terrorizza tutte le nazioni europee, a cominciare dalla sovranista Francia: o si passa al livello successivo, ossia politico, del gioco, oppure il gioco finisce, con quali conseguenze è ancora da capire. I processi economici devono necessariamente avere delle conseguenze sul piano squisitamente politico, e l’attuale crisi del progetto europeista si colloca al centro di questa dirompente dialettica, la quale ha nella Germania il suo centro di irradiamento fondamentale.

Infatti, il passaggio al livello successivo, ossia politico, nella costruzione dell’Unione Europea presuppone un travaso di potenza fra le nazioni coinvolte nel progetto che deve necessariamente spostare l’asse geopolitico del continente verso la potenza sistemica più forte, ossia verso la Germania. Ancora una volta viene avanti l’economia «come fattore di sviluppo e di potenza degli stati». Ma anche come il più potente fattore di ristrutturazione (o rivoluzionamento) della società. Infatti, il processo di violenta “riforma sociale” che sta attraversando i paesi meno forti dell’eurozona (pensiamo alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e all’Italia), certamente va nella direzione della “convergenza europea”, e quindi si muove lungo le linee di forza generate dalla Germania; ma nella misura in cui tende a rendere più produttivo e flessibile il lavoro e a ridurre la spesa pubblica improduttiva essa va nella direzione voluta da ogni Capitale nazionale. In questo senso Monti ha ragione quando dice che ciò che va bene per l’integrazione europea va bene anche per il Paese, ossia per l’accumulazione capitalistica nazionale. Inutile dire che in questa “dialettica oggettiva”, che abbraccia tanto la dimensione sovranazionale quanto quella nazionale, a farne le spese sono soprattutto le classi subalterne, costrette a “scegliere” tra la brace europeista e la padella sovranista.

La forma giuridica (mercato nazionale o mercato sovranazionale) deve alla fine adeguarsi alla realtà economica (l’internalizzazione del Capitale e l’interdipendenza economica dei paesi e dei continenti), e questo adeguamento deve necessariamente generare conseguenze politico-istituzionali di più vasta e generale portata. La forbice temporale che si è aperta fra l’economia, sempre più veloce, e la politica, relativamente assai più lenta, ha creato quella tensione storico-sociale che stiamo avvertendo come crisi sistemica epocale. Non la sola Germania, come sostiene Barbara Spinelli, ma tutti i paesi europei sono stati posti dal processo sociale mondiale dinanzi a un drammatico bivio, foriero di gravi contraddizioni e di inquietanti (per le classi dominanti, beninteso) conflitti sociali. Ciò che nei secoli passati giocò a favore dell’Europa, ossia l’aggressiva competizione sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, religiosa) fra tante e relativamente piccole aree geosociali contigue e, poi, fra tante rissose entità nazionali, nel XXI secolo si mostra come potente fattore di debolezza e di degenerazione. Nella Società-mondo della nostra epoca piccolo non è più – posto che lo sia mai stato – sinonimo di bello.

Nel 2000 Robert Gilpin scriveva che «Un nuovo ordine politico ed economico si sta stabilendo in Europa; quale sarà la sua natura, non è ancora dato sapere» (Le insidie del capitalismo mondiale, Università Bocconi Editore). Dodici anni dopo questo «nuovo ordine» sembra assumere contorni meno evanescenti. Azzardare previsioni intorno agli esiti di quella che non pochi analisti politici ed economici definiscono guerra civile europea non mi sembra un esercizio particolarmente sensato. Ciò che conta non è scommettere su questa o quella soluzione (e, almeno per chi scrive, prendere parte a questo o a quel partito: quello federalista e quello sovranista), ma capire la natura della dialettica in corso. Certamente possiamo dire che, comunque vada, la natura del «nuovo ordine» avrà il marchio del Capitalismo e dell’Imperialismo, e che, come scriveva sempre Gilpin, «la Germania rimane l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea». Già sento le imprecazioni dei sovranisti…

IL VOLTO “PACIFICO” DELLA GERMANIA TERRORIZZA L’OCCIDENTE

Un tempo la Germania inquietava i suoi concorrenti perché mostrava un’aggressività politico-militare davvero preoccupante. Beninteso, preoccupante per quelle nazioni che, giungendo per prime al vertice della piramide imperialistica intorno al limitare del XIX secolo, avevano trovato il modo di spartirsi in solitudine il vasto mondo, offrendo ai paesi ritardatari solo le briciole del ricco bottino. Il riferimento è naturalmente all’Inghilterra e alla Francia, ma anche agli Stati Uniti, se prendiamo in considerazione il quadrante orientale-Pacifico della mappa geopolitica: qui il ruolo del cattivo spettò al Giappone, ristretto in uno “spazio vitale” fin troppo esiguo per la sua straboccante forza sistemica. Chi ha interesse a spezzare lo status quo deve mostrare, magari obtorto collo, il volto più cattivo di cui è capace.

Oggi la Germania fa paura per il suo inquietante “pacifismo”. A differenza dei mass-media nostrani, distratti dagli ennesimi scandali e dalle insulse macchinazioni politiche in vista delle prossime scadenze elettorali, ai quotidiani e alle riviste politiche degli altri paesi occidentali non è invece sfuggito quello che è forse stato l’aspetto più significativo dell’ultimo summit della Nato (Chicago, 20-21 maggio): il processo alla Germania. Un processo ovattato, portato avanti con discrezione e guanti di velluto, come si conviene in un convegno fra “amici” e “alleati”; ma non per questo privo di durezze. Come diceva il filosofo (tedesco!), la verità sa essere brutale anche nei panni della più dimessa diplomazia.

Partendo dall’atteggiamento “omissivo” che ha caratterizzato la politica estera tedesca a proposito della questione libica, gli Stati Uniti, spalleggiati dagli altri “alleati”, hanno rinfacciato ai tedeschi un egoismo senza pari in ambito NATO: mentre crescono in potenza economica, essi non solo rifiutano di assumere le responsabilità politiche e militari che competono a un grande Paese, qual è diventata la Germania dopo la seconda guerra mondiale, e a fortiori dopo la fine della guerra fredda; ma addirittura mostrano di volersi ritrarre ancor di più dalle loro responsabilità internazionali, tagliando ad esempio la loro spesa militare.

Inutile dire che mentre irrita gli “alleati”, il disimpegno politico-militare dei tedeschi, formiche dell’Occidente, piace molto ai cinesi, formiche dell’Oriente. Fra formiche ci s’intende? Rimane il fatto che, ad esempio, la Germania «verso la fine del 2010, affiancata dalla Cina, ha cercato di bloccare sul nascere un’iniziativa americana proposta nel novembre dello stesso anno dal G20 per “riequilibrare” i rapporti con i paesi che basano la loro economia sulla crescita delle esportazioni» (Heather A. Conley, La Germania non crede più nell’America, 14/10/2011, Limes).

Il Primo Ministro polacco ha ripetuto che al suo Paese oggi spaventa più una Germania isolazionista, tutta focalizzata sull’economia, che una Germania forte sul piano politico-militare. Una Germania politicamente forte sulla base dell’attuale status quo che vede gli Stati Uniti saldamente al centro della NATO, è evidente. La Polonia teme l’attuale debolezza politica della Germania semplicemente perché essa potrebbe preludere a uno sviluppo autonomo dell’imperialismo tedesco, e certamente il Ministro della Difesa tedesco, volendo in qualche modo giustificare la reticenza del suo Paese in materia di spese militari, non ha rassicurato i polacchi affermando che «La Germania ha paura della sua stessa forza».

«Come ha osservato Stefan Kornelius, caposervizio agli Esteri della Süddeutsche Zeitung, la Germania assomiglia a “una nazione in catene da essa stessa forgiate”» (H. A. Conley, La Germania…). Questo, sia detto per inciso, a proposito della Germania come Potenza fatale, e in relazione alla radice sociale – eminentemente economica – dell’Imperialismo contemporaneo. Ancora una volta il “vecchio” concetto di Imperialismo si mostra assai più adeguato alla reale dinamica del processo sociale di quanto non sia il concetto “postmoderno” di Impero, a confronto del primo forse più suggestivo e più vendibile sul mercato delle ideologie, ma certamente non all’altezza del tempo.

«La carta mostra i legami economici della Germania con il resto del mondo. Berlino si pone non solo come potenza centrale d’Europa ma come fattore inaggirabile sulla scena globale. Il confine fra geoeconomia e geopolitica è sfumato» (Limes, 4/2011).

In verità l’accusa americana cui facevo cenno sopra non è nuova, anche se a partire dagli anni Settanta essa investì tutti gli alleati degli Stati Uniti, dall’Europa occidentale presa in blocco al Giappone, accusati appunto di ingrassare all’ombra del costosissimo – in tutti i sensi – ombrello politico-militare offerto “generosamente” dal Paese egemone. Perdenti sul piano politico-militare, la Germania e il Giappone non tardarono a prendersi la rivincita, anche sfruttando al meglio la propria condizione di paesi reietti che alla fine avevano “accettato” la resa incondizionata decisa nel ’43 a Casablanca da Roosevelt e da Churchill. (Detto di passata, la guerra mondiale durò altri due anni perché nessun Paese può accettare, senza impegnarsi in un corpo a corpo mortale col nemico, una resa incondizionata, salvo venir ridotti ai minimi termini, cosa che peraltro puntualmente avvenne. Sulla pelle delle classi dominate di tutto il pianeta).

La Germania è tutta concentrata sul proprio potenziale economico, e mentre prospera in un continente rovinato dalla crisi economica, essa non vuole impegnarsi seriamente in scelte politiche che necessariamente hanno un costo in termini finanziari. Eppure i tedeschi hanno tratto un grande beneficio dal sistema di alleanze cui sono parte integrante ormai da sessant’anni. È venuto il momento per la Germania di essere meno egoista e più generosa: essa deve pagare un prezzo adeguato alla sua dimensione di potenza economica, procedendo anche a un rapido riarmo, ovviamente nell’ambito della NATO e in stretta sinergia con i partners europei. Dinanzi a questo grave discorso «la diplomazia tedesca rimane silente», ha riconosciuto Der Spiegel. Un silenzio che mette i brividi.