LO SPETTRO DI MALTHUS. E QUELLO DI MARX

Il libro di Malthus On Population era un pamphlet
contro la Rivoluzione francese e le contemporanee
idee di riforma in Inghilterra. Era un’apologia della
miseria delle classi lavoratrici [1].

La teoria malthusiana della popolazione è il sistema
più feroce e barbaro che sia mai esistito, un sistema
della disperazione, che distrusse tutte le belle frasi
sull’amore del prossimo e sulla cittadinanza mondiale [2].

Noi, semplicemente, annulliamo la contraddizione
superandola. Si dilegua così l’opposizione fra la
sovrappopolazione qui e l’eccesso di ricchezza lì,
si dilegua il fatto prodigioso, più prodigioso di tutti
i prodigi di tutte le religioni messe insieme, che una
 nazione debba morire di fame a causa della ricchezza
e della sovrabbondanza; si dilegua la folle tesi che la
terra non abbia la capacità di nutrire gli uomini [3].

 

Lo spettro di Malthus è il titolo della personale di Marzia Migliora ospitata dal Museo MA*GA di Gallarate (Varese). «Lo Spettro di Malthus è l’ideale conclusione del ciclo di ricerca degli ultimi anni, che Marzia Migliora ha dedicato all’analisi sul rapporto tra produzione di cibo, merce e plusvalore del modello capitalista e allo sfruttamento delle risorse umane, animali e minerarie. Temi evocati fin dal titolo del progetto proposto in cui l’artista richiama la teoria enunciata da Thomas Malthus, economista e demografo inglese (1766-1834), che teorizzava, già a fine diciottesimo secolo, il problema dell’insostenibilità tra crescita demografica e produzione alimentare, indicando come conseguenze di monoculture e allevamenti industriali, possibili carestie e pandemie a livello globale. Lo spettro di Malthus chiama direttamente in causa la figura dello studioso inglese che nel 1798 pubblica Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società, precursore rispetto agli squilibri tra crescita demografica e produzione alimentare. “Le motivazioni – afferma il curatore della mostra Matteo Lucchetti – che hanno portato Marzia Migliora ad esplorare le contraddizioni insite nei modelli produttivi agricoli industrializzati, o le pratiche estrattive intensive del capitalismo neoliberale, sono ancorate alla convinzione che i paradigmi sui quali si basa l’esistenza del mondo industrializzato che conosciamo, siano alla radice delle emergenze, presenti e future, che il genere umano si sta progressivamente trovando ad affrontare”. “Con l’opera Lo Spettro di Malthus – continua Alessandro Castiglioni, conservatore del MA*GA – Marzia Migliora prosegue una ricerca pluriennale dedicata a lavoro, risorse naturali e ambiente, interrogando ciascuno di noi sulle responsabilità, individuali e collettive, relative all’uso e sfruttamento di risorse e forza lavoro”» (Arte.it). Per l’autrice qui menzionata «Lo spettro di Malthus apre una riflessione sul valore del denaro, in relazione al modello di vita proposto nella società dei consumi, alimentato dal costante desiderio di ricchezza come obiettivo per una vita felice» ( Versus, dicembre 2019).

Naturalmente non intendo dire nulla sul merito squisitamente artistico della mostra, anche perché non ne ho le “competenze specifiche” né ritengo che il mio giudizio estetico sulle opere di Marzia Migliora possa essere di un qualche interesse per chi legge queste righe. Qui intendo piuttosto svolgere una stringata riflessione sul merito concettuale che informa la mostra di cui si parla, la quale in realtà rappresenta per me un mero pretesto per dire la mia su una questione estremamente generale e, come si dice, di scottante attualità. Lungi da me insomma l’intenzione di polemizzare con l’autrice delle opere esposte nel Museo di Gallarate, e credo anzi di soddisfare le sue aspettative, visto che l’artista auspica l’apertura di una riflessione su temi e problemi che agitano la nostra scombussolata epoca.

Leggendo il titolo e la presentazione della personale di Marzia Migliora mi sono chiesto cosa spinge persone sensibili ai destini dell’uomo e del pianeta a cercare in Malthus conforto e ispirazione, e so che se dovessi trovare la risposta negli scritti del celebre curato inglese di certo fallirei l’impresa, perché tutto si può dire delle opere malthusiane, tranne che esse siano ispirate da idee di empatia e di solidarietà nei confronti degli uomini, soprattutto di quelli che vivono, ma forse sarebbe meglio scrivere sopravvivono, nei piani bassi dell’edificio sociale capitalistico. Come sia stato possibile trasformare Malthus in un campione dello spirito umanista e ambientalista per me resta un mistero. Probabilmente sulla buona opinione di cui Malthus gode soprattutto presso l’opinione progressista occidentale pesa anche il “bizzarro” giudizio che una volta John Maynard Keynes formulò sul curato inglese: «Se, al posto di Ricardo, fosse stato Malthus il padre che ha influenzato l’economia del XIX secolo! Il mondo ne sarebbe stato più ricco e accorto. [Malthus] ha radici profonde nella tradizione inglese della scienza umana […], tradizione segnata dall’amore della verità e una assai nobile lungimiranza, da un prosaico buon senso, libero da ogni sentimentalismo e ogni metafisica, da un immenso disinteresse e spirito civico» [4]. Già mi pare di sentire crasse risate provenire dall’oltretomba: si tratta dello spettro di Marx?

Certo, bisogna poi considerare la famosa – e per alcuni famigerata – teoria malthusiana della popolazione, la quale a dire il vero appariva vecchia e contraddetta dai fatti già ai tempi di Marx e di Engels, che difatti ebbero facile gioco nel randellare criticamente gli epigoni del maestro inglese, il quale a differenza degli scolari non mancava di una certa intuizione e di un certo acume, come peraltro non mancarono di riconoscere gli stessi autori del Manifesto del Partito Comunista [5]. Scriveva nel 1913 il demografo Leroy-Beaulieu: «Il pericolo al quale è esposta la civiltà moderna si trova in direzione del tutto opposta a quella in cui lo cercava Malthus. […] Le razze europee manterranno ancora a lungo una eccedenza degna di nota delle nascite rispetto ai decessi? Un secolo fa, al tempo di Malthus, tale questione non si sarebbe posta» [6]. Come altri demografi, economisti e politici del suo tempo, Leroy-Beaulieu denunciava i «pericoli economici e morali in presenza di una popolazione stazionaria e di una debole natalità», e concludeva: «Il mondo ha notevole bisogno di popolazione». Paesi come l’Italia e il Giappone oggi si trovano esattamente in questa condizione, e ormai da diversi anni si parla in Occidente di crisi demografica. Negli anni Venti del secolo scorso diversi scienziati sociali calcolarono che, al livello della tecnica e della scienza di quel periodo, la Terra avrebbe potuto occupare un numero massimo di abitanti che andava dai 6 agli 8 miliardi; allora la popolazione mondiale non superava 1,9 miliardi di anime. Oggi la popolazione mondiale si aggira intorno ai 7,4 miliardi, ed essa può disporre di un apparato tecnico-scientifico incomparabilmente più potente rispetto a quello che la società capitalistica poteva vantare un secolo fa [7].

«Secondo la Fao nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di persone. La popolazione del pianeta è di 7 miliardi di individui e 842 milioni soffrono la fame» [8]. La progressione geometrica malthusiana fa acqua da tutte le parti, oggi più che al tempo in cui il noto ubriacone tedesco ne metteva in ridicolo, penetrandolo criticamente, il reazionario fondamento concettuale. Scrive il “futurologo” Gerd Leonhard: «La tecnologia rende le cose abbondanti perché con la buona tecnologia il prezzo cala drasticamente e la tecnologia esponenziale renderà le cose esponenzialmente abbondanti. I mezzi di comunicazione, l’informazione, i viaggi, i servizi finanziari, i servizi medici, il cibo, l’acqua, l’energia. In meno di 20 anni possiamo arrivare al punto in cui avremo energia, cibo e acqua abbondanti, mentre la maggior parte del lavoro sarà svolta da macchine o software; il che significa che “lavoreremo” solamente per poche ore al giorno, godendoci lo stesso tenore di vita e di reddito. Ciò significherà che il consumo e la crescita non potranno essere più considerati i principi che definiscono l’economia – si svilupperà una sorta di post-capitalismo. Il PIL come parametro sarà completamente sparito da allora – e forse troveremo un modo per perseguire più FIL (Felicità Interna Lorda)» [9]. Il concetto di FIL, peraltro oggi di gran moda presso i progressisti, ai miei occhi appare eccitante quanto lo è il pensiero di un sasso che mi cade dritto sulla testa; tuttavia la riflessione di Leonhard coglie una tendenza storica che apre all’umanità la possibilità di emanciparsi dall’indigenza, dal duro lavoro, dalla divisione classista e sociale del lavoro [10], e di vivere un’esistenza piena, felice e libera, realizzando finalmente quel concetto di «uomo in quanto uomo» che si trova nella produzione intellettuale e artistica dei grandi umanisti che si sono succeduti in oltre duemila anni di storia. Solo il Moloch chiamato Capitale rende impossibile la realizzazione della tendenza storica che sorride all’umanità, lasciandola così nella triste, precaria e disumana condizione che sappiamo.

«Sottrarre terra destinabile alla produzione alimentare, per ottenere invece bioetanolo e biodisel è eticamente irrazionale, soprattutto se vengono utilizzati terreni dell’Africa, un continente che ha bisogno di sfamare milioni di suoi abitanti. La produzione di biocarburanti è un metodo basato ancora su logiche colonialiste ed eurocentriche, che considerano l’Africa come uno spazio di conquista e di sfruttamento. A pagarne le conseguenze sono sempre i più poveri» [11]. Com’è noto, in questa competizione è il celeste imperialismo cinese che sta avendo la meglio. Ora, ancorché umanamente irrazionale, sul fondamento della società capitalistica la trasformazione del cibo in biocarburante mentre in molte parti del pianeta la gente continua a morire di fame è un fatto logico, del tutto razionale, che si spiega benissimo con la logica e con la razionalità del noto Moloch. Piuttosto i riflettori della critica andrebbero puntati ancora una volta sui rapporti sociali che rendono non solo possibile ma assolutamente necessario (per il Capitale) la trasformazione di tutto e di tutti in altrettante occasioni di profitto. Volere imporre al Capitale una razionalità, una logica e un’etica che non possono appartenergli, mi sembra uno sforzo di gran lunga più “utopistico” di quello che propone l’autentico anticapitalista, il quale almeno ha capito quale radice andrebbe estirpata per orientare la comunità nella giusta (umana) direzione.

Scriveva Henrik Grossmann alla vigilia della grande crisi del 1929: «È caratteristico dell’economia politica borghese odierna non il timore della sovrappopolazione, bensì al contrario quello della sottopopolazione […] Il mondo è già ripartito, la riserva umana disponibile è limitata. Qui il capitalismo trova per il suo sviluppo un limite che egli deve tentare in ogni modo di spezzare. Risiede qui dunque un motivo sempre presente di conflitti e di guerre per la fonte insufficiente di plusvalore» [12]. Bisogna infatti ricordare che nel capitalismo, ancor più che nei precedenti modi di produzione, il concetto di popolazione è strettamente correlato a quello di popolazione lavoratrice, la quale costituisce appunto la base del vitale (per il Capitale, beninteso) plusvalore. Scriveva Marx: «La massa del plusvalore può essere aumentata soltanto aumentando il numero degli operai, cioè aumentando la popolazione operaia.  L’aumento della popolazione costituisce, in questo caso, il limite matematico della produzione di plusvalore ad opera del capitale complessivo sociale» [13]. Come si vede Marx parlava di «limite matematico» non in astratto, ma riferendolo a un’economia basata sull’estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, mettendolo in intima e inscindibile relazione con una peculiare società: quella capitalistica. Il capitale, osservava sempre Marx, cerca di superare sempre di nuovo quel limite (sociale, non fisico), o attraverso il prolungamento fisico della giornata lavorativa («produzione di plusvalore assoluto»), oppure accrescendo la produttività dei lavoratori a parità di giornata lavorativa o addirittura anche in presenza di una sua diminuzione («produzione di plusvalore relativo»), cosa che esso realizza grazie all’impiego di mezzi di produzione sempre più sofisticati e a un’organizzazione del lavoro sempre più razionale  – dal punto di vista degli interessi del Capitale, non certo dell’umanità genericamente considerata. Infatti, «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» [14]. Su questi importanti aspetti della “problematica” rimando al PDF Sul potere sociale della scienza e della tecnica.

La crisi mondiale degli anni Trenta cambierà drammaticamente i termini del problema demografico nei Paesi capitalisticamente più avanzati del pianeta (soprattutto in relazione alla formazione di un gigantesco «esercito industriale di riserva»), che muterà ancora una volta nel Secondo dopoguerra, quando la fame di popolazione operaia tornerà a farsi risentire soprattutto in quanto problema attinente al processo di accumulazione capitalistica. Questo semplicemente per dire quanto sia sbagliato porre il problema demografico in astratto, senza cioè considerarlo alla luce delle tendenze economico-sociali di breve, di medio e di lungo termine registrabili nei diversi Paesi del mondo e nei suoi differenti Continenti.

Negli anni Settanta del secolo scorso, quando il boom economico era ormai diventato per i Paesi occidentali solo un bellissimo ricordo e la crisi petrolifera veniva a impattare su un capitalismo già in forte debito d’ossigeno (cioè di profitto), la figura di Malthus subì un processo di trasformazione (stavo per scrivere di beatificazione!) da parte di un gruppo di scienziati sociali (economisti, ecologisti, sociologi, demografi, statistici, ecc.) intenzionati a fare dell’autore del famoso Saggio sul principio di popolazione il teorico-profeta dei limiti dello sviluppo. L’allusione al celebre rapporto del 1972 (The Limits to Growth) fatto dal Massachusetts Institute of Technology per conto del Club di Roma è del tutto ricercato. «Lo studio del MIT, finanziato dalla Fondazione Volkswagen, ha come scopo di definire chiaramente i limiti fisici e le costrizioni relativi alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta. […] Sebbene si ponga ancora l’accento sui vantaggi dell’aumento di produzione e consumo, nei paesi più prosperi sta nascendo la sensazione che la vita stia perdendo in qualità, e vengono messe in discussione le basi di tutto il sistema» [15]. Ribadisco il concetto: a mio avviso parlare in astratto di «limiti fisici», di sovrappopolazione, di «attività umane» e, soprattutto di «sistema» non ha alcun senso storico-sociale, mentre ne ha uno politico-ideologico (il quale prescinde dalle intenzioni degli stessi autori  e sponsorizzatori del famoso Rapporto) ben preciso: celare dietro una fraseologia neomalthusiana le reali cause dello sfruttamento degli uomini e del pianeta, nonché dell’inquinamento e della distruzione degli ecosistemi. Ebbene queste cause sono a mio avviso riconducibili immediatamente, senza alcuna mediazione, al dominio capitalistico sul mondo, ai rapporti sociali di produzione/distribuzione che oggi dominano tutte le società di questo pianeta. Io infatti preferisco parlare di Società-Mondo, con le sue intrinseche contraddizioni tra aree più sviluppate e meno sviluppate, più dinamiche e meno dinamiche, più popolate e meno popolate, e così via. Il concetto di globalizzazione capitalistica è ancora troppo superficiale per esprimere adeguatamente l’intera essenza della realtà che ci sta dinanzi e che mi sforzo, non so con quali risultati, di esprimere.

Insomma, quando osserviamo e valutiamo le conseguenze dello sviluppo capitalistico (e non genericamente industriale o moderno) è appunto di sistema capitalistico che dobbiamo parlare, il quale dominava anche nelle società cosiddette di socialismo reale, che difatti erano società realmente capitalistiche: sto parlando in primo luogo dell’ex Unione Sovietica e della Cina maoista, la quale, pur attraverso contraddizioni e catastrofi economico-sociali di vario tipo (registrate nella mostruosa contabilità in termini di sofferenze e di morti), ha posto le basi per il decollo del gigante asiatico all’inizio degli anni Ottanta, con i risultati eccezionali che conosciamo. Se oggi per le persone è molto più facile immaginare e credere possibile la fine del mondo, magari a causa di una micidiale pandemia, che la fine del capitalismo, ebbene ciò si deve anche, se non soprattutto, alla più grande menzogna (altro che fake news! ) mai circolata in questo pianeta: l’esistenza di un “socialismo reale”. La critica dell’industrialismo e della modernità genericamente intesi, tipica del pensiero ecologista occidentale, dovrebbe misurarsi anche con la menzogna qui denunciata, se non vuole rimanere intrappolata nel riformismo di stampo capitalista che porta tanta acqua al mulino di chi ha interesse a “svecchiare” l’economia fondata sulla ricerca del profitto.

Il club di Roma si sforzò di attualizzare le teorie demografiche malthusiane elaborate in una fase dello sviluppo capitalistico che, come ho già detto, era molto vecchia già ai tempi di Marx e di Engels. Malthus ai suoi tempi fu una cosa seria, comunque lo si voglia giudicare sul piano ideologico e scientifico; dei suoi epigoni (soprattutto quelli tardi) non si può dire la stessa cosa. Come spesso accade, alla tragedia non segue qualcosa che possa reggerne il confronto, nemmeno alla lontana.

«I limiti dello sviluppo era un rapporto contro l’inquinamento ambientale americano dell’epoca, che vedeva nella cessazione della crescita globale e dello sviluppo economico l’unica soluzione possibile per evitare la catastrofe. Queste conclusioni vennero rifiutate dal Terzo Mondo: meglio risolvere il problema dell’inquinamento e dell’iperconsumo aggredendo il sistema produttivo dei paesi sviluppati – tramite vincoli o stimoli economici – che bloccare la crescita globale condannando i paesi poveri al sottosviluppo eterno» [16]. Mutatis mutandis, è la stessa posizione che Paesi come la Cina e l’India, e l’intero Continente africano, oggi difendono contro chi sostiene che il pianeta non può tollerare uno stile di vita di tipo occidentale nei Paesi a più forte “impatto demografico”: «Un solo pianeta non basterebbe!» Cinesi, indiani e africani rispondono che adesso è arrivato il loro turno, che gli occidentali predicano bene dopo aver razzolato malissimo per molto, troppo tempo, e che dietro il loro amore per il pianeta probabilmente si nasconde una nuova forma di razzismo. Rifiutare lo sviluppo economico basato sull’uso del carbone, del petrolio e dell’energia atomica sarebbe oggi un suicidio, e comunque la “transizione ecologica” deve tenere conto delle reali condizioni sociali dei Paesi a più alta densità demografica. Questo ribattono i Paesi un tempo definiti in via di sviluppo ai Paesi “ecologicamente più sensibili” – che pregustano le enormi possibilità di profitto offerte dalla cosiddetta “transizione ecologica”. In effetti, è difficile far comprendere alle popolazioni che per la prima volta nella loro storia possono avvicinarsi al tanto agognato “stile di vita occidentale” che «un aumento del consumo non rappresenta un aumento del benessere», mentre di certo rappresenta un’aggressione all’ecosistema. Dove sta la ragione? Ovvero, e più fondatamente, di che ragione si tratta?

Chiunque abbia letto il saggio di Malthus del 1798 sa bene come esso sia informato dall’inizio alla fine da un pensiero che era fortemente reazionario già ai suoi tempi. Come scrive Guido Maggioni nella sua introduzione del saggio malthusiano pubblicato dall’Einaudi, l’obiettivo dichiarato del Saggio non è il «principio di popolazione», ma la «confutazione delle ideologie del progresso, con particolare riguardo alle teorie di Condorcet e, soprattutto, di Godwin. […] L’obiettivo di Malthus è quello di fornire una base scientifica alla difesa dell’ordine costituito: la divisione in classi, la proprietà privata, il principio dell’interesse personale. La tesi non era nuova, ma ripresa da Malthus ebbe un immenso successo nella prima metà dell’Ottocento, alimentando un ampio dibattito. Il Saggio va dunque considerato come un pamphlet contro la rivoluzione e contro l’ideologia del progresso, come un episodio della polemica conservatrice che nella cultura inglese conosceva già il grande precedente delle Reflections on the Revolution in France di Edmund Burke» [17].

Pochi passi del famoso (o famigerato?) Saggio sono sufficienti a dare l’idea di che cosa stiamo parlando. Scriveva Malthus: «Attraverso i regni animale e vegetale, la natura ha sparso dappertutto i semi della vita con mano quanto mai prodiga e generosa. […] Ma la necessità, questa imperiosa legge di natura che tutto pervade, li limita entro confini prescritti. La razza delle piante e la razza degli animali si contraggono sotto questa grande legge restrittiva. E la razza umana non può sfuggirle, per quanti sforzi faccia. […] Questa naturale diseguaglianza dei due poteri, di popolazione e di produzione da parte della terra, e quella grande legge della nostra natura che costantemente deve mantenere in equilibrio i loro effetti, costituiscono la grande difficoltà, che a me pare insormontabile, sulla via che conduce alla perfettibilità della società.  […] Non vedo alcuna via per la quale l’uomo possa sfuggire al peso di questa legge che pervade tutta la natura animata. Nessuna sognata forma di eguaglianza, nessuna legge agraria spinta al massimo grado, potrebbe rimuoverne la pressione anche per un solo secolo. Ed essa appare dunque decisiva per negare la possibile esistenza di una società nella quale tutti i suoi membri possano vivere con agio, felicità e relativo ozio e riposo, e non sentire l’ansia di procurare mezzi di sussistenza per sé e per le proprie famiglie. Di conseguenza, se le premesse sono giuste, l’argomentazione è decisiva per negare la perfettibilità della massa dell’umanità» [18]. In saggio scritto nel 1830, Malthus ribadiva il concetto: «Per quanto l’uomo si innalzi sopra tutti gli altri animali per le sue facoltà intellettive, non bisogna pensare che le leggi fisiche cui egli è soggetto debbano essere radicalmente diverse da quelle che si osservano prevalere nelle altre parti della natura animata» [19]. Qui abbiamo un esempio di volgarissimo materialismo borghese, che peraltro piacque molto a Darwin, il quale, com’è noto, ne trasse l’ispirazione per la sua «lotta per l’esistenza» [20].

Come si vede Malthus non nega la cattiva utopia della società perfetta; non polemizza con le ricette buone «per l’osteria dell’avvenire» (Marx): egli nega la stessa possibilità di un reale miglioramento nelle condizioni della comunità umana, nega non l’ingenua idea di perfezione ma la perfettibilità «della massa dell’umanità», massa destinata necessariamente a subire le conseguenze della Legge della Necessità. Per Malthus solo pochi eletti possono aspirare a un’esistenza materialmente e intellettualmente ricca e felice. Ma chi è stato il soggetto che ha istituito la maligna legge di natura che condanna gran parte degli uomini a una vita di duro lavoro e di miseria? Il «Creatore Supremo» in persona! Possibile? Secondo Malthus pare di sì. E perché lo avrebbe fatto? «Per destare l’uomo all’azione e rendere la sua mente atta a ragionare. Per fornire all’uomo tali incessanti eccitamenti all’azione e per spingerlo a secondare i benigni disegni della Provvidenza con la piena coltivazione della terra, è stato stabilito che la popolazione debba aumentare assai più rapidamente degli alimenti. […] Ritornando al principio di popolazione e considerando l’uomo quale realmente è, e cioè un essere inerte, torpido e alieno dalla fatica se non quando vi è costretto dalla necessità (ed è certo il massimo della follia considerare l’uomo come se fosse quell’essere ideale che immaginiamo nelle nostre ingenue fantasie), potremo affermare con sicurezza che il mondo non si sarebbe popolato se il potere di popolazione non fosse superiore ai mezzi di sussistenza» [21].

Rimane sempre da spiegare perché mai il «Creatore Supremo» abbia optato, nella sua infinita potenza e bontà, per «un essere inerte, torpido e alieno dalla fatica se non quando vi è costretto dalla necessità», e non si sia invece deciso per un essere attivo, intellettualmente vivace e pronto ad assumersi tutte le responsabilità che conseguono dal desiderare una vita prospera e felice, né mi sembra particolarmente convincente quanto sostenne Malthus a proposito della condizione dell’uomo come un perenne stato di prova che arreca felicità a chi supera le difficoltà poste all’umanità dal «Creatore benevolente», cosicché «La legge della popolazione corrisponde perfettamente a tali esigenze» [22]. Ma qui conviene non addentrarsi in difficili “problematiche” teologiche. Probabilmente il “giovane Engels” colse nel segno quando scrisse: «La teoria malthusiana non è che l’espressione economica del dogma religioso della contraddizione tra spirito e natura e della conseguente corruzione di entrambe» [23]. Amen!

Estendere deterministicamente e meccanicamente ciò che accade nel “regno animale” al “mondo umano”, come fece Malthus, è del tutto errato già in linea di principio, perché tale operazione concettuale non tiene in alcun conto ciò che sostanzia la fondamentale differenza tra il primo e il secondo: il “regno animale” è assoggettato dal principio alla fine alle ferree e incoercibili leggi della natura; il “mondo umano”, che ovviamente comprende la natura come una sua parte costitutiva fondamentale, è in larghissima parte opera delle attività umane e risponde essenzialmente alle leggi della società, non alle leggi della natura, le quali in questo mondo architettato e costruito dall’uomo non sono ovviamente sospese o annullate, ma anch’esse socialmente mediate.

Ecco come nei Manoscritti del 1844 Marx traccia la linea di demarcazione tra l’uomo, in quanto prodotto storico-sociale, e l’animale, in quanto mero prodotto naturale: «La libera attività cosciente è il carattere specifico dell’uomo. […] L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una determinazione in cui immediatamente l’uomo si confonda. L’attività vitale cosciente distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente alla specie. O è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un oggetto per lui, proprio perché egli è un essere appartenente alla specie. […] La fabbricazione pratica d’un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come un essere cosciente appartenente alla specie» [24].  Nel concetto marxiano di ”specie” è dunque immanente l’unità “dialettica e organica” di storia e natura. Peculiare è dunque nell’uomo il bisogno di padroneggiare con la testa e con le mani ciò che gli sta dinanzi, lo sforzo cioè di non subire passivamente il mondo ma anzi di trasformarlo a proprio vantaggio. L’uomo incontra immediatamente il mondo non solo attraverso i sensi, ma anche attraverso la coscienza, qualunque grado di maturità e complessità essa abbia conseguito nelle diverse epoche storiche. Sotto questo aspetto è corretto dire che anche i sensi e l’istinto sono, nell’uomo, socialmente mediati. Il bisogno di padroneggiare il mondo a certe condizioni può diventare una volontà di sopraffazione e di sfruttamento. Le società classiste rappresentano l’esempio più vistoso e doloroso di un tale esito disumano.

Considerato che l’uomo non può essere nemmeno concepito fuori dalla dimensione sociale e dal suo vitale rapporto con la natura, «perché l’uomo è una parte della natura» (Marx), tutta la questione “antropologica” si risolve nella domanda che segue: i rapporti sociali che informano la vita della comunità sono tali da promuovere e favorire un’esistenza umana oppure no? Come già si è capito, io penso che la società capitalistica non solo non promuove né favorisce una tale esistenza, ma la nega sempre di nuovo, necessariamente.

«Se il lettore dovesse ricordarmi il Malthus, il cui saggio Essay on Population uscì nel 1798, io gli ricorderò che questo scritto non è che plagio superficiale da scolaretto, declamato in maniera pretesca, di scritti di De Poe, Sir James Steuart, Townsend, Franklin, Wallace ecc., e non contiene nemmeno una proposizione originale. Il grande scalpore destato da quest’opuscolo fu dovuto unicamente a interessi di partito. La rivoluzione francese aveva trovato nel regno britannico degli appassionati difensori; il “principio della popolazione”, elaborato lentamente nel secolo XVIII, annunciato poi a suon di tromba contro le dottrine del Condorcet e di altri, fu salutato entusiasticamente dall’oligarchia inglese come il grande sterminatore di tutte le voglie di progresso umano» [25]. «Chi potrebbe credere, a prima vista, che i Principles of Political Economy di Malthus non siano che la traduzione malthusiana dei Nouveaux Principes de l’économie politique di Sismondi? Eppure è così. L’opera di Sismondi apparve nel 1819. Un anno più tardi ne apparve, ad opera di Malthus, la caricatura inglese. Se Malthus combatteva in Ricardo la tendenza della produzione capitalistica, la quale è rivoluzionaria contro l’antica società, da Sismondi, con infallibile istinto pretesco, attinse soltanto ciò che era reazionario contro la produzione capitalistica, contro la moderna società borghese. […] Malthus non ha interesse a celare le contraddizioni della produzione borghese; al contrario, ha tutto l’interesse a metterle in evidenza, da un lato per dimostrare che la miseria delle classi lavoratrici è necessaria, dall’altro per dimostrare ai capitalisti che, affinché essi abbiano un’adeguata domanda, è indispensabile un clero ecclesiastico e statale ben ingrassato» [26]. Qui Marx fa riferimento alla teoria malthusiana del valore, la quale postulava l’assoluta necessità di una «terza classe di consumatori improduttivi» (a cominciare dai proprietari fondiari) dediti esclusivamente a realizzare il valore contenuto nelle merci, una consistente parte delle quali rimarrebbe invenduta, sempre secondo Malthus, alla luce della necessaria miseria dei lavoratori e della virtuosa frugalità dei capitalisti. «Ma questi rentiers fondiari non bastano a creare una “domanda sufficiente”. Bisogna ricorrere a mezzi artificiali. Questi consistono di forti imposte, in una massa di sinecure statali ed ecclesiastiche, in grandi eserciti, pensionati, decime per i preti, in un considerevole debito pubblico e, di tanto in tanto, in guerre dispendiose. Questi sono i “rimedi”» [27]. Una larga base di parassitismo sociale foraggiato dalle classi produttive della società borghese: questa era la reazionaria “utopia” malthusiana – la quale affascinò non poco Keynes, ossessionato dalle pericolose fluttuazioni della domanda in grado di pagare – la sola che può vantare giusti diritti nella società capitalistica. In quella base parassitaria Malthus includeva in primo luogo tutti i ceti sociali e intellettuali che avevano prosperato nella società che la rivoluzione capitalistica stava spazzando via proprio a partire dall’Inghilterra, avanguardia di quella rivoluzione.

Contro il reazionario Malthus il rivoluzionario Marx non mobilitò il pensiero progressista della borghesia illuminata del XVIII secolo e degli inizi del secolo successivo, bensì la concezione comunista che individuava nella stessa società capitalistica le condizioni oggettive dell’emancipazione dell’umanità attraverso l’emancipazione dei senza riserve, dei proletari, di chi per vivere è costretto a fare della propria esistenza (e non solo del proprio lavoro) una merce. La «ruota della storia» non andava fatta girare all’indietro, sempre ammesso che ciò fosse stato – e sia – possibile, ossia verso la precedente fase dello sviluppo capitalistico, come teorizzava il «socialismo piccolo-borghese», o addirittura in direzione delle epoche precapitalistiche, ma in avanti, verso un futuro di autentica libertà e di generale prosperità, una prospettiva che la rivoluzione capitalistica iniziata in Europa nel XVI secolo aveva finalmente reso oggettivamente possibile: l’utopia della Comunità Umana era passata dal sogno degli umanisti alla prassi dei rivoluzionari.

Oggi uno dei massimi esponenti dell’”anticapitalismo” ultrareazionario è Papa Francesco, che difatti è, al contempo, il più autorevole punto di riferimento del sinistrismo mondiale e la personalità più disprezzata dai liberali/liberisti di casa nostra, i quali lo accusano, a giorni alterni, di essere un “comunista” (sic!) o un “populista peronista”. Secondo il direttore del Foglio Claudio Cerasa, irritato dallo spirito “antiglobal” e “antimodernista” di cui sarebbe impregnata l’ultima Enciclica Francescana, «È il capitalismo inviso al Papa che ci renderà fratelli e ci salverà dal virus»: misteri della fede capitalistica! Quanto al denunciato «anticapitalismo» dell’attuale Papa, icona del progressismo mondiale (forse in attesa del successore del “negazionista” Trump), occorre stendere un velo pietoso sulla mediocrità del pensiero liberista/liberale e bestemmiare contro il nichilismo dei nostri oscuri tempi che fa della verità una barzelletta – che peraltro non fa ridere.

Chi vede in Marx un’apologeta dell’idea ottocentesca di progresso, mostra a mio avviso di non aver letto, non dico capito, la critica marxiana dell’economia politica. È ovvio, ad esempio, che il comunista del XXI secolo non può parlare dell’uso capitalistico delle macchine negli stessi termini in cui ne parlava Marx quando scrisse Il Capitale, cioè in un’epoca in cui solo una parte del mondo era stato assoggettato dai moderni rapporti sociali capitalistici: oggi è più facile ed attuale pensare che non si tratta più solo e semplicemente di un uso capitalistico della tecnologia già esistente, ma di una tecnologia adeguata ad una comunità autenticamente umana. Il processo di umanizzazione di una comunità che si fosse emancipata dalla divisione classista degli individui non potrebbe non toccare fin nell’essenza anche la prassi tecnoscientifica. Ma il nucleo fondamentale del problema messo a tema da Marx rimane a mio avviso intatto e addirittura più attuale che mai: occorre mettere l’uomo nelle condizioni di vivere secondo il principio della completa soddisfazione dei suoi molteplici bisogni: «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!» [28]. Ovviamente per costruire le premesse di una comunità umana che sia tale non solo nominalmente, occorre superare il rapporto sociale capitalistico con ciò che esso presuppone e pone sempre di nuovo, a cominciare dal «sistema del lavoro salariato [che] è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» [29].  Quando «la Costituzione più bella del mondo» recita nel suo articolo di apertura che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (salariato), essa confessa apertamene al mondo la natura capitalistica della società italiana – natura che rende necessaria anche la formazione di un «esercito industriale di riserva» più o meno numeroso: la disoccupazione conferma, non contraddice, la «Costituzione più bella del mondo».

Il concetto marxiano di miseria crescente, trivialmente presentato dai suoi critici come legge assoluta del pauperismo, chiama in causa la relazione che insiste nella società capitalistica tra crescente produttività del lavoro umano e retribuzione dei lavoratori, la cui miseria sociale cresce necessariamente proprio in rapporto alla crescente produttività del lavoro, resa possibile dall’introduzione nel processo lavorativo della potenza tecno-scientifica. Malthus assolutizzava e naturalizzava un fenomeno (la forbice tra popolazione e cibo) che ha un fondamento reale e concettuale solo a certe condizioni storico-sociali; il capitalismo ha messo in crisi proprio questo fondamento, spostando il problema dalla mera demografia nella sua immediata relazione con la nuda natura, all’organizzazione sociale considerata nella sua totalità – e nella sua dimensione planetaria. Si muore di fame, ci si immiserisce in termini relativi (ma spesso anche assoluti: vedi oggi!), si diventa obesi oppure anoressici non a causa di una drammatica sproporzione tra il numero delle bocche da sfamare e la quantità di generi alimentari che l’uomo e la natura sono in grado di mettere a disposizione della società, ma a motivo di un’irrazionalità sistemica (“strutturale”) che si spiega in primo luogo con i rapporti sociali di produzione vigenti nel capitalismo.

Negli anni Trenta del secolo scorso gli Stati Uniti, divenuta prima potenza capitalistica del pianeta nel corso della Prima carneficina mondiale, “vantavano” un esercito di disoccupati di oltre 13 milioni, e i lavoratori percepivano un salario inferiore a quello ritenuto per legge il “minimo vitale”, fissato a un valore annuo di 2000 dollari. I prezzi agricoli precipitarono a circa la metà del loro livello del periodo bellico; per ripristinare prezzi di mercato remunerativi il governo “progressista” di allora finanziò la distruzione di interi campi di cotone, di vigneti, di aranceti. «La devastazione di dieci milioni di acri di cotone fruttò agli agricoltori compensi per oltre 100 milioni di dollari» [30]. Sotto la pressione della potente corporazione dei dirigenti agricoli, preoccupata di ricostituire i prezzi della carne macellata, il segretario all’agricoltura Henry Agard Wallace organizzò anche l’abbattimento di 6 milioni di porcellini e di duecentomila scrofe in procinto di partorire. Il grano già raccolto venne stipato nei silos in attesa di tempi (leggi: prezzi) migliori. La gente moriva letteralmente di fame non perché si era prodotto troppo poco, ma viceversa perché la macchina capitalistica aveva prodotto troppo in relazione alle leggi che ne regolano il funzionamento. Com’è noto, queste leggi hanno a che fare con l’imperativo categorico dell’investimento capitalistico: generare profitti! Nella nostra società non si produce, immediatamente ed esclusivamente, per soddisfare i bisogni umani, ma fondamentalmente per soddisfare i bisogni del Capitale, un Moloch sociale che di fatto fa dei bisogni umani un mero pretesto per ingoiare profitti: per dirla sempre marxianamente, il valore di scambio domina sul valore d’uso, il lavoro morto (macchine, materie prime, ecc.) domina su quello vivo. Nel capitalismo non si produce e consuma troppo o troppo poco in termini assoluti, o in rapporto ai bisogni umani, ma sempre e necessariamente in rapporto alle esigenze dell’accumulazione capitalistica.

«Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio» [31]. Un mostruoso paradosso che da solo basta a ridicolizzare lo spettro di Malthus, il quale non ha mai fatto paura a nessuno, salvo che ai malthusiani, i quali peraltro hanno gravemente travisato l’intenzione politico-filosofica dell’«innato plagiario» di Wotton.

A proposito dell’«epidemia sociale» evocata dallo spettro di Treviri, riflettendo su questi epidemici mesi mi viene in mente un altro passo del Manifesto: «La borghesia è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio» [32]. Marx ed Engels non hanno aspettato la distruzione umana ed ambientale che sperimentiamo oggi per dichiarare la radicale incompatibilità tra il dominio capitalistico  e l’uomo e la natura.

Concludendo! Si fa per dire. La demografia e il problema della produzione delle condizioni materiali di esistenza degli individui non vanno considerati in astratto, in relazione alla natura o a un contesto umano storicamente indeterminato e socialmente non caratterizzato; essi acquistano un reale significato concettuale e reale solo in intima relazione con una peculiare comunità umana, con una concreta dinamica sociale, con una specifica prassi sociale. In particolare, la cosiddetta «legge naturale della popolazione» non ha nulla di naturale e si spiega solo a partire dalla prassi sociale informata da peculiari rapporti sociali di produzione/distribuzione. Il primo recensore russo del Capitale così scriveva sul Viestnik Evropy del maggio 1872: «Marx nega che la legge della popolazione sia la stessa in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Afferma anzi che ogni grado di sviluppo ha una sua propria legge della popolazione». Marx dice di condividere in pieno questa considerazione e, più in generale, la «esatta e benevola» esposizione del suo metodo fatta «dall’egregio autore» [33].

Parlare in un contesto capitalistico di divario tra crescita aritmetica dei generi alimentari e crescita geometrica della popolazione non ha alcun senso: come abbiamo visto, già oggi i mezzi di produzione astrattamente considerati potrebbero sfamare, vestire, alloggiare e curare tutta la popolazione esistente su questo pianeta; è l’uso capitalistico dei mezzi di produzione e della tecnoscienza (che è anch’essa un formidabile mezzo di produzione) che crea abbondanza in un luogo e miseria in un altro luogo. Non solo, ma una comunità umana che fosse orientata esclusivamente alla soddisfazione dei molteplici bisogni umani col tempo troverebbe il giusto (umano) equilibrio demografico, oltre che ecologico – peraltro due lati della stessa medaglia.

Il problema della sovrappopolazione come la conosce l’epoca moderna (borghese) in Africa e in Asia nasce soprattutto a causa della rottura in quei continenti dei vecchi equilibri tra pressione demografica e capacità produttiva delle comunità locali, ossia quando le merci a basso costo prodotte nei Paesi capitalisticamente avanzati incominciarono a riversarsi in quelle comunità diventando accessibili anche ai più poveri. A questo punto si ruppe il legame tra demografia e produzione locale, e si ebbe una continua crescita della popolazione su una base economica rimasta inalterata o addirittura ridimensionata, proprio a causa del rapporto sociale capitalistico che dall’esterno e dall’interno indeboliva le vecchie strutture sociali. A quel punto il problema demografico in Africa e in Asia diventò un problema di sviluppo (o sottosviluppo) capitalistico, di divisione internazionale del lavoro, di sfruttamento capitalistico di alcuni Paesi da parte di altri paesi.

Chi afferma che Paesi come la Cina e l’India, per non parlare dell’intero Continente Africano, dovrebbero moderare il loro sviluppo demografico ed economico, perché le attività umane hanno già raggiunto e superato i limiti della sostenibilità ecologica del nostro Pianeta, non sa letteralmente di cosa parla, e quindi confeziona pseudo soluzioni che hanno successo solo nella convegnistica e nel dibattito politico, ormai dominato dall’ecologicamente corretto: economia green, green deal, economia circolare, sostenibilità ambientale, eccetera, eccetera, eccetera. «Ho avuto delle volte l’impressione che molti avevano voglia di incontrarmi solo per fare una foto. Però è vero, a volte le cose sembrano poco reali, sembra molto una messa in scena» [34]. Beata ingenuità!

Come ho cercato di mettere in luce in questo scritto, il problema non è la demografia della Cina, dell’India e del Continente Africano, né il loro “modello di sviluppo” astrattamente considerato: il problema è la società capitalistica mondiale, il problema è un modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale che per sopravvivere deve sfruttare e saccheggiare uomini e natura. Nel capitalismo tutto è relativo, eccetto che la legge del profitto.

 

[1] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 64, Einaudi, 1958.
[2] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, Marx-Engels Opere, III, p. 456, Editori Riuniti, 1972.
[3] Ivi, p. 476.
[4] J. M. Keynes, Essays in Biography, pp. 120-144, MacMillan and co., 1933.
[5] «In generale non bisogna dimenticare che tanto i Principles, quanto gli altri due scritti di Malthus [Definition in Political Economy del 1820 e The Measure of value stated del 1823], devono la loro origine all’invidia per il successo dell’opera ricardiana e al tentativo di riacquistare quel primato a cui Malthus era fraudolentemente assurto grazie alla sua abilità di plagiario, prima che apparisse l’opera di Ricardo. […] Il merito vero e proprio di questi tre scritti di Malthus è quello di aver posto l’accento principale sullo scambio ineguale fra capitale e lavoro salariato, mentre Ricardo non spiega come dallo scambio delle merci secondo la legge del valore – secondo il tempo di lavoro in esse contenuto – abbia origine lo scambio ineguale fra capitale e lavoro vivo. […] L’aver messo in evidenza questo punto, che in Ricardo non resta ben chiarito, […] è l’unico merito di Malthus negli scritti citati sopra. Ma questo merito è annullato dal fatto che egli confonde la valorizzazione del denaro o della merce come capitale, e quindi il loro valore nella specifica funzione di capitale, con il valore della merce in quanto tale; e perciò nello svolgimento ricade, come vedremo, nelle grossolane rappresentazioni del sistema monetario – del profitto che deriva dall’alienazione» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 14-16).
[6] Cit. tratta da H. Grossman, Il crollo del capitalismo, 1928, pp. 356-357, Jaca Book, 1971.
[7] «Dai dati analizzati dalle Nazioni Unite sappiamo da una stima che fino al 1700 il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato molto lento: la statistica aggiornata dice solo lo 0.04% annuale. Certo, i popoli passati avevano più fertilità, ma la mortalità infantile bilanciava questa tendenza: era la prima fase della transizione demografica. La popolazione attuale mondiale è soggetta ad altre dinamiche. Il tasso di crescita annuale della popolazione ha raggiunto il picco nel 1968. Da allora è rallentato, ed oggi si attesta sull’1% annuo. Il mondo sperimenta la fine di un grosso ciclo di espansione. Il grafico sul tasso di crescita della popolazione mondiale mostra anche come l’ONU valuta questo processo nel prossimo futuro. Con il continuo calo della crescita demografica la popolazione mondiale attuale cresce più lentamente, e la curva della popolazione sta diventando sempre meno ripida. Entro il 2100 il tasso di crescita sarà dello 0.1%, la popolazione starà per fermare del tutto una corsa incredibile, dopo essere decuplicata in appena 250 anni» (Futuro prossimo, agosto 2020).
[8] S. Sileoni, Istituto Bruno Leoni, 19 giugno 2015.
[9] G. Leonhard: Tecnologia vs Umanità. Lo scontro prossimo futuro, Egea, 2019.
[10] «Laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 33, Editori Riuniti, 1972). Né cacciatori, né pescatori, né pastori, né critici: semplicemente uomini. Uomini e donne, si capisce!
[11] Corsa alle terre africane, Società Missioni Africane, 2015.
[12] H. Grossman, Il crollo del capitalismo, p. 358.
[13] K. Marx, Il Capitale, I, pp. 354-346, Editori Riuniti, 1980.
[14] Ivi, p. 662.
[15] AA. VV., I limiti dello sviluppo, p. 21, EST Mondadori, 1972.
[16] F. Zuliani, I limiti dello sviluppo: un’analisi del rapporto al Club di Roma, Futurimagazine.
[17] G. Maggioni, Introduzione al Saggio sul principio di popolazione, p. XII, Einaudi, 1977.
[18] T. R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, pp. 14-15.
[19] T. R. Malthus, Esame sommario del principio di popolazione, in Saggio…, p. 195. Secondo Malthus «le «leggi fisiche» prevedono le carestie, le pestilenze, le guerre e altre sciagure naturali e sociali (le occupazioni malsane, i lavori faticosi, la scarsa alimentazione, lo scarso abbigliamento, l’infanticidio, ecc.) come «freni positivi [o preventivi] alla popolazione» (p. 225).
[20] «Quindi, siccome nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli individui della stessa specie sia tra quelli di specie differenti, oppure con le condizioni materiali di vita. e questa la dottrina di Malthus in un’energica e molteplice applicazione estesa all’intero regno animale e vegetale». Tuttavia Darwin aggiungeva subito dopo che nel regno animale, a differenza di quello umano, «non vi può essere né un incremento artificiale della quantità di alimenti, né un’astensione a scopo prudenziale dal matrimonio» (C. Darwin, L’origine della specie per selezione naturale, 1859, p. 236, Newton, 1994). Scriveva a questo proposito Marx a Engels: «Mi diverto con Darwin, al quale ho dato di nuovo un’occhiata, quando dice d’applicare la “teoria del Malthus” anche alle piante e agli animali, come se il succo del signor Malthus non consistesse proprio nel fatto che essa non viene applicata alle piante e agli animali, ma invece – con geometrica progressione – soltanto agli uomini, in contrasto con le piante e gli animali. È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, “le invenzioni” e la malthusiana “lotta per l’esistenza”. È il bellum omnium contra omnes di Hobbes, e fa ricordare Hegel nella Fenomenologia, dove raffigura la società borghese quale “regno animale dello spirito”, mentre in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese» (Lettera di Marx a Engels del 18 giugno 1862, in Marx-Engels, Opere, XLI, p. 279, Laterza, 1973).
[21] T. R. Malthus, Esame sommario del principio di popolazione, pp. 173-175.
[22] Ivi, p. 251.
[23] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, p. 476. Per il “giovane Engels” la teoria malthusiana ebbe quantomeno il merito di spazzare via tutte le illusioni progressiste e filantropiche sorte sul fondamento della società borghese, e di costringere il pensiero «a volgere l’attenzione alla forza produttiva della terra e dell’umanità e, dopo il superamento di questa disperazione economica siamo stati liberati una volta per tutte dal timore della sovrappopolazione. […] grazie a questa teoria abbiamo imparato a conoscere la massima degradazione dell’umanità e la sua dipendenza dal rapporto della concorrenza; essa ci ha mostrato come, in ultima istanza, la proprietà privata abbai fatto dell’uomo una merce, la cui produzione e il cui annientamento dipende anche ed esclusivamente dalla domanda, come il sistema della concorrenza abbia così sterminato e stermini ogni giorno milioni di uomini; tutto ciò abbiamo visto, e tutto ciò ci spinge alla soppressione di questa degradazione dell’umanità attraverso la soppressione della proprietà privata, della concorrenza e degli interessi contrapposti» (p. 477). In una sola parola: del capitalismo – tout court, sans phrase, senza alcun’altra inutile e fuorviante aggettivazione: neoliberista, selvaggio, turbo, speculativo, eccetera, eccetera, eccetera.
[24] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 78-79, Feltrinelli, 2018.
[25] K. Marx, Il Capitale, I, p. 675.
[26] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 56-61, Einaudi, 1958.
[27] Ivi, p. 54.
[28] K Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, p. 43, Savelli, 1975.
[29] Ivi, p. 49.
[30]  W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal.1932-1940, Laterza, 1976.
[31] K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, in Marx-Engels Opere, VI, pp. 491-492, Editori Riuniti, 1973. «Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti» (p. 492). Come si vede, già nel 1848 Marx ed Engels individuarono il meccanismo che sta alla base del moderno imperialismo e della cosiddetta globalizzazione: «Il bisogno di sbocchi sempre più estesi spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale»  (pp. 489-490). Si ha distruzione di capitale reale semplicemente arrestando per un periodo più o meno lungo la produzione: il valore d’uso e il valore di scambio di macchine, lavoratori, materie prime e quant’altro è indispensabile alla produzione di “beni e servizi” «se ne vanno al diavolo». In questi epidemici tempi la distruzione di capitale reale è all’ordine del giorno.
[32] Ivi, p. 497.
[33] K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del Capitale, 1873, Il capitale, I, p. 44.
[34] Greta Thunberg intervistata a Che tempo che fa, 18/10/2020.

Sul concetto di Antropocene leggi: LA CRISI ECOLOGICA NELL’EPOCA DEL CAPITALE.