MAL’ARIA

In ricordo di Rhoda e degli altri sommersi

 

Benché inglobati e trascinati senza requie dalla folla
innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si
trascinano in una opaca intima solitudine, e in solitudine
muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia nella
memoria di nessuno (P. Levi, Se questo è un uomo).

Il reportage sui lager libici pubblicato domenica scorsa da Avvenire conferma quello che in Italia e nella civilissima Europa sanno tutti: i migranti che non stanno arrivando nel nostro Paese, in Spagna e in Grecia sono precipitati nel «buco nero delle prigioni clandestine libiche», infernale abisso che «ha numeri da Terzo Reich: circa 400mila i profughi “contabilizzati” dalle autorità di Tripoli, ma quelli rimasti imprigionati sono molti di più: secondo stime ufficiose confermate anche da fonti di intelligence italiane, sarebbero tra gli 800mila e il milione». Nei lager che anche il nostro Paese rende possibile, sono soprattutto le donne a pagare il prezzo più salato alla ricerca di una vita migliore: «Il blasfemo jihad degli stupratori libici si compie ogni sera, dopo che le autobotti [carichi di nafta] dei contrabbandieri tornano indietro. “Allah Akbar”, urlano mentre torturano gli uomini e assaltano le donne. Accanto alla vittima mettono un telefono mentre picchiano più duro, così che i malcapitati implorino pietà e altri soldi dai parenti rimasti nei villaggi». Giovani donne finite nelle mani degli aguzzini, ex scafisti riconvertitisi in guardie stipendiate a quanto pare anche con denaro proveniente dal governo italiano, preferiscono darsi la morte, pur di farla finita con stupri e umiliazioni d’ogni genere.

«Da qualche settimana, dicono i trafficanti di gasolio, c’è solo gente che entra e nessuno che va via coi gommoni. Una situazione esplosiva che fa essere gli scafisti ancora più cattivi, forse per il timore di non poter fronteggiare da soli una rivolta di centinaia di persone. Le finestre degli stanzoni dei migranti sono coperte da drappi che impediscono di vedere bene all’interno. Poi per un istante, lo straccio che fa da tenda viene scostato. Osserviamo un ammasso indistinto di esseri umani accucciati per terra. Uomini donne e bambini addossati a gruppi di trenta o quaranta per stanza. Ogni vano non supera i cinquanta metri quadri. Di colpo gli sguardi di mille occhi si alzano verso la finestra. E ci guardano. Qualsiasi gesto, un saluto, un sorriso, una smorfia di rabbia o di compassione, suonerebbe come beffardo o una nuova umiliazione». Sì, dinanzi all’orrore è meglio tacere, o distogliere lo sguardo, e pensare che dopo tutto paghiamo i politici perché siano loro a prendersi cura del mondo. Molti pensano, e non pochi anche dicono (viva la sincerità!), che l’obiettivo è stato comunque raggiunto: frenare in qualche modo l’«invasione» del sacro suolo nazionale da parte di gente che ci porta solo problemi: «Aiutiamoli a casa loro!». Occhio che non vede, cuore che non duole, coscienza che non pesa. E poi questi africani, con rispetto parlando, «dopo la miseria ci portano le malattie» (Libero Quotidiano). «Non abbiamo amici in quelle zone», sostiene il cattivo (e perciò credibile) Edward Luttwak: «stare fuori è l’unica soluzione. Altrimenti occorre ripristinare Stati di stampo coloniale». È ciò che d’altra parte si stanno impegnando a fare alcuni Paesi europei, Italia inclusa. «Nostre fonti, ma ora anche alcuni media libici tra al-Wasat e Erem, hanno riferito dell’incontro in Libia questa sera del ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, con il generale di Tobruk, Khalifa Haftar. Infatti dopo essere stato ad Algeri, Minniti si sarebbe recato a Bengasi, dove avrebbe incontrato il generale “di Tobruk” presso il suo ufficio situato nella base di al-Rajmeh, a sud della città della Cirenaica. […] Il meeting, avvenuto nel silenzio dei media italiani, avrebbe avuto ancora una volta al centro il tema dell’immigrazione, cosa probabile visto il ruolo del ministro dell’Interno» (Notizie Geopolitiche). Finalmente un Ministro dell’Interno come si deve! Anche la pelata ministeriale s’intona bene, a me pare, con la virile quanto vitale (per l’ordine sociale e la sicurezza nazionale) funzione.

«Zuara. È qui che Rhoda è morta dopo le prime notti in balia dei capricci degli scafisti. Era un anno fa. Dicono si sia ammazzata mentre tutti dormivano. Prima, cercava qualcosa con cui sfigurarsi. Acido, candeggina, oppure del fuoco. Fino a quando – racconta l’amica – trovò la lama di un rasoio usato dai migranti maschi». «Dicono si sia ammazzata mentre tutti dormivano»: anche qui da noi tutti dormono, o fanno finta di dormire, per poter dire (soprattutto a se stessi): «Ma io non sapevo, io dormivo, io non c’entro». Come no! «Considerate se questa è una donna. Senza capelli e senza nome. Senza più forza di ricordare. Vuoti gli occhi e freddo il grembo. Come una rana d’inverno» (P. Levi, Se questo è un uomo). «Ma io non sapevo, io dormivo, io non c’entro». Come no!

«In Germania non si può paragonare la crisi dei migranti all’Olocausto degli ebrei, nemmeno se a farlo è un artista. Ha ricevuto critiche durissime la performance dal titolo Auschwitz on the Beach scritta dal filosofo e attivista bolognese Franco “Bifo” Berardi» (Il Fatto), il quale denuncia «la bigotteria di gente che ha ripetuto molte volte “mai più Auschwitz” e tuttavia non tollera che qualcuno gli faccia presente che in realtà Auschwitz sta accadendo di nuovo sotto i nostri occhi e con la nostra complicità». Bravo Bifo! La radice sociale che ha reso possibile lo sterminio pianificato di uomini, donne, vecchi e bambini (anche di quelli “attenzionati” dalle democratiche Fortezze Volanti) nella Seconda guerra imperialista è tutt’altro che morta, e il “realismo” che dimostriamo nei confronti delle “sciagure lontane” lo testimonia nel modo più evidente.

«Noi occidentali», osserva ancora Bifo, «dobbiamo far fronte alle conseguenze di secoli di colonialismo e di quindici anni di guerra ininterrotta, di cui siamo totalmente responsabili. Ora, l’enorme debito che abbiamo accumulato, non vogliamo pagarlo. Ci rifiutiamo di investire le enormi somme di denaro necessarie per l’accoglienza dei migranti e preferiamo darle a Banca Etruria, al Monte dei Paschi e al sistema finanziario europeo. Bene, questo atteggiamento provoca la guerra. Una guerra che è già cominciata e che non vinceremo, perché abbiamo a che fare con un immenso esercito di disperati. Perderemo tutto. Perderemo la vita di molta gente, perderemo la democrazia e il senso dell’umanità». Questa lamentela da occidentale critico invece non mi piace neanche un poco, anche perché sembra inclinare verso il solito piagnisteo “populista”, antifinanziario e antiliberista («quell’espressione ha provocato la bigotteria del ceto neoliberale tedesco.). Nella mia qualità di “proletario critico” mi auguro piuttosto una saldatura tra la classe subalterna d’Europa e «l’immenso esercito di disperati» alla ricerca di una vita migliore, e certamente non mi spaventa neanche un poco la prospettiva di perdere la «democrazia [ossia l’attuale forma politico-istituzionale che assume il dominio di classe] e il senso dell’umanità [degli “occidentali”?]»: come diceva quello, i proletari non hanno niente da perdere e un mondo da conquistare.

«Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice» (P. Levi, Se questo…). Qui si parla di tutti noi, beninteso. Almeno io la vedo così. Più volte nei miei modesti post ho scritto che fino a quando non apparirà sulla scena «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer), tutto il male astrattamente concepibile è pure molto probabile, anche ai danni di chi al momento pensa di esserne al riparo semplicemente perché crede di essere nato nella parte fortunata del mondo. Salvo ritrovarsi in casa la guerra sotto forma di attentati terroristici. Intanto, mentre rimandiamo sine die la creazione dell’uomo, ossia la realizzazione delle condizioni sociali che rendano possibile l’esistenza dell’uomo in quanto uomo su questo piccolo pianeta, la ruota della fortuna continua a girare, sempre più rapidamente, sempre più minacciosa. Non c’è dubbio, tira una pessima aria: mal’aria, appunto, e tutti – salvo chi legge, si capisce – ne siamo contagiati. «Ai vaccini, presto!» Auguri!

MARCINELLE 1956, MEDITERRANEO 2017. UNA FACCIA, UNA DISGRAZIA

Ni chiens, ni italiens!

Né cani, né africani!

Né cani, né africani, né omosessuali!

Né cani, né africani, né omosessuali, né…

 

Com’è noto, nell’immediato dopoguerra l’Italia siglò con il Belgio un accordo che prevedeva quote di carbone estratto nelle miniere di quel Paese in cambio di manodopera italiana, a testimonianza del fatto che, come diceva l’uomo con la barba, nel Capitalismo «il lavoro-merce è una tremenda verità». Scriveva Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 16 agosto 2016: «Eravamo Poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce». Marxianamente parlando quest’ultima frase andrebbe riscritta come segue: uno scambio di uomini ridotti a merce con altra merce (materia prima); capitale/lavoro vivo (il mitico “capitale umano”) contro capitale/lavoro morto.

Leggo da qualche parte: «L’8 agosto 1956 nella miniera del Bois du Cazier, in Belgio un incendio causò la morte di 262 minatori di cui 136 italiani. La miniera di Marcinelle è diventata un simbolo e un santuario della memoria per tutti gli emigranti italiani che hanno perso la vita sul lavoro, spesso un lavoro duro, faticoso e pericoloso». La ricostruzione postbellica non fu esattamente un pranzo di gala, da nessuna parte. Ebbene, l’Italia ha fatto di quelle vittime del Capitale e degli interessi nazionali degli eroi, dei soldati-minatori caduti sul fronte del lavoro per mantenere alto l’onore e il prestigio della Nazione: «La memoria di questo tragico evento, che nel nostro Paese celebriamo come Giornata del Sacrificio del lavoro italiano nel mondo [che definizione fascistissima!], deve servire da guida per noi e per i nostri figli. Le nostre comunità all’estero non sono solo viste come destinatarie di servizi, ma anche e soprattutto come una componente essenziale della politica estera dell’Italia». Queste le dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario agli Affari Esteri, Vincenzo Amendola, nel corso della commemorazione delle vittime di Marcinelle. Per quanto mi riguarda la nazionalità di quei salariati uccisi dai rapporti sociali capitalistici non ha alcuna importanza; «Non dimenticare Marcinelle» per me non significa in alcun modo sostenere le politiche di chi cerca di gestire le contraddizioni sociali ai fini della difesa dello status quo sociale implementando una strategia “buonista” («Gli immigrati fanno i lavori che noi italiani non vogliamo più fare, frenano il calo demografico nel Paesi ricchi e ci pagano le pensioni!»); né significa, ovviamente, tessere l’elogio dell’immigrato italiano “buono” (come i macaronìs!) che sgobbava senza lamentarsi – mentre i negracci che purtroppo riescono a sopravvivere al deserto, ai carnefici dei lager libici e ai pesci del Mediterraneo non hanno voglia di fare nulla di costruttivo!

Il 61esimo anniversario della strage di Marcinelle, celebrato lo scorso 8 agosto, ha offerto ai “buonisti” e ai “cattivisti” che si disputano la scena politica nazionale un’eccellente occasione per esibirsi dinanzi al pubblico dei rispettivi tifosi e detrattori. Come abbiamo visto il fronte buonista ha avuto i suoi campioni nel Presidente della Repubblica Sergio Mattarella («Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione, hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza . È un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri Paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione Europea»), nel Ministro degli Esteri Angelino Alfano («La tragedia di Marcinelle ci dà ancora oggi la forza di lavorare per un’Europa più coesa e solidale, come l’avevano immaginata i padri fondatori. Un’Europa che trae origine e sostanza dal genuino spirito di fratellanza fra i suoi popoli. Mi riferisco in particolare al flusso continuo di migranti disperati che oggi, come allora, cadono troppo spesso vittime») e, dulcis in fundo (ma si fa solo per dire), nell’immancabile Presidente (o Presidenta? o Presidentessa?) della Camera Laura Boldrini: «L’anniversario della tragedia di Marcinelle ci ricorda quando i migranti eravamo noi. Oggi più che mai è nostro dovere non dimenticare». Non dimenticare cosa esattamente? E «noi» e «nostro» in che senso? Ad esempio, chi scrive cosa ha da spartire con i campioni del buonismo appena citati? La nazionalità? Non c’è dubbio; ma è, questo, un connotato anagrafico che sempre chi scrive respinge sul terreno della lotta (si fa quel che può!) anticapitalistica, la quale, come ho già accennato, dissolve ogni appartenenza nazionale, razziale, religiosa e quant’altro per porre al centro dell’attenzione la disumana prassi del Dominio, la maligna entità storico-sociale che rende possibile anche le carneficine, in tempo di guerra come in tempo di – cosiddetta – pace. È questo d’altra parte il filo nero che lega la Marcinelle del 1956 al Mediterraneo del 2017. Ovviamente e come sempre, mutatis mutandis.

Cambiando dunque l’ordine cronologico delle stragi, il colore della pelle degli sventurati e il contesto storico/geopolitico degli eventi qui evocati, il risultato non cambia. E si chiama Capitalismo, la cui dimensione oggi è mondiale. La spinta migratoria che origina soprattutto nell’Africa subsahariana ha moltissimo a che fare con le dimensioni e con la natura invasiva del Capitalismo, il quale genera “scompensi”, magagne e contraddizioni sia là dove esso per così dire abbonda (vedi il cosiddetto Nord del mondo), sia là dove invece esso è asfittico e tarda a decollare, e questo, nella fattispecie, soprattutto a cagione della prassi colonialista e imperialista che vide protagonisti alcuni Paesi europei già a partire dalla fine del XV secolo. L’ineguale sviluppo del Capitalismo ha sempre creato onde di pressione sociale che coinvolgono l’intero pianeta, e che possono manifestarsi anche sottoforma di migrazioni di massa, un fenomeno che, come impariamo fin dalle scuole elementari, se osservato dalla prospettiva storica non ha in sé nulla di eccezionale: il bisogno spinge i popoli a muoversi, da sempre. Oggi questo processo sociale si dispiega nell’epoca caratterizzata dal totalitario dominio dei rapporti sociali capitalistici, e questo connotato storico-sociale gli conferisce la peculiare fenomenologia che ci sta dinanzi.

Ma ritorniamo a Miserabilandia! Dei buonisti abbiamo già detto. Immediata è scattata la rappresaglia dei cattivisti, i quali si sono prodotti nel solito coro: «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». «Mattarella si vergogni», ha tuonato appunto il leader leghista Matteo Salvini. «È vergognoso – ha dichiarato Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda – che il presidente Mattarella nel ricordare la strage di Marcinelle paragoni gli italiani che andavano a sgobbare in Belgio o in altri Stati, dove lavoravano a testa bassa, dormendo in baracche e tuguri, senza creare problemi, agli immigrati richiedenti asilo che noi ospitiamo in alberghi [che invidia!], con cellulari, connessione internet [e io pago!], per farli bighellonare tutto il giorno e avere poi problemi di ordine pubblico, disordini, rivolte come quella avvenuta oggi nel napoletano dove otto immigrati minorenni hanno preso in ostaggio il responsabile della struttura che li ospita. Paragonando questi richiedenti asilo nullafacenti agli italiani morti a Marcinelle il presidente Mattarella infanga la memoria dei nostri connazionali. Si vergogni». Ecco appunto. Per il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato, «le parole di Matteo Salvini sono vergognose [ci risiamo!] perché offendono il Presidente Mattarella [e chi se ne frega!] e gli italiani»: nella mia qualità di disfattista rivoluzionario non mi sento offeso neanche un po’ dal vomito razzista che esce dalla bocca di Salvini e gentaglia simile. Questa è robaccia che può eccitare gli animi delle opposte tifoserie che siedono sugli spalti di Miserabilandia. Dal mio punto di vista buonisti e cattivisti pari sono, e rappresentano due opzioni interne all’esigenza di gestire i processi sociali e di controllare la società per garantire la continuità dello status quo sociale – sociale, non meramente politico-istituzionale.

Pare che anche qualche discendente delle vittime di Marcinelle si è sentito offeso dal buonismo presidenziale di Mattarella, da quello governativo di Alfano e da quello istituzionale della Boldrini: «Aldo Carcaci, figlio di un emigrato e oggi deputato belga, ha contattato IlGiornale.it dicendosi esterrefatto da quanto sentito in questa giornata di dolore. “Mi sento offeso dalle parole che ho sentito. Così come è offesa la memoria delle persone che hanno perso la vita nella miniera di Marcinelle. Paragonare quegli immigrati con quelli di oggi è sbagliato. Quando mio padre nel 1947 è andato in Belgio c’èrano degli accordi tra i due Paesi. C’era, da parte del Belgio, una richiesta di lavoratori. In Italia invece i giovani non hanno un impiego ed è quindi impensabile riuscire ad aiutare tutti i ragazzi africani che arrivano ogni giorno sulle nostre coste. Inoltre noi ci siamo integrati, abbiamo studiato, imparato la lingua e lavorato anche se subivamo episodi di razzismo”» (Il Giornale). Capito? Noi eravamo brava gente (e pure di pelle bianca, salvo qualche siciliano particolarmente abbronzato); loro invece…

Quanto escrementizia e risibile sia la disputa tra buonisti e cattivisti lo apprendiamo anche dalla discesa in campo dell’attore comico Jerry Calà («Capito?»): «Non paragoniamo i nostri emigrati per piacere! Loro chiusi in baracche da cui uscivano solo per lavorare e rientravano per farsi da mangiare. Mio zio è morto in Belgio nelle miniere per mantenere la famiglia italiana. Mi permetto di parlare perché ne sono parente e in quegli anni ci sono stato. In Svizzera, in Belgio, in Germania. Non facciamo paragoni assurdi per piacere! Gli emigranti italiani venivano trattati come animali da soma… pulitevi la bocca». Pare che l’indignazione dell’attore abbia riscosso un notevole apprezzamento in una non piccola parte di Miserabilandia.

Giustamente Francesco Cancellato (Linkiesta) considera «stucchevole e pedagogico sentirsi dire che dovremmo solidarizzare coi migranti perché un tempo lo siamo stati anche noi. Come se solo una pregressa condizione di sfruttati possa muoverci a pietà per una moltitudine di disperati in fuga dall’inferno. Come quando nei telegiornali una tragedia diventa tale solo se ci sono morti italiani». E soprattutto egli sottolinea le differenze che corrono tra la tragedia di Marcinelle e la strage continua dei «disperati in fuga dall’inferno», una differenza che, per così dire, porta acqua al mulino della moltitudine in fuga da guerre, fame, malattie, miserie d’ogni genere. Il paragone tra Marcinelle e il Mar Mediterraneo è tale da far impallidire i morti del 1956. Scrive Cancellato (il quale, beninteso, argomenta dal punto di vista degli interessi nazionali): «Nel 1956 eravamo alla vigilia di quello che oggi definiamo “miracolo economico italiano”, indotto dal Piano Marshall (sì, gli Stati Uniti ci aiutavano a casa nostra): nei quattro anni successivi, tra il 1957 e il 1960, per dire, la produzione industriale italiana crebbe del 31,4% e la crescita del Pil non scese mai sotto il 5,8%. Ritmi cinesi, insomma, per il quale c’era bisogno di materie prime come il carbone. Ed è proprio per quel carbone che fu firmato il protocollo Italo-Belga, dieci anni prima, nel 1946». In secondo luogo, «nel Canale di Sicilia, negli ultimi quindici anni, hanno perso la vita 30mila anime. Ripetetevelo nella mente: trentamila. Ci sono più cadaveri che pesci, in quel tratto di mare. Se vogliamo capire cosa provano quegli esseri umani che cercano di entrare in Europa – attraversando l’Italia – dal Canale di Sicilia, prendiamo la più grande tragedia della nostra stagione migratoria e moltiplichiamola per dieci, cento, mille, un milione. Magari servirà a farci capire a chi stiamo chiudendo le porte». In terzo luogo, «per convincere gli italiani a partire, nel 1946 l’Italia fu tappezzata di manifesti rosa che presentano i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore: salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato. Per quanto terribili fossero poi le loro condizioni di lavoro, una situazione un po’ diversa rispetto a quella delle migliaia di schiavi africani che ogni anno raccolgono pomodori e arance tra Puglia e Sicilia. Se pensate siano fenomeni imponderabili, sappiate che solo a raccogliere i pomodori, ogni anno, sono impiegati quasi 20mila braccianti, molti dei quali senza contratto, molti dei quali stranieri, molti dei quali irregolari». Su questo aspetto rinvio a due miei post: Rosarno e dintorni e Uomini, caporali e cappelli.

Scrive il “realista” Maurizio Molinari: «L’integrazione dei migranti è un test di crescita per ogni democrazia industriale, capace di rafforzarne la prosperità come di indebolirne la solidità, e l’Italia non fa eccezione. Ecco perché è opportuno affrontare senza perifrasi la sfida che abbiamo davanti, guardando oltre liti politiche interne e dispute internazionali. […] L’interesse dell’Italia è dotarsi di provvedimenti, leggi e politiche che rendano possibile [l’integrazione degli immigrati] sulla base di principi condivisi: non tutti i migranti che sbarcano possono rimanere perché una nazione sovrana non è una porta girevole, ma chi viene accolto deve poter intraprendere un cammino verso la cittadinanza che include l’integrazione nel sistema produttivo. Poiché coniugare integrazione e sovranità è una sfida nazionale per essere vinta necessita il coinvolgimento di tutte le forze politiche del Paese, che si trovino al governo o all’opposizione poco importa, e in ultima istanza il sostegno e l’attenzione di tutti i cittadini italiani, a prescindere dalle fedeltà di credo o di partito» (La Stampa). Un appello che ovviamente non può convincere (anzi!) chi lotta contro gli interessi nazionali (vedi anche il mio post sulla Libia) e per la costruzione dell’autonomia di classe, la quale è tale solo se prospetta a tutte le vittime del Capitale, a prescindere dal colore della loro pelle, dalla loro nazionalità, ecc., la necessità e l’urgenza di unirsi in un vasto fronte anticapitalista. Tutto il resto (“buonismo” e “cattivismo”) è miseria capitalistica.

GIOCHI DI POTERE SULLA PELLE DEI MIGRANTI

bambini-paure-692395Gran gioco tattico della Cancelliera di Ferro, non c’è che dire. Un intelligente gioco che potrebbe avere conseguenze strategiche di grande respiro ancora tutte da verificare, com’è ovvio, ma anche semplicemente da immaginare. Ma è ancora presto per azzardare previsioni: limitiamoci allora alla stretta attualità, e soprattutto teniamoci alla larga dalla facile «compassione per gli ultimi», così irritante soprattutto nell’Anno della Misericordia.

L’imperialismo compassionevole di Angela Merkel ha spiazzato più di un leader politico del Vecchio Continente. L’accoglienza selettiva dei profughi (è benvenuto in Germania solo chi fugge dalle guerre) deliberata da Berlino in un sol colpo ha posto la Cancelliera nelle invidiabili condizioni di poter conquistare i cuori e le menti dei reietti del pianeta, i quali vedono appunto nella Germania la nuova Terra promessa. Dalla Germania “lo straniero” non fugge più, come ai tempi di Hitler, ma all’opposto egli associa a quel Paese i concetti di salvezza, di speranza, di benessere. «Germania! Germania! Germania!»: è il grido dei disperati ammassati in Italia, in Grecia, in Ungheria e altrove. Un capolavoro politico-ideologico! Questo, si badi bene, non esclude affatto che l’attuale governo tedesco non debba pagare dei costi politici, anche salati, sul fronte interno; d’altra parte gli umori dell’opinione pubblica internazionale di questi tempi sono molto volatili, un po’ come le borse. I giorni a venire probabilmente ci diranno qualcosa anche in tal senso.Senza muovere dal suolo patrio un solo soldato teutonico, la Germania bisognosa di “capitale umano” giovane e qualificato (1) si è dunque proiettata al centro della scena geopolitica internazionale, costringendo i colleghi europei di maggior peso politico (Cameron e Hollande) a rincorrerla sullo scottante terreno dei flussi migratori, una patata bollente in termini di consenso elettorale e di gestione delle tensioni sociali. Ma la mossa tedesca ha colto di sorpresa anche e soprattutto i Paesi del fronte del rifiuto, la cui capacità sistemica (economica, culturale, sociale in senso ampio) di integrazione dei migranti è ovviamente assai più modesta. «È facile essere compassionevoli con un Capitalismo così forte», avranno pensato a Varsavia e a Budapest. Di qui la pronta solidarietà accordata da Grillo e da Salvini, che rivaleggiano con i sovranisti europei più arrabbiati quanto a tedescofobia, ai Paesi interessati dallo «sciame migratorio».

«”Il diritto all’asilo politico non ha un limite per quanto riguarda il numero di richiedenti in Germania”. Lo ha detto la cancelliera Angela Merkel in un’intervista pubblicata oggi. “In quanto paese forte, economicamente sano abbiamo la forza di fare quanto è necessario”, ha aggiunto» (ANSA, 5 settembre 2015). Un messaggio indirizzato soprattutto ai tedeschi recalcitranti. Comunque sia, la Germania ha preso l’iniziativa su una questione di grande impatto sociale e di grande significato geopolitico, cosa che sta costringendo i partner europei a mettersi rapidamente in riga, qualche modo, con le buone o con le cattive (leggi sanzioni economiche), oppure a manifestare chiaramente il loro dissenso, cosa che potrebbe avere gravi conseguenze sull’intero progetto europeo. Avere smosso le acque e rotto degli equilibri nel contesto di un dossier così importante e delicato com’è indubbiamente quello dei flussi migratori è di per sé un fatto politicamente importante, le cui conseguenze di breve, medio e lungo periodo sono appunto tutte da verificare e da interpretare. Qui registro solo il rapido contropiede di Berlino e gli affanni delle altre capitali europee.

«Se non sapremo governare questa nuova onda di paura, l’Europa libera e unita che sognavamo alla fine dello scorso secolo si muterà in un grande ghetto»: ha scritto così Lucio Caracciolo su Repubblica del primo settembre. Il giorno prima Angelina aveva espresso lo stesso concetto: «Se non riusciremo a far fronte con intelligenza e solidarietà alla crisi migratoria di questi giorni l’Europa che volevamo rimarrà solo un sogno». Cimentandosi nell’ennesima recriminazione sulla «deriva germanica dell’Unione Europea», qualche giorno fa Giuseppe Cucchi scriveva che «Non è certamente questa l’Europa per cui ci siamo tutti battuti con visione, amore e speranza per tanti decenni!» (Limes, 31 agosto 2015). Analoghi concetti si trovano nei piagnistei europeisti di politici e intellettuali progressisti del Vecchio Continente: «Il sogno europeo è stato tradito, è stato piegato alla logica degli interessi nazionali, è stato sostituito dalla realpolitik che fa capo a leader che non hanno né visione strategica né cultura politica, e che, soprattutto, hanno dimenticato le dure lezioni della storia» (2): questo è il lacrimevole leitmotiv europeista. Non pochi critici della Merkel ai tempi della Tragedia Greca oggi gridano degli Evviva! all’indirizzo della Cancelliera, la quale avrebbe rianimato «il sogno di un’Europa libera, solidale, aperta». Certi personaggi hanno in testa gli Sati Uniti d’Europa, un gigante imperialista (o capitalista: trattasi dello stesso concetto) capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti d’America, con la Russia e con la Cina e parlano di “Sogno”! D’altra parte, chi sono io per fare dell’ironia sulle legittime, ancorché “problematiche”, aspettative di una parte della classe dominante del Vecchio Continente?

In forte crisi di autostima, mi sono visto costretto al solito rimedio: leggere qualche famoso “marxista” contemporaneo. La scelta è caduta stavolta su Diego Fusaro(purtroppo non è la prima volta: spero sia l’ultima!: «Credo nel primato della politica e dello Stato sull’economia»: e qui è ben sintetizzato il concetto di “materialismo storico”, diciamo. «Un ritorno a una valuta nazionale sia in Grecia come in Italia sarebbe un modo per riaffermare il potere sovrano dello Stato». Confermo l’impressione del lettore: l’«allievo di Marx e di Hegel, ma anche di Gramsci» sta parlando dello Stato borghese, dello Stato imperialista del XXI secolo (3). Riprendo la citazione: «L’internazionalismo è l’altra faccia della globalizzazione capitalistica. […] Diversamente dai tempi di Marx in cui il capitalismo andava a braccetto con lo Stato-Nazione, oggi è proprio il capitalismo che supporta, per i propri interessi, l’idea di uno Stato sovranazionale» (Lettera 43, 26 agosto 2015). Ma non è stato l’internazionalista di Treviri a sottolineare (già negli anni Cinquanta del XIX secolo!) la dimensione mondiale del Capitale, con tutto quel che, materialisticamente parlando, ne segue sul piano politico? (Ma anche, ovviamente, sul piano dei flussi migratori generati dall’ineguale sviluppo capitalistico e dalle guerre più o meno “regionali”, come quelle che stanno ridisegnando la mappa geopolitica del Nord Africa e del Medio Oriente, una mappa vecchia di un secolo disegnata dalle Potenze del tempo con le armi e con il righello).

europe_is_dead_miguel_villalba_snchez_elchicotriste_1Ritemprata la mia abbacchiata autostima, posso concludere dicendo che la vera tragedia dei migranti non è quella di non avere una patria (4), ma di avere per patria il Capitalismo (quello avanzatissimo del “Nord” e quello relativamente più arretrato del “Sud”), esattamente come tutti i cittadini di questo disumano mondo.

(1) «L’invecchiamento della popolazione e le conseguenti preoccupazioni riguardo alla carenza di manodopera qualificata hanno portato i dirigenti tedeschi a riconoscere i vantaggi di un’immigrazione crescente: rinunciare alle conoscenze, alle competenze e al bagaglio formativo degli immigrati vorrebbe dire sprecare delle risorse. Contrariamente a quanto avveniva durante gli anni del miracolo economico, la Germania è ora disposta a investire e a integrare. Non vuole solo ricevere, ma anche dare e non solo denaro, ma anche indumenti o un tetto sotto cui dormire. È pronta a mostrarsi umana e solidale, a offrire ai nuovi arrivati conforto e senso di appartenenza» (Der Spiegel, 25 luglio 2015). Le vie che menano alla “solidarietà umana” sono infinite!
(2) Si dimentica, ad esempio, quanto ebbe a scrivere «Churchill all’inizio della sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, allorché enunciava in poche righe il fatto che “il XXesimo secolo è stato caratterizzato da periodiche esplosioni della ricorrente vitalità teutonica” prima di dedicare alcuni volumi al racconto di come siano stati necessari sei terribili anni per riportare nell’alveo della ragione la più recente di tali esplosioni» (G. Cucchi).
(3) D’altra parte, lo “Stato proletario” che ha in testa il maestro di dialettica di cui si parla ha le miserabili/mostruose sembianze dello Stato capitalistico formato “socialismo reale”. E ho detto tutto! «Matteo Salvini è quello che da un lato dice di voler uscire dall’euro e al tempo stesso assicura gli imprenditori che non vuole farlo»: no, decisamente il leghista con la ruspa non è un marxista, al contrario del Nostro sovranista senza se e senza ma. Mah!
(4) «La nazione invisibile non esiste e non esistono i suoi cittadini. Ma esiste una marea umana che si muove alla ricerca di un posto che li accolga. Sono circa 60 milioni di persone, uomini, donne, minori, la maggior costretti a migrare per motivi economici. Di questi 11,7 milioni scappano dal proprio paese a causa di guerre e persecuzioni» (A. Gussoni, L’Espresso, 6 luglio 2015).

UOMINI, CAPORALI E CAPPELLI

schiavi-caporalato1-487x325«Cos’è la mafia?». La mafia è la continuazione del Capitalismo con altri mezzi, mezzi violenti intendo. «Con altri mezzi? E la violenza sistemica cui il Capitalismo ci sottopone nei periodi di cosiddetta pace? Senza contare le guerre più o meno mondiali che ci stanno alle spalle e quelle che vivono nel presente allo stato latente. Perfino il Papa più amato dai progressisti e il Presidente Mattarella evocano continuamente il pericolo di una Terza guerra mondiale!». Mi correggo: la mafia è un modo come un altro (una modalità adeguata alle circostanze “oggettivamente date” in un luogo: ad esempio, il Mezzogiorno italiano) di organizzare la caccia al profitto. Insomma, la mafia è fatta della stessa escrementizia sostanza del Capitalismo. Va bene così? «Un po’ stiracchiata, ma diciamo che come risposta sintetica può andare bene». Dio, come sono diventato esigente ultimamente!

Questo improbabile – schizofrenico? – dialogo intende riferirsi a due concetti tornati in auge dopo le recenti morti sul fronte dello sfruttamento intensivo di “capitale umano” nelle campagne del Belpaese: agromafia e caporalato. Insomma, si scrive agromafia e caporalato ma si legge Capitalismo. Semplicemente. Il Capitalismo “reale”, come si dà in concreto nelle condizioni date. Ecco perché metto subito la mano alla rivoltella quando ascolto o leggo sciocchezze come quelle proferite da Cosimo Marchionna, segretario della Spi Ggil di Brindisi: «il caporalato va combattuto con la stessa intensità di come si combatte la mafia, perché i caporali sono dei delinquenti». Concetti ripresi dal Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina e dall’intero universo politico italiano, peraltro alle prese con la “scandalosa” vicenda romana. Ecco quanto dichiarava il citato Ministro qualche mese fa: «Dobbiamo creare in tutto il Paese le condizioni perché non si assista più allo sfruttamento di immigrati irregolari: non c’è giustificazione per le aziende che sfruttano la disperazione di chi lavora in nero per cercare margini nell’attività produttiva» (AgroNotizie, 17 febbraio 2015). Non c’è giustificazione? Forse su Marte…

Il sistema del caporalato è parte integrante di una peculiare organizzazione dello sfruttamento capitalistico in agricoltura. Personalmente l’ho sperimentato nel lontano 1980, quando con alcuni amici di scuola andammo a Pachino (50 chilometri da Siracusa) a raccogliere l’uva da vino per mettere in tasca qualche soldo prima che iniziasse il nuovo anno scolastico. Fu un’esperienza a dir poco devastante! Dormivamo nei vagoni vuoti dei treni merci fermi alla stazione. Niente acqua per pulirci! In compenso, l’odore del mosto si sentiva dappertutto. Il caporale ci veniva a prendere con un camioncino prima dell’alba nella piazza centrale del paese, portando secchi, coltelli e cappellini, e ci accompagnava in campagna. Lavoravamo circa dieci ore al giorno, sempre chini sull’uva, attenti a non lasciare a terra un solo acino: chi ci controllava ci faceva ritornare subito indietro. Alla fine della giornata ci voleva un po’ di tempo perché io e i miei amici riconquistassimo la posizione eretta: «Ma questi campagnoli ce l’hanno la schiena?». Ci sembrava impossibile avere una schiena e fare quel lavoro per più di un mese. La cosa che allora mi colpì maggiormente fu l’autosfruttamento che si infliggevano molti proprietari dei vigneti, i quali proprio per questo pretendevano da noi avventizi almeno un pari impegno: «Io ho fatto due filari e tu solo uno!», mi disse a un certo punto una vecchia incartapecorita vestita di nero dalla testa in giù. L’ho subito odiata. A mezzogiorno una breve sosta per il “pranzo”: pane, formaggio, mosto e vino, offerti simpaticamente dalla vecchia di cui sopra. Il vino era superbo, questo lo devo ammettere. Alla sera eravamo tutti ubriachi, di lavoro e di vino. In Francia usavano (e usano) il vino di Pachino per “tagliare” il loro prodotto. Chiudo la parentesi personale.

Il caporalato sembrava in via di estinzione, ma la crisi internazionale del 2008 non solo lo ha rianimato, ma lo ha introdotto anche in alcune filiere produttive del Nord, semplicemente perché tale sistema di organizzazione e di controllo si è dimostrato vincente, ossia adeguato alle esigente degli investitori nella produzione agricola. «Il caporalato è come se fosse una medaglia a due facce: da una parte esiste ancora il caporalato classico soprattutto per la frutta pregiata (si pensi alle donne che raccolgono le fragole) nel quale il caporale è quasi un mediatore e molti lavoratori riescono a guadagnare decentemente; dall’altra esistono lavori pesanti di produzione di massa di alcuni prodotti come il pomodoro, del quale il raccolto è veramente massacrante. Questo secondo tipo di caporalato ha incrementato lo schiavismo. Il libro prova a spiegare quale percezione ha il bracciante migrante del suo lavoro, del campo. A un livello più generale la riduzione in schiavitù si estende a un ambito lavorativo. E non è solo un discorso che riguarda i laboratori della Cina dove i bambini cuciono i palloni della Nike, cioè una schiavitù esterna all’Occidente, ma comincia a essere anche interna all’Occidente stesso» (Alessandro Leogrande, intervista rilasciata a Omero, 15 febbraio 2009).

Secondo Roberto Moncalvo, Presidente della Coldiretti, «Senza il quotidiano lavoro di 322mila migranti nelle campagne italiane non ci sarebbe il made in Italy a tavola, che ha permesso al nostro Paese di ottenere primati in tutto il mondo. C’è dunque la presenza di veri e propri distretti produttivi di eccellenza del made in Italy che possono sopravvivere solo grazie al lavoro di 322mila immigrati regolari, dalle stalle del nord dove si munge il latte per il Parmigiano Reggiano alla raccolta delle mele della Val di Non, dal pomodoro del meridione alle grandi uve del Piemonte» (La Presse, 18 luglio 2015). Senza il prezioso lavoro di migliaia di migranti molti settori dell’economia italiani sarebbero chiusi già da un pezzo, senza parlare del contributo che essi danno al nostro Welfare: è l’argomento che molti antirazzisti usano contro i «beceri leghisti» e i razzisti d’ogni tipo. Essi aggiungono anche che, dopo tutto, i migranti fanno i lavori che noi italiani perlopiù ci rifiutiamo di fare: sbaglia o è in malafede, dunque, chi dice che i migranti ci rubano il lavoro. Non c’è dubbio. Però – come scrivevo su un post del 2010 dedicato ai fatti di Rosarno – il discorso “equo e solidale” va completato in questi termini: molti proletari italiani si rifiutano di fare certi lavori particolarmente faticosi non in assoluto, ma a quel prezzo (a quel salario) e a quelle condizioni (orario di lavoro, sicurezza, igiene, tecnologie impiegate, ecc.).

image_1918«Lo sfruttamento del lavoro dei lavoratori migranti nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia in parecchie zone dell’Italia meridionale è diffuso. Essi ricevono paghe inferiori di circa il 40 per cento, a parità di lavoro, rispetto al salario italiano minimo concordato tra le parti sociali e lavorano un maggior numero di ore. Le vittime dello sfruttamento del lavoro sono migranti africani e asiatici e, in alcuni casi, cittadini dell’Unione europea (soprattutto bulgari e rumeni) e cittadini di paesi dell’Europa orientale che non fanno parte dell’Unione europea (tra cui gli albanesi). Lavoratori migranti indiani e africani, impiegati nelle zone di Latina e Caserta, hanno parlato con Amnesty International in condizioni di anonimato.[…] “Lavoro 9-10 ore al giorno dal lunedì al sabato, poi cinque ore la domenica mattina, per tre euro l’ora. Il datore di lavoro mi dovrebbe pagare 600-700 euro al mese; io contavo di mandare 500 euro al mese a mio padre in India. Negli ultimi sette mesi, però, il datore di lavoro non mi ha pagato il salario intero. Mi dà solo 100 euro al mese per le spese. Non posso andare alla polizia perché non ho documenti: mi prenderebbero le impronte e dovrei lasciare l’Italia” (Sunny)» (Rapporto di Amnesty International sullo sfruttamento di lavoratori migranti nell’agricoltura, 18 dicembre 2012). Capite bene che in queste condizioni per un disoccupato italiano non particolarmente qualificato (a bassa composizione tecnologica, per dirla con il campagnolo di Treviri) c’è poco da fare, è sconfitto in partenza, e difatti non sono pochi i disoccupati che hanno smesso di cercare un lavoro che in molti settori (dall’agricoltura all’edilizia, dalla metallurgia ai servizi di cura) sembra guardare solo dalla parte dei più disgraziati, degli ultimi fra gli ultimi. Di qui l’interesse per i nullatenenti d’ogni colore, lingua, religione e nazione di non farsi reciprocamente concorrenza su un mercato del lavoro sempre più concorrenziale (hobbesiano) perché esposto ai rigori della globalizzazione. Anticipo la legittima sentenza del lettore: è cosa più facile a scriversi e a leggersi che a farsi. Lo so. E lo sanno benissimo anche i lavoratori “in nero” (bianchi o “colorati” che siano) che obtorto collo si arrendono a paghe miserevoli e a condizioni di sfruttamento indicibili, i loro padroni che hanno facile gioco nella concorrenza al ribasso tra i braccianti e nel ricatto occupazionale, e i caporali eventualmente ingaggiati per organizzare il super sfruttamento del “capitale umano” – a volte il “normale” sfruttamento non consente all’impresa di rimanere sul mercato.

«Di caldo si muore davvero. La cronaca di quest’estate ci restituisce tredici morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime si sono accasciati nei campi, nei cantieri e anche sui camion. C’è anche Arcangelo che da giorni lotta tra la vita e la morte dopo che un infarto lo ha colto nelle campagne di Andria» (Panorama). Di caldo? Ma mi faccia il piacere! Di Capitalismo, piuttosto. Secondo la deputata di Sel, Celeste Costantino che da anni segue le condizioni dei migranti impegnati nei campi del sud, «nell’anno dell’Expo è questa la realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura». Chi parla di «filiera sporca» mostra non solo di essere un apologeta del Capitalismo a «filiera pulita», ma di approcciare il problema di cui si parla da un punto di vista puramente ideologico, senza cioè fare i conti con il reale processo sociale, con la dinamica capitalistica come si dà in concreto, sulla base di condizioni generali di natura locale, nazionale e internazionale.

Sullo sfruttamento intensivo dei migranti in agricoltura segnalo un interessante studio di Domenico Perrotta (Ben oltre lo sfruttamento. Lavorare da migranti in agricoltura), dal quale cito alcuni illuminanti passi: «Lo scorso settembre, la tv francese France 2 ha mandato in onda un’inchiesta, dal titolo Les récoltes de la honte, sulle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti stranieri impiegati in Puglia nella coltivazione e lavorazione di broccoli e pomodori venduti dalle catene di supermercati francesi, come Auchan, Carrefour e Leclerc. Gli autori del documentario – che ha approfondito le condizioni dei lavoratori anche in Camerun e Guinea Conakry – mostravano ai consumatori francesi che i prezzi bassi dei prodotti alimentari sono possibili grazie ai bassissimi salari corrisposti a quei lavoratori. Il caporalato e gli abusi sui raccoglitori di pomodori in Puglia sono stati oggetto di una campagna di denuncia anche sui media norvegesi, tanto da spingere sindacati e catene di supermercati di quel Paese a chiedere un incontro, tenutosi lo scorso ottobre, a sindacati e associazioni di produttori agricoli italiani, per promuovere “standard etici” [sic!] Queste inchieste descrivono una realtà fatta di sfruttamento lavorativo ai limiti della schiavitù, condizioni abitative drammatiche nei casolari abbandonati e nei “ghetti”, lavoro nero o grigio, caporalato, aziende agricole in difficoltà, strozzate dai prezzi imposti dalle catene della grande distribuzione. Questa è l’immagine dell’agricoltura italiana, soprattutto meridionale, che si sta diffondendo in Europa. Una situazione non certo sconosciuta in Italia».

Scriveva ieri Vittorio Feltri, felice di poter bastonare la concorrenza progressista sul terreno della solidarietà sociale: «Se la signora Clemente fosse stata, anziché una barese del contado, una siriana, una libanese o un’africana, il Paese si sarebbe commosso, avrebbe gridato all’iniquità sociale, alla mancanza di solidarietà. Ma per sua disgrazia era una terrona miserabile e disgraziata». Due disgrazie due misure? «Paola abitava nei dintorni di Bari, che non è in Nigeria, ciò nonostante manco un cane si è interessato alla sua condizione di schiava antica in questo mondo moderno» (Il Giornale). Il tentativo di contrapporre gli schiavi indigeni agli schiavi d’importazione mi sembra abbastanza evidente. Ma posso anche sbagliarmi. Di sicuro non è dal noto giornalista che mi aspetto una dimostrazione di autentico “internazionalismo proletario”…

«È un miracolo – continua Feltri – che finora sia andata al Creatore soltanto Paola. Numerose, però, sono le persone candidate a subire la medesima sorte». Come si legge in Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Mondadori, 2008), un libro-inchiesta del già citato Alessandro Leogrande, nei campi del Tavoliere delle Puglie «Non è raro che vengano ritrovati i corpi dei braccianti morti e abbandonati sul ciglio delle strade per simulare un incidente». Leogrande ha studiato soprattutto lo sfruttamento intensivo di manodopera bracciantile proveniente dall’Est e dai Balcani, dalla Polonia e dall’Albania in primis: «Ho avuto sin da subito chiaro che non era una questione di sfruttamento e basta, ma qualcosa di peggiore: ci sono dei morti ignoti e degli scomparsi avvolti da una nube invalicabile. C’è una vera e propria falla di morti sconosciuti e non spiegabili, e anche le statistiche sono difficili. Uno dei pochi dati certi è di 118 scomparsi polacchi di cui solo il 20% nella sola provincia di Foggia. La cosa impressionante è che, dopo anni di ricerca e inchieste, questo muro di gomma resta intatto e ancora se ne sa pochissimo». Una parte di quei braccianti è stata rimpiazzata dalla nuova ondata di migranti provenienti dall’Africa.

Ancora Feltri: «Nell’era delle tecnologie avanzate, l’agricoltura in Puglia, e non solo in Puglia, non è cambiata rispetto agli anni Cinquanta, quando i braccianti crepavano come mosche per una manciata di spiccioli, compenso misero elargito dal padrone del feudo in cambio di lavoro massacrante in campagna, nelle masserie e nelle vigne». Perrotta ci suggerisce una lettura più complessa del problema: «Attenzione, l’agricoltura che utilizza manodopera migrante non è povera e arretrata. Si tratta invece di produzioni e filiere profondamente inserite nei mercati nazionali e internazionali e diffuse nelle pianure costiere dell’Italia meridionale: il casertano e la Piana del Sele in Campania; le piane di Sibari e Gioia Tauro in Calabria; il siracusano, il ragusano e il trapanese in Sicilia; la Piana di Metaponto e la zona dell’Alto Bradano in Basilicata; la Capitanata, il Nord Barese e la zona di Nardò in Puglia. […] La presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi, insomma, ha consentito a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata, causata in definitiva dalla competizione internazionale dovuta alla liberalizzazione dei mercati dei prodotti agricoli». È la globalizzazione capitalistica, bellezza! Per molti aspetti gli immigrati hanno reso possibile la via italiana alla competizione capitalistica internazionale nei settori agricoli e manifatturieri più esposti alla concorrenza dei prodotti made in Cina piuttosto che a quelli made in Portogallo (o in Tunisia o in Marocco, Paesi nei quali, ad esempio, si è sviluppata una filiera di trasformazione del pescato davvero importante).

Dal punto di vista degli interessi capitalistici non c’è, in assoluto, un modo eticamente migliore o peggiore di far fronte alle necessità della produzione (che, come insegnava l’uomo con la barba, è in primo luogo produzione di plusvalore, ossia di valore non pagato ai lavoratori): su questo punto ogni capitalista si regola come può, avendo sempre come bussola la bronzea Legge del profitto. Lo so che questo discorso suona cinico all’orecchio del progressista e che molto dispiace al compagno Papa («Non ci si può regolare solo in base al profitto»: anche, ma non solo…), ma cinica è la realtà, non le parole che cercano di esprimerla rifuggendo da ogni insulso eufemismo. Gli esorcismi politicamente corretti non aiutano a comprendere i fenomeni sociali e sono un invito a nozze per i populisti d’ogni colore, specialisti nella strumentalizzazione del disagio sociale e della “lotta tra poveri”.

Secondo il Presidente di Confagricoltura Mario Guidi, «La piaga del lavoro nero si combatte non solo con le sanzioni, ma ricostruendo un’economia competitiva ed economicamente soddisfacente. Gli agricoltori devono puntare ai mercati aggregandosi per essere competitivi e le Regioni devono accompagnare questo processo con grandi interventi infrastrutturali e logistici, sfruttando i fondi europei e sostenendo gli investimenti agricoli. Tutti devono lavorare di più, velocemente, con soddisfazione reciproca delle aziende e dei lavoratori» (Agronotizie, 17 febbraio 2015). Musica per le orecchie dei sostenitori del capitalismo «a filiera pulita» e possibilmente anche corta. In attesa delle famose “riforme strutturali” e della costosa rivoluzione tecnologica capace di modernizzare l’agricoltura italiana, molti imprenditori del “settore primario” usano quel che passa il convento capitalistico accettando di correre qualche rischio, perché, come si dice, il gioco vale ancora la candela. «Ecco cosa stupisce e indigna: non c’è anima che combatta lo schiavismo, che tenti di stroncarlo assicurando alla giustizia coloro che lo praticano senza freni e senza pudore» (V. Feltri). Caro Vittorio, se mi posso permettere, il Capitalismo «è quest’acqua qua»: gli “eccessi” che tanto indignano gli uomini di buona volontà ci dicono tutto sulla vera natura di questa società, sulla sua fisiologia. Lo schiavismo praticato «senza freni e senza pudore» non è un dato patologico della realtà, tutt’altro. Patologico, dal punto di vista umano, è piuttosto il regime sociale capitalistico tout court, dalla Cina di Xi Jinping all’Italia di Renzi. Tranquillizzo il lettore: non cerco di convincere Feltri, non credo di possedere ancora capacità magiche; faccio della mera “retorica strumentale”.

A proposito di cinismo e di svalorizzazione della capacità lavorativa! Ecco cosa scriveva il super cinico David Ricardo nei sui Principi di economia politica (1817): «Diminuite le spese di fabbricazione dei cappelli e il loro prezzo finirà per precipitare al loro nuovo prezzo naturale. Diminuite le spese per il sostentamento degli uomini, diminuendo il prezzo naturale dell’alimentazione e del vestiario necessari all’esistenza, e vedrete che i salari finiranno con l’abbassarsi per quanto sia potuta aumentare anche la richiesta di mano d’opera». Ma qui si trasforma l’uomo in cappello! M’indigno! Suvvia, un po’ di rispetto per il capitale umano! L’ubriacone tedesco però la pensava diversamente: «Certo, il linguaggio di Ricardo è quanto mai cinico. Ma non gridiamo troppo al cinismo. Il cinismo è nei fatti», e i fatti ci dicono che «il lavoro, essendo esso stesso una merce, come tale viene misurato in base al tempo necessario a produrre gli oggetti indispensabili al mantenimento costante del lavoro, ossia a far vivere il lavoratore e a metterlo in grado di riprodurre la sua specie» (Miseria della filosofia). La cosa considerata attraverso la mediazione del denaro ci si manifesta attraverso i prezzi dei beni-salario. Paesi come la Cina e l’India, con le loro merci a basso costo che entrano nella formazione del prezzo del lavoro, hanno dato un grande contributo alla riduzione del «prezzo naturale dell’alimentazione e del vestiario necessari all’esistenza»; ma in molti settori produttivi del nostro Paese ciò non è stato sufficiente a garantire la dovuta competitività e gli adeguati livelli di profitto. La pressione sul salario e sulle condizioni di lavoro ha dunque agito direttamente e drammaticamente, con ogni mezzo necessario (“legale” e “illegale”), e ciò è stato possibile grazie appunto all’esistenza di un esercito di miserabili sempre più numeroso. Se non è possibile investire in Cina, in Albania o in Africa, occorre realizzare in Italia (o solo in alcune zone speciali del Paese) condizioni generali di lavoro almeno paragonabili a quelle che offrono quei Paesi. O supersfruttare o perire! Giustifico forse, anche solo “oggettivamente”, il supersfruttamento? Certo che no! Mi sforzo di capire il mondo nel quale ho la ventura di vivere. Tutto qui.

Per Papa Francesco «la chiave con la quale affrontare la questione dei migranti è la Misericordia»; per chi scrive la chiave per affrontare ogni fenomeno sociale e ogni contraddizione sociale è quella che mette insieme la presa d’atto della natura necessariamente disumana della nostra società e la consapevolezza circa la possibilità del suo superamento in direzione di rapporti sociali semplicemente umani. Più che una chiave interpretativa del processo sociale evoco un miracolo, mi rendo conto.

ROSARNO E DINTORNI

I noti eventi di Rosarno offrono l’occasione per una riflessione sulla società italiana auspicabilmente non banale, non luogocomunista e, soprattutto, non irretita negli interessi e nella prospettiva delle classi dominanti di questo paese. Con queste pagine intendo dare il mio piccolo contributo allo sviluppo di una tale riflessione, magari in vista di una pratica politica adeguata alle sfide che il capitalismo del XXI secolo non smette di lanciare ai lavoratori e a tutti gli individui interessati al superamento della società disumana.

In questa brutta vicenda il razzismo e il coinvolgimento della mafia locale sono le ultime cose che dobbiamo prendere in considerazione. Si badi bene, non perché l’uno e l’altro non abbiano avuto alcun ruolo nello svolgersi dei fatti, o perché in generale non abbiano una loro reale consistenza, bensì perché porli al centro della riflessione non spiega un bel nulla e non ci aiuta a capire. E invece abbiamo un gran bisogno di capire, perché Rosarno è solo un sintomo di qualcosa di ben più grave. No, non si tratta affatto di una malattia, si tratta piuttosto della fisiologia della società basata sul profitto; si tratta di una micidiale normalità che si dà in modo differente nelle diverse aree del Paese e del mondo. Chi ragiona in termini di patologia sociale nasconde a sé e agli altri la «banalità del male», anzi la sua radicalità. Più che cause, il razzismo della popolazione di Rosarno e la presenza sulla scena del delitto della mafia autoctona rappresentano un epifenomeno, una concausa di secondo livello, ma certamente non la risposta dirimente, la quale va cercata nelle contraddizioni sociali complessive di questo Paese, ancora alle prese, anzi sempre più alle prese, con la rancida «questione meridionale». Ma la più fresca «questione settentrionale» ha cambiato le regole del gioco, ponendo su un terreno completamente nuovo gli annosi problemi posti allo sviluppo capitalistico italiano dal secolare dualismo macroregionale Nord-Sud. E quando parlo di sviluppo capitalistico non mi riferisco solo alla struttura economica del Paese, ma alla società italiana nel suo complesso, perché soprattutto nel XXI secolo la struttura sociale delle nazioni è un tutto sempre più unitario e integrato. Il principio che la unifica in un tutto integrato è il capitale, è la ricerca spasmodica del vitale profitto, è la necessità di trovarsi tra le mani, giorno dopo giorno, anno dopo anno fino alla morte, il vitale (altro che «vile»!) denaro. Sbaglia chi pensa che sto andando fuori tema, perché i fatti di Rosarno, al netto di tutte le balle che sono state dette e scritte, evocano a gran voce il Dio Profitto e il Dio Denaro. Eccome se li evocano! Ma evocano anche il pauroso baratro nel quale si è cacciata l’intera umanità. Ma non precorriamo i tempi.

Conviene partire proprio dall’epifenomeno, dal «razzismo del popolo di Rosarno», e chiederci come mai il razzismo alligna soprattutto presso gli strati inferiori del corpo sociale, e questo naturalmente non solo nell’amena cittadina calabrese, ma un po’ in tutto il Paese e in tutti i paesi del mondo. Intanto, di passata, mi sia consentito di dare un piccolo calcio al rassicurante luogo comune per cui gli italiani non sarebbero, nel loro più profondo «DNA», razzisti: come se il razzismo fosse una connotazione nazionale o, addirittura, «antropologica»: i tedeschi, tanto per citare un popolo a caso, sono forse razzisti «di loro»? Mi sembra che il gene del razzismo non sia stato ancora individuato, ma è anche vero che di biologia me ne intendo assai poco. «Italiani, brava gente». E chi può metterlo in discussione! Ne sanno qualcosa gli africani del secolo scorso, massacrati ai bei tempi dell’Italia liberale e poi fascista, e ne sanno qualcosa gli africani di questo secolo e di questi giorni. Anche i parenti degli albanesi finiti sott’acqua al largo di Otranto alla fine degli anni Novanta, ad opera di una democratica nave della Marina Militare Italiana (mi sembra sotto il governo di baffino D’Alema, sostenuto dai rifondatori stalinisti), ne sanno qualcosa. Ma chiudiamo l’antipatriottica divagazione, e ritorniamo alla domanda: perché il razzismo si diffonde con tanta facilità e rapidità soprattutto tra «gli ultimi»?

La risposta è tutt’altro che difficile, è anzi alla portata di tutti e infatti tutti la conoscono, ma solo pochissimi ne colgono il reale significato e la reale portata sociale, e non per l’ignoranza delle masse o per la malafede delle classi dominanti, ma in grazia dell’interesse (declinato in tutti i modi possibili e immaginabili), il più forte consigliere della storia. Non è difficile capire che chi sta ai piani alti dell’edificio sociale può permettersi il lusso dell’umana comprensione, della tolleranza, del cosmopolitismo e della filantropia (la forma borghese della vecchia carità cristiana), anche perché tali eccellenti disposizioni d’animo sono altrettanto olio lubrificante cosparso sui duri ingranaggi del meccanismo sociale, rappresentano il balsamo spalmato su un corpo sociale sempre più brutalizzato dagli interessi economici. Dove c’è un soldato che squarta, che brucia e che violenta, deve esserci pure qualcuno che si occupa dei morti e dei feriti; e insieme, Caino e Abele, la bestia assetata di sangue e la crocerossina devota a chi ha avuto la peggio nel duello, costituiscono il sistema della guerra. Insieme e da sempre lupo e agnello mandano avanti, ognuno a modo suo, la comune impresa.

A Rosarno, nelle calde giornate del furore bianconero (e non parlo di calcio…), non c’erano in giro solo malavitosi provocatori, cittadini in preda al panico e all’odio, orde di «negri» accecati di rabbia e forze dell’ordine in assetto di guerra; si aggiravano, tra i cassonetti dell’immondizia e le auto bruciate, anche alcuni uomini di «buona volontà» che facevano appello al buon senso «di tutti», e che aiutavano i feriti di entrambe le fazioni. Pochissimi, è vero, ma c’erano, in ossequio al motto antiumano che recita: anche in mezzo al peggio può esserci un po’ di bene. Amen! D’altra parte, al momento opportuno, quando le condizioni lo rendono possibile e necessario, l’agnello sa bene come usare il lupo, e non rare volte la storia ci ha presentato la stupefacente trasformazione del primo nel secondo: l’agnello perde il bianco pelo e acquista il vizio del lupo. In natura questo non sarebbe possibile, è evidente, ma nella società accadono cose misteriose che, come diceva il poeta, non sarebbero possibili in tutto il firmamento.

Ad esempio, e mi si scusi la piccola divagazione rispetto al tema, come spiegare altrimenti il nobel per la pace attribuito al presidente, ancorché «abbronzato», della prima potenza imperialistica mondiale? Mistero. Anzi: trattasi della solita velleitaria politica europea progressista. Giustamente Bush se la ride di gusto, e aspetta il cadavere del pacifista, che inutilmente lo ha contestato per quasi un decennio, galleggiare sulle acque del metaforico fiume dei perdenti. Il lupo Bush si prende la rivincita sull’agnello pacifista. Chiudo la parentesi.

Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno poetiche cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde.

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, uno dei luoghi comuni più ripetuti dagli italici progressisti riguardava il «razzismo xenofobo» della Lega Nord. Prima che il grande statista coi baffi, l’ancor vivo e vegeto D’Alema, sdoganasse «da sinistra» il movimento bossista – avendone scoperto nientemeno che un’anima di sinistra: si tratta di vedere chi, tra gli ex stalinisti e i leghisti sono da considerarsi più «di sinistra»: davvero una bella gara! –, a «sinistra» il binomio Lega-Fascismo era dato come cosa certissima, e chi aveva l’ardire di metterlo in discussione in quanto insulso luogo comune, al meglio doveva aspettarsi dai progressisti l’epiteto di amico del giaguaro, magari solo sul terreno del comportamento «oggettivo», ma pur sempre amico, anzi: fiancheggiatore. Fascista, naturalmente, veniva considerato anche Berlusconi, il quale si era peraltro permesso di sdoganare il fascistissimo Fini, segretario del Partito dell’Ardente Fiamma Tricolore. Nel 2010 solo a Berlusconi non è stata revocata l’accusa di Cavaliere Nero (anzi!), mentre Fini rischia di ereditare il partito di D’Alema, «il migliore» dei progressisti italiani. Tanta è la confusione sotto il cielo della «sinistra» italiana, e la situazione per il suo «popolo» è tutt’altro che eccellente. Naturalmente la patente di «oggettivo fiancheggiatore del leghismo-berlusconismo» fu graziosamente concessa anche a me dai miei pochi interlocutori progressisti (si trattava più che altro di rifondatori stalinisti): «ancora con le solite menate veteromarxiste!» Eppure le mie analisi sul leghismo e sul berlusconismo non differivano molto, sul piano dell’oggettiva dialettica dei processi sociali, da quelle sfornate dai più accreditati centri studi attivi in Italia (ad esempio la Fondazione Agnelli, o quelli che fanno capo al Sole 24 Ore e alla Banca d’Italia). E cosa si leggeva negli studi curati dai più seri economisti e sociologi del Bel Paese? Che l’Italia era già divisa, e che la Lega Nord, lungi dall’essere la causa della sua disgregazione sociale-territoriale, ne era piuttosto il prodotto più genuino, e forse anche il rimedio. Ma come, i razzisti di Bossi possono risolvere la – rancida – «questione meridionale»? Questa possibilità esorbitava dalle capacità dei luogocomunisti.

All’inizio degli anni Novanta alla Fondazione Agnelli l’Italia appariva di fatto divisa in tre macroregioni: il Nord, economicamente e socialmente assai sviluppato, dinamico e competitivo, le cui performance capitalistiche erano di assoluto livello europeo e mondiale, al punto che soprattutto l’organizzazione a rete distrettuale del Nordest veniva assunta a modello da molti economisti tedeschi e giapponesi; il Centro, meno sviluppato e competitivo – se non sul terreno del «terziario avanzato» –, ma comunque ancora in grado di sostenere il confronto con la Francia (e poi con la Spagna), e infine il Mezzogiorno, con la sua secolare arretratezza socio-economica, la cui struttura economica era simile a quella del Portogallo e della Grecia. Scriveva l’economista Alberto De Bernardi nel 1991: «lo iato tra nord e sud non ha perso la sua drammaticità e pesa in termini enormi sulle potenzialità di sviluppo complessivo del paese» (Città e campagna nella storia contemporanea, in AA. VV. Storia dell’economia italiana, III, Einaudi). Alle soglie del XXI secolo la rancida «questione meridionale» appare dunque più viva che mai. Anzi, essa adesso si dà nei termini ultimativo dell’Aut-Aut: la sindrome Jugoslava è dietro l’angolo. Come scongiurarla?

Una situazione di questo tipo, venutasi a cristallizzare nell’arco di oltre un secolo, non poteva non produrre una serie di conseguenze anche sul piano politico, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino (sulle vuote zucche dei progressisti più “radicali”, che ancora se ne lamentano), la conseguente scomposizione e ristrutturazione delle vecchie alleanze politico-militari internazionali, e con l’ulteriore impetuosa accelerazione del processo di globalizzazione del capitalismo. E infatti il «risvolto sovrastrutturale» non si è fatto attendere: avanzamento del leghismo, fine della cosiddetta «Prima Repubblica» (ottenuta anche attraverso l’uso del manganello mediatico-giudiziario), ascesa del berlusconismo e altri fenomeni che ancora non hanno esaurito la loro ragion d’essere. Già ai tempi delle «picconate» di Cossiga Presidente della Repubblica apparve chiaro come tutti i nodi dell’ineguale sviluppo sociale del Paese fossero giunti dolorosamente al pettine, ma scioglierli non era – e non è – impresa facile, perché a ogni nodo corrispondeva – e corrisponde – un inestricabile groviglio di interessi economici, politici, istituzionale e quant’altro profondamente radicati nel tessuto sociale. Equilibri di potere e rendite di posizione cementatisi nell’arco di molti decenni non sono problemi che possono venir risolti in poco tempo e senza spargimento di «lacrime e sangue» (a volte anche in senso reale, e non solo metaforico), e non sempre la spada di Alessandro Magno è sulla scena. E’ un fatto che chi tocca i fili dell’annosa «Grande Riforma» muore fulminato, e lo stesso Cossiga rischiò di venir esautorato dalla sua alta funzione per motivi… psichiatrici… Non parliamo poi di Bettino Craxi, il cinghialone sacrificato sull’altare della miserabile e risibile «questione morale».

La Lega Nord nasce come risposta dell’area socialmente più avanzata del Paese a una dinamica distorta e contraddittoria diventata insostenibile nel contesto della nuova situazione europea e mondiale. Una risposta prima quasi istintiva e «spontanea», e poi sempre più cosciente e organizzata. Il movimento leghista dimostra come, prima o poi, più o meno confusamente e contraddittoriamente, la cosiddetta «società civile» (cioè a dire il regno degli interessi materiali e degli antagonismi) trova sempre il modo di darsi un adeguato strumento politico-ideologico per conseguire i suoi obiettivi. «Se non ci fosse stato, avremmo dovuto inventarlo»: questo sentivo dire di Bossi nel Nord del Bel Paese già alla fine degli anni Ottanta, e non solo dai pochi (allora!) e fanatici sostenitori del leader leghista. Alla fine, la «società civile» (o «incivile», per dirla coi progressisti, i quali non sono certo obbligati a pensarla come Hegel: «la società civile è il campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti», o come Marx: «è notevole la definizione della società civile come bellum omnium contra omnes») del Nord ha inventato il Senatur.

La Lega, quindi, come espressione degli interessi generali del Nord. Non solo degli interessi che fanno capo alle classi dominanti radicate in quell’area del Paese, ma anche di quelli afferenti a un settore non piccolo delle stesse classi dominate, le quali sono interessate a una «più equa» redistribuzione della ricchezza nazionale veicolata e mediata dallo Stato attraverso la potente leva fiscale. E’ verissimo che sul piano della storia – e soprattutto della «coscienza di classe» – capitale e lavoro non hanno alcun interesse in comune da condividere, ma è altrettanto e dolorosamente vero che sul piano degli interessi immediati (e in assenza non solo della «coscienza di classe», ma della stessa classe operaia nell’accezione marxiana, e non sociologico-politologica, del termine) i due «fattori della produzione» possono trovare un comune obiettivo, da far valere contro altri strati sociali (ad esempio contro i proletari e il ceto piccolo-borghese del Meridione, rei di incamerare risorse finanziarie che non hanno contribuito a produrre, e che sperperano grazie a un welfare assistenzialistico ormai fuori mercato). Croazia e Slovenia insegnano. Anche all’epoca della guerra nell’ex Jugoslavia si parlò di «razzismo xenofobo», rispettivamente dei Croati e degli sloveni ai danni della Serbia, del Montenegro e del Kosovo, e viceversa di questi ultimi, il «Mezzogiorno» jugoslavo, interessato al mantenimento dello status quo (soprattutto la Serbia del «fascista rosso» Milosevic), contro i primi, il «settentrione egoista», ormai deciso a separare il proprio destino dai «parassiti del Sud». Nel nuovo contesto internazionale le aree economicamente – e socialmente – più avanzate dei paesi europei tendono a entrare in «sinergia» tra di esse, e ciò produce in ogni singola nazione del Vecchio Continente una serie di conseguenze «strutturali» e «sovrastrutturali» (ma qui la distinzione è solo formale, per ciò che abbiamo detto appena sopra) che sono tanto più destabilizzanti del vecchio assetto geopolitico, quanto più forti e radicati sono gli squilibri economici, sociali e territoriali dei paesi coinvolti nel processo di integrazione «globale». E’ la cosiddetta dialettica «globale-locale» che si è affermata negli anni Novanta a livello nazionale, continentale e mondiale.

La «zavorra meridionale» non può non pesare (sempre attraverso il maledetto «drenaggio fiscale» da parte dello «Stato padrone») anche sulle condizioni materiali dei lavoratori del Nord più esposti alla concorrenza internazionale, oltre che su quelle delle piccole imprese e delle «partite iva», vale a dire sullo strato sociale che rappresenta la base elettorale di ultima istanza della Lega, il suo zoccolo duro politicamente e ideologicamente più motivato e risoluto. La recente iniziativa assunta da alcuni piccoli e medi imprenditori del Nordest di versare l’intero costo del lavoro sulle buste-paga dei loro dipendenti, sottraendosi in tal modo all’obbligo di tosare alla fonte (come veri e propri sostituti d’imposta) il reddito dei lavoratori per conto dello Stato, si inscrive nello scenario di lotta «interclassista» che ha permesso al partito di Bossi di incamerare, nelle ultime elezioni politiche, la gran parte dei consensi elettorali delle «tute blu» sfruttate nel Nord, e ciò naturalmente ha sconcertato gli italici progressisti, i quali pensavano di poter godere indefinitamente del monopolio elettorale sulla «classe operaia», che nel frattempo è andata all’inferno già da molti decenni a questa parte, grazie soprattutto ai progressisti attivi in politica, nella «cultura», nel sindacato, e via di seguito. Il paradiso può attendere.

Quando negli anni Novanta la Lega denunciava i rischi di una «globalizzazione affrettata e senza regole», e si scagliava soprattutto contro l’ingresso della Cina nel WTO, essa difendeva precisamente gli interessi del proprio elettorato, sebbene in una forma che agli antiglobal di sinistra non poteva non sembrare antipatica. Eppure, al di là della fenomenologia, il movimento di Bossi era in perfetta sintonia col cosiddetto movimento di Seattle, non a caso capeggiato, tra gli altri, dal ricco produttore di vino francese José Bové, il “diversamente capitalista”. Già, perché un nuovo capitalismo è possibile: più verde, più equo, più solidale e più sostenibile sotto ogni rispetto. A me questo capitalismo «dal volto umano» fa più angoscia di quello «selvaggio» contestato dai progressisti, ma i gusti son gusti… «Ma», si chiedono i progressisti, «dove andremo a finire se anche i lavoratori del Nord – e anche quelli di Rosarno… – votano Lega Nord?» Stiano pur tranquilli: finiremo nella stessa Repubblica democratica fondata sul lavoro (salariato, cioè sfruttato) che tanto piace al progressista partigiano della Sacra Costituzione Italiana, del Sacro Tricolore – minacciato un giorno da Bossi di certi usi igienici irriferibili: il progressista è lesto di querela! – e della Sacra Unità Nazionale: Viva l’Italia, cribbio!

Dicono i leghisti: come possono le nostre piccole e medie imprese, che non godono del sostegno della «mano pubblica», competere con i prodotti cinesi, o con quelli che adesso vengono dall’Europa Orientale, ossia con le merci che assorbono un costo del lavoro che è pari, rispettivamente, a uno a venti e a uno a dieci rispetto a quello italiano? Infatti, non possono. Allora, o quelle aziende chiudono, oppure devono comprimere il salario dei lavoratori fino a un limite impensabile fino a dieci anni fa, oltre che aumentarne la produttività, magari allungando la giornata lavorativa. L’impiego di manodopera straniera nelle aziende del Nord ha questo preciso significato: esso riduce in maniera diretta e indiretta il salario dei lavoratori: bianchi, neri, gialli, di ogni colore. Il capitale è daltonico, e riconosce solo il colore dei soldi.

E qui arriviamo a Rosarno. Da almeno venti anni non sentiamo che ripetere questa tiritera: gli stranieri fanno i mestieri che i nostri giovani, ammaliati da calciatori e veline, non vogliono più fare. Ergo, gli africani, i rumeni, i filippini e quant’altro non rubano il nostro lavoro. Non solo, ma i lavoratori extracomunitari sostengono il nostro Pil, pagano con le loro tasse le nostre pensioni, e fanno quei figli che le donne e gli uomini italiani non vogliono più mettere al mondo. Tutto vero. Però chi fa questo bel discorso – il solito progressista naturalmente è in prima linea – dimentica di aggiungere questo insignificante particolare: gli italiani non vogliono più fare determinati lavori all’attuale prezzo e alle attuali condizioni. Ma si trova in Europa Occidentale un lavoratore agricolo europeo disposto a lavorare dieci, dodici e a volte quattordici ore in cambio di un salario giornaliero di venticinque euro (quando va bene e al lordo del pizzo da pagare al caporale)? Domanda retorica, me ne rendo conto. Loro malgrado, i «negri» hanno gettato i «bianchi» fuori dal mercato del lavoro, e hanno permesso la via italiana, e soprattutto meridionale, alla competizione capitalistica internazionale nel settore (agricolo e manifatturiero) più esposto alla concorrenza dei prodotti made in Cina, piuttosto che made in Portogallo o Tunisia o Marocco (paesi nei quali, ad esempio, si è sviluppata una filiera di trasformazione del pescato davvero importante).

La recente crisi economica ha reso ancora più risibile la balla raccontata dagli uomini di buna volontà per dare una copertura politico-ideologica al supersfruttamento degli extracomunitari: infatti, non pochi meridionali disoccupati oggi accettano gli anoressici salari oggi pagati ai lavoratori stranieri. La crisi ha insomma risospinto i «bianchi» verso il nuovo mercato del lavoro precipitato al giusto livello competitivo grazie ai «neri», ai «gialli» e via di seguito. In prospettiva questo processo è destinato a creare non poche tensioni nel seno della classe dominata, soprattutto nei suoi strati più deboli e marginali (uno “status”, questo, in continua fluttuazione), sempre più potenzialmente ricettivi nei confronti di qualsiasi discorso che promettesse una soluzione definitiva («finale»…) dei loro problemi. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma non è affatto detto che la farsa di domani sarà meno violenta e sanguinosa della tragedia di ieri. Come scriveva Max Horkheimer, «di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (Lo Stato autoritario). Pessimismo cosmico? No, pessima è la realtà. Intanto, non pochi italiani di cultura ebraica, seguendo da casa gli eventi di Rosarno, hanno istintivamente portato la mano alla cintura, alla ricerca della metaforica pistola. A Rosarno, però, ha sparato un fucile vero, contro i «negri», i quali hanno avuto il cattivo gusto di arrabbiarsi, a casa d’altri!

Tutti: Stato, Regione, Comune, Magistratura, Sindacati, partiti politici, Chiesa, cosiddetti intellettuali, popolazione interessata, opinione pubblica; tutti hanno chiuso un occhio, anzi due, per amore dell’impresa italiana, soprattutto di quella meridionale, tradizionalmente cagionevole e bisognosa di tutele particolari, financo straordinarie. Nella competizione capitalistica internazionale non c’è posto per le anime belle, peraltro silenti fino alle esplosioni delle magagne, come ha ironicamente fatto osservare Vittorio Feltri, il quale almeno non affetta quell’aria perennemente indignata che rende ai miei occhi particolarmente antipatici i reazionari di «sinistra», i progressisti. Chi ha detto e scritto che in molte zone del Mezzogiorno «lo Stato non esiste» finge di non capire che il lasciar fare, il lasciare andare è stata una sapiente politica adottata dalle classi dirigenti di questo Paese dall’Unità d’Italia in poi; una società, quella venuta fuori dal Risorgimento, piena di contraddizioni già incancrenite da tempo, difficili da governare con gli standard politici, istituzionali e «morali» vigenti negli altri paesi occidentali. Ciò che all’occhio del superficiale e dell’amante dell’ordine appare come «assenza dello Stato», in realtà non è che una strategia politica di controllo sociale che le classi dirigenti hanno saputo mettere da parte tutte le volte che le magagne hanno superato il livello di guardia. Altro che mancanza dello Stato! Certo, per alcuni lo Stato non è mai abbastanza presente e repressivo, e certi tizi si dispiacciono di non poterselo portare anche a letto: che libidine… il manganello al letto…

Improvvisamente, un giorno di gennaio del 2010 tutti hanno “scoperto” l’esistenza del lavoro schiavistico nel XXI secolo, e in un Paese che nel suo piccolo rappresenta ancora la crema della civiltà Occidentale (leggi: capitalistica). Passi per la Cina, per l’India, per il Bangladesh; d’altra parte, occhio che non vede… E poi, per i cittadini più sensibili – e danarosi –, c’è sempre la possibilità dell’adozione a distanza dei bimbi dei diseredati, che fa tanto solidarietà – e, soprattutto, scarico di coscienza. Ma vedere quell’estremo sfruttamento in Italia! E tutti hanno improvvisamente “scoperto” che il nero popolo dell’abisso precipitato nell’inferno di Rosarno (provincia del mondo, non solo di Reggio Calabria) viveva in condizioni a dir poco rivoltanti. Al confronto, gli schiavi «classici» dell’antichità godevano, se così posso esprimermi, di uno status sociale più «dignitoso», se confrontato con quello degli schiavi salariati cacciati da Rosarno, non foss’altro per il fatto che i primi, a differenza dei secondi, costituivano un investimento prezioso per il proprietario terriero, uno strumento di lavoro da far durare il più a lungo possibile. Oggi lo schiavo salariato «negro» vale così poco sul mercato, che quando il capitale non sa più che farsene lo caccia senz’altro dalla gleba, allestendo nel giro di ventiquattrore pogrom postmoderni e deportazioni coi fiocchi, con tanto di giornalisti e cameraman al seguito. Anche il prossimo sterminio di massa finirà in prima serata? Già i massmediologi si interrogano, mentre il più pratico e solerte Bruno Vespa ha commissionato il plastico di una camera a gas; non si sa mai, la concorrenza mediatica è forte e non bisogna lasciarsi fregare dagli eventi.

Certo, gli schiavi dei nostri tempi godono di grande libertà, compresa quella di crepare di fame e di accettare salari sempre più infami, in attesa della prossima provocazione che li spingerà a mostrarsi al cinico occhio dell’opinione pubblica nazionale nei panni del solito branco di «negri» violenti, nonché sporchi, cattivi e ingrati (pure!), e perciò senz’altro meritevoli di venir deportati da un posto all’altro, da un inferno all’altro, fino al giorno della soluzione finale, che non necessariamente prevede l’uscita dei «negri» dai camini. Anche perché bisognerebbe fare i conti con l’impatto ambientale della faccenda; occorrono strategie socialmente più sostenibili. «Ma non sarebbe meglio, più giusto, più umano, aiutarli a casa loro?», domandano i «leghisti di fatto» di Rosarno. «Certo che è meglio!», risponde la leghista di diritto eletta a Lampedusa, nelle cui stupende acque non s’era mai vista tanta abbondanza di pesci. «Vuoi vedere che al pesce piace il negro?»: è una delle battute più gettonate nell’estrema propaggine del Bel Paese. Quanta cinica verità, in quelle odiose parole.

Come riemergere dall’abisso dentro il quale è precipitata l’intera umanità? Inutile coltivare facili illusioni, anche perché abbiamo imparato a sopravvivere in quell’abisso, al punto che non lo esperiamo più come tale. Abbiamo imparato a dare del «tu» persino all’orrore. Non ci sono soluzioni facili, purtroppo. Solo per non continuare a precipitare, per resistere a ulteriori sprofondamenti, i lavoratori d’ogni colore, sesso, religione e quant’altro dovrebbero coalizzarsi in nuovi organismi del tutto autonomi rispetto agli attuali sindacati nazionali, veri e propri strumenti di dominio nelle mani del capitale e dello Stato. E dovrebbero dichiarare subito guerra alla politica delle compatibilità. «Ma così il sistema delle imprese italiane andrebbe a quel paese!», rispondono tutte le persone che hanno a cuore l’interesse nazionale. E hanno perfettamente ragione. Infatti, si tratta di scegliere tra il Sacro interesse nazionale – che da sempre esprime l’interesse delle classi dominanti – e il più profano interesse delle classi dominate, le cui condizioni di lavoro e di vita peggiorano sempre di nuovo, compromesso dopo compromesso, «senso di responsabilità» dopo «senso di responsabilità», «compatibilità» dopo «compatibilità», avendo come loro limite inferiore l’esistenza dei «negri» e dei «gialli». E questo non a causa della cattiva volontà politica di qualcuno, come ci dicono i progressisti di tutto il mondo da circa un secolo a questa parte, ma in grazia dell’intima e incoercibile natura del dominio sociale vigente. E’ vero, «il pesce puzza dalla testa», come dicono i meridionali, ma qui la testa non è il Berlusconi di turno, ma il capitale, il vero soggetto attivo di questa epoca storica, il mostro che tutti i santi giorni ci ingiunge di guadagnarci in qualche modo la metaforica (ma per qualcuno ben reale!) pagnotta: chi sfruttando il lavoro degli altri, chi lavorando, chi rubando, chi trafficando in droga e armi, e così via, lungo la quasi infinita filiera del profitto e del denaro.

Le chiacchiere sulla «volontà politica» stanno a zero e hanno il solo significato di ingannare le classi dominate, le uniche che potrebbero rimettere in moto la storia. «Ma siamo tutti sulla stessa barca: se affonda il capitale affonda pure il lavoro!» Qui occorre fare una quasi insignificante precisazione: col capitale affonderebbe il lavoro salariato, il lavoro nella sua attuale forma di merce che valorizza altra merce, non il lavoro tout court, che è un dato inestinguibile della prassi sociale umana.

Non sono così ingenuo da pensare che la comunità dell’uomo in quanto uomo sia dietro l’angolo, e anzi so benissimo che l’attualità del dominio oggi annichilisce la possibilità della liberazione. Ma ho anche capito che «La smisurata dimensione del potere diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità» (M. Horkheimer). Invito a guardare da questa prospettiva anche il prezioso lavoro politico teso a diffondere presso i lavoratori la necessità e l’urgenza dell’autorganizzazione, contro la micidiale «logica» della delega e delle compatibilità. È, a mio modesto avviso, la sola prospettiva che può dare coerenza e forza a quell’impegno, che può renderlo fino a un certo punto immune alle astutissime strategie del dominio.