VERTIGINI DEMOCRATICHE

Lo sciovinismo del Bel Paese ha ben altra tempra rispetto a quello della cugina Francia: esso risorge e tramonta nello spazio di ventiquattro ore. Mentre oltralpe lo sciovinismo è un fuoco che arde perennemente (salvo casi eccezionali: vedi le periodiche invasioni tedesche del suolo francese) nei gallici petti, in Italia esso è piuttosto un fuoco di paglia, un tumulto di sentimenti, più che di idee, piuttosto fatuo.

Come dopo la vittoriosa partita di luglio contro la nazionale tedesca al campionato europeo sembrava che avessimo vinto nientemeno che la guerra, complice anche il «trionfale» summit europeo di fine giugno, analogamente fino a qualche ora fa sembrava che i Super Mario di casa nostra avessero stravinto su tutta la linea: la Bundesbank sconfitta, la Cancelliera di ferro costretta a far buon viso a cattivo gioco, la Germania isolata nella stessa area del Marco, Obama entusiasta del governo tecnico montiano e del dragone messo a difesa dell’euro. Oggi gli editoriali dei quotidiani tornano a formulare la domanda già stampata agli inizi di luglio, dopo un bilancio più attento e meno fazioso del citato summit di giugno: Ma abbiamo vinto davvero? La generosità di Mario Draghi non è piuttosto una polpetta avvelenata, una più intelligente strategia volta a farci cadere col sorriso stampato sulle labbra di convinti europeisti nella trappola del commissariamento globale (finanziario, economico, politico)? Chi ci vuole salvare, non mira piuttosto a legarci mani e piedi al carro della parità di bilancio a ogni costo?

La risposta a queste domande, forse, è nell’intervista rilasciata oggi dal Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble a Repubblica. Ecco il succo dell’intervista: «L’euro ha garantito il primato dell’economia tedesca, per questo esso è necessario. Senza la moneta comune il nostro [dei tedeschi] benessere sarebbe difficilmente immaginabile. La Germania è un Paese vincente». Naturalmente più che al lettore italiano il Ministro teutonico cerca di parlare all’elettore tedesco, sempre più ostile alla prospettiva di dover aiutare gli spendaccioni del Mezzogiorno. (Sul rapporto Euro-Marco rimando al mio pezzo Das vollendete Geldsystem).

Il fatto che la BCE stia concentrando nelle proprie leve di comando poteri che iniziano a debordare da tutte le parti, sconfinando, e non di poco, in uno spazio ritenuto fino a qualche mese fa di esclusiva pertinenza del politico, la dice lunga sulla gravità della crisi sistemica che travaglia l’Unione Europea. L’attivismo super-governativo di Draghi segnala la contraddizione di una moneta priva di un solido retroterra politico (lo Stato nazionale).

Quasi tutti gli editoriali dei quotidiani oggi lamentano un gravissimo deficit di democrazia: persino le elezioni oggi appaiono un lusso che non possiamo permetterci. Re Giorgio annuncia che chiunque vinca alle prossime elezioni politiche deve suonare lo spartito scritto da Monti in sinergia con i “poteri forti” della Finanza internazionale. «Io vigilerò!» Lo stesso Professore bocconiano denuncia i pericoli di una deriva demagogica antieuropea di dimensioni continentali. La Grecia è, anche a tale riguardo, l’avanguardia del male. Chi tocca i fili dell’euro e dell’Unione merita di rimanere stecchito, o quantomeno di finire sotto l’occhiuta vigilanza dello Stato. Paolo Mieli denuncia questo clima di caccia alle streghe e sostiene che «così muore la politica», con gran vantaggio per i populisti, che sguazzano nel senso di impotenza dei popoli. Intanto Giulio Tremonti organizza, per la felicità degli italici antimercatisti e sovranisti, un movimento politico per il recupero della sovranità nazionale. Inutile far notare la “trasversalità” politico-ideologica di un simile progetto.

Ma davvero oggi la democrazia rischia di esalare il suo ultimo respiro? Davvero essa, strangolata dai famigerati mercati e dagli gnomi del liberismo più cinico e selvaggio, ha bisogno del soccorso popolare? Personalmente non la penso così. Solo chi in passato si è fatto delle illusioni intorno al “libero gioco democratico” oggi può credere, sbagliando, che il voto dei cittadini non serve più, mentre ieri invece esso contava, eccome, nelle decisioni politiche dei governi. Oggi come ieri la democrazia è la forma politica più confacente al dominio sociale capitalistico. La crisi economica e politica che ha investito l’Italia e l’Europa ha semplicemente reso evidente una verità prima celata sotto uno spesso velo ideologico: la democrazia sancisce l’impotenza sociale delle classi dominate, chiamate ogni tot anni a “scegliere” i funzionari del Leviatano messo a guardia degli odierni rapporti sociali. Il “commissariamento” della politica è la continuazione della democrazia con altri mezzi. Come ho scritto altre volte, l’eccezione getta un potente fascio di luce sulla regola del dominio. Ritengo che solo liberandosi delle vecchie e sempre più logore illusioni democraticiste le classi subalterne potranno acquistare una vera capacità di risposta ai gravi problemi posti dalla crisi economica internazionale e dalla crisi del Sistema-Paese. Dalla mia prospettiva, populisti (di “destra” e di “sinistra”), demagoghi e seri democratici si agitano sullo stesso ultrareazionario terreno: quello della conservazione sociale.

«Noi abbiamo una campagna elettorale ormai imminente. Se le forze politiche la smetteranno di “pettinare le bambole” (come ha scritto Alfredo Reichlin sull'”Unità” di ieri) e capiranno che anche per noi è venuto il momento di porre la costruzione dell’Europa al centro della politica italiana, si sarà compiuto un passo avanti fondamentale. Oppure, nel caso contrario, un passo indietro drammatico perché il baratro in cui non siamo caduti è ancora lì, aperto e a poca distanza» (Eugenio Scalfari, Per l’Europa o contro, la scelta è questa, La Repubblica, 9 settembre 2012). E se nel baratro ci finissero solo le classi dominanti (italiane, europee, di tutto il mondo)?

IL SENSO DELLA SOCIETÁ PER LA GUERRA

Nell’ultimo anno il concetto di guerra è stato “sdoganato”, da politici, economisti e intellettuali di diversa tendenza e competenza, con uno zelo che nelle ultime settimane ha rasentato la frenesia. In Italia ne hanno parlato, solo per citare gli ultimi e più “illustri”, l’onorevole Quagliariello, per giustificare l’appoggio del suo partito (PDL) «al governo di salvezza nazionale» di Monti, il nuovo presidente della Confindustria («i risultati della crisi economica sono paragonabili a quelli di una guerra») e, proprio ieri, il premier italiano in persona, al cospetto dei banchieri italiani. Monti ha citato la guerra non meno di dieci volte nell’arco di pochi minuti. Guerra in tutte le salse. Eccone una breve sintesi: «percorso di guerra», «guerra contro la crisi economica», «guerra contro i nostri vizi pubblici e privati», «guerra contro il debito pubblico», «guerra alla concertazione», «guerra contro i pregiudizi interni e internazionali» e, dulcis in fundo, «guerra contro interessi fortissimi». Quest’ultimo concetto Monti l’ha ripetuto più volte, per rimarcare il senso bellico delle sue parole, ossia per mettere nel cono di luce la portata della posta in gioco, la durezza e la dimensione dello scontro in atto nella società italiana (il quale attraversa il Paese in tutte le sue articolazioni: dal livello economico, pubblico e privato, a quello istituzionale, da quello geosociale o regionale a quello culturale), il suo carattere aperto e incerto ma anche il decisionismo con cui il Sovrano intende fare i conti con questa sfida sistemica.

Il solito intellettuale politicamente corretto (e quindi “de sinistra”) ha tenuto a farci sapere che è pericoloso civettare con quella parolina, e certamente ciò dovrebbe essere senz’altro precluso a chi ricopre alte cariche governative, a chi è investito della responsabilità politica più alta. Non è certo la prima volta che qualcuno si prende la briga di condannare il nome della cosa, e non la cosa stessa. E la cosa, oggi, si chiama appunto guerra.

Scriveva ieri Barbara Spinelli: «L’economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l’economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l’unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. L’operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell’Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse» (La Germania davanti al bivio, La Repubblica, 11 luglio 2012).

Lungi dall’essere «un tema minore», l’economia (capitalistica: diamo un preciso significato alle parole!) insiste al cuore del problema che chiamiamo guerra; guerra sistemica, ossia guerra totale: economica stricto sensu, certo, ma anche politica, istituzionale, culturale, psicologica, persino “antropologica” (la fabbricazione del “cittadino europeo” deve avvenire sul modello Nord-europeo o su quello Sud-europeo, ovvero su un ibrido, per non far torto a nessuno? Mussolini preferiva il modello tedesco e aborriva quello meridionale, «frignone, pastasciuttaio e vittimista». Monti e la Fornero anche).

Ma la Spinelli sbaglia in modo colossale quando attribuisce alla sola Germania quella spiccata valenza economica nella sua prassi sociale. L’intero pianeta ruota oggi intorno al principio totalitario dell’accumulazione capitalistica, il quale ovviamente trova la sua massima evidenza e pregnanza nei paesi capitalisticamente più forti e dinamici. In Europa è il caso della Germania, la cui potenza sistemica alla fine ha avuto ragione persino della divisione nazionale stabilita dagli imperialismi vittoriosi nell’ultima carneficina mondiale. Si dimentica, ad esempio, che lo spread, lungi dall’essere la maligna creatura dei cinici gnomi della speculazione finanziaria, si limita a misura il differenziale di produttività sistemica di un Paese rispetto al Paese-standard (in Europa la Germania).

La subordinazione dell’economia alla politica è un’illusione che prima o poi i fatti si incaricano di smentire, con conseguente piagnisteo da parte di chi aveva creduto nelle proprie chimere: «la Civiltà europea ancora una volta paga un salatissimo prezzo al dogma dei mercati e al nazionalismo delle piccole patrie!» Nel processo di unificazione del Vecchio Continente, sempre a rischio di disintegrazione, «la via tedesca» si impone “naturalmente”, a cagione dello sviluppo ineguale del Capitalismo nei diversi paesi, e una parte della stessa classe dirigente tedesca guarda con timore a questo processo, memore dei ben noti disastri. Non è che gli uomini non imparano mai dai loro errori; il fatto è che la storia va avanti, sotto il cielo del Capitalismo mondiale, alle loro spalle. Mi rendo conto che, questo, è un concetto difficile da accettare, ma la verità, per quanto cattiva, va guardata in faccia senza illusioni: essa va compresa, non esorcizzata o depotenziata.

Nel Capitalismo ciò che rende possibile la vita del tutto è, in ultima analisi (la quale in tempi di crisi diventa la prima), l’accumulazione capitalistica, ossia il continuo allargamento del meccanismo che sempre di nuovo crea ricchezza sociale (ossia merci, tecnologie, scienza, capitali, denaro). Senza tenere nella dovuta considerazione questo meccanismo sociale parlare ad esempio di welfare è semplicemente ridicolo. Di qui il razzismo antimeridionale, denunciato da Barbara Spinelli, che si sta diffondendo in Germania: la “formica” non vuole dare pasti gratuiti alla “cicala”, la quale piange e prega la Merkel: «Dacci oggi in nostro pane quotidiano». E di qui la guerra che le classi dominanti europee stanno portando ai lavoratori sotto forma di licenziamenti, ristrutturazioni, svalorizzazione salariale, spending review, e via di seguito.

Commentando il mio post La Germania e la sindrome di Cartagine, un lettore chiedeva: «Che cosa intende quando dice che ci si può attendere tutto il peggio? Intende guerre in seno ai paesi occidentali?» Ecco una parte della mia risposta:

Con il concetto di peggio che non smette di peggiorare alludo in primo luogo alla condizione (dis)umana degli individui nella società-mondo del XXI secolo. A mio modesto avviso questa condizione si fa sempre più critica per l’individuo: infatti, cresce la sua alienazione, la sua mercificazione, la sua atomizzazione, la sua illibertà – al di là dell’ideologia idealista e liberista che cela la dittatura delle esigenze economiche su ogni aspetto della nostra esistenza. Proprio il trattamento che gli individui subiscono dal Dominio sociale li espone a ogni sorta di “avventura populista”, come ho cercato di argomentare nel post Fermate il mondo, voglio scendere! Insomma, per me il peggio è adesso. Guerra o non guerra. E non cessa di peggiorare… Per mutuare Dostoevskij, se l’uomo non esiste tutto il peggio è possibile. Quanto alla guerra, per me non si tratta di prevederla – purtroppo non sono un mago –, ma se mai di concepirla come una possibilità che sta naturaliter sul terreno dell’odierno sistema capitalistico mondiale. Ma, ripeto, quando ho scritto quella locuzione “peggiorativa” non pensavo alla guerra guerreggiata, bensì alla guerra che tutti i giorni questa società fa agli individui. In questo senso, la prima è la continuazione della seconda con altri mezzi.

CHI AIUTA, CONTROLLA!

Bastava scorrere i titoli dei quotidiani tedeschi di sabato e domenica per capire come il problema del «rigorismo» e dell’«egoismo» tedesco non ha il nome Merkel, o quello di un qualsiasi Pinghen Pallinen basato a Berlino. Come i leader europei sanno benissimo (ma fingono di non sapere, in chiave di politica interna, per additare il perfetto capro espiatorio a lavoratori, disoccupati e contribuenti fiscali sempre più arrabbiati), quel problema ha dietro di sé i più che legittimi interessi della Germania e dell’area che fu (e sarà?) del Marco. Nello stesso partito della Cancelliera cresce la fronda dei “duri e puri” che non vogliono arrendersi al «Mezzogiorno spendaccione». È bastato un “cedimento” puramente formale alle ragioni delle «cicale» per infiammare lo spirito “rigorista” dei tedeschi, i quali non vogliono nemmeno sentir parlare della necessità di pagare i pasti ai greci, agli spagnoli, agli italiani, ai portoghesi: «padroni fiscali a casa nostra!» Oppure? Oppure occorre creare gli strumenti politici per controllare da presso i soldi tedeschi che finiscono nelle scassate casse del Sud. Chi aiuta, controlla!

Analogamente, il problema «dell’egoismo localistico» in Italia non è la Lega: esso fa capo agli interessi sociali dell’area più forte e dinamica del Paese che quel movimento ha espresso in tuti questi anni. Bossi o non Bossi, Maroni o non Maroni, con rispetto parlando, la Questione Settentrionale non solo rimane intonsa, ma con l’approfondirsi della crisi economica internazionale si aggrava e si aggroviglia. A tutti i livelli (mondo, Europa, Italia), per capire la dialettica politica e i sentimenti della cosiddetta opinione pubblica bisogna monitorare i rapporti di forza materiali (fra i continenti, gli stati, le regioni, le classi) e lo stato dell’economia.

Christian Rickens ha scritto su Der Spiegel che «La concessione di Merkel è più che compensata da una vittoria diplomatica che ha messo a segno poco prima della riunione: alla fine della scorsa settimana è riuscita a far firmare al presidente francese il suo patto fiscale, che è molto impopolare a Parigi, in cambio del suo supporto al “patto per la crescita” da 130 miliardi di euro. È difficile esagerare la disparità dell’accordo. Il “patto per la crescita” è fatto di poco più che promesse e sogni che non si realizzeranno mai. Anche se non causerà nessuna crescita in Europa, non costerà nemmeno altri soldi alla Germania». Ciò, fra l’altro, spiega il profilo stranamente basso esibito da Hollande durante il “fatale” Summit europeo.

Ieri Rampini (La Repubblica) mostrava in quali sconsolati termini i quotidiani americani valutino la crisi sistemica del Bel Paese, alle prese con problemi fin troppo vecchi: gap Nord-Sud, obsolescenza della pubblica amministrazione, debito pubblico, scarso dinamismo del Capitale privato, anch’esso avvezzo da tempo immemorabile all’assistenzialismo statale, materia prima per i teorici del «socialismo di Stato». Sempre Ieri Wolfgang Münchau ha scritto sul Financial Times che nella sostanza dopo il Vertice del 28-29 giugno niente cambia in Europa, e ciò vale soprattutto per l’Italia, il cui successo in chiave antitedesca è un mito che il bravo premier italiano cercherà di capitalizzare in chiave di politica interna, in primo luogo per rafforzare la spending review, osteggiata da chi nel Bel Paese ha cospicui e radicati interessi a mantenere lo status quo nella spesa pubblica. A cominciare dal sindacato collaborazionista (parastatale), CGIL in testa. La Germania è stata “sconfitta”, la politica dei sacrifici continua. Anzi: si inasprisce.

LA “PAZZA IDEA” DI SILVIO E LA GUERRA IN EUROPA

La «pazza idea» di Berlusconi non poteva cadere su un terreno migliore: l’ennesimo «venerdì nero», non solo in termini di caduta dei valori borsistici in tutte le piazze finanziarie del pianeta (salvo quelle basate a Oriente, peraltro rivitalizzate dal recente accordo tra Tokyo e Pechino in materia di libero scambio e di uso delle rispettive divise nazionali nelle transazioni economiche fra i due paesi, con le immaginabili negative ripercussioni sul dollaro e sull’euro); ma soprattutto in riferimento alla cosiddetta «economia reale».

Dagli Stati Uniti al Vecchio Continente il cavallo dell’accumulazione capitalistica arranca, boccheggia, sbava e dà dolorosissimi calci in quel posto a centinaia di migliaia di lavoratori. La disoccupazione cresce in tutto l’Occidente, anche se è solo nell’Eurozona (a eccezione della Germania) che essa cresce in termini assoluti. In questo fosco quadro la dichiarazione berlusconiana di ieri amplifica la sua pregnanza politica, nonostante gli avversari ne abbiano immediatamente messo in discussione il valore economico e politico ricorrendo alle solite invettive: «dalla bocca di Berlusconi non può venire fuori nulla di serio».

Ma l’ex Cavaliere Nero non se n’è dato per inteso, anche perché le sue parole non sono quasi mai dirette agli attori del «teatrino della politica», ma al «popolo». E il «popolo», in Grecia come in Italia, in Spagna come in Francia, oggi è arrabbiato con «la Germania della Merkel», accusata di ogni nequizia. Certo, oltre che con il «populismo», la «pazza idea» di Silvio si spiega anche con il regolamento di conti che lui sente di dover chiudere con la Cancelliera di ferro, protagonista di risatine che ancora ai suoi occhi gridano vendetta. Dopo l’arrogante Sarkozy lo sciupafemmine di Arcore vuole vedere rotolare nella polvere dell’insuccesso politico anche colei il cui fondoschiena è un affronto alla libido. Ipse dixit, sia chiaro.

Ciò che più mi ha colpito della dichiarazione di Berlusconi non è tanto la proposta «che la Banca d’Italia stampi euro oppure stampi la nostra moneta», né la richiesta di un mutamento di funzione della BCE, tale da farla «diventare il garante di ultima istanza del debito pubblico» (europeo), ovvero l’incitamento al governo italiano a contrattare a muso duro con la Germania le condizioni della nostra permanenza nell’eurozona, minacciando di «avere la forza di dire ‘ciao ciao euro’ e cioè uscire dall’euro restando nella Ue», tutte idee che ormai da anni circolano nel dibattito pubblico europeo. Detto per inciso, il mutamento di funzione della BCE, che fonda i discorsi intorno all’urgenza di emettere Eurobond e project bond, presuppone la cristallizzazione di una Sovranità politico-istituzionale nel cui seno il peso specifico della Germania sarebbe assai notevole, per ovvi (sistemici) motivi – che, detto en passant, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra guardano da sempre come il fumo negli occhi.

No, la frase berlusconiana a mio avviso di gran lunga più interessante, per il suo valore sintomatico che va oltre le stesse intenzioni dell’ex premier, è questa: «dire alla Germania di uscire lei dall’euro se non è d’accordo». Più che una minaccia – l’Italia oggi non è in grado di minacciare nessuno! –, sembra un suggerimento non richiesto a una corrente di opinione che in Germania si fa di giorno in giorno più forte.

Vedi Scenari prossimi venturi.

Il PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA (2)

Mario Deaglio parla di «miope rigorismo tedesco». Il noto filantropo George Soros rincara la dose: «La Germania deve convincersi che un’austerità fine a se stessa è ottusa e non porta da nessuna parte» (La Repubblica, 12/05/2012). Tanto per il primo quanto per il secondo l’alternativa al «dogma della disciplina di bilancio» esiste, e si chiama – indovinate? – «crescita». Non so perché, ma la cosa non suona nuova ai miei orecchi…

Crescita e sviluppo: un mantra stucchevole e «surrealista», per dirla con Le Figaro, dietro il quale si nasconde, come osservava lo scorso venerdì Le Monde facendo le pulci alle illusioni keynesiane di Hollande, il ritardo sistemico dei paesi che stanno perdendo la guerra della competitività totale con la Germania. Se il modello del nuovo Presidente francese è Mitterrand, ragionava Le Monde, non c’è da essere allegri. La politica della spesa pubblica non solo non porterà la Francia fuori dalla crisi, ma aggraverà piuttosto la sua situazione debitoria ed economica. Intanto Hollande inizia a riposizionarsi sullo scacchiere interno e internazionale, e con la scusa dei «diktat tedeschi» inizia a preparare l’opinione pubblica francese a una ritarata che da “tattica” potrebbe rivelarsi subito – e rovinosamente – strategica. Già mi pare di sentire le insulse grida dei suoi fans europei: «Hollande, anche tu ti stai vendendo alla Germania!» Prevedo una ripresa dell’indignazione generale.

Tutti a dare consigli alla «cinica e ottusa» Germania: «aumenta la capacità di spesa dei lavoratori tedeschi, diminuisci la loro competitività, lasciali andare a fare i turisti nel Mezzogiorno d’Europa, allenta il morso della disciplina e abbandona la paura dell’inflazione». Sono tutti “operaisti”, con i lavoratori degli altri paesi…

Come altre volte ho scritto, lungi dall’essere ottusa e «fine a se stessa», la politica «rigorista» tedesca si spiega semplicemente con i legittimi interessi del Capitale tedesco e della società tedesca colta nella sua totalità. Che la Germania non voglia perdere la battaglia della competitività sistemica, e che essa veda come il fumo negli occhi un cospicuo trasferimento della sua ricchezza a favore delle «cicale» meridionali, e magari della Francia, ebbene questo fatto può suscitare irritazione solo presso i sognatori del federalismo europeo e i nazionalisti, a partire dalla loro configurazione progressista (alludo ai socialnazionalisti).

Che nel Vecchio Continente spiri un’arietta sovranista densa di – potenziali – nefaste conseguenze, lo si è potuto cogliere, quasi con sorpresa, nella conferenza stampa della Presidenza del Consiglio di ieri, quando l’ineffabile Monti ha dichiarato che con i sacrifici l’Italia si è sottratta al destino di colonia nelle mani di istituzioni politico-finanziarie sovranazionali. Questo anche per rispondere alle accuse di «servilismo» nei confronti della Germania e dei «poteri forti» della finanza mondiale che gli sono stati rivolti da “destra” e da “sinistra”.

La Germania, ovviamente, è ben cosciente delle gravi conseguenze politiche e sociali immanenti alla sua tetragona strategia, al punto che la Bundesbank ieri ha lasciato trapelare la possibilità di più alti salari per i lavoratori del Paese, e una politica monetaria meno aggressiva nei confronti dell’inflazione. Ma siamo sul terreno della diplomazia, arma insostituibile in ogni guerra che si rispetti. Al contempo, la banca centrale tedesca ha fatto sapere, attraverso canali «non ufficiali», che la fuoriuscita della Grecia dall’eurozona non deve spaventare più di tanto gli investitori europei e mondiali. Ci si porta avanti col lavoro…

D’altra parte, la Merkel ha sempre dichiarato che il problema che affligge le «cicale» meridionali non è la spesa pubblica «in sé», in quanto tale, ma la sua pessima qualità, ossia la sua consistenza largamente improduttiva e parassitaria. E qui viene nuovamente in prima linea la madre di tutti i problemi: come liberare capitali, pubblici e privati, dall’obeso sistema fiscale per orientarli verso l’accumulazione capitalistica in grande stile? Chi contrappone ideologicamente il pubblico («buono») al privato («cattivo»), politiche keynesiane a politiche liberiste, mostra di non aver compreso il reale funzionamento dell’economia basata sul profitto, né la natura dell’odierna crisi economica.

Prendere coscienza di ciò (altro che «prendere le armi», come farneticano i “nuovi terroristi”!) significa orientare il pensiero che vuole essere radicale verso pratiche politiche all’altezza della situazione.

Vedi anche:

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IL PUNTO SULLA GUERRA

IL GENIO DELLA GERMANIA…

«La Germania ama le altre Nazioni, ma le castiga per il loro bene!» (Reinhold Soeberg, teologo dell’Università di Berlino, 1915).

Gian Enrico Rusconi, che di cose tedesche si intende, ha scritto che «Quando si parla della Germania, i tono drammatici sono d’obbligo» (La Stampa, 27 novembre 2011). Non c’è dubbio. Io stesso ho parlato della Germania nei termini di una «Potenza fatale», ossia di un Sistema Sociale che per oggettive condizioni storiche, sociali e geopolitiche deve, a volte suo malgrado, recitare un ruolo che non raramente tracima nel tragico, con tanto di sangue sparso copiosamente sulla scena. «È la Germania, bellezza, e tu non puoi farci niente!» A dire il vero qualcosa le Potenze concorrenti hanno fatto, tanto nel 1918 quanto nel 1945, ma alla fine lo Spazio Esistenziale Tedesco si è ricomposto nella sua continuità geopolitica e nella sua potenza sistemica.

La Bismarck

Inutile far finta di niente, ha scritto recentemente Sergio Romano, un teorico della realpolitik più scabrosa (per il politicamente corretto, sia chiaro): una Questione Tedesca è all’ordine del giorno. «Dai primi decenni dell’Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918. Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s’impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell’arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l’arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l’opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato» (Corriere della Sera, 27 novembre 2011).

Qui Romano si muove lungo un solco politico-culturale ben arato. Due soli esempi. «L’uomo è lo scopo principale delle società democratiche. Invece per i tedeschi lo scopo della società è l’istituzione organizzata: il reggimento, l’esercito, la scuola, la società anonima di sfruttamento, lo Stato. L’individuo non c’entra quasi nulla. Si vive non per sé, ma per la ditta, per l’associazione, per lo Stato» (Franco Caburi, La Germania alla conquista della Russia, pp. 4-5, Zanichelli, 1918). Mutatis mutandis, questi concetti sono stati scritti anche a proposito del Giappone, e in qualche modo essi calzano a pennello per l’attuale Cina. Un’altra citazione: «Tutto il pensiero tedesco mi è apparso fasciato di acciaio e pronto all’incendio … Per quanto alta e potente la scienza teutonica ha un sapore barbarico, mentre la sapienza latina sia pur povera e modesta riluce di una iridescenza divina» (Ernesto Bertarelli, Il pensiero scientifico tedesco, la Civiltà e la Guerra, p. 3, Treves, 1916). Qui siamo addirittura allo scontro tra le Civiltà, e scommetto che molti cittadini dell’Europa Meridionale sottoscriverebbero subito le parole di Bertarelli: «La Civiltà Occidentale è nata in Grecia e a Roma, non certo nelle fredde e barbariche selve tedesche!»

Sulla scorta di Max Weber, Romano individua nel principio dell’organizzazione e nel principio di autorità la radice del «male oscuro» che fa della Germania una perenne spina piantata nel cuore stesso del Vecchio Continente, la cui ferita va ogni tanto in suppurazione, infettando l’intero organismo europeo. Ma le cose, a mio avviso, non stanno così. «La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco» non  sono affatto l’esatto «opposto dei progetti precedenti», non sono «obiettivi di pace» che contrastano ogni scenario di guerra, come crede l’ingenuo ex ambasciatore, ma rappresentano invece quel fondamento sociale che genera sempre di nuovo una «Questione Tedesca».

1939, invasione della Polonia.

Per questo ha ragione il Wall Street Journal di ieri (Tutta colpa della Germania) quando scrive che «Per imporre la parità di bilancio la Germania non manderà la Wermacht a Roma e ad Atene», ma si limiterà a farle «vivere secondo le regole tedesche», perché la ragione è dalla parte del più forte, anche se (oggi!) ha un esercito ridicolo in confronto alla sua Potenza Sistemica. E ha ragione Die Welt, quando fa notare che verso la Germania, «un elefante al cuore dell’Europa», i Paesi europei lanciano segnali contraddittori: per un verso essi pretendono dalla Cancelliera di ferro una maggiore responsabilità, e l’abbondono delle «vecchie chiusure egoistiche»; e per altro verso stigmatizzano i suoi «diktat» che lederebbero la Sovranità e la dignità nazionali, nonché «l’esercizio della democrazia», come mostra il caso di Papandreu e di Berlusconi. Ma la Merkel lavora per il Re di Prussia, non certo per un fantomatico Re di Bruxelles: l’Europa o sarà tedesca, o non sarà! Analogamente, l’Italia del XXI secolo o sarà «Padana» o non sarà. «I tedeschi – scrive il WSJ – hanno il merito di dire la verità», e la verità è che chi ha più filo, più tesse.

Zono invine arrifato, ja!

Siamo arrivati al punto che persino la Polonia critica l’inezia tedesca intorno alla scottante questione dell’Eurobond: attenzione a non strofinare troppo la lampada della Responsabilità Tedesca!

LA POTENZA FATALE DELLA GERMANIA. La Questione Tedesca come Questione Europea

«La Germania è uscita dalla crisi più forte di quando ne è entrata e anche l’Europa deve uscirne più forte». Così parlò Angela Merkel. La Cancelliera esprime qui un fatto e un auspicio, il quale peraltro ha il non vago aspetto di una mera clausola di stile. Ecco declinata la perenne Questione Tedesca nei nostri agitati tempi.

La Questione Tedesca del secondo dopoguerra inizia il 7 maggio 1945, anno in cui le Potenze Alleate sanzionarono la capitolazione di quel che residuava del possente esercito tedesco. Il confronto politico-militare Est-Ovest mise per alcuni anni in ombra quell’esplosivo problema, ma non poteva eliminarlo, semplicemente perché le sue radici coincidevano e coincidono con l’essenza ontologica, per dirla filosoficamente, della Germania: con la sua storia, con la sua struttura sociale, con la sua collocazione geopolitica. La Germania è un problema, suo malgrado!


Assai precocemente la potenza sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, ideologica, psicologica) della Germania è diventata, per lo stesso Paese collocato al centro del Vecchio Continente, una sorta di maledizione. Nata piuttosto in ritardo come compatta entità nazionale (in questo molto simile all’Italia e al Giappone, non a caso suoi amici di sventura nell’ultima guerra mondiale), essa si trovò a dispiegare il proprio enorme potenziale economico-sociale all’interno di un mondo già da molto tempo presidiato dalle vecchie potenze coloniali, le quali ovviamente mal sopportavano le pretese imperialistiche dell’ultima arrivata. La rivendicazione tedesca di un posto al sole nel salotto buono delle potenze imperialistiche minava alla base lo status quo geopolitico e geoeconomico (approvvigionamento di materie prime e investimenti di capitali) costruito nel corso di molti decenni soprattutto dall’Inghilterra e dalla Francia. Di qui, il tratto oggettivamente aggressivo assunto dalla politica estera tedesca già subito dopo la proclamazione del Reich nel 1871, e mantenuto, tra alti e bassi, fino al 1945.

Quando, nel 1956, un referendum popolare rigettò l’accordo franco-tedesco del 1954 per la Saar, che prevedeva l’autonomia di quell’importante bacino siderurgico-minerario-industriale sotto il controllo della CEE (ossia, di fatto, della Francia), la Questione Tedesca postbellica fece un primo, grande salto di qualità, e mise bene in luce la natura tutt’altro che pacifica del «rapporto privilegiato» che unisce finora quei due pilastri della Comunità Europea. A prima vista il rapporto tra Germania e Francia, così centrale nel sistema delle relazioni tra gli Stati europei, sembra un rapporto tra potenze di pari status, ma a ben guardare si tratta di un rapporto tra una forza e una debolezza. Scrive Gian Enrico Rusconi: «Per il suo peso oggettivo, economico e politico, la Germania ha una posizione decisiva in Europa. E’ di fatto la nazione egemone dell’Unione anche se cautelativamente e dimostrativamente si appoggia alla Francia dando informalmente vita al cosiddetto “direttorio”» (La Stampa, 27 Ottobre 2011).

Per un verso la Francia ha “marcato” da molto vicino La Germania, facendo valere quella superiorità politico-militare che le deriva dall’esito della Seconda Guerra mondiale; e per altro verso ha cercato di usare la potenza economica tedesca per dare surrettiziamente massa critica strutturale alla sua tradizionale politica estera molto velleitaria. L’Inghilterra non poteva che sostenere questa politica antitedesca. Tuttavia, all’ombra della politica estera e militare delle potenze vittoriose, la potenza sconfitta non ha smesso di crescere, dando nei fatti più di una lezione di dialettica materialistica. Naturalmente a chi sa intenderla.

È nei primi anni ottanta del secolo scorso che in Germania si inizia a parlare senza reticenze e sensi di colpa di «nuovo patriottismo»; si prende cioè coscienza del fatto che il Paese ha degli interessi strategici da difendere, i quali non necessariamente coincidono con quelli degli Stati Uniti. Nella misura in cui l’Unione Sovietica mostra tutta la sua debolezza strutturale e la potenza capitalistica americana subisce i contraccolpi dell’ascesa economica della Germania e del Giappone, si aprono per la classe dominante tedesca nuove opportunità sia sul piano della competizione economica, sia su quello dell’iniziativa politica. Due piani peraltro strettamente legati l’uno all’altro. La cosiddetta Ostpolitik nei confronti dei paesi oltrecortina segnala il nuovo dinamismo politico tedesco. Washington osteggiò questa politica perché sintomatica di una pericolosa tendenza neutralista che oggettivamente avrebbe fatto il gioco di Mosca. In realtà l’Ostpolitik fece solo gli interessi di Bonn, e poi di Berlino. Come scrisse la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 21 settembre 1982, «Le cause di tutta una serie di punti discordanti fra Washington e Bonn derivano direttamente dalle trasformazioni che sono avvenute dai tempi in cui la Repubblica federale di Germania veniva considerata un “anello modello” e gli Stati Uniti erano la potenza guida accettata da tutto il mondo occidentale». Erano.

Mitterrand e Helmut Kohl nel 1987

Alla vigilia dell’Unificazione Tedesca Mitterrand evocò la possibilità di una terza guerra mondiale, per prevenire la quale occorreva realizzare un asse franco-russo-britannico in grado di contenere la straripante potenza germanica. Un ex ministro degli esteri francese, il gollista Michel Jobert, si disse indignato per come la Germania usasse la propria potenza economica «per ricomprare la sua unità nazionale». Già Andreotti nel 1984 aveva sentenziato, con la solita italica sicumera: «Esistono due Stati tedeschi e due devono restare». Quando alla fine il muro di Berlino cadde (anche sulle teste indigenti degli irriducibili filosovietici) il longevo statista del Bel Paese se ne uscì con un tranquillizzante «l’equilibrio politico mondiale non subirà grossi traumi». Nell’aprile del 1988 Die Zeit, interpretando gli umori antitedeschi delle classi dirigenti europee, scrisse: «È raro incontrare una franchezza come quella dimostrata a suo tempo dal francese Mauriac, con la celebre frase: “Io amo la Germania al punto da essere contento che ne esistano due”». Evidentemente due sole non bastano…

Thomas Mann nel 1929

Una volta Thomas Mann invitò gli studenti di Amburgo a battersi «non per un’Europa tedesca, ma per una Germania europea». Nonostante i tedeschi abbiano fatto di tutto per onorare l’appello del grande scrittore, sotto i nostri occhi si sta consumando il fallimento dell’illusione europeista. L’Europa o sarà tedesca o non sarà! «Il sogno europeista come emancipazione dall’incubo nazista» è svanito dinanzi alla prima seria difficoltà: «La Germania tedesca è altrettanto legittima della Francia francese, dell’Italia italiana. È normale. Non è normale che tedeschi, francesi, italiani e altri europei, paralizzati dalla crisi, continuino a non decidere. Alla fine saranno i fatti a decidere» (La Germania nella crisi europea, editoriale di Limes, 4-2011). Sono sempre «i fatti» a decidere; la politica può assecondarli più o meno bene, può legittimarli, e può sperare di orientarli per il verso giusto (che è sempre quello favorevole alle classi dominanti di un Paese), ma non può produrli a partire da astratte idealità. L’Europa tedesca si sta imponendo alle spalle degli stessi tedeschi, i quali da sempre vivono con una certa inquietudine la potenza «oggettiva» della loro patria, fonte di straordinarie imprese ma anche causa di dolorosissime sciagure. Alla Germania calza a pennello la frase: «Scusate se esisto!»

«La Germania – scrive Rusconi – si fa carico di far uscire l’Unione europea dalla crisi attuale a condizione che la politica monetaria e finanziaria degli Stati membri si rimodelli secondo criteri e norme che sono promosse sostanzialmente dalla Germania stessa. Angela Merkel interpreta perfettamente questa strategia che è insieme di intransigenza e di opera di convincimento, di attesa e di azione di logoramento. E’ la nuova formula dell’egemonia tedesca». Non c’è dubbio. Siamo alla vigilia del Quarto Reich tedesco?

EUROPEISMO E QUESTIONE TEDESCA

Dopo aver per tanti lustri invocato l’avvento degli Stati Uniti d’Europa, con il relativo superamento dei vecchi Stati nazionali, colpevoli di aver annegato nel sangue il «secolo breve», oggi, dinanzi al proditorio diktat franco-tedesco, non pochi italici «europeisti convinti» masticano amaro e denunciano un’insopportabile lesa maestà nazionale. «Ma qui si vuol commissariare il Paese!»

Le anime belle (è solo un’immagine retorica, si capisce) dell’Europeismo scoprono con orrore il fondamento reale, non ideologico, del cosiddetto «sogno europeo»: è la Germania che tiene stretto nelle sue mani il destino del Vecchio Continente. Oggi come ieri, dal Kaiser Guglielmo II («Politica mondiale come compito, potenza mondiale come obiettivo, flotta come strumento») ad Angela Merker, passando ovviamente per i buffi baffi del noto pittore austriaco.

Siamo ancora alla Wille zur Macht? Non c’è dubbio. Naturalmente mutatis mutandis e senza scivolare in assurde concezioni metapolitiche. Scriveva Ernst Nolte nel 1993, con ogni evidenza per tranquillizzare gli europei timorosi della nuova ascesa tedesca dopo l’unificazione del Paese: «Bisogna distinguere tra potenza politica e influsso economico. L’influsso che si fonda su un potere economico può risultare vantaggioso anche per chi è più debole. In conclusione, non vi è ragione di temere un predominio politico tedesco in Europa» (Intervista sulla Questione tedesca, Laterza, 1993). Ma è possibile separare la «sfera politica» da quella economica? Ovviamente no, e alla fine, presto o tardi, in modo più o meno contraddittorio e doloroso, l’economico deve necessariamente riflettersi sul politico, anche a dispetto degli stessi attori che in astratto avrebbero l’interesse a non immergersi più di tanto nella complessa e rischiosa (e proprio la Germania ne sa qualcosa!) dimensione politica.

20 millionen Mark (1923)

La crisi economica ha reso evidente ciò che gli analisti politici ed economici seri del Vecchio Continente hanno sempre saputo (ma non sempre dichiarato, per un certo scrupolo politically correct): l’Unione Europea, se vuole riempirsi di reali contenuti storici, deve quanto più avvicinarsi al «modello tedesco», il quale rimane ancora il modello capitalistico egemone in Europa. Lungi dall’essere venuta meno, la tradizionale area del Deutsche Mark si è piuttosto allargata, di fatto, a cagione di una pressione meramente economica.

Il gran Stemma di Sua Maestà l'Imperatore tedesco (1871-1918)

Dietro una Moneta c’è un Tesoro, e dietro questo deve esserci un Sovrano (non 17!), con tanto di spada. Ogni altra considerazione intorno agli Stati Uniti d’Europa non radicata in questa reale dimensione storico-sociale è pura risciacquatura ideologica buona per dissetare l’anelito «ultraeuropeista» alla Emma Bonino, con rispetto parlando…

La Francia cerca di far valere il suo peso politico (struttura militare compresa, è chiaro) per controllare da presso la potenza sistemica dei «mangia patate», la cui economia è floridamente cresciuta all’ombra dei missili statunitensi e della stessa grandeur gallica, peraltro sempre più pallida e risibile. L’Asse franco-tedesco ha nel corso degli anni espresso tutte le ambiguità e tutte le contraddizioni insite nel «progetto europeista» venuto fuori dalla Seconda guerra mondiale, come ulteriore ratifica dell’epocale sconfitta tedesca. La recente vicenda libica ha messo bene in luce il diverso approccio “europeista” dei due Paesi leader dell’Unione.

Scriveva Ernesto Bertarelli nel 1915, mentre in Europa infuriava la tempesta bellica: «L’antipatico sciovinismo francese, che offende più di quanto non minaccia, pare ben dolce di miele e remissivo di vertebre nei confronti col testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» (Il pensiero scientifico tedesco, la civiltà e la guerra, Trevis Editore, 1916). Bisogna ricordare che allora i «cugini francesi» erano nostri alleati nella lotta contro il «Barbaro Teutonico». Eppure, quella denuncia del «testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» in qualche modo illumina l’aspetto oggettivo della tragedia tedesca, la quale non può non essere al contempo tragedia europea: la forza strutturale del capitalismo tedesco.

Più che in altri Paesi, la politica – interna ed estera – della Germania è il prolungamento della sua prassi economica, la quale ruota intorno a questa Sacra Trinità: produttività industriale soprattutto in vista delle esportazioni, salute finanziaria, stabilità monetaria. L’europeismo dei tedeschi e dei loro “fratelli” europei deve fare i conti con quel vero e proprio imperativo categorico economico-sociale.

Intanto la «scettica» Inghilterra, immersa come e forse più degli altri partner europei nella crisi economica, mostra quel fondo violento e disumano della Civiltà borghese che nemmeno la sempre più rancida ideologia multirazziale e multiculturale è in grado di celare. Ma la cieca violenza degli ultimi ne attesta anche l’attuale impotenza politica.

Insomma, il «commissariamento» dei Paesi europei più esposti all’ira dei «mercati» da parte della Germania (con l’eventuale copertura politica offerta, più o meno obtorto collo, più o meno opportunisticamente, dalla Francia) non ha nulla a che fare con la «Volontà di Potenza», ideologicamente concepita, o con la «Dignità Nazionale» di questo o quel Paese, mentre ha molto a che vedere con la reale dinamica capitalistica (in un’accezione non meramente economicista del concetto) del Vecchio Continente. Chi vuol capire questi tempi agitati, e non vuole rimanere impigliato nelle miserabili diatribe fra «euroentusiasti» ed «euroscettici» a mio avviso farebbe bene a puntare i riflettori della critica sul processo sociale sovranazionale che ho cercato di tratteggiare brevemente.

L’UNIONE EUROPEA NON È CHE UN’ESPRESSIONE GEOGRAFICA! (LA GERMANIA NO)

Per quanto paradossale possa sembrare, la stessa Germania vive con una certa angoscia la propria intrinseca, strutturale potenza economica (e, più in generale, sociale tout court), perché più di una volta nella sua storia ne ha saggiato le dure conseguenze. Anche per questo la leadership di quel Paese ha cercato nell’europeismo una sorta di Super-Io transnazionale che tenesse al guinzaglio le sue “naturali” pulsioni espansionistiche. Ma l’oggettività delle cose ha una sua logica che non è facile imbrigliare.

L’attuale crisi internazionale conferma plasticamente ciò che in molti hanno sempre pensato: l’Unione Europea è un mito fabbricato dalla leadership politica, economica e culturale del Vecchio Continente. Ovvero, detto in termini più “dialettici”, la sua esistenza è garantita dagli interessi che i diversi Paesi che la compongono vi trovano: se vengono meno questi interessi nazionali l’Unione Europea come entità politica non ha alcuna ragione di esistere.

All’ombra dell’ideologia europeista non hanno smesso un solo minuto di marciare i vecchi interessi degli Stati Nazionali, i cui confini sistemici (politici, istituzionali, economici, ideologici) hanno resistito alla pressione della globalizzazione capitalistica e, per certi importanti aspetti, si sono rafforzati proprio grazie ad essa. La crisi economica iniziata alla fine del 2007 ha dimostrato ciò che tutti, in alto bordo, hanno sempre saputo, ma che hanno taciuto, per salvare le apparenze (che in politica contano, eccome) e per non finire nella categoria politicamente scorretta e poco trend degli «euroscettici». Vale a dire, che il destino dell’Unione Europea, in quanto entità politica non ectoplasmatica, è saldamente nelle mani, come sempre, oggi più che mai, della Germania. Soprattutto la Grecia, la Spagna e il Portogallo hanno scoperto con orrore che la moneta comune europea in realtà non è che il Teutonico Marco con altri mezzi. La controfigura della divisa tedesca, il cui cuore non smette di pulsare (soprattutto nell’Europa Centrale), ha i capelli biondi e gli occhi azzurri, per non dispiacere l’esigente – con molte ragioni, bisogna riconoscerlo – contribuente tedesco.

Stigmatizzando «l’ipoteca tedesca sull’euro», Francesco Giavazzi lamentava, qualche mese fa, l’antipatica circostanza per cui «La Merkel decide anche per noi: la posta in gioco sono le condizioni che la Germania chiede per salvare l’unione monetaria. Il futuro dell’euro si deciderà nel Consiglio europeo del 24 marzo» (Il Corriere della Sera, 29 Gennaio 2011). Fino a quel giorno continuerò ad avere gli incubi: sogno tutte le notti la Merkel dagli occhi azzurri che mi fa il berlusconiano cucù!

Commentando una notizia sfuggita all’attenzione del «grande pubblico» (peraltro distratto dalle vicende erotiche del Premier), Paolo Valentino proietta l’incubo tedesco su una dimensione mondiale, e non a torto: «Non sarà un nuovo giorno dell’infamia, come quello di Pearl Harbour. Ma la conquista del New York Stock Exchange da parte della Borsa di Francoforte è uno di quei passaggi dove la storia si diletta a concentrare simbolismi, ironie e metafore. Stiamo assistendo a una pacifica rivincita, 65 anni dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale» (Corriere della Sera, 16 Febbraio 2011). Qualcuno avverta il bravo giornalista che non esistono rivincite pacifiche, tanto più quando esse evocano scenari bellici. Anche perché i conflitti tra le Nazioni nascono in primo luogo sul terreno della “pacifica” competizione economica.

Lo stesso Valentino cita un’affermazione di pura marca Tedesca confezionata dal Der Spiegel: «I Tedeschi vogliono in futuro dominare il mercato mondiale». Siamo al Welt-Volk, al popolo che ha una missione di portata storica mondiale da compiere. Inascoltato, il «revisionista storico» Ernst Nolte ha ripetuto questo concetto in tutte le salse, precisando che «non vi è ragione di temere un predominio politico tedesco in Europa causato dalla potenza economica della Germania» (Intervista sulla questione tedesca, 1993, Laterza). E invece bisogna proprio temerlo, perché la potenza politica (inclusa la sua manifestazione militarista) si radica, in primo luogo, sulla potenza economica: questo è l’autentico significato dell’imperialismo, concetto che i teorici dell’Impero non capiranno mai.

Per quanto paradossale possa sembrare, la stessa Germania vive con una certa angoscia la propria intrinseca, strutturale potenza economica (e, più in genare, sociale tout court), perché più di una volta nella sua storia ne ha saggiato le dure conseguenze. Anche per questo la leadership di quel Paese ha cercato nell’europeismo una sorta di Super-Io transnazionale che tenesse al guinzaglio le sue “naturali” pulsioni espansionistiche. Ma l’oggettività delle cose ha una sua logica che non è facile imbrigliare.

Nella vicenda della crisi libica abbiamo addirittura assistito al tentativo orchestrato dalla Francia e dall’Inghilterra di far fuori i cospicui interessi italiani sul suolo africano, per sostituirli con i loro: altro che «concertazione europea»! L’Italia sta giocando di sponda con la Germania per rintuzzare il proditorio tentativo, e per adesso sembra che l’intelligente azione diplomatica italo-tedesca stia riscuotendo un certo successo. Ma contro i cinesi non si potrà fare molto!

Scriveva Jeremy Rifkin qualche anno fa: «Il sogno europeo è il tentativo di creare una nuova storia […] Il nuovo sogno europeo è potente perché osa suggerire una nuova storia […] Mi auguro che la nostra fiducia non vada delusa» (Il sogno europeo, 2004, Mondadori). Luogocomunisticamente, lo Scienziato Sociale di successo metteva a confronto il «declinante sogno americano» (il progressista Obama, allora, era sì sotto i riflettori, ma per abbronzarsi, in vista delle elezioni presidenziali di qualche anno dopo) con il «nascente sogno europeo, un sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata». Detto che «il sogno europeo» è sempre stato, dal punto di vista umano, un incubo, mi chiedo se si può essere ammalati di ideologia a tal segno da non riuscire a vedere la macroscopica dinamica dei processi sociali? Evidentemente sì. E Rifkin non è certo il più cattivo tra gli Scienziati Sociali in circolazione…