NAZIONE E STATO NAZIONALE NELL’EPOCA DELLA SUSSUNZIONE TOTALITARIA DEL MONDO AL CAPITALE

enhanced-1586-1411744055-3La nazione come area di sfruttamento locale (o regionale) da parte di un Capitale privo, sostanzialmente, di attributi nazionali. Lo Stato nazionale come potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, appunto. Alla base di questa concezione insiste il concetto di Capitale come rapporto sociale, e non come cosa, come tecnologia economica posta al servizio della società. Sono questi i concetti, peraltro già altre volte da me trattati, che intendo sviluppare nelle righe che seguono, sperando di introdurre nell’argomentazione nuovi spunti di riflessione intorno a vecchi temi, di offrire nuove prospettive dalle quali approcciarli. Mi scuso per la sintesi di alcuni passaggi storici e logici cui sono stato costretto nel tentativo di rendere quanto più stringato possibile il discorso posto all’attenzione del lettore.

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Creare un ambiente favorevole (friendly) agli investimenti del «capitale straniero: di qui,la necessità di «riforme a tutto campo», a «360 gradi», della sempre più decotta Azienda Italia (vedi i pessimi e depressivi dati sull’economia italiana resi noti l’atro ieri dal Ministro Padoan e dal moribondo Cnel). È, questo, un mantra che dilaga su tutti i media del Paese. Un mantra tutt’altro che di giornata, per la verità; anzi piuttosto annoso e rancido, visto che sto invecchiando avendo sempre nelle orecchie quel cattivo motivetto “riformista”. Riforme, si badi bene, tanto di «struttura» (ad esempio quelle tese a modificare il mercato del lavoro e il welfare) quanto di «sovrastruttura» (ad esempio, quelle volte a modernizzare la Giustizia, penale e civile, e la politica). Sempre che tutte queste distinzioni conservino un residuale significato nell’epoca del dominio totalitario della società al Capitale. Basti pensare che gli stessi sociologi ed economisti mainstream parlano della politica e della giustizia civile nei termini di «infrastrutture economiche», ossia di servizi immateriali chiamati a supportare lo sviluppo economico di un Paese. Com’è noto, i tempi della politica, della burocrazia e della Giustizia trovano una puntigliosa traduzione in termini economici in chi intende investire capitali in vista dell’agognato e vitale profitto.

A proposito di profitto! All’ultima Direzione del PD Paola Concia, entusiasta del «dinamico» modello capitalistico tedesco, ha sostenuto che per un’impresa fare profitti «è un dovere», perché senza profitti le imprese chiudono e i lavoratori perdono la loro unica fonte di reddito. «Occorre in Italia una rivoluzione culturale che faccia capire che un’impresa ha il diritto di esistere solo se fa profitti, naturalmente se fatti in modo onesto e lecito». Naturalmente. Il profitto come assoluto imperativo categorico, e il cinismo come linguaggio della verità: pane duro per i denti di chi crede in un Capitalismo «dal volto umano». Di qui, per riprendere il filo del discorso, l’urgenza di approntare efficaci «riforme» che tutelino non il posto di lavoro, ma il lavoro, attraverso la creazione, appunto, di un ambiente sociale capitalisticamente favorevole: dalla formazione scolastica a un welfare orientato a difendere non quel lavoro ma il lavoro. «Basta con la cassa integrazione pagata attraverso la fiscalità generale che tutela un posto di lavoro che ormai non c’è più e che rende impossibile una virtuosa mobilità sociale»: è stata questa una delle tesi più ripetute nella citata Direzione del PD.

Tutto vero. È il Capitale (non la Germania, o la famigerata troika, se non per conto del Capitale) che ce lo chiede. Ma, ed è su questo aspetto che intendo attirare brevemente l’attenzione del lettore, di quale Capitale stiamo parlando: di quello nazionale? di quello cosiddetto straniero? di quello tedesco? Di quello europeo? Detto in altri termini, in che senso è legittimo parlare, senza cadere in una concezione ideologica del processo sociale, di «capitale nazionale» e di «capitale straniero»? Riconosco che la domanda posta è suggestiva, nel senso che suggerisce al lettore la risposta che ho già in testa. Ma facciamo finta che così non sia e articoliamo il discorso prendendo le mosse da un personaggio che di Capitale un po’ ne capiva. Si tratta del solito ubriacone di Treviri? Non vedo alternative (soprattutto dopo aver letto Il Capitale di Piketty)!

gang-di-mexico-city-di-bronia-stewart-588064Com’è noto a chi frequenta, anche solo occasionalmente, gli scritti marxiani, per il comunista di Treviri quello capitalistico è un modo di produzione essenzialmente internazionale, non nazionale (se non come momento storicamente transitorio). L’internazionalismo marxiano non ha nulla di ideologico proprio perché è radicato nel concetto di Capitale come potenza sociale mondiale, idea che il processo storico ha ampiamente confermato. Per Marx il Capitalismo è il primo modo di produzione davvero mondiale che sia apparso sulla faccia della terra. A differenza delle altre formazioni storico-sociali che hanno conosciuto una notevole propensione espansiva (pensiamo alla civiltà romana, o a quella islamica), quella capitalistica ha la peculiare prerogativa di estendere il rapporto sociale che la rende possibile alle aree con cui entra in contatto. Presto o tardi, un’area che ha avuto la ventura di incrociare il Capitale subisce una rivoluzione nella sua struttura sociale, e il suo “vecchio” modo di produzione deve necessariamente lasciare il posto a quello nuovo. Chi tocca il Capitale muore, cioè si “capitalizza”.

Sotto il regime sociale capitalistico non è possibile la coesistenza, gli uni accanto agli altri, di diversi modi di produrre e distribuire la ricchezza sociale: nella sua illimitata ricerca del massimo profitto il Capitale ha bisogno di assoggettare alle sue necessità l’intero spazio sociale offerto da una determinata regione del pianeta. Prima sfrutta i modi di produzione che trova sul suo cammino, e poi li dissolve. Il capitale agisce da solvente delle vecchie strutture sociali. In questo ristretto senso, frainteso da più parti, Marx parla del Capitalismo come di un modo di produzione rivoluzionario.Ma insieme alla conquista dello spazio sociale declinato in termini geosociali, il Capitale ci ha fatto assistere anche alla sua conquista dell’intero spazio esistenziale degli individui, trasformati in entità economicamente sensibili, in risorse (o «capitale umano», o bio-merci) da mettere a profitto in diversi modi. È qui che a mio avviso trova la sua più pregnante espressione il concetto, oggi molto inflazionato e banalizzato, di globalizzazione: il dominio del Capitale è globale, ossia totale (sociale, geosociale, esistenziale), e quindi totalitario – nell’accezione storico-sociale, e non politico-giuridica, qui proposta. La cosiddetta omologazione antropologica (culturale, ideologica, psicologica, somatica, ecc.) della popolazione mondiale di cui tanto parla la sociologia da parecchi anni, e a cui fa “dialettico” riscontro l’impotente reazione identitaria, trova il suo reale significato nei fenomeni sociali qui solo accennati. Per un approfondimento di questi temi “esistenzialisti” rinvio il lettore a Eutanasia del Dominio e all’Angelo Nero sfida il Dominio.

L’ambito nazionale (la formazione di un mercato nazionale, la solidificazione di uno Stato nazionale espressione di una classe borghese radicata su un dato territorio omogeneo sotto diversi aspetti) è dunque da Marx concepito non come il punto d’arrivo del processo storico, ma come una fase, un momento dello sviluppo capitalistico. Il capitale deve necessariamente affermarsi prima in una dimensione nazionale, attraverso il superamento non solo dell’antico assetto sociale feudale, ma della stessa trama di piccole imprese generata nella fase precoce del suo sviluppo: di qui quei processi capitalistici di concentrazione e di centralizzazione che hanno consentito al Capitalismo di allargare progressivamente il suo dominio al mondo intero. Come mi permetto di chiosare in diversi scritti, quella mondiale è la dimensione più adeguata al concetto e alla prassi del Capitale.Considerata da questa prospettiva storica, l’acquisita dimensione nazionale del Capitale, che ha avuto tempi e forme diverse nelle differenti aree geopolitiche del pianeta, appare in realtà come un momento della sua necessaria internazionalizzazione.

Necessaria, occorre chiarirlo, non nel senso – teleologico – di un progresso storico che prepara l’ineluttabile ascesa del Capitalismo, magari concepito come base materiale di un’altrettanto ineluttabile nuovo e superiore modo di produrre e scambiare la ricchezza sociale. Necessaria internazionalizzazione, invece, nel senso che posto il rapporto sociale capitalistico la conquista del pianeta da parte del Capitale è inscritta, per dirla hegelianamente, nella cosa stessa. La genesi dello Stato nazionale va inserita nel processo storico-sociale qui appena abbozzato; essa va riferita a un momento storicamente determinato dello sviluppo della «società civile» assoggettata agli interessi dalla nuova classe dominante: la moderna borghesia. Nelle pagine dedicate alla Cosiddetta accumulazione originaria (Il Capitale, I), Marx mise in luce il fondamentale ruolo che lo Stato ebbe nella genesi del rapporto sociale capitalistico, ossia nel lungo e contraddittorio processo che si concluse con la formazione, ad un polo, di una classe di nullatenenti costretti a vivere di salario perché privi dei mezzi di produzione (e per questo allontanati dal prodotto del loro lavoro), e di una classe di capitalisti in possesso a vario titolo delle condizioni materiali della produzione della ricchezza sociale, al polo opposto.  Questo atto genetico, questo vero e proprio peccato originale che ha reso possibile l’inferno capitalistico, si ripete sempre di nuovo, giorno dopo giorno, su tutto il pianeta. La cosa è talmente radicata nella nostra realtà sociale, che non ce ne accorgiamo neanche, mentre agli albori del Capitalismo filosofi, economisti, teologi e moralisti d’ogni tendenza politica scrissero molte pagine, alcune delle quali molto acute, sul dramma sociale creato dal nuovo modo di produzione. Il lavoratore-merce appare cosa banale, non degna di serie riflessioni, all’individuo ad alta composizione organica del XXI secolo.La considerazione appena fatta sul ruolo dello Stato nella genesi del Capitalismo, una funzione che non si è esaurita pur avendo di molto mutato aspetto, vuole anche scagliare una freccia critica contro quelle ideologie che tendono a vedere in termini antinomici Stato e mercato, interventismo e liberismo, economia e politica, dimostrando così di non comprendere l’essenza della Potenza sociale che ci sovrasta.

enhanced-4871-1411764722-1Come Leviatano lo Stato è chiamato a mantenere l’ordine sociale senza il quale vengono meno per il Capitale le condizioni minime di agibilità economica. Come «infrastruttura economica» esso deve farsi carico di favorire lo sviluppo di un’organizzazione sociale (dal sistema formativo al mercato del lavoro, dalla ricerca scientifica al welfare) quanto più fertile possibile dal punto di vista della redditività capitalistica. Non solo, ma nei momenti di catastrofe economica lo Stato è costretto ad assumersi in prima persona compiti economici che nei tempi “normali” sono di esclusiva pertinenza dei privati. Facendo questo lo Stato non esce fuori dai suoi “naturali” binari, né mette sotto tutela il Capitale piegandolo al «bene comune» e salvandolo dalle sue stesse contraddizioni, come sostengono i teorici del primato della politica e gli ideologi dello statalismo (di “destra” e di “sinistra”); semplicemente lo Stato serve la potenza sociale che tutto e tutti domina nel modo più consono all’eccezionalità del momento. Come sempre, l’eccezione mostra la vera natura della regola, confermandola.

Il pensiero che non ha radicalità naturalmente prende molto sul serio ciò che i protagonisti dell’evento eccezionale pensano di sé e del mondo che dicono di avere «saldamente in pugno», di stringere in una morsa di «pura volontà»; a questo pensiero, che è poi il pensiero dominante, non passa neanche per la testa che ci si possa trovare dinanzi a delle mosche cocchiere, salvo poi costatare la miserabile fine di personaggi come Mussolini e Hitler.

Come sostenne Marx rovesciando “dialetticamente” Hegel, la «società civile», questo vero e proprio mondo hobbesiano (secondo lo stesso filosofo di Stoccarda), lungi dall’essere una forma storica di comunità resa possibile dall’esistenza dello Stato (anzi: del concetto di Stato, che poi si invera in uno Stato profano, cioè politico), va invece considerata come la matrice dello Stato moderno, il quale è appunto la più alta espressione dell’antagonismo sociale che la «società civile» genera sempre di nuovo a cagione della sua struttura classista. Il punto di partenza storico non è lo Stato, ma la multiforme prassi sociale umana, la quale potrebbe benissimo fare a meno, e non solo in linea teorica, di quel tipo di organizzazione politico-ideologica. L’ideologia pattizia, che pone lo Stato (con tanto di spada sguainata per scoraggiare i nemici interni ed esterni della Civiltà) come supremo garante del Contratto sociale, cela la natura di classe dello Stato borghese. Sotto questo aspetto, la forma democratica dello Stato è quella che meglio si presta a mistificare la realtà del Dominio. Ma qui non è il caso di sviluppare ulteriormente questi fondamentali concetti – fondamentali a prescindere da chi ne fa oggetto di una più o meno  intelligente riflessione.

La nazionalità di un investimento capitalistico (ad esempio, quello che si manifesta in un marchio automobilistico tedesco, piuttosto che americano o giapponese) ci dice molto della struttura sociale che lo ha reso possibile, del cosiddetto orgware di un Paese, ossia delle condizioni sistemiche che rendono appetibile l’investimento in una data area di sfruttamento. Lo slogan pubblicitario che assicura sul fatto che l’automobile esibita «è tedesca», comunica di fatto al potenziale consumatore questo messaggio: la società tedesca mette il Capitale nelle condizioni di sfornare merci eccellenti, sotto tutti i punti di vista. È un fatto che da sempre la nazione tedesca, ossia l’area di sfruttamento chiamata Germania, mette a disposizione del Capitale un ambiente sociale favorevole allo sfruttamento della capacità lavorativa.  Invece di concentrarci sul passaporto dell’automobile esibito con tanta arroganza nello spot pubblicitario, come fa il sovranista schiumando bile nazionalista, dovremmo piuttosto chiederci, ad esempio in rapporto al Bel Paese, cosa rende così friendly per il capitale la società tedesca. Solo così possiamo affrancarci dall’avvilente discorso intorno all’eterna e funesta volontà di potenza della Germania.

In effetti, quando la Germania fa la voce grossa contro i Paesi dell’Unione europea (vedi Francia e Italia) che non intendono fare i famosi «compiti a casa», o che cercano di truccare la partita della convergenza sistemica (che ha nella società tedesca il suo “naturale” punto di riferimento), essa, più che fare gli interessi del «Capitale tedesco» (d’altra parte, quale interesse capitalistico nazionale dovrebbe difendere la Germania?), o della nazione tedesca globalmente considerata (vale la considerazione di sopra, assai indigesta per certe anime belle europeiste tipo Barbara Spinelli), fa in primo luogo gli interessi del Capitale, nell’accezione di Potenza sociale mondiale più volte evocata in queste righe e che riprenderemo tra poco. Il tanto bistrattato (dai Paesi del Mezzogiorni europeo) «rigorismo tedesco» costringe infatti le altre aree di sfruttamento locale a diventare più attraenti per gli investitori, locali e internazionali. Ma in tal modo la Germania soffia, anche suo malgrado (“oggettivamente”), sul fuoco delle contraddizioni sociali di quei Paesi (o aree di sfruttamento locali) chiamati a non rimandare oltre le famigerate «riforme di struttura». Lo scontro politico di questi giorni tra Parigi e Berlino (con Roma che cerca come sempre di vedere da quale parte pende la bilancia prima di azzardare una mossa) non ha altro significato. La «prova di coraggio» esibita in queste ore dal governo francese a proposito del pareggio di bilancio e della stessa “filosofia dell’austerità” non esprime forza, o Grandeur, ma debolezza ed estrema preoccupazione, nonché la misère del cosiddetto modello sociale francese.

Se così stanno le cose, chiedere al Capitale di esibire alla metaforica dogana la sua carta d’identità nazionale significa semplicemente non capire con che sostanza sociale si ha a che fare. Il capitale, infatti, non è una cosa, non è una tecnologia economica posta al servizio della «società civile», e non è nemmeno un rapporto giuridico: esso è fondamentalmente un rapporto sociale. Ha senso interrogarsi sulla nazionalità di un rapporto sociale che ormai domina il mondo? Non credo proprio. Per questo pretendere che lo Stato nazionale faccia in primo luogo gli interessi del «capitale nazionale» significa manifestare un anacronismo “a 360 gradi”. La classe dirigente di un Paese è chiamato dalla realtà a creare un clima favorevole all’investimento capitalistico, a prescindere dalla provenienza nazionale (o locale) del Capitale. Sotto questo aspetto, il Capitalismo con caratteristiche nazionali (ad esempio, il capitalismo con caratteristiche cinesi) va concepito come l’articolazione/fenomenologia locale, o regionale, del Capitale in quanto rapporto sociale. In effetti, le nazioni oggi vanno concepite come aree di sfruttamento localizzate, come nodi di una rete mondiale. Il nazionalismo come efficace strumento di controllo sociale è dunque posto al servizio di una Potenza sociale che non ha né confini, né sesso, né razza, né religione, e la cui prassi sfugge, per l’essenziale, al controllo degli individui, nonostante siano essi a renderlo possibile, in primo luogo attraverso le attività lavorative. Con molto zelo alimentiamo tutti i santi giorni il Moloch che ci sovrasta ma che non riusciamo a vedere proprio per la sua impalpabile natura di rapporto sociale: per dirla con un tormentone della TV dei ragazzi dei miei tempi, «il trucco c’è ma non si vede». Oppure, più “filosoficamente”, il Dominio sociale cammina sulle gambe di uomini che guardano ma non vedono, che ascoltano ma non intendono.

Lo Stato nazionale va a sua volta concepito come un potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, c’è bisogno di dirlo? Ed è altrettanto inutile dire che questa tesi irrita alquanto i nazionalisti d’ogni confessione politica, i sovranisti che militano tanto a “destra” quanto a “sinistra” dello scacchiere politico, molti dei quali sventolano orgogliosamente le bandiere del protezionismo come unica strada per uscire dal “tunnel” della crisi economica e «salvare il capitale nazionale dagli assalti del capitale straniero». Lo Stato nazionale è a tutti gli effetti il cane da guardia chiamato a difendere il rapporto sociale capitalistico in una data area di sfruttamento del pianeta. Per questo esso non può prescindere dal retaggio storico che connota quella peculiare area (chiamata Italia, o Cina, o Germania, ecc.): dalla sua concreta struttura sociale, dalla sua tradizione politica, culturale e via di seguito. Lo Stato nazionale conserva una funzione proprio perché la società mondiale non è omogenea in tutte le sue aree di sfruttamento e nelle sue articolazioni geopolitiche. Lo stesso carattere ineguale dello sviluppo capitalistico, che si riproduce in forme sempre nuove (la sua fenomenologia è completamente diversa, ad esempio, da quella analizzata prima da Marx e poi da Lenin), e la stessa natura concorrenziale del Capitale (vale la considerazione appena fatta) riproducono incessantemente le condizioni che consentono allo Stato nazionale di sopravvivere e di svolgere la sua funzione di potere politico-ideologico locale. Per questo i concetti di Superimperialismo e di Stato Unico Mondiale, per quanto suggestivi e apparentemente in sintonia con le tendenze di fondo della società capitalistica mondiale, non colgono tuttavia la natura profondamente contraddittoria e antagonista (a tutti i livelli: sociali, economici, geopolitici) del processo capitalistico di sfruttamento di risorse umane e naturali.

La scarto tra il carattere mondiale del Capitale e la disomogeneità della società capitalistica mondiale genera una tensione che trova puntuale riscontro anche nel confronto interimperialistico tra le maggiori aree capitalistiche del pianeta. Ma è d’altra parte lo Stato imperialista, nella misura in cui esso cerca di promuovere con ogni mezzo adeguato allo scopo (guerre incluse) la proiezione internazionale del cosiddetto capitale nazionale, la forma politico-ideologica più adeguata del Capitale altamente sviluppato.

La forza delle Potenze mondiali non sta, innanzitutto, nella canna del fucile, per dirla con il fondatore della Cina moderna, ma nella potenza del loro sistema economico, e ciò spiega anche l’esito della Guerra Fredda. La chiave più importante per capire la politica internazionale, per non rimanere accecati dalla spessa fumisteria politico-ideologica che tradizionalmente l’avvolge (soprattutto per confondere le idee alla cosiddetta opinione pubblica internazionale), rimane a mio avviso la competizione capitalistica mondiale. Oggi più di ieri.

Sbaglia dunque chi pone a fondamento della propria analisi del processo sociale (nazionale e mondiale) il momento politico-ideologico (lo Stato nazionale) e l’area di sfruttamento locale (la nazione), mentre è dalla natura sociale del Capitale, dal Capitale come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, che l’analisi deve, almeno a mio avviso, iniziare.

MARX, KEYNES E CARLO FORMENTI

marx-keynes-capitalismo-2014Su un post di qualche giorno fa, scrivendo a proposito dei «cosiddetti economisti eterodossi, ossia di scuola keynesiana e di scuola “marxista”», facevo notare che «non sempre questa distinzione ha un senso». Carlo Formenti, bontà sua, ha voluto subito confermare la mia bizzarra tesi.

Lo ha fatto recensendo Marx & Keynes. Un romanzo economico (Jaca Book) di Pierangelo Dacrema. L’autore di questo «romanzo economico» fa incontrare «questi due giganti del pensiero moderno» nella dimensione del fantastico (anche troppo), per farli discutere intorno all’«economia finanziarizzata e marchiata da spaventosi tassi di disuguaglianza che caratterizza questo indigesto inizio di secolo». «In quale misura», si chiede quello che a giusta ragione è considerato uno dei maggiori teorici del Capitalismo cognitivo/digitale in Italia, «i due potrebbero utilizzare le categorie analitiche da loro inventate per capire cosa sta succedendo al nostro mondo? Penserebbero di avere sbagliato tutto o troverebbero una qualche conferma, ancorché parziale, alle loro diagnosi e previsioni? Infine, se fosse loro concesso di dialogare, come giudicherebbero le rispettive teorie: le riterrebbero almeno parzialmente confrontabili o del tutto alternative e incompatibili?» (MicroMega, 19 giugno 2014).

Ebbene, come finisce il dialogo fra i due Giganti, («i quali, malgrado le radicali differenze di carattere, esperienza ed estrazione sociale sembrano fatti per intendersi alla perfezione»)? È presto detto: «i due sembrano alla fine concordi nell’attribuire al denaro – a un denaro “impazzito” e sviato dalla sua originaria funzione di medium dello scambio – la colpa della catastrofe che stiamo vivendo, per cui la seconda vita della coppia sarà destinata alla elaborazione dei principi di una economia post monetaria».

Che delusione, il Marx rincitrullito dal Finanzcapitalismo fantasticato da Dacrema per il sollazzo dottrinario di Formenti e di tutti i tifosi dell’alleanza Marx-Keynes in funzione antiliberista. Personalmente preferisco di gran lunga l’avvinazzato di Treviri che, contro ogni concezione feticistica del meccanismo economico (ad esempio, quella proudhoniana da egli derisa nella Miseria della filosofia), individuò nel denaro non una cosa, una tecnologia economica basata sulla naturale socialità degli uomini, così inclini a scambiarsi ogni genere di cose per la reciproca soddisfazione, ma piuttosto l’espressione di un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento il cui presupposto e il cui risultato è la produzione non di valori d’uso (beni) destinati alla mera soddisfazione di bisogni individuali e collettivi, ma di valori di scambio (merci) la cui ragion d’essere sta unicamente nella loro natura di contenitori di valore (valore e plusvalore), base materiale di ogni forma di profitto e di rendite. Senza la misura astratta del valore di scambio, radicata nell’altrettanto astratto (cioè sociale) lavoro vivo, il denaro non sarebbe nemmeno concepibile: altro che «originaria funzione di medium dello scambio»!

Come già avevano capito gli economisti “classici”, il segreto del denaro (e di tutto ciò che a esso fa in qualche modo capo, in modo diretto o mediato) è il lavoro sociale: tutto il resto non è che circolazione di ricchezza fittizia, teologica moltiplicazione dei pani e dei pesci (ad esempio sottoforma di derivati e sottoderivati), arricchimento dell’uno ai danni dell’altro, creazioni di bolle speculative che fanno il successo (o la disgrazia) degli investitori – e dei creatori di balle dottrinarie intorno al Capitalismo 2.0.

Insomma, anche nel XXI secolo il denaro presuppone il mondo capitalistico, a partire da quella cosiddetta “economia reale” fondata sul lavoro salariato (cioè sfruttato) che tanto piace ai miserabili cultori dell’etica del lavoro e del “giusto profitto” ottenuto attraverso il “duro ma dignitoso” lavoro che la società assegna ai detentori di capitale. È questo mondo, sussunto in maniera sempre più stringente e totalitaria alla bronzea legge del profitto, che ha reso storicamente possibile il dominio del capitale finanziario su ogni forma di attività economica e che rende possibile ogni “avventura speculativa” tutte le volte che al capitale monetario si presenta l’occasione di più alti, rapidi e comodi profitti che non quelli prospettati dalla “economia reale”. “Impazzito” non è il denaro, ma un regime sociale sequestrato nella dimensione dell’astratto valore di scambio, e quindi nella maligna dimensione del lavoro salariato, il quale presuppone e pone sempre di nuovo, con ossessiva coazione a ripetere, il rapporto sociale capitalistico della vigente epoca storica.

6a594e45ed004f2f26d5d903a890e77fUscire dalla dimensione dell’economia monetaria significa necessariamente superare la dimensione capitalistica, a cominciare dalla magagna suprema: il lavoro salariato, che poi è un altro modo di chiamare il Capitale. Puntare i riflettori sul “denaro impazzito” significa continuare ad alimentare il luogo comune del denaro come sterco del Demonio che da sempre ha facile presa sull’opinione pubblica, soprattutto su quella parte di essa più colpita dalle crisi economiche. I “populisti” e i “demagoghi” d’ogni tempo e tendenza politica hanno sempre trovato il modo di cavalcare quel luogo comune ai fini della conservazione sociale.

Secondo Formenti il Marx e il Keynes immaginati da Dacrema si sono «resi conto di essere stati resuscitati per compiere una missione precisa»: salvare il Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni (come si evince anche dalle riflessioni di Formenti)? Una cosa del genere appare plausibile per un Keynes, il quale operò sempre ed esplicitamente in questo senso. La stessa cosa mi appare ridicola oltre ogni misura in rapporto al comunista tedesco, anche sul terreno della più fervida immaginazione. Ma naturalmente ognuno è libero di immaginare ciò che più gli aggrada, tanto più se il “cane morto” è morto davvero e non può più mordere chi lo chiama inopinatamente in causa. (La cosa ovviamente vale anche e soprattutto per chi scrive, che non a caso ricusa di definirsi col nome del Moro di Germania, pace all’anima sua).

Dimenticavo un dettaglio di una certa pregnanza: «Per compiere quest’ultima missione Marx e Keynes saranno trasformati in docenti di economia all’Università di Bangor, da dove inizieranno a diffondere il nuovo verbo». Una conclusione più “gramsciana” di questa difficilmente si sarebbe potuta concepire: la funzione egemonica dell’intellettuale ha dunque ancora qualcosa da dire! Perlomeno sul piano della fantasia…

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IL TIME E LA “VENDETTA” DI MARX

Picture0172Sulle pagine del settimanale statunitense Time è apparso un interessante articolo dedicato alle «profezie» marxiane. L’ha firmato Michael Shuman, corrispondente da Pechino. Nonostante il miserabile crollo dell’Unione Sovietica e il poderoso sviluppo capitalistico in Cina, eventi che secondo il marxologo francese avrebbero dovuto chiudere per sempre la scottante pratica-Marx, ecco che il barbone di Treviri torna in auge, e con lui la sua ancora numerosa schiera di epigoni specializzati in economia, ospitati nei talkshow per lumeggiare l’opinione pubblica intorno alla crisi economica che ormai da cinque anni impazza in Occidente. Perché nonostante? Piuttosto sarebbe corretto dire che anche quegli eventi confermano pienamente il materialismo storico di Marx (dei marxisti non mi curo). Ma su questo punto ritornerò dopo.

«Marx ha teorizzato che il sistema capitalista impoverisce le masse e concentra la ricchezza nelle mani di pochi, causando come conseguenza crisi economiche e conflitti sociali tra le classi sociali. Aveva ragione. È fin troppo facile trovare statistiche che dimostrano che i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri» (La vendetta di Marx: come la lotta di classe prende corpo nel mondo, 25 marzo 2013). A sostegno della sua tesi il corrispondente del Time cita uno studio dell’Economic Policy Institute di Washington che dimostra in modo inoppugnabile come il reddito medio del lavoratore americano sia stato nel 2011 più basso che nel 1973, e come negli Stati Uniti nello stesso arco di tempo la ricchezza abbia subito un forte processo di concentrazione: il 5% della popolazione controlla il 74% del reddito nazionale. Naturalmente gli Stati Uniti rappresentano solo il vertice di una tendenza mondiale.

PAPA AI RAGAZZI DETENUTI, 'NON FATEVI RUBARE LA SPERANZA'La ricchezza di pochi presuppone la miseria esistenziale (e quindi non meramente economica) di molti: questo non lo nega nemmeno il buon Papa Francesco, che difatti non fa che parlare degli ultimi, che, come da copione, saranno i primi nel Regno dell’Aldilà. Ma si tratta di creare il Regno dell’uomo nell’Aldiquà, non certo di lavare i metaforici piedi dei miserabili per far sentire loro «la carezza del Signore». Non si tratta, a mio avviso, di fare del Potere «un servizio» (non diceva qualcuno che bisognava «servire il popolo»?), quanto piuttosto di fondare sulla Terra la Potenza dell’uomo in quanto uomo. Critico il Santo Padre? No, evoco la possibilità della Comunità Umana, con ciò che ne segue, hic et nunc, sul terreno della prassi. Chiudo la breve e modesta parentesi “teologica”, che d’altra parte s’intona molto bene con questi giorni di «passione e di speranza», e ritorno al Time.

Scrive Shuman: «Questo non vuol dire che le teorie di Marx erano del tutto corrette. La sua “dittatura del proletariato” non ha funzionato come previsto. Ma le conseguenze delle diseguaglianze sono esattamente quelle che aveva predetto: il ritorno della lotta di classe». Incassiamo «il ritorno della lotta di classe» come auspicio e chiediamoci: ma davvero la marxiana dittatura del proletariato «non ha funzionato come previsto»? E qui ritorniamo al punto lasciato in sospeso: davvero la catastrofe sovietica e il gigantismo capitalistico della Cina depongono contro la teoria politica di Marx? Non credo affatto, e anzi ritengo che solo a partire dal materialismo marxiano è possibile comprendere entrambi gli eventi. Sulla scorta di quel materialismo, infatti, si comprende la natura radicalmente controrivoluzionaria dello stalinismo, espressione politico-ideologica di quel processo sociale che spazzò via il carattere proletario della Rivoluzione d’Ottobre, avanguardia, nella prospettiva di Lenin  e dei comunisti occidentali non ancora stalinizzati, della rivoluzione mondiale; e la natura nazionale-borghese della Rivoluzione cinese guidata dal Partito di Mao, uno stalinista in salsa cinese. Che tanto nella Russia di Stalin quanto nella Cina di Mao si costruisse il Capitalismo in guisa di «socialismo reale», ebbene questo ci dice che il senso ideologico più pregnante dello stalinismo riposa proprio in questa gigantesca mistificazione, non importa se fatta in buona o cattiva fede. Sul piano dottrinario lo stalinismo fu debitore delle posizioni stataliste di Lassalle. Com’è noto, Marx aborrì di definirsi “marxista” soprattutto nel momento in cui il «socialismo di Stato» di Lassalle, ridicolizzato nelle potenti pagine della Critica al programma di Gotha (1875), iniziò a prendere il sopravvento persino nel movimento operaio tedesco, in teoria direttamente influenzato da lui e dal suo amico Engels.

Nulla di strano, quindi, se il Nostro considera marxisti e comunisti personaggi che, in effetti, meritano la qualifica di statalisti, e, difatti, è un programma schiettamente statalista che essi propongono all’opinione pubblica e ai governi occidentali per tirare il Capitalismo fuori dalle secche della crisi economica. Com’è noto, Marx proponeva una sola monotematica ricetta: la lotta di classe rivoluzionaria, non in vista del Capitalismo di Stato, il quale nell’essenza non differisce un solo atomo dal Capitalismo «liberista-selvaggio» tanto esecrato dalla maggior parte degli epigoni di Marx, ma in vista del superamento del Capitale (pubblico e privato), del lavoro salariato (vedi articolo 1 della Costituzione Italiana), della merce e dello Stato, ossia, in una sola parola, dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento.

Come dico spesso, il cosiddetto «socialismo reale», non importa se con «caratteristiche» cinesi, coreane, russe, jugoslave, albanesi, cubane ecc., è un miserabile capitolo del Libro Nero del Capitalismo mondiale. Se, come giustamente osserva Jacques Rancière, «esperto di marxismo» [sic!] presso l’Università di Parigi interpellato dal Time, la classe operaia oggi è debole, e i movimenti di opposizione sociale che non cessano di prendere corpo hanno un carattere riformista e non anticapitalista, ciò si deve anche al tragico retaggio dello stalinismo internazionale.

stalUn po’ per celia un po’ per provocazione, qualche giorno fa ho chiosato una foto della serie Stalin ama i bambini che circolava su Facebook nei termini che seguono: «Gli stalinisti non avranno mangiato i bambini, come pensa Silvio Berlusconi, ma certamente hanno spolpato per decenni la stessa speranza del proletariato mondiale per una sua emancipazione. E i frutti maligni di questo orribile pasto si fanno ancora sentire. Eccome!» A suo modo il marxologo francese conferma la mia tesi.

La marxiana dittatura del proletariato non ha avuto ancora modo di essere messa alla prova, se facciamo eccezione 1) per la Comune di Parigi del 1871, sulla cui caratura rivoluzionaria ebbe forti dubbi lo stesso Marx, che pure ne fece un monumento storico e politico in quanto primo esempio di «iniziativa sociale» avente la classe operaia come suo fondamentale motore: «La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese» (K. Marx, La guerra civile in Francia); e 2) per l’esperienza sovietica russa, che tuttavia scontò i limiti che le derivarono dall’arretratezza sociale della Russia. Lenin sbagliò dunque a tentare il Grande Azzardo?

Sul problema della «maturità», ovvero «immaturità» della rivoluzione in generale e della rivoluzione russa in particolare, Max Horkheimer ha scritto parole assai pregnanti: «Di imprese storiche passate può essere affermato che i tempi non erano ancora maturi. Nel presente i discorsi sulla insufficiente maturità trasfigurano l’approvazione del cattivo esistente. Per il rivoluzionario il mondo è sempre maturo. Ciò che retrospettivamente appare come stadio iniziale, come situazione prematura, egli l’aveva considerata come l’ultima occasione. Egli è con i disperati che una condanna spedisce sulla forca, non con coloro che hanno tempo. […] Benché il successivo corso storico abbia confermato i girondini contro i montagnardi e  Lutero contro Munzer [e, aggiungo io, Stalin contro Lenin, gli stalinisti contro i comunisti], l’umanità non è stata tradita dalle intempestive imprese dei rivoluzionari, bensì dalla tempestiva saggezza dei realisti» (Max Horkheimer, Lo Stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi, 1979).

Abbiamo visto come per il Marx del 1871 la società borghese fosse già «vecchia e cadente», nonché meravigliosamente gravida di un mondo pienamente umanizzato: cosa dovremmo dire noi 142 anni dopo? Chi è più vecchio, l’ubriacone di Treviri, che riusciva a concepire la possibilità dell’emancipazione generale in un’epoca storica nella quale in diverse parti del pianeta il Capitalismo conservava un carattere rivoluzionario, o chi teorizza il male minore nell’epoca della sussunzione totalitaria e mondiale dell’uomo e della natura da parte dei rapporti sociali capitalistici?  Non c’è partita!

COPERTINA«Se i politici non praticheranno nuovi metodi per garantire eque opportunità economiche a tutti», conclude il Time, «i lavoratori di tutto il mondo non potranno che unirsi. E Marx potrebbe avere la sua vendetta». Magari! Naturalmente non si tratta di “vendicare” Marx (già mi pare di sentire le crasse risate da parte della sua “essenza spettrale”), quanto piuttosto di mettere all’ordine del giorno, nei termini adeguati alla Società-Mondo del XXI secolo, il progetto di emancipazione delle classi dominate e, quindi, dell’intera umanità. L’impresa è, oltre che tremendamente difficile (lo stalinismo ha ben lavorato!), altamente rischiosa, sotto ogni riguardo; ma qualcuno conosce sfide prive di difficoltà e di rischi?

LA VALORIZZAZIONE CAPITALISTICA AI TEMPI DI TONI NEGRI

Scrive Matteo Pasquinelli: «Hardt e Negri tornano quindi all’idea marxiana del capitale come insieme di relazioni sociali e chiamano ‘comune’ appunto questa capacità di produrre relazioni sociali che vengono catturate dal capitale» (Il numero della bestia collettiva. Sulla sostanza del valore nell’era della crisi del debito, Uninomade, 25 agosto 2012). Per quanto riguarda l’idea marxiana nulla da dire: «Il rapporto di dipendenza materiale non è altro che l’insieme di relazioni sociali che si contrappongono autonomamente agli individui apparentemente indipendenti, ossia l’insieme delle loro relazioni di produzione reciproche diventate autonome rispetto a loro stessi» (Marx, Lineamenti, I, p. 107, La Nuova Italia, 1978). Qui insiste anche l’idea di Mostro sociale (o potenza sociale, nell’accezione marxiana) evocata da Pasquinelli, sebbene all’interno di una diversa costellazione concettuale (quella negriana): benché generato dagli individui, il processo sociale che crea e distribuisce la ricchezza sociale nella vigente forma capitalistica gli si rivolta contro come una «potenza ostile ed estranea». È la maligna dialettica del dominio sociale capitalistico.

È sul concetto di «comune» che non concordo: il capitale non si limitata a «catturare» le relazioni sociali, ma piuttosto le riproduce sempre di nuovo e a tutti i livelli, in ogni luogo dello spazio esistenziale degli individui. Come ho scritto altrove, il capitale non arriva dall’esterno per appropriarsi «il comune», ma lo produce a sua immagine e somiglianza, e quindi gravido di profittevoli opportunità come di contraddizioni d’ogni sorta: economiche, politiche, sociali, esistenziali e via discorrendo. Il general intellect è l’intelligenza del capitale. So bene che questa tesi è poco appetibile in certi settori professionali (ad esempio presso il cosiddetto «proletariato cognitivo»), ma chi “vuole fare” la rivoluzione non deve necessariamente sentirsi al centro del Sistema, né, potenzialmente – e “dialetticamente” –, già oltre.

«La lettura operaista del Capitale», per dirla con Toni Negri, dagli anni ’60 in poi si materializza nello sforzo teso a dare sostanza oggettiva (economica) ai «soggetti sociali» individuati di volta in volta come i «nuovi soggetti rivoluzionari». Per rimanere in qualche modo fedele alla marxiana teoria della rivoluzione sociale (ma in una sua interpretazione un po’ troppo economicista e determinista), l’operaismo ha visto (ha voluto vedere) sgorgare il vitale, e quindi dialetticamente mortale, plusvalore un po’ dappertutto: nelle metropoli, negli uffici, nei centri di formazione, nelle relazioni sociali genericamente intese e via di seguito. Questo vizio d’origine è radicato, a mio avviso, in un’inadeguata critica del “comunismo” italiano (il PCI e la CGIL, da Togliatti a Berlinguer, da Di Vittorio a Luciano Lama), la cui essenza anticomunista (borghese) non è mai stata ben compresa dai teorici dell’operaismo, i quali infatti si sono sempre sentiti interni a quella storia, sebbene “criticamente”. Di qui, anche, una lettura piuttosto apologetica e mitologica della «lotta di classe» in un’epoca in cui il cosiddetto movimento operaio internazionale subiva la maligna egemonia stalinista, anche nella sua variante cinese (maoista). L’attuale impotenza politico-sociale delle classi dominate del pianeta ha molto a che fare con quel triste retaggio. In odio (ma a volte l’odio è solo un amore frustrato) al PCI e al sindacalismo collaborazionista, negli anni Settanta i teorici dei «nuovi soggetti sociali rivoluzionari» hanno voluto dare un fondamento economico alla loro politica: la classe operaia «tradizionale», base sociale-elettorale dei “comunisti”, non ha più quella funzione centrale nella valorizzazione capitalistica che un tempo la ponevano all’avanguardia del processo rivoluzionario. Entrando in crisi, la legge del valore ha messo in crisi anche «l’operaio massa», integrato nel sistema capitalistico; estendendo a tutta la società la legge della valorizzazione, il capitale ha fatto emergere come nuovo soggetto sociale rivoluzionario «l’operaio sociale», ossia il proletariato che vive oltre i recinti alienanti della fabbrica. Una bella suggestione radicata su una teoria completamente infondata. Una suggestione che, ad esempio, ha fatto dire a Negri che «Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi» (Qualche questione sullo stato dei movimenti, Uninomade, 20 luglio 2012).

Concordo con Pasquinelli anche sulla non misurabilità empirica, oggettivamente scientifica, del plusvalore, non in contraddizione con la marxiana teoria del valore, ma proprio sulla sua scorta: vedi il concetto di lavoro sociale medio, la cui efficacia non si dà nel luogo immediato della produzione, ma sul mercato, ossia là dove converge la produzione sociale mondiale. Che un nesso fondamentale della produzione del valore (valore e plusvalore) debba assumere efficacia nella sfera della circolazione è qualcosa che spiazza il pensiero non incline all’analisi profonda e dialettica dei processi sociali; l’economia di pensiero che caratterizza lo spirito dei nostri tempi ci suggerisce di arrestarci ai fenomeni di superficie. A mio avviso, anche le modaiole teorie del Finanzcapitalismo e del Capitalismo del debito rimangono impigliate nei fenomeni di superficie.

Detto en passant, a mio avviso è più corretto parlare, a proposito della “teoria economica” di Marx, di una teoria dello sfruttamento, più che di una teoria del valore-lavoro: infatti, attraverso la critica del concetto smithiano-ricardiano di valore il comunista tedesco giunge a puntare i riflettori sul valore d’uso della merce-lavoro, ossia sul lavoro vivo. E qui tocco un punto molto importante: di che plusvalore parliamo?

Pur non essendo un «cronometrista» e non concedendo nulla alla «supposta intrinseca razionalità dell’economia»,a mio avviso «solo dentro il recinto della fabbrica» si genera il plusvalore primario, o basico, che sta a fondamento di ogni tipo di profitto e di rendita. Anche la speculazione finanziaria, con i suoi stratosferici numeri, si regge su quel miserabile fondamento di valore, e difatti periodicamente le sue bolle devono esplodere.

È vero che, per dirla con Negri, il Capitale ha «messo a lavoro» l’intera società, estendendo la propria forza gravitazionale verso regioni della società e prassi sociali un tempo al riparo dai suoi appetiti, cosa che per un verso conferma in modo straordinario il concetto marxiano di sussunzione reale tematizzato soprattutto nel Capitolo VI inedito del Capitale, e per altro verso lo riempie di nuovi importanti, e per certi aspetti inediti, significati. Ciò detto, non tutte le vacche sono nere nella notte del processo di valorizzazione del capitale.

Nel suo interessante scritto del 28 agosto scorso (Spunti di “critica preveggente” nel Capitolo VI inedito di Marx), Toni Negri ritorna proprio sul citato scritto marxiano, puntando i riflettori, tra l’altro, sui concetti di lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Me ne sono occupato anch’io in uno studio, pubblicato su questo blog il 15 agosto (Il mondo sdoppiato dell’economia capitalistica), dedicato alla doppia natura della merce-lavoro (in termini di valore: capitale variabile) e degli strumenti di produzione (in termini di valore: capitale costante). Faccio seguire alcune pagine di questo studio dedicate alla dialettica della valorizzazione, non tanto per rispondere indirettamente agli scritti di Pasquinelli e Negri, quanto per dare un contributo alla riflessione su questioni che, al di là della loro rappresentazione formale che può apparire astratta, hanno invece una sostanza di grande e scottante attualità. Basti pensare all’interpretazione della crisi economica in corso e, più in generale, all’interpretazione dei fenomeni sociali nella Società-Mondo del XXI secolo.

***

Marx chiamò variabile il capitale anticipato per l’acquisto di capacità lavorativa non perché individuò in esso, in quanto forma di valore (salari), la fonte del plusvalore, bensì perché solo quel capitale mobilita la viva capacità lavorativa, la sola in grado di creare valore ex novo semplicemente dispiegandosi nel tempo. Preso in sé, nella sua tetragona forma di valore di scambio, il capitale variabile è altrettanto sterile di plusvalore quanto il capitale costante. Tra poco vedremo quanto sia importante anche l’analisi del valore d’uso mobilitato dal capitale costante sotto forma di macchine e di materie prime.

La filiera plus-lavoro → plus-merce → plus-valore ha quindi come momento iniziale un atto della circolazione, ed è precisamente questo fatto la fonte principale di quel misticismo della merce da cui non a caso Marx prese le mosse nella sua critica dell’economia politica. «Alla superficie della società borghese il salario dell’operaio appare quale prezzo del lavoro» (1). Invece il salario è il prezzo del lavoratore, non della sua «magica» prestazione: con quel salario il lavoratore compra ciò che gli occorre per riprodursi sempre di nuovo come venditore di capacità lavorativa – fra i costi di riproduzione naturalmente occorre considerare anche la sua famiglia. A ben guardare, con il salario il capitale non paga la capacità lavorativa (si limita a usarla per un x di tempo stabilito dalla prassi sociale), ma rende piuttosto possibile l’esistenza in vita del prestatore di capacità lavorativa. «Un uomo deve poter sempre vivere del suo lavoro, e il suo salario dev’essere almeno sufficiente a mantenerlo», notava acutamente Adam Smith ne La ricchezza delle Nazioni. Dalla prospettiva appena delineata la natura disumana, alienata e alienante, del lavoro salariato appare in tutta la sua maligna e radicale dimensione.

Scrive Marx: «Il capitalista non scambia un’eguale quantità di lavoro oggettivato con una eguale quantità di lavoro vivo; la quantità di lavoro di cui egli si appropria è superiore alla quantità di lavoro che egli paga» (2).  Qui ancora una volta viene in luce la doppia natura del lavoro: quella oggettiva, morta, che si esprime nel salario, e quella soggettiva, viva, che genera plusvalore attraverso la conservazione dei lavori e dei valori che dal punto di vista del capitale costituiscono un puro costo, sterile ai fini del profitto. La dialettica tra lavoro morto (3) (passato, incorporato nei mezzi di produzione e nelle materie prime, anche sotto forma di ricerca tecnologico-scientifica) e lavoro vivo (presente, chiamato a risuscitare il morto lavoro in termini di valore di scambio e di valore d’uso) è una peculiare acquisizione marxiana, che si colloca in una posizione di discontinuità rispetto all’economia classica, intrappolata nella rigida e morta materialità dei «fattori della produzione» e dei prodotti del lavoro. Anche qui, la cattiva astrazione esibita dal concetto smithiano-ricardiano del valore è l’altra faccia di una concezione che al lato opposto mostra quel materialismo della materia (o materialismo quadratico, come mi piace chiamarlo) che tanta parte ebbe nella definizione smithiana di lavoro produttivo.

Com’è noto, Marx riprende, incorpora e supera il concetto smithiano di lavoro produttivo attraverso la critica della teoria del valore elaborata dal grande economista inglese. Mentre Smith aveva ancorato quel concetto alla forma materiale del prodotto del lavoro, della merce, Marx dissolve ogni residuo feticistico im­plicito nel concetto smithiano, e pone saldamente al centro della definizione del lavoro produttivo e della sua distinzione da quello improduttivo il rapporto sociale di scambio tra ca­pitale e lavoro salariato. Egli arriva a contrapporre il concetto di lavoro produttivo elaborato dai fisiocratici, i quali «giungono persino a dire che soltanto il lavoro che crea un plusvalore è produttivo» (4) (tesi che Marx naturalmente condivide), all’analogo concetto smithiano, ancora impigliato in una «rozza concezione» mate­rialistica del plusvalore (identificato in qualche modo con il «triviale» corpo della merce). A differenza di Smith, il quale si era concentrato sull’aspetto fenomenologico dello scambio tra capitale e la­voro salariato, espresso appunto nella forma astrattamente oggettiva del valore di scambio, Marx punta decisamente i riflettori della sua analisi cri­tica sulla natura storica e sociale di quello scambio, il quale cela dietro il velo monetario della compravendita effettuata da liberi e giuridicamente eguali “soggetti economici” (il detento­re di capitali e il detentore di capacità lavorativa), il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento peculiare di questa epoca storica. L’oggettività smithiana è, insieme, astratta, «triviale» e morta, proprio perché non coglie il latto concreto, soggettivo e attivo dell’oggetto: il valore d’uso dei «fattori della produzione».

A questo punto mi permetto una breve precisazione. Nella pagina citata dai Grundrisse Marx dice che «in A. Smith capita di trovare la rozza concezione che il plusvalore debba esprimersi in un prodotto materiale». In effetti, qui sembra che il Tedesco colpisca anche la mia concezione del plusvalore primario o basico, ma non è così. Almeno questo pare a chi scrive. Marx, infatti, così conclude: «Gli attori sono lavoratore produttivi non in quanto producono spettacolo, ma perché incrementano la ricchezza del loro datore di lavoro. Ma che genere di lavoro sia, ossia in che forma esso si materializza, ciò è assolutamente indifferente ai fini di questo rapporto, pur non essendolo dai punti di vista che svilupperemo in seguito». Vale a dire: produttivo è qualsivoglia lavoro dal cui sfruttamento il capitale trae un plus di valore, comunemente chiamato profitto. Sotto questo peculiare aspetto il lavoro di un attore, di una prostituta o di un operaio cadono tutti, con grande scandalo per Adamo Smith (e per il moralista), nella stessa rubrica del lavoro produttivo, a prescindere dal tipo di «bene o servizio» prodotto. La «forma materiale» della merce prodotta (spettacolo, piacere, frigorifero) acquista una decisiva importanza se guardata dalla prospettiva del processo di formazione del valore che sempre di nuovo si aggiunge (ex novo) alla ricchezza sociale già prodotta. Da quella prospettiva, la sola che permette di capire il movimento della società capitalistica nel suo complesso, decisivo diventa la qualità del plus di valore incamerato dal capitalista: si tratta di una mera sottrazione di ricchezza (dalla tasca dei consumatori di arte e di corpi a quella dell’impresario e del magnaccia) ovvero di una creazione di valore prima inesistente? Il solo lavoro che mentre conserva e vitalizza il vecchio valore ne crea di nuovo, prima inesistente sulla faccia della terra, è quello che produce le triviali merci. Per distinguere un qualsiasi tipo di incremento (plus) sul valore anticipato da un generico capitale, da quello originato attraverso la produzione di merci preferisco parlare di plusvalore secondario o derivato, nel primo caso, e di plusvalore primario o basico nel secondo.

Per cogliere questa fondamentale differenza non bisogna concentrarsi sull’aspetto materiale, cosale, del bene prodotto, bensì sulla qualità della capacità lavorativa, ossia sul suo valore d’uso, che nelle condizioni capitalistiche si concretizza in uno sfruttamento. Che la «società immateriale» del XXI secolo debba sostenersi sul “mondo perduto” del valore d’uso è qualcosa che il feticista della merce non potrà mai capire. La crisi economica viene a ricordare al capitale sociale mondiale la sua origine angusta e triviale: la produzione di merci nel processo industriale, la quale ne costituisce ancora la radice, nonché il suo insuperabile limite storico-sociale, che esso cerca di superare sempre di nuovo, attraverso scorribande economiche sempre più spericolate e azzardate. Che tristezza per i teorici della cornucopia e della miracolosa moltiplicazione dei valori mercè la moltiplicazione di valori cartacei.

1. K. Marx, Il Capitale, I, p. 251, Editori Riuniti, 1980.
2. K. Marx, Storia delle teorie economiche, I, p.142, Einaudi, 1955.
3. «Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro e vive quanto più ne succhia» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 267).
4. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, p. 322, La nuova Italia, 1978.

IL MONDO PERDUTO DI TREMONTI

La rivista Aspenia, dedicata questo numero a I futuri del Capitalismo, ospita un’interessante intervista a Giulio Tremonti, che sembra aver beneficiato, sul piano della riflessione “teoretica” intorno al processo sociale capitalistico mondiale, della poco gloriosa fine del governo Berlusconi per mano “tecnica”. E con questo brevissimo accenno all’attualità politica tocchiamo già il cuore dell’argomentazione tremontiana, centrata proprio sulla critica della «fase degenerativa del capitalismo» che avrebbe esautorato la vecchia «sovrastruttura» politica, a partire dallo Stato Nazionale, reso in gran parte obsoleto da un «capitale dominante» (finanziario) che si muove alla velocità della luce su scala planetaria.

Tutto ciò che costituisce il logico (“dialettico”) sviluppo del Capitalismo agli occhi di Tremonti, e dei tremontiani di “destra” e di “sinistra”, appare come sua «degenerazione» e «patologia». Qual è la logica del Capitale? Il massimo e il più rapido profitto, è ovvio! Ovvio ma non evidente prima facie. Tuttavia, solo la complessità della Società-Mondo del XXI secolo, e il carattere feticistico immanente alla forma capitalistica di produzione della ricchezza sociale, impediscono di cogliere con facilità questa logica ferina, ossia la radicalità del male cui tutti siamo assoggettati.

Come la gran parte degli scienziati sociali Tremonti fabbrica un inesistente, e mai esistito Capitalismo, e poi calcola le deviazioni della realtà rispetto a questo modello («idealtipo») del tutto campato in aria, gonfiato con insufflate di ideologie sincretistiche, mitologie e pregiudizi d’ogni sorta – la maggior parte dei quali basati sull’idea del denaro come sterco del Demonio: «Il Santo Padre ha detto cose assai chiare e definitive a tal proposito». Non c’è dubbio…

Che l’odierna economia capitalistica, dominata dal Capitale Finanziario (ma guarda la novità!), sia interamente radicata nella logica del “vecchio” Capitalismo, «quello di Smith e Marx» che tanto piace agli amanti dell’«economia reale», al simpatico Giulio appare impossibile. Non si tratta di uno sviluppo necessario, i cui presupposti sono radicati nel rapporto sociale di dominio e di sfruttamento indagato da Marx, ma di una rottura epocale, di una deviazione, appunto, di una degenerazione, di una patologia. Tremonti individua per l’esattezza ben «quattro patologie». «Per secoli il sistema politico, economico, sociale del mondo occidentale è stato basato su due pilastri: La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith; Il Capitale di Karl Marx (G. Tremonti, capitalismo take away, Aspenia, n. 56, aprile 2012). Questo mondo non esiste più, è andato in frantumi negli ultimi vent’anni con la globalizzazione, basata sull’informatizzazione, «che ha via via trasformato una quota enorme e stra­tegica dell’economia in simboli e segni elettronici a circolazione globale istantanea e interconnessi in rete», e sul mercatismo, «l’ideologia che sovvertendo l’antico ordine po­litico liberale ha teorizzato e legittimato il dominio universale del mercato prima sullo Stato e poi su tutto il resto».

Posto che «il dominio universale del mercato» (leggi: del Capitale tout court) non è un recente acquisto dell’umanità, bensì una realtà ormai secolare che ha anche nello Stato un suo formidabile strumento di rafforzamento e di espansione (vedi soprattutto i paesi storicamente ritardatari sul terreno dello sviluppo capitalistico: Germania, Italia, Giappone, Russia, Cina, ecc.); detto questo, gli antimercatisti sono portati a esagerare il tasso di liberismo che ha caratterizzato l’economia mondiale basata sulla globalizzazione. Scrive Philip Coggan, riflettendo sui diversi modelli di sviluppo economico (anglosassone, europeo-continentale, cinese, e così via): «Eppure, a uno sguardo più attento, si dovrebbe notare che le differenze vengono spes­so esagerate. Il modello anglosassone non ha mai consentito la completa liberalizza­zione dei mercati. Il settore finanziario era soggetto a numerose forme di regolamenta­zione (forse non molto efficaci, ma questo è un altro discorso). Molteplici erano anche le forme di intervento nell’economia, come ad esempio le sovvenzioni ai coltivatori di zucchero in Florida o ai produttori di etanolo nell’Iowa» (P. Coggan, Il capitalismo anglosassone tra liberismo e regole, Aspenia).

Come ogni ideologo che si rispetti, Tremonti pensa che il Diritto abbia preceduto la società civile, e che fermo restando il rapporto sociale capitalistico la politica possa, o debba, dominare «sui mercati». Eppure non poche volte egli ha sostenuto, contro i sinistrorsi, che la politica non può costringere il PIL a crescere, e che la cosa migliore che essa può fare è diventare «un’infrastruttura dell’economia». Evidentemente il Professore non comprende la reale portata dei concetti che esprime.

Per quanto riguarda «L’odierna dittatura del denaro» (Tremonti), essa non è che un «ulteriore sviluppo della produzione delle merci» (Marx): «Estendendosi la circolazione delle merci, aumenta il potere del denaro, della forma sempre disponibile, affatto sociale, della ricchezza … La circolazione diviene la grande storta sociale dove tutto affluisce per uscirne come cristallo di denaro. Nulla resiste a questa alchimia, neppure le ossa dei santi e ancor meno altre meno rozze “res sacrosantae, extra commercium hominum”» (K. Marx, Il Capitale, I). Tremonti non solo non afferra la dialettica dello sviluppo capitalistico, ma tende a creare dualistiche polarizzazioni (merce e denaro, valori e prezzi, sfera produttiva e sfera finanziaria, «finanza etica» e speculazione, Stato e mercato, ecc.) là dove insiste un rapporto dialettico, peraltro tutt’altro che armonico e pacifico, e anzi pregno di forti tensioni antagonistiche, tra diversi momenti di una sola unità sociale, oggi di dimensione planetaria.

Egli guarda il grafico derivati-prodotto interno lordo mondiale e si lascia vincere dalla vertigine. Un pauroso «multiplo iperbolico – 10 forse 11 volte il prodotto interno lordo». Certo, cadere da quell’altezza, senza paracadute, può far male…

«L’ultimo capitalismo si è liberato dal vincolo della partita doppia. Si è spostato sul conto economico, abbandonando la base del conto patrimoniale. Questo non è stato solo un passaggio contabile, è stato soprattutto un passaggio politico e morale. Il conto patrimoniale è, infatti, il mondo dei valori. Il conto economico è invece il mondo dei prezzi». Ma i prezzi esprimono valori (di scambio)! Almeno “in ultima analisi”. «Il prezzo è il nome di denaro del lavoro oggettivato nella merce», scriveva Marx, non dimenticando di aggiungere questo fondamentale concetto: «tempo sociale di lavoro», occultato dalla natura feticistica della cosa-denaro. «Il conto patrimoniale è un mondo in cui vedi la struttura, la storia, l’origine, il presente e il futuro di una società e anche la sua missione industriale e morale. Il conto economico è invece un’altra cosa». Qui ancora una volta si allude al denaro come appare feticisticamente, ossia senza alcun rapporto con il lavoro sociale «astratto» che lo fa esistere in quanto «equivalente universale delle merci». «Se tutto il capitalismo vira sul conto economico e cessa di essere orientato nella logica della lunga durata, come è invece tipico e proprio del conto patrimoniale, se diventa corto e breve, perché così è la logica del conto economico, se non conta più la durata della società, ma l’anno sociale, questo a sua volta diviso in semestri, in trimestri, in fixing giornalieri, allora è chiaro che quasi tutto cambia. È così che il capitalismo ha preso la forma istantanea del conto economico. È così che è venuto via via configu­randosi un capitalismo di tipo nuovo, di tipo take away». Ma la «logica del conto economico», anzi: del calcolo economico, è la logico che muove anche le montagne, vale a dire la logica che fa capo al Capitale. È nella natura del Capitale, da Adam Smith in poi, escogitare metodi sempre più scientifici e sofisticati volti al conseguimento del massimo e più rapido profitto. Che questa necessaria bramosia si realizzi producendo solide merci o castelli di valori fittizi è, sotto quest’aspetto, del tutto indifferente per il singolo detentore di capitali e, se mai, è interessante indagare la relazione tra le due produzioni (quella «reale» e quella «virtuale»), alla luce del processo economico colto nella sua totalità, nella sua necessaria dimensione sociale.

D’altra parte, se negli ultimi vent’anni abbiamo assistito allo «spostamento ciclopico della ricchezza da Occidente a Oriente» (Mario Sechi, Il Tempo, 15 maggio 2012), ebbene ciò non è stato dovuto alla moltiplicazione dei valori fittizi, ma alla gigantesca massa di plusvalore smunta ai lavoratori cinesi, indiani, coreani e via di seguito, la quale, peraltro, ha anche alimentato quell’«economia del debito», oggi tanto bistrattata, che nel corso degli anni Novanta e almeno fino al 2005 ha permesso ai paesi occidentali, Stati Uniti in primis, di sostenere i consumi e, dunque, l’accumulazione capitalistica primaria (industriale, agricoltura compresa). E al contempo, nonché necessariamente, ha reso possibile l’inaudita espansione dei derivati, in ogni loro configurazione e articolazione. Dico questo solo per ribadire un concetto fondamentale, ossia che è del tutto infondato ogni tentativo volto a separare l’«economia reale» da quella «virtuale», la finanza “buona” da quella “cattiva”, o “oscura”, come vuole la fraseologia etica oggi di moda. No, decisamente il salto di qualità da dottore commercialista a filosofo-economista non è riuscito al Professor Tremonti.

Contrapporre il «Capitalismo di una volta» a quello odierno, nel cui seno abbiamo la ventura di vivere, significa non aver capito nulla della sua più intima natura. Lungi dal negare i cambiamenti enormi intervenuti nella struttura del Capitalismo negli ultimi due secoli, sostengo all’opposto – peraltro sulla scorta di Marx, ripreso poi da Schumpeter – che senza cambiamenti rivoluzionari, a tutti i livelli della prassi sociale, non si dà alcun Capitalismo.

Ma Tremonti non se ne dà per inteso e reclama il solido Capitalismo del bel tempo che fu, scivolando nel «triviale materialismo della cosa» che già l’avvinazzato di Treviri rimproverò al grande Smith. «Il ritorno a quello che per secoli è stato definito tout court come “capitalismo” non è la fine ma, all’opposto, è il ritorno alle origini. È, e deve essere, la fine della forma del capitalismo degenerato nella tecno­finanza, ma in realtà in un processo non molto diverso da una magia alchemica folle e mortale come in Faust e in Mefistofele».

Giacché parliamo del – mitico – Capitalismo delle origini, diamo nuovamente la parola a Marx, così coccolato da Tremonti: «Si cerca rifugio in questa astrazione, perché nello sviluppo reale del denaro ci si imbatte in contraddizioni sgradite all’apologetica del buon senso borghese, e che quindi debbono venir celate. Poiché la compra e la vendita, i due momenti essenziali della circolazione, sono l’uno all’altro separati nello spazio e nel tempo, non è affatto necessario che coincidano». La fabbrica della cornucopia s’insinua precisamente in questa scissione, e con i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia fa di essa un abisso, affinché la speculazione “valoriale” possa essere più fruttuosa e duratura possibile. Ma l’abisso, che rischia di risucchiare il Nostro Professore, è solo apparente: «Quest’indifferenza può spingersi fino al consolidamento e all’apparente autonomia dell’uno nei confronti dell’altro. Ma poiché entrambi sono nell’essenza momenti di un’unica totalità, deve sopravvenire un momento in cui la forma autonoma viene spezzata con la violenza e l’unità interna viene ristabilita dall’esterno mediante una violenta esplosione. Così già nella determinazione del denaro come mediatore c’è il germe delle crisi, almeno la loro possibilità» (K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, I). A mio avviso, l’andamento del saggio del profitto nel processo primario (industriale) di produzione della ricchezza sociale gioca un ruolo centrale nella trasformazione della possibilità in attualità della crisi, soprattutto nella sua fenomenologia capitalisticamente più “pura” e socialmente devastante.

La crisi spezza ogni velleità di emancipazione del denaro, e della struttura «chimerica» che su esso di innalza fino a raggiungere vertiginose altezze, e lo riconduce, dopo un periodo più o meno lungo di ubriacatura speculativa, alla sua umile origine, nonché fondamento di ultima istanza, ossia al lavoro sociale, dal cui sempre più intensivo sfruttamento origina il fondamento di ogni più ardita speculazione finanziaria: il plusvalore. L’alchimia di cui parlava Marx non ha nulla a che fare con la «magia alchemica folle e mortale come in Faust e in Mefistofele» che tanto inquieta Tremonti?

La miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci, sotto forma dei più sofisticati prodotti finanziari (quelli che ultimamente hanno messo in crisi la JP Morgan, la quale aveva beneficiato nel settembre del 2008 del fallimento di Lehman Brothers e della vendita di Merrill Lynch: è la coazione a ripetere della cornucopia!); questo vero e proprio miracolo economico, dicevo, può darsi solo sulla base del miserabile (se confrontato con l’insaziabile appetito del Mostro) presupposto appena accennato. La creazione ex nihilo compete esclusivamente alla Potenza che domina i Cieli, mentre quella che domina il pianeta deve scendere a compromessi con il sudore dei lavoratori produttivi. Che triste destino! E, dialetticamente, è proprio questo limite immanente al concetto stesso di Capitale che per un verso rafforza la tendenza della sfera finanziaria a rendersi autonoma da quella immediatamente produttiva, a volte troppo avara di profitti; e per altro verso spinge una parte sempre più cospicua del capitale industriale a cercar fortuna sul mercato creditizio e speculativo, per l’identico motivo. Ancora una volta la dialettica del processo sociale si oppone nel modo più tetragono a ogni concezione ideologica della società capitalistica, soprattutto a quella che pietosamente e ridicolmente cerca di separare i suoi «lati buoni» dai suoi «lati cattivi».

Tremonti denuncia la «dittatura del denaro». Ieri Giuseppe Vegas, presidente della Consob, ha detto che è ora di finirla con «la dittatura dello spread». Il concetto di Capitale – sans phrase – come totalitarismo sociale dell’economia basata sul profitto è pane troppo duro per i denti dei funzionari delle classi dominanti.

ELOGIO DELL’UTOPIA. CONTRO ROBERTO SAVIANO

Roberto Saviano ha letto il saggio di Alessandro Orsini su Gramsci e Turati (Rubettino, 2012), ed è rimasto folgorato sulla via del Riformismo. Dico subito che nei confronti di quelli che individua come «comunisti rivoluzionari» (stalinisti, maoisti, castristi, antiamericani, brigatisti, ecc.) lo scrittore di successo ha facile gioco, quando ne denuncia l’abissale inconsistenza politica e teorica. Peccato che questi personaggi d’accatto non abbiano mai avuto nulla a che fare con il comunismo (di Carlo Marx), né con una posizione minimamente critico-radicale. Lungi da me difendere Marx, il quale si difende benissimo da solo; o, men che meno Gramsci, le cui posizioni politiche e dottrinarie (radicate nello stalinismo ascendente e nello storicismo italiano, più che nel «materialismo storico» del bevitore di Treviri) peraltro non ho mai condiviso. Colgo piuttosto questa occasione per esporre il mio punto di vista su questioni di “scottante attualità”: vedi il dibattito sull’uso della violenza politica nella lotta politica. Lo faccio riportando alcuni brani tratti dal mio saggio di filosofia politica L’Angelo Nero sfida il dominio.

Scrive Saviano: «Ma l’odio per i riformisti, – spiega Orsini – è il pilastro della pedagogia dell’intolleranza. Dal momento che i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato tanto peggio tanto meglio. (Elogio dei riformisti, 28 febbraio 2012, La Repubblica.it).

Risponde L’Angelo Nero:

Non si tratta di preferire, «cinicamente», lo stato di eccezione, il quale almeno non permette al dominio di celarsi dietro il velo di Maya della democrazia, dello «Stato di Diritto» (come se lo Stato, qualsiasi forma di Stato, non fosse, «in sé», Diritto e di Diritto!), della legittimità costituzionale, e via di seguito; si tratta piuttosto di rendersi conto di quanto sia cinica la dialettica del processo sociale quando questo si svolge, almeno per l’essenziale, alle spalle degli uomini. Da sempre, il «tanto peggio, tanto meglio!» è qualcosa che arride alla classe dominante o a una delle sue fazioni in lotta contro le altre. Per le classi dei dominati il peggio è ogni giorno che Dio – o chi per Lui – manda in Terra. Per questo quel maligno principio non entra mai nei calcoli del pensiero che cerca di spingere gli uomini verso il migliore dei mondi possibili.

Scrive Saviano: «Gramsci Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato … La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo».

Risponde L’Angelo Nero:

Nei confronti degli esaltati ideologi della violenza, concepita come un momento decisivo, dirimente, del processo storico, ho sempre nutrito un forte sospetto, e financo una franca ostilità. Non perché in generale ricusi alla violenza la sua oggettiva funzione in quel processo, e giudico indigente sul piano della teoria e della prassi chi prova a negare questo inconfutabile dato di fatto (che tuttavia va compreso in tutta la sua dolorosa verità, e non accettato acriticamente); piuttosto perché ho sempre visto in chi avverte il bisogno di sfoggiare un atteggiamento aggressivo una debolezza teorica, politica e psicologica di fondo, celata appunto dietro frasi e pose iper rivoluzionarie, ossia pseudorivoluzionarie. È tipico del pensiero debole e superficiale affettare pose muscolose e falsamente radicali. La psicoanalisi, oltre che filosofia, sa di cosa parlo. …

Bisogna dunque diffidare di chi pone costantemente in evidenza la necessità della violenza nella lotta politica, e che mostra di non aver compreso la sua funzione ancillare nei confronti dell’elaborazione teorica e politica cui è chiamato ciò che definisco il Soggetto Storico della Rivoluzione. Chi affetta un approccio apologetico e superficiale con il problema della violenza nello scontro politico, ed esibisce un impaziente desiderio di menar le mani, mostra tutta la sua inconsistenza esistenziale, e probabilmente coltiva una certa indifferenza per coloro che dovranno sperimentare il suo «manganello rivoluzionario». …

Proprio perché rappresenta una questione di grande significato storico, sociale e politico, il tema della violenza merita quindi di venir approcciato in termini critici e problematici, e sottratto alla speculazione “filosofica” dell’intellighenzia radical-chic, intimamente intrisa di idee piccolo-borghesi. La violenza da sempre è stata monopolizzata dalle classi dominanti, e quando si è trattato di versare sangue in nome della patria, della civiltà, della democrazia, della libertà e persino della «Rivoluzione», alle classi dominate, usate come meri strumenti di offesa e di conquista, è stato richiesto il maggior contributo. Questo solo fatto credo basti a giustificare l’atteggiamento critico, serio e vigile che propongo.

Disporre della vita degli altri a cuor leggero, seppure per conto della «causa rivoluzionaria», non solo rinnova la coazione a ripetere del dominio sociale borghese, ma getta un’inquietante ombra sull’intera concezione del mondo dei “rivoluzionari”, i quali in quella guisa mostrano di non essere per niente tali. Solo la classe dominante può permettersi il lusso di sorvolare – ma sempre fino a un certo punto – sulla contabilità dei morti e dei feriti, anche perché il più delle volte essi provengono dalle classi subalterne. Ma il soggetto che ha come obiettivo «supremo» la costruzione della Comunità mana, deve avvertire tutta la pesantezza, la sofferenza e la drammaticità della cosa.

Non si tratta, insomma, di rigettare sul piano della teoria e della prassi la violenza, ma piuttosto di assumerne coscientemente tutta la portata storica, sociale, «esistenziale», così che nel calcolo dell’efficacia rivoluzionaria possa contare anche il problema di come spargere meno dolore possibile. Questa «economia di violenza e di sofferenza» non deve riguardare solo gli appartenenti alle classi dominate, ma anche il nemico di classe, perché l’obiettivo fondamentale da perseguire non è la vendetta nei suoi confronti, né la sua sofferenza (che comunque si dispiegherebbe oggettivamente, soprattutto nel caso in cui la rivoluzione sociale fosse vincente), ma la conquista del potere e la costruzione della nuova società. …

La violenza politica deve vivere dunque nell’oggettività delle cose, e il Soggetto della rivoluzione deve ben guardarsi dal far «calare dall’alto» la sua stringente necessità sulle classi subalterne, trattandole in tal guisa alla stregua di meri strumenti di una lotta mortale della quale esse non possono capire il significato. Bisogna piuttosto trasformare le anonime e informi «masse» in classi sociali coscienti della posta in palio. Più che la violenza, è lo sviluppo della «coscienza di classe» in strati sempre più vasti della classe subalterna che connota il processo rivoluzionario, se è veramente tale e non l’ennesima lotta tra fazioni borghesi. …

Scriveva Lukàcs nel 1919 (Tattica e etica): «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa». Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male.

In altre parole, per il punto di vista critico-radicale il problema della violenza non costituisce una questione di principio ma di consapevolezza storica, coscienza cioè che la prassi rivoluzionaria deve necessariamente immergersi nella colpa della violenza. Il Soggetto di quella prassi non solo non oblitera il carattere colpevole – nel ristretto senso qui delineato – della violenza cui esso stesso è costretto a ricorrere, ma ne fa consapevoli tutti i protagonisti dello scontro sociale, affinché ogni atto sia commisurato alla posta in gioco. Come lo psicanalista cerca di desublimare gli istinti repressi e deformati che si agitano nel subconscio e nella stessa prassi del paziente, analogamente il Soggetto rivoluzionario – qualunque significato si voglia attribuire a questo concetto – deve aiutare i protagonisti del processo storico a chiamare con i loro autentici nomi i sentimenti che li spingono a battersi (odio, invidia, rabbia, paura, speranza, desiderio, amore, ecc.), in modo che la responsabilità storica e sociale delle loro azioni possa venire alla luce, giorno dopo giorno, errore dopo errore, eccesso dopo eccesso. Questa è la sola etica della responsabilità che riesco a concepire.

Scrive Saviano: «I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica. I riformisti – spiegava Turati – sono realisti e tolleranti. Realisti perché credono che non sia possibile costruire una società in cui siano banditi per sempre i conflitti. Tolleranti perché rifiutano il perfettismo».

Risponde L’Angelo Nero:

Una volta Proudhon disse che «siamo nati perfettibili, ma non saremo mai perfetti» (Filosofia del progresso, 1853); per quanto mi riguarda, non si tratta di fabbricare l’Uomo Perfetto, secondo un’antica e infantile utopia, ma di rendere possibile il respiro all’individuo umanizzato. La perfezione, per dirla con la “saggezza popolare”, non è di questo mondo; l’umanità invece può esserlo: voilà tout!

QUEL CHE RESTA DI TONI NEGRI

Per alimentare il dibattito sulla crisi economica e andare «contro le tentazioni “nazionaliste” (in realtà solo “populiste”) che cominciano a nascere e a presentarsi nel dibattito delle sinistre riformiste in questa fase di crisi», il Blog di Controlacrisi.org ha pubblicato un intervento di Toni Negri «fatto in francese al Congresso Marx Internazionale IV, nel settembre 2004 a Parigi». Do il mio contributo al dibattito con lo scritto che segue, sposando in pieno il programma del Blog sintetizzato nello slogan «Abbasso l’ideologia!»

Secondo Toni Negri, teorico dell’Impero, della Moltitudine e della crisi della marxiana legge del valore, «Parlare di Stato-nazione e di imperialismo senza periodizzarne la figura e la durata diviene molto pericoloso – quasi reazionario». Nientedimeno. Francamente non comprendo in che consista esattamente quel pericolo. Certo, se ci riferiamo a qualcuno che maneggia quei concetti in modo apologetico il «quasi» non ha ragion d’essere, e il pericolo che ci si para dinanzi possiamo fronteggiarlo con efficacia. In realtà la punta della critica negriana è rivolta contro la sinistra statalista, nostalgica del vecchio Capitalismo di Stato e sostenitrice di politiche neokeynesiane. E su questo punto egli mi trova del tutto in sintonia, e non da oggi. Ma il tipo di critica che il bravo intellettuale scaglia contro chi vede «nella figura e nella presenza dello Stato-nazione la condizione essenziale dell’agire politico» non è aliena da ambiguità, e lascia immaginare una sua certa vicinanza, sebbene polemica e sofferta, a coloro che la sostengono, quasi fossero «compagni che sbagliano». Personalmente li ritengo funzionari del dominio sociale capitalistico alla stessa stregua dei cosiddetti «liberisti selvaggi», con l’aggravante, rispetto ai secondi, di aver non poco lordato la terminologia che ai tempi di Marx e di Lenin alludeva alla possibilità della rivoluzione sociale e dell’emancipazione universale.

Negri sostiene che «lo Stato-Nazione è in crisi». Bella scoperta! Nel Capitalismo avanzato lo Stato nazionale vive una condizione di crisi permanente, perché i sempre più rapidi mutamenti sociali innescati dal processo di produzione del valore stressano sempre di nuovo il politico, costretto a inseguire i mutamenti economici, tecnologici, psicologici, esistenziali nell’accezione più ampia e radicale del concetto, nel tentativo di smussarne le asperità, e di ricondurli, per quanto possibile, a un principio unitario. Sorto storicamente sulla base dello Stato nazionale, il Capitale ha avuto fin dal principio un carattere sovranazionale, che gli deriva dalla sua smisurata necessità di trasformare l’intero pianeta e l’intera esistenza degli individui in occasioni di profitto. Già nei primi scritti di Marx è chiaramente annunciata quella tendenza aggressiva ed espansiva del Capitale che agli occhi della «moltitudine» del XXI secolo appare in forma talmente dispiegata, da essere considerata come un fenomeno naturale e banale. Anche per questo il pensiero critico-radicale trova così tanta difficoltà ad affermarsi presso le «larghe masse»: la prossimità del Dominio lo rende quasi invisibile ai loro occhi, almeno nella sua interezza, nella sua reale dimensione. Ma più che di prossimità, dovremmo piuttosto parlare di intimità, di più: di consustanzialità. Infatti, sempre più il Dominio ci crea «a sua propria immagine e somiglianza», come il buon Dio dell’Antico Testamento.

La violenta espansione geografica ed esistenziale (corpi “umani” compresi, ovviamente) delle esigenze economiche marchiate dal Capitale ci dà, a mio avviso, il corretto concetto di imperialismo e di globalizzazione. Due modi diversi di chiamare lo stesso processo sociale. Noi avvertiamo come «crisi dello Stato-Nazione» il suo continuo processo di adattamento a una società in continua trasformazione, quantitativa e qualitativa, a cagione della natura «rivoluzionaria», nell’accezione marxiana del concetto, del Capitalismo. Questo permanente stato di precarietà, o di «liquidità», per civettare con la sociologia alla moda, si acuisce nelle fasi di repentina accelerazione della tendenza «globalizzante». Non c’è dubbio che il ventennio che ci sta alle spalle abbia rappresentato un momento di accelerazione, che ha radicalmente cambiato la dislocazione del Potere (economico e politico) su scala mondiale.

Scrive Marx: «Con la concorrenza universale [la grande industria] costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quanto ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 59, Opere, V, Editori Riuniti, 1972). La creazione del mercato mondiale da parte della grande industria, caratterizzata dalla sussunzione reale della capacità lavorativa sotto il dominio aggressivo ed espansivo del Capitale, crea la storia mondiale, nel cui seno esistono ed agiscono anche i Paesi non ancora giunti alla maturità capitalistica o addirittura ancora fermi a strutture sociali precapitalistiche. È, questo, lo spazio rigato dalla «legge dello sviluppo ineguale» e dallo scontro sistemico tra le moderne potenze imperialistiche. «In generale [la grande industria] creò dappertutto gli stessi rapporti tra le classi della società e in tal modo distrusse l’individualità particolare delle singole nazionalità. E, infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso» (Ivi). Qui è posta per la prima volta la fondamentale «contraddizione dialettica» tra il carattere universale e mondiale del Capitale, e la sua ristretta base storico-sociale d’origine: la Nazione. Questa dialettica di universalità e particolarità sta alla base delle relazioni internazionali e della crisi permanete della Sovranità politica sopra delineata.

La base del «vecchio imperialismo» era costituita dall’incessante ricerca da parte del Capitale di profitti sempre più pingui e rapidi (non di rado attraverso le forme più disparate di speculazione), di materie prime, di forza-lavoro a basso costo e di mercati «di sbocco». Una voracità talmente violenta e insaziabile da trascinare nelle spire imperialistiche lo Stato, la cui potenza d’altra parte riposava interamente sulla capacità industriale, e quindi finanziaria, scientifica, organizzativa, culturale, in una sola parola sistemica, del Paese. Come notò J.A. Hobson nella sua giustamente celebre opera del 1902, l’imperialismo «implica l’uso della macchina di governo da parte degli interessi privati, principalmente capitalistici, per assicurare loro vantaggi economici fuori del proprio paese». Sempre all’acume critico dello studioso inglese dobbiamo la documentata relazione tra investimenti esteri e imperialismo politico (militarismo incluso): «Le statistiche degli investimenti all’estero gettano una chiara luce sulle forze economiche che dominano la nostra politica … non è esagerato dire che la politica estera moderna della Gran Bretagna si è concretizzata in una lotta per accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento» (J.A. Hobson, L’Imperialismo, p. 93, Newton, 1996). C’è una pagina di quell’importante studio, dedicata agli gnomi della finanza del suo tempo, che sembra scritta oggi: «Come speculatori o finanzieri essi costituiscono il più grave fattore specifico dell’economia dell’imperialismo. Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo» (Ivi, p. 96).

È forse mutata la base del «nuovo imperialismo», al punto da determinarne il tramonto, o quantomeno la sua trasformazione nell’Impero concettualizzato da Negri? A me non pare proprio, e soprattutto quanto ci capita di osservare negli ultimi anni mi suggerisce l’idea che lungi dall’essersi indebolita, la radice sociale dell’imperialismo si è piuttosto rafforzata enormemente. Concetti quali «post imperialismo» e «post Capitalismo» non hanno alcun senso e testimoniano l’incapacità, di chi li teorizza, di afferrare l’essenza della vigente formazione storico-sociale, la quale vive necessariamente una permanente condizione transeunte: il cambiamento, per essa, non è un’eccezione, ma la regola. Di più: un imperativo categorico. La società capitalistica è sempre «post», «oltre», «smisurata»: deve esserlo, con assoluta e “demoniaca” necessità. Si tratta di mettere a nudo il momento di continuità che persiste nel processo e che realizza la continua trasformazione della Società-Mondo dominata dal rapporto sociale capitalistico.

CONTINUA: il post segue su un documento Word scaricabile dalla pagina che si apre cliccando su questo link. La pagina contiene anche i commenti dei lettori.

UN MATERIALISMO INTRISO DI SPIRITO…

Oggi sono in vena di “socializzazione” – in mancanza di socialismo… Di che si tratta questa volta? Ecco cosa mi scriveva, qualche settimana fa, un cortese lettore del mio post sull’ultimo libro di Tremonti:

«Caro Isaia, mi trovo qui per caso a fare la sua conoscenza e avendo letto recentemente La paura e la speranza di Tremonti del 2008, ho trovato che la sua concettualizzazione del sistema politico-economico globale nel quale ci troviamo immersi nella parola “mercatismo”, è illuminante, idonea cioè a pensare oggi orientamenti e decisioni politiche efficaci. Intuisco che la sua devozione a Karl Marx e al materialismo dialettico la porti a discostarsi dalle prospettive “spiritualistiche” delineate in quel libro e a sputargli in faccia il suo disprezzo, tuttavia superando il fastidio che queste sue espressioni acritiche ed intolleranti mi suscitano, le chiedo se su questo punto di analisi storico-economica Lei possa convenire. Con simpatia».

Segue la firma, che qui penso sia meglio omettere. Ed ecco la mia risposta:

Carissimo, Intanto mi scuso per il ritardo con il quale le rispondo, e la ringrazio per l’attenzione. Adesso desidero solo comunicarle che, nonostante mi discosti abissalmente dalle «prospettive “spiritualistiche”» di Tremonti, il mio atteggiamento in generale è alieno da quel disprezzo ideologico da lei, a mio avviso del tutto infondatamente, prospettato. Proprio perché «devoto a Marx» (a proposito: la definizione che mi qualifica politicamente e dottrinalmente non è del sottoscritto, il quale, a scanso di equivoci, evita di proclamarsi “marxista”), sono lungi dall’atteggiamento ateo tipico del radicalismo borghese, il quale riduce il bisogno religioso a mera ignoranza. Su questo punto condivido la critica dell’illuminismo formulata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. La frase marxiana della religione come oppio dei popoli è stata gravemente fraintesa e volgarizzata, soprattutto dai suoi epigoni, primi fra tutti quelli di scuola diamatica, ossia sovietica – ecco spiegato il motivo della mia professione non marxista: muoia il nome della cosa, viva il concetto!

Nei miei scritti, ad esempio nel mio modesto saggio di filosofia politica L’Angelo Nero, troverà la prova del mio interessamento per il «fatto religioso», a iniziare dalle interessanti elaborazioni teologiche di Benedetto XVI, il filosofo di riferimento di Tremonti. Una delle mie letture preferite è l’Antico Testamento, non perché vi senta l’eco della Parola di Dio, né a cagione del mio cognome – scherzo! –, bensì perché vi vedo la straordinaria prassi sociale dell’uomo: la sua storia, le sue speranze, le sue angosce, la sua economia, e via discorrendo. Trovo la religione, in generale, una delle più eccezionali produzioni umane. Adesso sto studiando Le età del mondo di F. Schelling, un testo che come sa è interamente e profondamente intriso di spirito religioso.

Ce n’è per tutti i gusti!

Insomma, proprio in quanto «materialista dialettico» lo Spirito – del non-ancora-uomo che anela all’umanità – è il mio pane quotidiano. E difatti, più che contro la «spiritualità», comunque essa trovi il modo di manifestarsi (le vie della Speranza sono infinite, proprio come quelle del Dominio!), la punta della mia critica è rivolta contro lo scientismo, la religione dei tempi moderni, ossia contro l’ideologia che vuole ridurre tutto, a cominciare dall’amore e dal pensiero, a mero processo naturale: fisico, chimico, biologico. La sua pretesa di voler provare in laboratorio la non esistenza di Dio la dice lunga sulla sua eccezionale carica antiumana. Per dirla con il Marx di Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, lo scientismo vuole «strappare dalla catena i fiori immaginari», perché «l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante».

Per me, invece, si tratta di gettare via la catena, e «di cogliere i fiori vivi». La critica della Scienza – borghese – come formidabile strumento di dominio materiale e spirituale degli individui è al centro della mia riflessione “filosofica” e politica. Mi scuso per la difesa d’ufficio del «punto di vista umano», e le rinnovo i miei ringraziamenti.

Per approfondimenti sulla mia critica di La Paura e la speranza di Tremonti vedi Il Dominio e la speranza.

LA SPERANZA BEN FONDATA DEL PUNTO DI VISTA UMANO

Ecce Homo!

Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel).

Una lettrice del mio post sull’ideologia decrescista mi ha lasciato questo commento: «Il Capitalismo ha fallito di brutto, e il comunismo peggio che andar di notte… Ora che facciamo?! Mettiamo al centro l’essere umano e ripartiamo da lì…». Penso che la risposta che le ho dato su Facebook sia di qualche interesse generale, e solo per questo la “socializzo” anche su questo Blog.

Carissima, il metodo maieutico ha colpito ancora! Ho lasciato volutamente celata nel concetto di Utopia la risposta alla tua feconda obiezione. Maurizio l’ha resa esplicita, con l’usuale franchezza di chi ama sorprendere la verità alle spalle, e trae godimento nella dolorosa, quanto necessaria, opera consistente nel bucare i palloncini riempiti di luoghi comuni, soprattutto in guisa progressista. Se sei masochista abbastanza, puoi leggere il mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre, nel quale mi sforzo di dimostrare (apprezza almeno l’audacia del piccolo Davide, peraltro non assistito da nessun Dio!) come l’esperienza rivoluzionaria in Russia si concluse con una sua radicale sconfitta già agli inizi degli anni Venti, allorché fu chiaro (e ad alcuni comunisti europei apparve evidente già allora) che la prospettiva rivoluzionaria nei Paesi occidentali (Germania, Francia e Italia, in primis) si chiudeva tragicamente, e che non si sarebbe riaperta nel breve periodo.

Infatti, solo il successo in quei Paesi capitalisticamente avanzati avrebbe fatto uscire l’Ottobre dall’isolamento sociale (la pressione oggettivamente borghese dell’enorme campagna russa) e internazionale (la Santa Alleanza imperialistica guidata dall’Inghilterra). La Russia come «anello debole della catena capitalistica», e la Rivoluzione russa come detonatore della rivoluzione internazionale, sostanziarono la strategia leniniana. Lo stalinismo rappresentò, per un verso la sconfitta della valenza proletaria (nell’accezione storica e politica del concetto, non in quella meramente sociologica) della Rivoluzione d’Ottobre, e per altro verso la peculiare via alla modernizzazione capitalistica in Russia e la ripresa dello storico ruolo imperialistico del Paese nel nuovo contesto geopolitico realizzato dalla prima guerra mondiale. La tesi del fallimento del socialismo, o del comunismo, più o meno «reali», non trova dunque alcun fondamento storico-sociale, e il suo successo riposa soprattutto sulla maligna esistenza dei figli e dei nipoti di Stalin – e poi di Mao, Castro, Che Guevara… –, i quali si sono prodigati fino all’altro ieri a diffondere la stratosferica bufala del «socialismo reale».

Di qui il mio invincibile disprezzo per i “comunisti”, che hanno reso alle classi dominanti di tutto il pianeta un impagabile servizio: fare apparire il «Comunismo» nei panni di una ben miserevole alternativa al Capitalismo, secondo gli auspici di Churchill: «Il Capitalismo farà pure schifo, ma niente al confronto del Comunismo». Come dargli torto! Salvo che per un insignificante punto: il «Comunismo», in Russia, in Cina e altrove nel vasto mondo, non ha mai messo, non dico il piede, ma nemmeno l’ombra del più microscopico dei miei capelli. E ho detto tutto! Solo se si conquista questo punto di vista appare chiaro come la possibilità della Comunità Umana sia ancora intonsa, e anzi oggettivamente sempre più radicata in quell’attualità del dominio che la nega con sempre più forza. È quella che chiamo tragedia dei nostri tempi. Ti ringrazio per l’attenzione, mi scuso per la lunghezza della “risposta” e ti saluto.

PER LA CRITICA DEL KEYNESISMO 2.0

R. J. Samuelson

Sul Washington Post dell’altro ieri Robert J. Samuelson ha sferrato l’ultimo attacco a Paul Krugman. La contesa tra i due pezzi grossi della Scienza Economica statunitense ruota intorno a questa scottante domanda: è possibile oggi negli Stati Uniti e in Europa una politica keynesiana, più o meno ortodossa, tesa a «stimolare» la crescita economica con la leva della spesa pubblica? Il primo risponde invariabilmente che quel tipo di politica non è più praticabile nel mondo globalizzato di oggi, nel quale peraltro si muovono Stati nazionali molto più grandi (anche in termini di Debito Sovrano) e complessi rispetto a quelli che si trovarono a fare i conti con la Grande Crisi del ’29. Plausibile negli anni Trenta del secolo scorso, oggi l’economia keynesiana merita la definitiva eclissi. «Se Keynes vivesse oggi, egli certamente riconoscerebbe i limiti delle politiche keynesiane» (Bye-bye, Keynes, W. P. del 19 Dicembre 2011).  Il secondo, altrettanto tenacemente, sostiene che solo una politica keynesiana può salvarci dalla spirale della recessione, la quale mena alla più cupa delle depressioni.

Su questo Blog ho più volte polemizzato con le posizioni, a volte espresse in modo davvero bizzarro – ma assai sintomatico: vedi Cercasi Alieni, disperatamente! – del premio Nobel per l’economia. Adesso pubblico un capitolo di un mio vecchio studio (scaricabile da questo Blog: Sviluppo e crisi nel capitalismo, II, 1997) per contribuire a far luce su un dibattito teorico e politico che ha un enorme rilievo nella vita di tutti noi, benché trovi spazio solo in alto loco.

J. M. Keynes

In generale, non critico tanto le teorie di John Maynard Keynes, il quale dopotutto fu un onesto militante del Capitale in un momento particolarmente travagliato della sua burrascosa – e sanguinosa – esistenza, nonché il becchino della vecchia teoria liberale del laissez-faire; quanto piuttosto le elucubrazioni dei suoi tardi epigoni attivi nel XXI secolo, soprattutto per l’odiosa ideologia statalista in salsa progressista che li anima, e che l’economista inglese almeno si risparmiò. Le pagine che seguono sono quindi anche un contributo alla critica del “keynesismo 2.0”.

Il circolo virtuoso-vizioso keynesiano

Secondo Keynes, e nel pieno della crisi economica mondiale dei primi anni Trenta secondo tutti gli economisti ovunque essi vivessero, lo Stato doveva salvare il capitalismo dalla follia di coloro che inseguivano il profitto a discapito degli interessi generali, ossia degli interessi degli stessi capitalisti privati. Lo Stato rispose alla bisogna, e il capitalismo si salvò. Tra l’altro, al di là della sempre verde ideologia del Bene Comune (che cela il Bene del Capitale in quanto rapporto sociale di dominio e di sfruttamento), qui viene in luce la funzione dello Stato come espressione degli interessi generali della classe dominante, funzione che non rare volte si traduce in un attacco del Leviatano a interessi particolari che fanno capo a quella stessa classe. Sacrificare fazioni borghesi sull’altare del «Bene Comune» è un esercizio che esalta lo Stato come riserva di ultima istanza dello status quo sociale.

Continua

IL REGIME DEL CAPITALE. DA MARX A MONTI

Lo confesso: ci sono libri che leggo solo per saziare il mio smisurato Ego. Infatti, al confronto col pensiero che li ispira, il mio, che pure non si distingue per intelligenza e originalità, appare come la feuerbachiana secrezione di un cervello geniale.  Anche mettendo sotto stretta vigilanza la magagna narcisistica di cui sopra, non c’è niente da fare: il confronto mi restituisce come un Gigante del Pensiero Sociale. So che a mia volta vengo usato per soddisfare l’altrui smisurato Ego, e non me ne lamento: chi con narcisismo colpisce…

E adesso cerchiamo di “quagliare”.

Mi sono approcciato al libro di Giorgio Cremaschi Il regime dei padroni. Da Berlusconi a Marchionne (Editori Riuniti, 2010) vinto da quell’insana brama, e devo dire che l’aspettativa non è andata delusa. Tutt’altro! Un esempio: «Duemila anni dopo Cristo … il profitto viene posto ai vertici della piramide sociale» (p. 63). Qualcuno avverta Cremaschi, che pure, in quanto sindacalista, certe cose dovrebbe pur saperle, che nell’ambito del capitalismo il profitto è stato sempre ben saldo al vertice «della piramide sociale». Centocinquant’anni dopo Marx, Cremaschi scopre, nella Maligna Repubblica di Berlusconi e di Marchionne, la seguente filiera del Capitale: «Se c’è guadagno, c’è l’impresa, se c’è l’impresa c’è il lavoro, se c’è il lavoro c’è il salario e forse ci sono anche i diritti». Che scandalo! Ma da che capitalismo è capitalismo, le cose stanno esattamente così, e non potrebbero stare diversamente, e aver fatto credere ai lavoratori che nell’ambito della società basata sul profitto il lavoro salariato può costringere il Capitale a derogare ai suoi vitali (nel senso proprio della parola) interessi, magari appoggiandosi alla paternalistica benevolenza del Leviatano (vedi alla voce Debito Pubblico!), è una delle tante balle ideologiche progressiste che nel corso di questo mezzo secolo hanno avvelenato la classe dei salariati.

Il Lavoro Morto stuzzica la viva capacità lavorativa. «Non sei merce, ma prezioso capitale umano! Vieni a me, col sorriso sulle labbra!»

Nel corso della sua diuturna lotta, peraltro non priva di valore, contro «l’ideologia liberista della fine del lavoro salariato», la quale nasconde dietro la menzogna del lavoro autonomo sempre più diffuso la realtà di un’espansione planetaria del lavoro salariato (anche nei paesi a capitalismo avanzato come gli Stati Uniti), il nostro dirigente sindacale fa un’altra sconvolgente scoperta: «La distribuzione capillare delle merci, il consumismo, diventa importante come e più della produzione, i grandi centri commerciali prendono il posto delle fabbriche» (p. 32). Cremaschi fa scoperte che, evidentemente, non capisce. Infatti, «il consumismo» è una creatura generata in primo luogo dal Capitale industriale, il quale non dorme la notte (oggi la tecnologia lo permette: basta dislocare il processo produttivo allargato ai quattro angoli del mondo) per escogitare sistemi (dal marketing, la vera scienza sociale dei nostri tempi, alla ricerca tecnologica, al finanziamento del consumo produttivo e privato, ecc.) in grado di forzare sempre di nuovo la capacità di acquisto della gente, ridotta al rango di merce organica che produce e consuma merci. Il corpo degli individui ad alta composizione organica del XXI secolo è diventato un campo di battaglia commerciale. Ma già nella prima metà degli anni Quaranta Adorno e Horkheimer, per fare un solo esempio, parlavano di «Industria Culturale». Per Adorno era già allora scontato che «tutti i prodotti culturali, anche quelli non conformistici, siano incorporati nel meccanismo distributivo del grande capitale, che un prodotto che non rechi l’imprimatur della fabbricazione di massa, non possa raggiungere, in pratica, un solo lettore, spettatore o ascoltatore» (T. W. Adorno, Minima Moralia, p. 249, Einaudi, 1994). Nell’anno di grazia 2010 Cremaschi scopre «l’industria culturale»: che lungimiranza!

Fino a qual segno Cremaschi non capisca il vero significato delle sue scoperte, lo dimostra il suo rapporto con il lavoro salariato: Merce o non Merce, questo è il problema! Diamo la parola al vecchio ubriacone di Treviri: «L’operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale appartiene il tempo dell’operaio … Dal punto di vista del capitalista il processo lavorativo è semplice consumo della merce forza-lavoro, da lui acquistata» (K. Marx, Il Capitale, I, p.219, Editori Riuniti, 1980). Il capitale ha come propria conditio sine qua non la natura mercificata (alienata, reificata e feticizzata) della capacità lavorativa. «Così Marx nell’Ottocento. La costituzione e il diritto del lavoro del dopoguerra antifascista si sono invece ripromessi, in certo senso, di smentire la teoria marxiana» (p. 38). Secondo Cremaschi questa «smentita» si vede soprattutto nell’Articolo 1 della Sacra Costituzione, là dove si afferma solennemente che la Repubblica democratica si fonda sul lavoro. Non c’è dubbio: sul lavoro salariato! Infatti, come sapeva lo «smentito» di Londra, la prassi del Capitale presuppone e crea sempre di nuovo il lavoro salariato; di più: è nello stesso concetto di Capitale che è radicato, sul piano storico e su quello sociale, il concetto di lavoro salariato.

Scrive Piero Ostellino: «Il lavoro è un diritto, ma ciò non toglie che esso rimanga, in economia di mercato, merce soggetta alla legge di domanda e offerta, generatrice (anche) di disoccupazione a seconda dell’andamento del ciclo economico» (Piero Ostellino, Il Corriere della Sera, 8 novembre 2011). Come sempre è dal «liberista selvaggio» che possiamo apprendere qualche brandello di verità intorno a questo mondo sussunto sotto le esigenze totalitarie dell’«economia di mercato». Analogo concetto ha espresso oggi su La Stampa Luca Ricolfi, il quale ha scritto che il nodo fondamentale da sciogliere nel nostro Paese è quello del costo dei fattori produttivi: «Produrre costa troppo», e ciò allontana i capitali nazionali e internazionali dalle attività produttive, le sole che possono innescare il superamento dall’attuale circolo vizioso che nel debito pubblico ha il suo fulcro. Per abbassare i costi di produzione, osserva giustamente Ricolfi, bisogna ristrutturare l’apparato industriale, l’organizzazione del lavoro, il sistema infrastrutturale e il Welfare, in modo da eliminare le magagne strutturali che impediscono al capitalismo italiano di sfruttare al meglio la capacità lavorativa.

Invece per l’ideologo Cremaschi, il «ritorno» del primato del profitto nei fatti economici rappresenta un retrocedere al capitalismo ottocentesco, se non addirittura al medioevo. Egli non riesce a concepire la normalità del comando capitalistico se non nei termini di un «fascismo aziendale». E sia! Ma allora «fascista» è l’intera società capitalistica, anche quella costituzionale e democratica che tanto piace al presidente della FIOM. A me sembra più corretto parlare di dominio totalitario dell’economia su tutto lo spazio esistenziale degli individui, ma non mi formalizzo: vada per fascismo sociale (democrazia parlamentare inclusa)! Marchionne si limita a fare il funzionario del Capitale nel nuovo scenario disegnato dall’ultima ondata di «globalizzazione capitalistica» (con l’ingresso nell’agone della competizione totale di Cina, India, Brasile, ecc.) e dalla crisi economica, la quale tra l’altro ha messo sotto stress la capacità dello Stato italiano di sostenere alla vecchia maniera l’economia del Paese. In un certo senso, con Marchionne finisce la Fiat corporativa sopravvissuta al fascismo, e quindi necessariamente il Sindacato corporativo e parastatale (CGIL in testa), che nel connubio tra grandi imprese e partecipazione statale ha trovato il suo più robusto sostegno, si sente mancare il terreno sotto i piedi.

«Il dovere della fedeltà, costi quel che costi, al capo dell’azienda e ai suoi principi è diventato la costituzione formale che ha sostituito in tanti luoghi di lavoro i principi della costituzione repubblicana» (G. Cremaschi, Ecco perché quello di Fiat è fascismo aziendale, Liberazione, 28 novembre 2011). Nient’affatto: trattasi di normale amministrazione capitalistica, tutelata dalla Costituzione Repubblicana e dal Diritto di questo Paese, nel quale, se non sbaglio, domina ancora quella che con pudore liberale Ostellino chiama «l’economia di mercato». In un suo libro di successo Fausto Bertinotti, teorico del «divorzio tra democrazia e mercato», si domanda: «Chi comanda qui?» Il Capitale, come sempre, come nei mitici – o famigerati – anni Sessanta e Settanta. L’ideologia «comunista» (in realtà statalista) di Bertinotti e Cremaschi è vecchia, anzi decrepita e maleodorante, perché esprime una congiuntura del capitalismo internazionale superata da almeno un trentennio. I tempi della politica e dell’ideologia in Italia sono di una lunghezza  esasperante, e anche questo si spiega con la complessa struttura sociale del Paese, diviso in almeno tre «aree capitalistiche»: Nord, Centro e Sud.

Anni ruggenti. Come gli attuali!

Come per ogni luogocomunista progressista che si rispetti, Cremaschi individua nel craxismo degli anni Ottanta «la svolta liberista internazionale che si impossessò della politica italiana» (p. 97). In realtà il «craxismo» rappresentò il tentativo, appoggiato soprattutto dalla parte più dinamica e competitiva del capitalismo italiano (quella che poi sosterrà la Lega e Forza Italia), di mettere «l’Azienda Italia» nelle condizioni di competere sul mercato internazionale venuto fuori dalla «Rivoluzione Liberista» promossa dal «binomio del Demonio» Reagan-Thatcher. Questo tandem «Controrivoluzionario» a sua volta fu necessitato soprattutto dall’irresistibile ascesa del capitalismo giapponese, che costrinse gli Stati Uniti e l’Inghilterra a ristrutturare il loro apparato industriale e finanziario, nonché il loro Welfare, ancora influenzato da sclerotiche prassi keynesiane. La pace e il consenso sociali hanno un costo che alla lunga diventa insopportabile: è la legge dell’accumulazione capitalistica, bellezza, e tu non puoi farci niente! Salvo «lotta di classe», beninteso! Solo in parte il «craxismo» riuscì a spezzare i «lacci e lacciuoli» dell’anchilosata struttura capitalistica italiana, e alla fine rimase schiacciato nel gioco «partitocratico» amministrato soprattutto dalla DC e dal PCI. Tutto questo non è affatto acqua passata, ma ci parla dell’attuale vicenda politico-sociale.

INDIGNARSI DI MENO, CAPIRE DI PIU’!

«Il capitalismo occidentale sta divorziando dalla democrazia, se si vuole salvare la seconda bisogna mettere in discussione il primo» (G. Cremaschi, Se il capitalismo divorzia dalla democrazia, Liberazione, 21 novembre 2011). Abbiamo capito: Cremaschi vuole meno capitalismo privato e più capitalismo di Stato, il quale rappresenta il solo orizzonte sociale e politico che i «comunisti italiani» (ossia i nipotini dello stalinismo italiano, da Gramsci in poi) riescono a concepire. Nel momento in cui il «Governo di responsabilità nazionale» ci chiede di versare lacrime e sangue sull’altare del supremo «Bene Comune» chiamato «Paese», faremmo cosa massimamente utile a noi stessi se abbandonassimo precipitosamente ogni illusione costituzionalista e democraticista, e organizzassimo i nostri interessi di salariati e di «classe media» sempre più declassata, almeno con la stessa «coscienza di classe» e con la stessa aggressività dimostrata dal «nuovo padronato» guidato da Marchionne e da Berlusconi. Pardon, da Monti. Meno indignazione e più «coscienza di classe», per favore!

LA FILOSOFIA DI BIFO E QUELLA DEL CAPITALE

carnaval è melhor

Due cose condivido dell’articolo di Franco Berardi, in arte Bifo, comparso sul Blog di MicroMega il 21 Novembre (Nessuna sconfitta per Berlusconi): l’idea che la linea politica di Berlusconi non è stata affatto sconfitta, come i gonzi dell’Antiberlusconismo più ottuso sono indotti a credere dai loro capi («Il nuovo Presidente del Consiglio, ancor prima di avere ottenuto la fiducia, dichiara le sue intenzioni in un articolo scritto per il Corriere della sera. In questo articolo parla di “due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne”. Le due azioni socialmente più violente e devastanti dell’era Berlusconi sono così assunte come linea direttrice del nuovo governo»); e che il Carnevale è da preferirsi, e di gran lunga, alla Quaresima – «Un Ministro del nuovo governo, il cattolico Mario Riccardi, ha sintetizzato il nuovo stile dicendo che “dopo il Carnevale viene finalmente la Quaresima”. Contento lui». Naturalmente per Carnevale non alludo allo stile «lascivo» e casinaro del presunto Sultano di Arcore, ma alla nota festa popolare che sembra avere nel Brasile il suo «luogo naturale».

Occupy Wall Street: il Movimento che piace alla gente che piace

Per il resto Bifo argomenta tesi che più volte ho preso di mira su questo Blog; tesi peraltro largamente condivise a «Sinistra» come a «Destra», fino a costituire un vero e proprio mantra della crisi recitato soprattutto nel movimento che piace alla gente che piace: quello che ha in Zuccotti Park la sua più celebre location. In primis, la tesi regina che individua praticamente nel solo Sistema Finanziario la causa della «situazione catastrofica in cui si trova l’Unione europea». A mio avviso il circolo vizioso della crisi economica che ha investito i paesi di più vecchia tradizione capitalistica ha il suo centro motore nel processo di accumulazione «primario» (industriale): solo quando il suo ritmo ha rallentato, a causa di un sempre più declinante saggio del profitto, la stratosferica dimensione del castello speculativo ha iniziato a costituire un problema per l’economia internazionale nel suo complesso. Prima, invece, anche le più ardite e chimeriche attività finanziarie hanno concorso ad ampliare e a sostenere la cosiddetta «economia reale», soprattutto attraverso il finanziamento del consumo, industriale e privato.

Abbattere ogni limite che gli si para dinanzi è l’imperativo categorico a cui necessariamente deve rispondere il capitalismo (sans phrase, senza altre aggettivazioni che tendono a depistare il pensiero che va alla ricerca delle cause radicali dell’attuale crisi). Pensare al sostegno dell’economia «reale» attraverso il finanziamento del consumo nei termini di un doping economico, significa non aver compreso la dialettica interna all’accumulazione capitalistica, rispetto alla quale tutti i fattori della produzione, del finanziamento e del consumo devono essere costantemente in eccesso, affinché il cavallo possa correre indisturbato nella verde prateria del Profitto.

IL CAPITALE CHE RIDE

L’eccesso è la condizione normale dell’economia capitalistica, a differenza dei modi di produzione che l’hanno preceduta, i quali soffrivano di una costante penuria di mezzi materiali (uomini, materie prime, tecnologie) e finanziari. Gli individui stanno meglio adesso, nel mondo dell’eccesso, della perenne esuberanza dei «fattori produttivi» e della bulimia consumistica, o quando «si stava peggio», nel mondo della penuria? La mia risposta è che nelle società classiste il peggio è sempre, e non cessa di peggiorare, se così posso esprimermi. E siccome anche il Male non è privo di un’intima dialettica, oggi si dà la possibilità materiale di superare in avanti – non indietro, in direzione di chimeriche «decrescite» – la vigente società capitalistica mondiale.

È la stessa natura selvaggia e smisurata dell’accumulazione capitalistica che, a un certo punto, ne genera prima il rallentamento, poi lo stallo, e infine, se le ragioni della sua sofferenza sono «strutturali» (ossia interne all’onesto processo di valorizzazione del capitale mediante lo sfruttamento della capacità lavorativa), l’avvitamento nella spirale della crisi. A questo punto tanto il Sistema Finanziario, quanto il Welfare mostrano la loro necessaria dipendenza dall’accumulazione capitalistica. Di qui ciò che Bifo chiama, stigmatizzandola in quanto catastrofica follia, «la filosofia della classe finanziaria europea» (della quale Monti non sarebbe che un servo sciocco), ossia il credere «che il nemico principale è l’inflazione, che la riduzione dei salari aiuta la crescita, e che la crescita infinita è l’alfa e l’omega».

Tu chiamale se vuoi, illusioni...

Ma le cose, dal punto di vista dello status quo sociale nazionale e internazionale, cioè a dire dal punto di vista della «formica» Germania che non vuole finanziare il debito sovrano delle «cicale» tipo Grecia e Italia (non a caso la Lega Nord è nata nell’area più capitalisticamente avanzata e dinamica del Bel Paese); e dal punto di vista del capitale industriale assetato di plusvalore e azzoppato dalla spesa pubblica improduttiva, danno ragione a quella «filosofia». «La loro filosofia di tagli, privatizzazioni e spostamento delle risorse pubbliche verso il sistema bancario» è la «filosofia» del Capitale in questa critica fase storica.

Brueghel il Vecchio, La battaglia tra il Carnevale e la Quaresima

A ragione (la ragione del Sistema Paese, ossia del capitalismo italiano) Mario Monti ha lodato – salvo una sempre possibile ritirata diplomatica a uso e consumo della maggioranza bulgara che lo sostiene – Mariastella Gelmini e Sergio Marchionne: «Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili». Ma ancora non basta: bisogna osare di più nella necessaria opera di «macelleria sociale», per il «Bene Comune», si capisce.