Che Salvini sia un eccellente “imprenditore della paura”, nessuno può negarlo. La Repubblica, Il Corriere della Sera e Il Foglio parlano del leader della Lega Sovranista come di una «vergogna dell’Italia»; non essendo io un patriota, ma un convinto disfattista degli italici interessi e dell’italico prestigio nazionale, non provo alcuna vergogna, né sorpresa, ma piuttosto un’irriducibile ripugnanza di classe nei confronti del demagogo di turno che avanza nei sondaggi elettorali. I quotidiani progressisti europei ne parlano invece come di una «vergogna europea»: non essendo io un europeista, nemmeno del genere di Negri, Žižek e Varoufakis, ma un internazionalista anticapitalista, quella vergogna non mi tocca neanche un poco. Piuttosto, nella mia qualità di proletario provo vergogna quando vedo i miei “colleghi” di classe accettare il terreno della lotta tra i miserabili, anziché quello della solidarietà di classe, della lotta di classe, della rivoluzione sociale. In realtà, più che vergogna provo sentimenti di rabbia, di impotenza e di frustrazione nel vedere l’attuale inesistenza del proletariato come «classe per sé, e non per il Capitale». Nei momenti di arretramento politico-sociale, Marx si aspettava dal proletariato, «classe storicamente rivoluzionaria», non inutili quanto odiose esaltazioni ideologiche, ma la più cruda e spietata delle autocritiche. Scriveva Max Horkheimer nel 1937: «L’intellettuale che con un atteggiamento di inutile venerazione si limita a proclamare la potenza creativa del proletariato, accontentandosi di adeguarglisi e di trasfigurarlo, trascura il fatto che ogni elusione dello sforzo teorico che gli risparmia un temporaneo contrasto a cui potrebbe portare il suo pensiero, rende queste masse più cieche e più deboli» (Teoria critica). Io non sono né un intellettuale né un populista, e quindi posso concedermi il lusso, diciamo così, dell’autocritica volta a comprendere le cause, vicine e lontane, della nostra attuale cattivissima situazione. Nostra come proletari, come nullatenenti, come dominati, come sfruttati.
Qualche giorno fa il leader che sussurra alla ruspa ha dichiarato: «La sinistra sostiene la globalizzazione, o glebalizzazione, come dice il filosofo Diego Fusaro; noi no. Per questo vogliamo arrestare il flusso dei migranti che piace ai filantropi alla Soros perché sradica la nostra identità nazionale e culturale e alle multinazionali che operano in Italia perché abbassa i salari dei lavoratori italiani. Prima i lavoratori italiani!». La patriota Meloni è ancora lì che applaude entusiasta l’ex camerata di coalizione: «Bravo, bene, bis!». Come sappiamo, negli Stati Uniti Trump fa, mutatis mutandis, lo stesso discorso “populista”: «Prima il lavoro americano».
Ora, è vero che la globalizzazione capitalistica del XXI secolo mette i lavoratori di tutto il mondo in reciproca, diretta e spietata concorrenza come non era mai accaduto dai tempi di Marx in poi, con il disastroso risultato sulle loro esistenze che stiamo osservando soprattutto in Occidente, il quale un tempo offriva ai lavoratori migliori condizioni di lavoro e di vita, soprattutto strappate con decenni di lotte operaie; ma la “ricetta” che offre l’anticapitalista non parla di chiusura nazionale, di identità nazionale e politica, di freno alla globalizzazione, di «prima gli italiani», di «aiutiamoli a casa loro»: «diamogli una canna da pesca a casa loro, non pesce fritto a casa nostra!». L’anticapitalista nemmeno si pone il problema circa la compatibilità economico-sociale di un’immigrazione “di massa”, se essa sia utile o dannosa per l’economia del Paese, la quale sta molto a cuore anche a non pochi personaggi che pure si dichiarano “anticapitalisti”, ma che in realtà sono solo degli statalisti più o meno riverniciati. Come ho già detto, quella “ricetta” parla invece di solidarietà di classe, di unione di classe, di lotta di classe, ecc. «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», urlava il comunista di Treviri scomodato dall’insulso filosofo di regime, che tanto piace a Salvini, per pura spocchia intellettuale e per paraculismo politico-ideologico, un paraculismo che egli peraltro può usare solo nell’ambito dei nostalgici del “comunismo novecentesco” – cioè dello stalinismo nelle sue diverse declinazioni nazionali. L’intellettuale, soprattutto quello made in Italy, crede che basti citare qualche nome “sovversivo”, per accreditarsi come “rivoluzionario” presso la massa che a stento sa leggere e scrivere.
Salvini è un ottimo imprenditore della paura, dicevo, ma personalmente trovo politicamente più interessante puntare i riflettori della critica sulla fabbrica della paura. Perché signori progressisti è abbastanza facile sparare contro l’ultimo demagogo che calca la scena, in attesa di lasciare il posto al prossimo, magari ancora più “populista” e fascista del precedente – chi si ricorda più del “fascista” Marco Minniti? Ebbene, signori “buonisti”, il problema è solo il cattivista del giorno che vende paura, rabbia e pregiudizi un tanto al chilo (sui neri, sui rom, sugli omosessuali, su ogni specie di “diversità” e di “devianza”), o anche, e direi soprattutto, la società che crea sempre di nuovo il mercato politico-elettorale della paura, della rabbia e dei pregiudizi? Di più: non è forse questa società che crea soprattutto nelle classi subalterne sentimenti di paura, di angoscia, di rabbia, di frustrazione, di invidia sociale e quant’altro? I fascisti (o come vogliamo diversamente chiamarli nel XXI secolo), i razzisti e i demagoghi prosperano su un terreno lungamente arato e fertilizzato dalla prassi sociale nel contesto di differenti regimi politico-istituzionali: dalla cosiddetta Prima Repubblica a quella attuale – Terza, Quarta, ho perso il conto!
«Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato, ed è per questo che non esistono metodi assolutamente sicuri per la seduzione di massa: il metodo varia con la disponibilità alla seduzione» (M. Horkheimer, T. W. Adorno). Il problema teorico più importante è quindi capire che cosa rende possibile «la disponibilità alla seduzione» che osserviamo nelle masse, sforzo che non solo non contraddice l’azione pratica contro le politiche e le ideologie del nuovo governo, ma piuttosto la rafforza e la mette nelle condizioni di indebolire il regime politico-istituzionale nel suo complesso. Che alla fase democratica (o come altrimenti vogliamo chiamarla) del regime possa seguire quella fascista (negli anni Settanta si parlò di «fascistizzazione della democrazia» e di «democrazia fascista»), è cosa che non mi sorprende affatto, tutt’altro. L’alternarsi della carota e del bastone come metodo di gestione delle contraddizioni sociali nelle diverse fasi del processo sociale capitalistico e nelle differenti configurazioni geopolitiche della contesa interimperialistica è qualcosa che non può certo spiazzare il pensiero critico-rivoluzionario.
Qualche mese fa il già citato filosofo del regime pentaleghista dichiarava: «Quando Salvini mi applaude mi chiedo cosa ho detto di sbagliato». Chi segue Fusaro per farsi due risate e prendere di mira non un personaggio di successo (beato lui!), ma una precisa posizione politica (ultrareazionaria, c’è bisogno di dirlo?), sa benissimo che Salvini non può che gongolare quando ascolta le invettive fusariane contro il «capitalismo finanziario». Come ho ricordato altre volte, già negli anni Novanta, prima che nascesse il Movimento Noglobal, Umberto Bossi inveiva contro la globalizzazione, soprattutto contro la «colonizzazione cinese» dei distretti industriali e commerciali del Nord’Est: «La Cina deve rimanere fuori dal WTO, perché pratica un micidiale dumping industriale e mercantile. Il nostro modello sociale non può competere con quello cinese. Tra qualche anno le nostre aziende saranno costrette a chiudere o a delocalizzare nei Paesi dell’Europa orientale». Oggi Salvini si scaglia contro le navi che portano in Italia non solo «carne umana» ma anche il riso prodotto in Asia: «Prima gli agricoltori italiani!». Mentre nell’area capitalisticamente più avanzata del Paese i consensi politico-elettorali della Lega si impennavano, perché il Senatur sapeva ben cavalcare le contraddizioni sociali nazionali (divario crescente Nord-Sud) e quelle che derivavano dalla competizione capitalistica mondiale, i sinistrorsi si limitavano a denunciare il razzismo (vu cumprà fora dai ball!) e l’antimeridionalismo dei leghisti: «i meridionali rubano, scroccano e puzzano! Che poi è quello che molti tedeschi pensano di tutti gli italiani. Le simpatie che i leghisti oggi suscitano anche nel Mezzogiorno possono stupire solo chi si arresta alla schiuma ideologica e fraseologica che sempre accompagna i processi sociali. Ma ritorniamo al filosofo più amato dal regime. Un caso tutt’altro che paradossale.
Per capire fino a che punto Fusaro sia in sintonia con le ideologie più reazionarie prodotte da questa società escrementizia, è sufficiente leggere l’intervista apparsa su Le figaro domenica scorsa, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: «L’uomo che sussurra a Di Maio e Salvini». Niente di nuovo intendiamoci, ma vale la pena ogni tanto raccontare qualche barzelletta e ricordare con chi abbiamo a che fare. «Nel nostro tempo, quello del capitalismo finanziario, la vecchia dicotomia destra-sinistra è stata sostituita dalla nuova dicotomia alto-basso, padrone-schiavo (Hegel). Sopra, il padrone ha il suo posto, vuole un mercato più deregolamentato, più globalizzato, più liberalizzato. Sotto il servo “nazionalsocialista” (Gramsci) vuole meno commercio libero e più stato nazionale, meno globalizzazione e difesa dei salari, meno Unione Europea e più stabilità esistenziale e professionale. Il 4 marzo in Italia non c’è stata la vittoria della destra, né della sinistra: il basso vince, il servo. Ed è rappresentato dal M5S e dalla Lega, le parti che il padrone globale e i suoi intellettuali diffamano come “populisti, vale a dire i vicini del popolo e non l’aristocrazia finanziaria (Marx). Salvini e Di Maio stanno guardando alla Russia, e questa è una buona cosa. La Russia è ora l’unica resistenza contro l’imperialismo del dollaro, cioè contro l’americanizzazione del mondo, conosciuta anche come globalizzazione. La vecchia borghesia e la vecchia classe operaia, un tempo nemici, sono oggi oppressi e insicuri, e formano una nuova plebe povera e priva di diritti, in balia dei predatori finanziari e dell’usura bancaria. È il nuovo precariato. La classe dominante è questa volta l’aristocrazia finanziaria, una classe cosmopolita di banchieri e delocalizzatori, signori di grandi affari e del dumping. Marx lo dice molto bene nel terzo libro del Capitale: il capitalismo supera la sua fase borghese e accede a quella finanziaria, basata sulla rendita finanziaria e sui furti della burocrazia. Questo è il nostro destino». Nazionalismo, sovranismo, “nazionalsocialismo” (Gramsci o Hitler?), statalismo, collaborazionismo di classe, corporativismo, difesa dei «ceti produttivi» contro «gli speculatori della grande finanza»: l’armamentario ideologico caro a fascisti, nazisti e stalinisti c’è tutto. Certo, manca l’invettiva aperta contro gli ebrei, ossia contro gli speculatori finanziari e i cosmopoliti per eccellenza, ma i tempi cambiano: fasciostalinismo, certo, ma mutatis mutandis.
Ora, è da decenni che i leghisti predicano la collaborazione tra i «ceti produttivi», ieri vessati da «Roma ladrona», oggi saccheggiati e impoveriti dalla globalizzazione. Ma anche il PCI, ai suoi tempi, predicava l’alleanza tra i «ceti produttivi» contro la rendita finanziaria rappresentata politicamente dalla DC. E non pochi leader democristiani santificavano, esattamente come i “comunisti”, il duro ma sano lavoro (salariato, cioè sfruttato) contro lo sterco del Demonio: siamo in Italia, se Dio vuole… Una volta (Elogio della ghigliottina, 1922) Piero Gobetti parlò del Fascismo come «autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi»; ebbene Fusaro è, sotto questo aspetto, solo l’ultimo arrivato.
A proposito di autobiografia nazionale, scriveva Luca Ricolfi qualche anno fa: «La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. Ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. I ceti produttivi del Nord non sono nemmeno riusciti a strappare un federalismo degno di questo nome» (Intervista rilasciata a Linkiesta del 15 settembre 2011). Oggi sono soprattutto i pentastellati attivi sul fronte dell’assistenzialismo, cosa che dovrà fare i conti con le condizioni economiche del Paese e con gli interessi sociali difesi dai leghisti. Con l’ormai mitico reddito di cittadinanza le camaleontiche creature di Grillo & Casaleggio vorrebbero crearsi una solida e permanente area di consenso sociale, un po’ come face ai bei tempi la Democrazia Cristiana attraverso le mille forme di clientelismo rese possibili da una congiuntura economica favorevole, e, mutatis mutandis, come fa il regime venezuelano usando la rendita petrolifera. Solo che i pentastellati, sempre più impauriti dall’attivismo leghista che potrebbe cannibalizzarli nello spazio di poche elezioni, non possono contare né su una congiuntura economica favorevole, né su qualche forma di rendita. Certo, possono sempre far leva sul debito pubblico, ma la cosa non appare di facile approccio. «Per il 2018 i giochi sono fatti, da qui a fine anno ci muoveremo solo su interventi strutturali che non hanno costi. Il nostro vincolo sono i mercati», ha dichiarato il Ministro delle Finanze Tria. «Il nostro vincolo sono i mercati»: questa l’avevo già sentita…
«È la Germania che ci vuole affamare! Spezzeremo le reni a Berlino!». Il sovranista italico deve solo sperare che il prossimo Cancelliere tedesco non sia un sovranista: «Germany First!». «I sovranisti sono vittime di una contraddizione. Si dichiarano solidali l’un con l’altro: i sovranisti francesi con quelli americani, italiani, inglesi, eccetera. Si ascolti, ad esempio, cosa dice quel piazzista del sovranismo che è Steve Bannon (ex sodale di Donald Trump). In realtà, nel caso che molti di loro (ancor più di quelli già oggi al potere) si trovassero simultaneamente alla guida dei rispettivi Paesi, sarebbe la loro stessa ideologia a spingerli l’uno contro l’altro» (A. Panebianco, Il Corriere della Sera).
Per il noto filosofo che sussurra al regime «La Russia è ora l’unica resistenza contro l’imperialismo del dollaro, cioè contro l’americanizzazione del mondo, conosciuta anche come globalizzazione». Evidentemente al Nostro nazionalsocialista (Gramsci) piace l’imperialismo del rublo – e forse anche la cinesizzazione del mondo, «conosciuta anche come globalizzazione». D’altra parte ai “nazionalsocialisti” (Gramsci o Hitler?) è sempre piaciuta la figura del leader virile, forte, carismatico, con la schiena dritta, devoto ai sacri interessi del Popolo, della Nazione Proletaria; un leader schietto e contrario alle ipocrisie del politicamente corretto tipico del personale politico liberale e progressista. Insomma, un leader tipo Salvini.
«Alexandr Dugin è in Italia. Il filosofo russo, le cui idee sono considerate ispiratrici delle politiche di Vladimir Putin, sta girando da nord a sud tutto lo stivale per realizzare una serie d incontri: due pubblici e molti in forma privata. Quelli pubblici sono stati ampiamente pubblicizzati: il primo a Milano in occasione di una conferenza che lo hanno visto affiancato da altri relatori quali il filosofo Diego Fusaro e il responsabile culturale di Casapound Adriano Scianca; il secondo a Roma presso la sede di Casapound dove parlerà insieme ai vertici del movimento fascista, all’editore di destra Maurizio Murelli e a Giulietto Chiesa» (Huffington Post). Ecco, ora la barzelletta è completa! Ma c’è – solo – da ridere?
QUANDO IL CAPITALISMO SUPERA LA FANTASIA
Il Capitale recupera a suo vantaggio quello che la politica butta in mare sempre a vantaggio del Capitale. Una grande lezione, se solo fossimo in grado di comprenderla.
Datemi un’anima nera, nera come la vostra, perché vorrei essere bravo come voi a sfruttare anche la sofferenza.
Datemi un’anima nera, nera come la vostra, perché anch’io voglio galleggiare sul mare di cinismo che mi affoga.
Datemi un’anima nera, nera come la vostra, e prendetevi pure la mia pelle, e fatene ciò che volete.