I noti eventi di Rosarno offrono l’occasione per una riflessione sulla società italiana auspicabilmente non banale, non luogocomunista e, soprattutto, non irretita negli interessi e nella prospettiva delle classi dominanti di questo paese. Con queste pagine intendo dare il mio piccolo contributo allo sviluppo di una tale riflessione, magari in vista di una pratica politica adeguata alle sfide che il capitalismo del XXI secolo non smette di lanciare ai lavoratori e a tutti gli individui interessati al superamento della società disumana.
In questa brutta vicenda il razzismo e il coinvolgimento della mafia locale sono le ultime cose che dobbiamo prendere in considerazione. Si badi bene, non perché l’uno e l’altro non abbiano avuto alcun ruolo nello svolgersi dei fatti, o perché in generale non abbiano una loro reale consistenza, bensì perché porli al centro della riflessione non spiega un bel nulla e non ci aiuta a capire. E invece abbiamo un gran bisogno di capire, perché Rosarno è solo un sintomo di qualcosa di ben più grave. No, non si tratta affatto di una malattia, si tratta piuttosto della fisiologia della società basata sul profitto; si tratta di una micidiale normalità che si dà in modo differente nelle diverse aree del Paese e del mondo. Chi ragiona in termini di patologia sociale nasconde a sé e agli altri la «banalità del male», anzi la sua radicalità. Più che cause, il razzismo della popolazione di Rosarno e la presenza sulla scena del delitto della mafia autoctona rappresentano un epifenomeno, una concausa di secondo livello, ma certamente non la risposta dirimente, la quale va cercata nelle contraddizioni sociali complessive di questo Paese, ancora alle prese, anzi sempre più alle prese, con la rancida «questione meridionale». Ma la più fresca «questione settentrionale» ha cambiato le regole del gioco, ponendo su un terreno completamente nuovo gli annosi problemi posti allo sviluppo capitalistico italiano dal secolare dualismo macroregionale Nord-Sud. E quando parlo di sviluppo capitalistico non mi riferisco solo alla struttura economica del Paese, ma alla società italiana nel suo complesso, perché soprattutto nel XXI secolo la struttura sociale delle nazioni è un tutto sempre più unitario e integrato. Il principio che la unifica in un tutto integrato è il capitale, è la ricerca spasmodica del vitale profitto, è la necessità di trovarsi tra le mani, giorno dopo giorno, anno dopo anno fino alla morte, il vitale (altro che «vile»!) denaro. Sbaglia chi pensa che sto andando fuori tema, perché i fatti di Rosarno, al netto di tutte le balle che sono state dette e scritte, evocano a gran voce il Dio Profitto e il Dio Denaro. Eccome se li evocano! Ma evocano anche il pauroso baratro nel quale si è cacciata l’intera umanità. Ma non precorriamo i tempi.
Conviene partire proprio dall’epifenomeno, dal «razzismo del popolo di Rosarno», e chiederci come mai il razzismo alligna soprattutto presso gli strati inferiori del corpo sociale, e questo naturalmente non solo nell’amena cittadina calabrese, ma un po’ in tutto il Paese e in tutti i paesi del mondo. Intanto, di passata, mi sia consentito di dare un piccolo calcio al rassicurante luogo comune per cui gli italiani non sarebbero, nel loro più profondo «DNA», razzisti: come se il razzismo fosse una connotazione nazionale o, addirittura, «antropologica»: i tedeschi, tanto per citare un popolo a caso, sono forse razzisti «di loro»? Mi sembra che il gene del razzismo non sia stato ancora individuato, ma è anche vero che di biologia me ne intendo assai poco. «Italiani, brava gente». E chi può metterlo in discussione! Ne sanno qualcosa gli africani del secolo scorso, massacrati ai bei tempi dell’Italia liberale e poi fascista, e ne sanno qualcosa gli africani di questo secolo e di questi giorni. Anche i parenti degli albanesi finiti sott’acqua al largo di Otranto alla fine degli anni Novanta, ad opera di una democratica nave della Marina Militare Italiana (mi sembra sotto il governo di baffino D’Alema, sostenuto dai rifondatori stalinisti), ne sanno qualcosa. Ma chiudiamo l’antipatriottica divagazione, e ritorniamo alla domanda: perché il razzismo si diffonde con tanta facilità e rapidità soprattutto tra «gli ultimi»?
La risposta è tutt’altro che difficile, è anzi alla portata di tutti e infatti tutti la conoscono, ma solo pochissimi ne colgono il reale significato e la reale portata sociale, e non per l’ignoranza delle masse o per la malafede delle classi dominanti, ma in grazia dell’interesse (declinato in tutti i modi possibili e immaginabili), il più forte consigliere della storia. Non è difficile capire che chi sta ai piani alti dell’edificio sociale può permettersi il lusso dell’umana comprensione, della tolleranza, del cosmopolitismo e della filantropia (la forma borghese della vecchia carità cristiana), anche perché tali eccellenti disposizioni d’animo sono altrettanto olio lubrificante cosparso sui duri ingranaggi del meccanismo sociale, rappresentano il balsamo spalmato su un corpo sociale sempre più brutalizzato dagli interessi economici. Dove c’è un soldato che squarta, che brucia e che violenta, deve esserci pure qualcuno che si occupa dei morti e dei feriti; e insieme, Caino e Abele, la bestia assetata di sangue e la crocerossina devota a chi ha avuto la peggio nel duello, costituiscono il sistema della guerra. Insieme e da sempre lupo e agnello mandano avanti, ognuno a modo suo, la comune impresa.
A Rosarno, nelle calde giornate del furore bianconero (e non parlo di calcio…), non c’erano in giro solo malavitosi provocatori, cittadini in preda al panico e all’odio, orde di «negri» accecati di rabbia e forze dell’ordine in assetto di guerra; si aggiravano, tra i cassonetti dell’immondizia e le auto bruciate, anche alcuni uomini di «buona volontà» che facevano appello al buon senso «di tutti», e che aiutavano i feriti di entrambe le fazioni. Pochissimi, è vero, ma c’erano, in ossequio al motto antiumano che recita: anche in mezzo al peggio può esserci un po’ di bene. Amen! D’altra parte, al momento opportuno, quando le condizioni lo rendono possibile e necessario, l’agnello sa bene come usare il lupo, e non rare volte la storia ci ha presentato la stupefacente trasformazione del primo nel secondo: l’agnello perde il bianco pelo e acquista il vizio del lupo. In natura questo non sarebbe possibile, è evidente, ma nella società accadono cose misteriose che, come diceva il poeta, non sarebbero possibili in tutto il firmamento.
Ad esempio, e mi si scusi la piccola divagazione rispetto al tema, come spiegare altrimenti il nobel per la pace attribuito al presidente, ancorché «abbronzato», della prima potenza imperialistica mondiale? Mistero. Anzi: trattasi della solita velleitaria politica europea progressista. Giustamente Bush se la ride di gusto, e aspetta il cadavere del pacifista, che inutilmente lo ha contestato per quasi un decennio, galleggiare sulle acque del metaforico fiume dei perdenti. Il lupo Bush si prende la rivincita sull’agnello pacifista. Chiudo la parentesi.
Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno poetiche cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde.
Nei primi anni Novanta del secolo scorso, uno dei luoghi comuni più ripetuti dagli italici progressisti riguardava il «razzismo xenofobo» della Lega Nord. Prima che il grande statista coi baffi, l’ancor vivo e vegeto D’Alema, sdoganasse «da sinistra» il movimento bossista – avendone scoperto nientemeno che un’anima di sinistra: si tratta di vedere chi, tra gli ex stalinisti e i leghisti sono da considerarsi più «di sinistra»: davvero una bella gara! –, a «sinistra» il binomio Lega-Fascismo era dato come cosa certissima, e chi aveva l’ardire di metterlo in discussione in quanto insulso luogo comune, al meglio doveva aspettarsi dai progressisti l’epiteto di amico del giaguaro, magari solo sul terreno del comportamento «oggettivo», ma pur sempre amico, anzi: fiancheggiatore. Fascista, naturalmente, veniva considerato anche Berlusconi, il quale si era peraltro permesso di sdoganare il fascistissimo Fini, segretario del Partito dell’Ardente Fiamma Tricolore. Nel 2010 solo a Berlusconi non è stata revocata l’accusa di Cavaliere Nero (anzi!), mentre Fini rischia di ereditare il partito di D’Alema, «il migliore» dei progressisti italiani. Tanta è la confusione sotto il cielo della «sinistra» italiana, e la situazione per il suo «popolo» è tutt’altro che eccellente. Naturalmente la patente di «oggettivo fiancheggiatore del leghismo-berlusconismo» fu graziosamente concessa anche a me dai miei pochi interlocutori progressisti (si trattava più che altro di rifondatori stalinisti): «ancora con le solite menate veteromarxiste!» Eppure le mie analisi sul leghismo e sul berlusconismo non differivano molto, sul piano dell’oggettiva dialettica dei processi sociali, da quelle sfornate dai più accreditati centri studi attivi in Italia (ad esempio la Fondazione Agnelli, o quelli che fanno capo al Sole 24 Ore e alla Banca d’Italia). E cosa si leggeva negli studi curati dai più seri economisti e sociologi del Bel Paese? Che l’Italia era già divisa, e che la Lega Nord, lungi dall’essere la causa della sua disgregazione sociale-territoriale, ne era piuttosto il prodotto più genuino, e forse anche il rimedio. Ma come, i razzisti di Bossi possono risolvere la – rancida – «questione meridionale»? Questa possibilità esorbitava dalle capacità dei luogocomunisti.
All’inizio degli anni Novanta alla Fondazione Agnelli l’Italia appariva di fatto divisa in tre macroregioni: il Nord, economicamente e socialmente assai sviluppato, dinamico e competitivo, le cui performance capitalistiche erano di assoluto livello europeo e mondiale, al punto che soprattutto l’organizzazione a rete distrettuale del Nordest veniva assunta a modello da molti economisti tedeschi e giapponesi; il Centro, meno sviluppato e competitivo – se non sul terreno del «terziario avanzato» –, ma comunque ancora in grado di sostenere il confronto con la Francia (e poi con la Spagna), e infine il Mezzogiorno, con la sua secolare arretratezza socio-economica, la cui struttura economica era simile a quella del Portogallo e della Grecia. Scriveva l’economista Alberto De Bernardi nel 1991: «lo iato tra nord e sud non ha perso la sua drammaticità e pesa in termini enormi sulle potenzialità di sviluppo complessivo del paese» (Città e campagna nella storia contemporanea, in AA. VV. Storia dell’economia italiana, III, Einaudi). Alle soglie del XXI secolo la rancida «questione meridionale» appare dunque più viva che mai. Anzi, essa adesso si dà nei termini ultimativo dell’Aut-Aut: la sindrome Jugoslava è dietro l’angolo. Come scongiurarla?
Una situazione di questo tipo, venutasi a cristallizzare nell’arco di oltre un secolo, non poteva non produrre una serie di conseguenze anche sul piano politico, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino (sulle vuote zucche dei progressisti più “radicali”, che ancora se ne lamentano), la conseguente scomposizione e ristrutturazione delle vecchie alleanze politico-militari internazionali, e con l’ulteriore impetuosa accelerazione del processo di globalizzazione del capitalismo. E infatti il «risvolto sovrastrutturale» non si è fatto attendere: avanzamento del leghismo, fine della cosiddetta «Prima Repubblica» (ottenuta anche attraverso l’uso del manganello mediatico-giudiziario), ascesa del berlusconismo e altri fenomeni che ancora non hanno esaurito la loro ragion d’essere. Già ai tempi delle «picconate» di Cossiga Presidente della Repubblica apparve chiaro come tutti i nodi dell’ineguale sviluppo sociale del Paese fossero giunti dolorosamente al pettine, ma scioglierli non era – e non è – impresa facile, perché a ogni nodo corrispondeva – e corrisponde – un inestricabile groviglio di interessi economici, politici, istituzionale e quant’altro profondamente radicati nel tessuto sociale. Equilibri di potere e rendite di posizione cementatisi nell’arco di molti decenni non sono problemi che possono venir risolti in poco tempo e senza spargimento di «lacrime e sangue» (a volte anche in senso reale, e non solo metaforico), e non sempre la spada di Alessandro Magno è sulla scena. E’ un fatto che chi tocca i fili dell’annosa «Grande Riforma» muore fulminato, e lo stesso Cossiga rischiò di venir esautorato dalla sua alta funzione per motivi… psichiatrici… Non parliamo poi di Bettino Craxi, il cinghialone sacrificato sull’altare della miserabile e risibile «questione morale».
La Lega Nord nasce come risposta dell’area socialmente più avanzata del Paese a una dinamica distorta e contraddittoria diventata insostenibile nel contesto della nuova situazione europea e mondiale. Una risposta prima quasi istintiva e «spontanea», e poi sempre più cosciente e organizzata. Il movimento leghista dimostra come, prima o poi, più o meno confusamente e contraddittoriamente, la cosiddetta «società civile» (cioè a dire il regno degli interessi materiali e degli antagonismi) trova sempre il modo di darsi un adeguato strumento politico-ideologico per conseguire i suoi obiettivi. «Se non ci fosse stato, avremmo dovuto inventarlo»: questo sentivo dire di Bossi nel Nord del Bel Paese già alla fine degli anni Ottanta, e non solo dai pochi (allora!) e fanatici sostenitori del leader leghista. Alla fine, la «società civile» (o «incivile», per dirla coi progressisti, i quali non sono certo obbligati a pensarla come Hegel: «la società civile è il campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti», o come Marx: «è notevole la definizione della società civile come bellum omnium contra omnes») del Nord ha inventato il Senatur.
La Lega, quindi, come espressione degli interessi generali del Nord. Non solo degli interessi che fanno capo alle classi dominanti radicate in quell’area del Paese, ma anche di quelli afferenti a un settore non piccolo delle stesse classi dominate, le quali sono interessate a una «più equa» redistribuzione della ricchezza nazionale veicolata e mediata dallo Stato attraverso la potente leva fiscale. E’ verissimo che sul piano della storia – e soprattutto della «coscienza di classe» – capitale e lavoro non hanno alcun interesse in comune da condividere, ma è altrettanto e dolorosamente vero che sul piano degli interessi immediati (e in assenza non solo della «coscienza di classe», ma della stessa classe operaia nell’accezione marxiana, e non sociologico-politologica, del termine) i due «fattori della produzione» possono trovare un comune obiettivo, da far valere contro altri strati sociali (ad esempio contro i proletari e il ceto piccolo-borghese del Meridione, rei di incamerare risorse finanziarie che non hanno contribuito a produrre, e che sperperano grazie a un welfare assistenzialistico ormai fuori mercato). Croazia e Slovenia insegnano. Anche all’epoca della guerra nell’ex Jugoslavia si parlò di «razzismo xenofobo», rispettivamente dei Croati e degli sloveni ai danni della Serbia, del Montenegro e del Kosovo, e viceversa di questi ultimi, il «Mezzogiorno» jugoslavo, interessato al mantenimento dello status quo (soprattutto la Serbia del «fascista rosso» Milosevic), contro i primi, il «settentrione egoista», ormai deciso a separare il proprio destino dai «parassiti del Sud». Nel nuovo contesto internazionale le aree economicamente – e socialmente – più avanzate dei paesi europei tendono a entrare in «sinergia» tra di esse, e ciò produce in ogni singola nazione del Vecchio Continente una serie di conseguenze «strutturali» e «sovrastrutturali» (ma qui la distinzione è solo formale, per ciò che abbiamo detto appena sopra) che sono tanto più destabilizzanti del vecchio assetto geopolitico, quanto più forti e radicati sono gli squilibri economici, sociali e territoriali dei paesi coinvolti nel processo di integrazione «globale». E’ la cosiddetta dialettica «globale-locale» che si è affermata negli anni Novanta a livello nazionale, continentale e mondiale.
La «zavorra meridionale» non può non pesare (sempre attraverso il maledetto «drenaggio fiscale» da parte dello «Stato padrone») anche sulle condizioni materiali dei lavoratori del Nord più esposti alla concorrenza internazionale, oltre che su quelle delle piccole imprese e delle «partite iva», vale a dire sullo strato sociale che rappresenta la base elettorale di ultima istanza della Lega, il suo zoccolo duro politicamente e ideologicamente più motivato e risoluto. La recente iniziativa assunta da alcuni piccoli e medi imprenditori del Nordest di versare l’intero costo del lavoro sulle buste-paga dei loro dipendenti, sottraendosi in tal modo all’obbligo di tosare alla fonte (come veri e propri sostituti d’imposta) il reddito dei lavoratori per conto dello Stato, si inscrive nello scenario di lotta «interclassista» che ha permesso al partito di Bossi di incamerare, nelle ultime elezioni politiche, la gran parte dei consensi elettorali delle «tute blu» sfruttate nel Nord, e ciò naturalmente ha sconcertato gli italici progressisti, i quali pensavano di poter godere indefinitamente del monopolio elettorale sulla «classe operaia», che nel frattempo è andata all’inferno già da molti decenni a questa parte, grazie soprattutto ai progressisti attivi in politica, nella «cultura», nel sindacato, e via di seguito. Il paradiso può attendere.
Quando negli anni Novanta la Lega denunciava i rischi di una «globalizzazione affrettata e senza regole», e si scagliava soprattutto contro l’ingresso della Cina nel WTO, essa difendeva precisamente gli interessi del proprio elettorato, sebbene in una forma che agli antiglobal di sinistra non poteva non sembrare antipatica. Eppure, al di là della fenomenologia, il movimento di Bossi era in perfetta sintonia col cosiddetto movimento di Seattle, non a caso capeggiato, tra gli altri, dal ricco produttore di vino francese José Bové, il “diversamente capitalista”. Già, perché un nuovo capitalismo è possibile: più verde, più equo, più solidale e più sostenibile sotto ogni rispetto. A me questo capitalismo «dal volto umano» fa più angoscia di quello «selvaggio» contestato dai progressisti, ma i gusti son gusti… «Ma», si chiedono i progressisti, «dove andremo a finire se anche i lavoratori del Nord – e anche quelli di Rosarno… – votano Lega Nord?» Stiano pur tranquilli: finiremo nella stessa Repubblica democratica fondata sul lavoro (salariato, cioè sfruttato) che tanto piace al progressista partigiano della Sacra Costituzione Italiana, del Sacro Tricolore – minacciato un giorno da Bossi di certi usi igienici irriferibili: il progressista è lesto di querela! – e della Sacra Unità Nazionale: Viva l’Italia, cribbio!
Dicono i leghisti: come possono le nostre piccole e medie imprese, che non godono del sostegno della «mano pubblica», competere con i prodotti cinesi, o con quelli che adesso vengono dall’Europa Orientale, ossia con le merci che assorbono un costo del lavoro che è pari, rispettivamente, a uno a venti e a uno a dieci rispetto a quello italiano? Infatti, non possono. Allora, o quelle aziende chiudono, oppure devono comprimere il salario dei lavoratori fino a un limite impensabile fino a dieci anni fa, oltre che aumentarne la produttività, magari allungando la giornata lavorativa. L’impiego di manodopera straniera nelle aziende del Nord ha questo preciso significato: esso riduce in maniera diretta e indiretta il salario dei lavoratori: bianchi, neri, gialli, di ogni colore. Il capitale è daltonico, e riconosce solo il colore dei soldi.
E qui arriviamo a Rosarno. Da almeno venti anni non sentiamo che ripetere questa tiritera: gli stranieri fanno i mestieri che i nostri giovani, ammaliati da calciatori e veline, non vogliono più fare. Ergo, gli africani, i rumeni, i filippini e quant’altro non rubano il nostro lavoro. Non solo, ma i lavoratori extracomunitari sostengono il nostro Pil, pagano con le loro tasse le nostre pensioni, e fanno quei figli che le donne e gli uomini italiani non vogliono più mettere al mondo. Tutto vero. Però chi fa questo bel discorso – il solito progressista naturalmente è in prima linea – dimentica di aggiungere questo insignificante particolare: gli italiani non vogliono più fare determinati lavori all’attuale prezzo e alle attuali condizioni. Ma si trova in Europa Occidentale un lavoratore agricolo europeo disposto a lavorare dieci, dodici e a volte quattordici ore in cambio di un salario giornaliero di venticinque euro (quando va bene e al lordo del pizzo da pagare al caporale)? Domanda retorica, me ne rendo conto. Loro malgrado, i «negri» hanno gettato i «bianchi» fuori dal mercato del lavoro, e hanno permesso la via italiana, e soprattutto meridionale, alla competizione capitalistica internazionale nel settore (agricolo e manifatturiero) più esposto alla concorrenza dei prodotti made in Cina, piuttosto che made in Portogallo o Tunisia o Marocco (paesi nei quali, ad esempio, si è sviluppata una filiera di trasformazione del pescato davvero importante).
La recente crisi economica ha reso ancora più risibile la balla raccontata dagli uomini di buna volontà per dare una copertura politico-ideologica al supersfruttamento degli extracomunitari: infatti, non pochi meridionali disoccupati oggi accettano gli anoressici salari oggi pagati ai lavoratori stranieri. La crisi ha insomma risospinto i «bianchi» verso il nuovo mercato del lavoro precipitato al giusto livello competitivo grazie ai «neri», ai «gialli» e via di seguito. In prospettiva questo processo è destinato a creare non poche tensioni nel seno della classe dominata, soprattutto nei suoi strati più deboli e marginali (uno “status”, questo, in continua fluttuazione), sempre più potenzialmente ricettivi nei confronti di qualsiasi discorso che promettesse una soluzione definitiva («finale»…) dei loro problemi. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma non è affatto detto che la farsa di domani sarà meno violenta e sanguinosa della tragedia di ieri. Come scriveva Max Horkheimer, «di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (Lo Stato autoritario). Pessimismo cosmico? No, pessima è la realtà. Intanto, non pochi italiani di cultura ebraica, seguendo da casa gli eventi di Rosarno, hanno istintivamente portato la mano alla cintura, alla ricerca della metaforica pistola. A Rosarno, però, ha sparato un fucile vero, contro i «negri», i quali hanno avuto il cattivo gusto di arrabbiarsi, a casa d’altri!
Tutti: Stato, Regione, Comune, Magistratura, Sindacati, partiti politici, Chiesa, cosiddetti intellettuali, popolazione interessata, opinione pubblica; tutti hanno chiuso un occhio, anzi due, per amore dell’impresa italiana, soprattutto di quella meridionale, tradizionalmente cagionevole e bisognosa di tutele particolari, financo straordinarie. Nella competizione capitalistica internazionale non c’è posto per le anime belle, peraltro silenti fino alle esplosioni delle magagne, come ha ironicamente fatto osservare Vittorio Feltri, il quale almeno non affetta quell’aria perennemente indignata che rende ai miei occhi particolarmente antipatici i reazionari di «sinistra», i progressisti. Chi ha detto e scritto che in molte zone del Mezzogiorno «lo Stato non esiste» finge di non capire che il lasciar fare, il lasciare andare è stata una sapiente politica adottata dalle classi dirigenti di questo Paese dall’Unità d’Italia in poi; una società, quella venuta fuori dal Risorgimento, piena di contraddizioni già incancrenite da tempo, difficili da governare con gli standard politici, istituzionali e «morali» vigenti negli altri paesi occidentali. Ciò che all’occhio del superficiale e dell’amante dell’ordine appare come «assenza dello Stato», in realtà non è che una strategia politica di controllo sociale che le classi dirigenti hanno saputo mettere da parte tutte le volte che le magagne hanno superato il livello di guardia. Altro che mancanza dello Stato! Certo, per alcuni lo Stato non è mai abbastanza presente e repressivo, e certi tizi si dispiacciono di non poterselo portare anche a letto: che libidine… il manganello al letto…
Improvvisamente, un giorno di gennaio del 2010 tutti hanno “scoperto” l’esistenza del lavoro schiavistico nel XXI secolo, e in un Paese che nel suo piccolo rappresenta ancora la crema della civiltà Occidentale (leggi: capitalistica). Passi per la Cina, per l’India, per il Bangladesh; d’altra parte, occhio che non vede… E poi, per i cittadini più sensibili – e danarosi –, c’è sempre la possibilità dell’adozione a distanza dei bimbi dei diseredati, che fa tanto solidarietà – e, soprattutto, scarico di coscienza. Ma vedere quell’estremo sfruttamento in Italia! E tutti hanno improvvisamente “scoperto” che il nero popolo dell’abisso precipitato nell’inferno di Rosarno (provincia del mondo, non solo di Reggio Calabria) viveva in condizioni a dir poco rivoltanti. Al confronto, gli schiavi «classici» dell’antichità godevano, se così posso esprimermi, di uno status sociale più «dignitoso», se confrontato con quello degli schiavi salariati cacciati da Rosarno, non foss’altro per il fatto che i primi, a differenza dei secondi, costituivano un investimento prezioso per il proprietario terriero, uno strumento di lavoro da far durare il più a lungo possibile. Oggi lo schiavo salariato «negro» vale così poco sul mercato, che quando il capitale non sa più che farsene lo caccia senz’altro dalla gleba, allestendo nel giro di ventiquattrore pogrom postmoderni e deportazioni coi fiocchi, con tanto di giornalisti e cameraman al seguito. Anche il prossimo sterminio di massa finirà in prima serata? Già i massmediologi si interrogano, mentre il più pratico e solerte Bruno Vespa ha commissionato il plastico di una camera a gas; non si sa mai, la concorrenza mediatica è forte e non bisogna lasciarsi fregare dagli eventi.
Certo, gli schiavi dei nostri tempi godono di grande libertà, compresa quella di crepare di fame e di accettare salari sempre più infami, in attesa della prossima provocazione che li spingerà a mostrarsi al cinico occhio dell’opinione pubblica nazionale nei panni del solito branco di «negri» violenti, nonché sporchi, cattivi e ingrati (pure!), e perciò senz’altro meritevoli di venir deportati da un posto all’altro, da un inferno all’altro, fino al giorno della soluzione finale, che non necessariamente prevede l’uscita dei «negri» dai camini. Anche perché bisognerebbe fare i conti con l’impatto ambientale della faccenda; occorrono strategie socialmente più sostenibili. «Ma non sarebbe meglio, più giusto, più umano, aiutarli a casa loro?», domandano i «leghisti di fatto» di Rosarno. «Certo che è meglio!», risponde la leghista di diritto eletta a Lampedusa, nelle cui stupende acque non s’era mai vista tanta abbondanza di pesci. «Vuoi vedere che al pesce piace il negro?»: è una delle battute più gettonate nell’estrema propaggine del Bel Paese. Quanta cinica verità, in quelle odiose parole.
Come riemergere dall’abisso dentro il quale è precipitata l’intera umanità? Inutile coltivare facili illusioni, anche perché abbiamo imparato a sopravvivere in quell’abisso, al punto che non lo esperiamo più come tale. Abbiamo imparato a dare del «tu» persino all’orrore. Non ci sono soluzioni facili, purtroppo. Solo per non continuare a precipitare, per resistere a ulteriori sprofondamenti, i lavoratori d’ogni colore, sesso, religione e quant’altro dovrebbero coalizzarsi in nuovi organismi del tutto autonomi rispetto agli attuali sindacati nazionali, veri e propri strumenti di dominio nelle mani del capitale e dello Stato. E dovrebbero dichiarare subito guerra alla politica delle compatibilità. «Ma così il sistema delle imprese italiane andrebbe a quel paese!», rispondono tutte le persone che hanno a cuore l’interesse nazionale. E hanno perfettamente ragione. Infatti, si tratta di scegliere tra il Sacro interesse nazionale – che da sempre esprime l’interesse delle classi dominanti – e il più profano interesse delle classi dominate, le cui condizioni di lavoro e di vita peggiorano sempre di nuovo, compromesso dopo compromesso, «senso di responsabilità» dopo «senso di responsabilità», «compatibilità» dopo «compatibilità», avendo come loro limite inferiore l’esistenza dei «negri» e dei «gialli». E questo non a causa della cattiva volontà politica di qualcuno, come ci dicono i progressisti di tutto il mondo da circa un secolo a questa parte, ma in grazia dell’intima e incoercibile natura del dominio sociale vigente. E’ vero, «il pesce puzza dalla testa», come dicono i meridionali, ma qui la testa non è il Berlusconi di turno, ma il capitale, il vero soggetto attivo di questa epoca storica, il mostro che tutti i santi giorni ci ingiunge di guadagnarci in qualche modo la metaforica (ma per qualcuno ben reale!) pagnotta: chi sfruttando il lavoro degli altri, chi lavorando, chi rubando, chi trafficando in droga e armi, e così via, lungo la quasi infinita filiera del profitto e del denaro.
Le chiacchiere sulla «volontà politica» stanno a zero e hanno il solo significato di ingannare le classi dominate, le uniche che potrebbero rimettere in moto la storia. «Ma siamo tutti sulla stessa barca: se affonda il capitale affonda pure il lavoro!» Qui occorre fare una quasi insignificante precisazione: col capitale affonderebbe il lavoro salariato, il lavoro nella sua attuale forma di merce che valorizza altra merce, non il lavoro tout court, che è un dato inestinguibile della prassi sociale umana.
Non sono così ingenuo da pensare che la comunità dell’uomo in quanto uomo sia dietro l’angolo, e anzi so benissimo che l’attualità del dominio oggi annichilisce la possibilità della liberazione. Ma ho anche capito che «La smisurata dimensione del potere diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità» (M. Horkheimer). Invito a guardare da questa prospettiva anche il prezioso lavoro politico teso a diffondere presso i lavoratori la necessità e l’urgenza dell’autorganizzazione, contro la micidiale «logica» della delega e delle compatibilità. È, a mio modesto avviso, la sola prospettiva che può dare coerenza e forza a quell’impegno, che può renderlo fino a un certo punto immune alle astutissime strategie del dominio.