Sul piani storico, le due vecchie concezioni borghesi sullo sviluppo capitalistico sono radicate nell’ineguale processo genetico del capitalismo internazionale, e quindi nei reali rapporti di forza tra i capitali nazionali che si sono affermati di volta in volta sul mercato mondiale. La concezione liberista si afferma per la prima volta in Inghilterra, almeno nella forma compiuta e organica che conosciamo, ma «soltanto quando l’industria del paese aveva già saldamente stabilito la sua supremazia su tutti i mercati del mondo» (G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, p. 68, Garzanti, 1961). A quel punto il liberoscambismo inglese imposto a tutto il mondo, anche manu militari, non poteva che facilitare la penetrazione delle merci e dei capitali britannici in ogni zolla del pianeta. La politica della porta apertanon può che avvantaggiare, almeno nel breve e medio periodo, l’economia capitalisticamente più avanzata, mentre effettivamente pone le premesse per il decollo economico delle aree socialmente più arretrate, in termini relativi o assoluti. L’ideologia progressista e filantropica (il commercio internazionale come occasione di progresso sociale per tutte le nazioni) associata al liberoscambismo non deve indurci nella tentazione – antioccidentalista – di negare una dialettica storica che comunque porta i segni indelebili dello sfruttamento e dell’oppressione.
La reazione dottrinaria al liberoscambismo non si farà attendere. Friedrich List, il teorico del nazionalismo tedesco e del sistema protezionista, forse si può annoverare fra i maggiori esponenti della concezione protezionista, anche se egli concepì la politica interventista dello Stato solo come una fase propedeutica al pieno sviluppo delle forze produttive di un Paese sottoposto alla «concorrenza sleale» dell’Inghilterra, il cui passato protezionista, osservava giustamente List, non le consentiva di predicare dal pulpito liberoscambista. Nel periodo di adolescenza capitalistica del sistema industriale nazionale lo Stato è chiamato a difendere quel sistema con tutti i mezzi necessari, ad esempio alzando un’alta muraglia di dazi protettivi. Solo dopo essersi sufficientemente irrobustito il sistema industriale può liberarsi delle amorevoli cure del Leviatano senza temere di cadere sul terreno del libero commercio mondiale, e deve farlo se non vuole vivere eternamente sotto la tutela dello Stato.
Negli anni ’40 del XIX secolo le idee enunciate da List influenzarono grandemente il dibattito economico negli Stati Uniti, la cui promettente e dinamica economia si trovò fin dall’inizio a dover fare i conti con la superiorità capitalistica inglese. Tipico esponente americano del sistema protezionista fu Henry Ch. Carey, critico della teoria ricardiana della rendita e sostenitore di una politica economica indipendente fino all’autarchia. Nonostante l’interferenza dello Stato, soprattutto attraverso le imposte, alterasse un processo economico concepito come naturale e razionale (salvo quello basato nell’odiata Inghilterra), egli perorò la causa interventista, soprattutto in difesa dell’agricoltura americana. Naturalmente questo atteggiamento altamente contraddittorio non sfuggì all’occhio critico di Marx: «Il signor Carey non avrebbe dovuto proseguire nella sua indagine per vedere se queste “spese dello stato” non siano anch’esse “frutti naturali” dello sviluppo capitalistico? Il ragionamento è del tutto tipico di un uomo che sul principio afferma i rapporti di produzione capitalistici essere eterne leggi naturali e razionali il cui giuoco liberamente armonico viene alterato solo dall’interferenza dello Stato, e che appresso scopre la demoniaca influenza dell’Inghilterra sul mercato mondiale, che rende d’obbligo l’interferenza dello stato, ossia la protezione di quelle leggi naturali e razionali da parte dello Stato» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 410, Newton, 2005).
Notevole è qui, oltre la frecciata polemica contro un no-global del tempo, la tesi materialistica secondo la quale l’intervento dello Stato, lungi dall’alterare un processo che di naturale e razionale non ha proprio nulla (salvo lo sfruttamento di uomini e cose), e lungi dall’essere una decisione presa liberamente dal politico, è innanzitutto esso stesso un “frutto naturale” dello sviluppo capitalistico.
Sul Continente, a parte il caso tedesco, la concezione protezionistica all’inizio non trovò un grande favore, soprattutto perché la differenza tra la struttura capitalistica inglese e quella degli altri paesi europei era così grande, da far sì che i due sistemi non fossero reciprocamente concorrenti. In Francia, ad esempio, che pure aveva conosciuto il periodo colbertista, il protezionismo risollevò la testa dopo la catastrofica sconfitta del 1871, per toccare il suo apice intorno al 1892, quando vennero varate severe misure protezionistiche a sostegno dell’industria e dell’agricoltura, quest’ultima sottoposta alla spietata concorrenza americana. Analogamente, solo dopo la formazione e il consolidamento del Reich si sviluppò in Germania una forte corrente protezionistica, che si inasprì in seguito alla depressione commerciale mondiale occorsa intorno al 1880: dopo quella data la classe dirigente tedesca abbandonò il precedente atteggiamento diplomatico, sia nel campo delle relazioni commerciali con le altre nazioni, sia nella sfera delle relazioni propriamente politiche con queste stesse nazioni, un atteggiamento strumentale in chiave di costruzione della potenza nazionale in un ambiente internazionale complessivamente sfavorevole. È un po’ la storia di tutti i paesi giunti in ritardo al decollo capitalistico della loro economia: all’inizio occorre fare buon viso a cattivo gioco.
Lo stesso caso italiano presenta un’analoga dialettica: nata sotto gli auspici della concezione liberista (cioè cavouriana), la politica economia del Bel Paese diventa sempre più protezionista non appena lo sviluppo capitalistico per un verso la fa entrare in contatto con i protagonisti del capitalismo internazionale, e per altro verso indebolisce le preoccupazioni diplomatiche dei leader politici nazionali nei confronti della Francia e dell’Inghilterra. «Alessandro rossi – che del movimento protezionista diverrà uomo di punta – prima del 1868 era ancora di “convinta opinione liberista”. Raccontò lui stesso di essere stato colpito come S. Paolo sulla via di Damasco: “Quando andiamo a comprare la lana e il cotone sui mercati di Londra, ci accorgiamo che quelli ci giocano come vogliono con le loro speculazioni, perché i prezzi li fanno loro, loro controllano il mercato mondiale e noi dobbiamo subire. Come si fa a dire che la concorrenza assicura a tutti uguali vantaggi? Oggi la lotta economica è lotta anche per l’affermazione di una vera indipendenza, di una vera autonomia nazionale”» (G. Marongiu, Storia del fisco in Italia, I, pp. 308-309, Einaudi, 1995).Non pare di ascoltare il comizio di un sovranista del XXI secolo?
Già nel maggio del 1861, come racconta sempre Marongiu, il deputato Polsinelli, proprietario di una delle principali fabbriche di tessuti del mezzogiorno, aveva condannato l’impostazione liberista della politica economica del governo italiano: «La Francia e l’Inghilterra predicano il libero scambio, dopo aver avuto per secoli una protezione grandissima. Esse dicono a noi: facciamo liberamente il commercio, aprite il vostro mercato. O signori, è la lotta di un gigante con un bambino» (p. 45). Non c’è dubbio: la concezione liberista esprime il punto di vista del gigante, della forza,quella protezionistica il punto di vista del bambino, della debolezza. Mutatis mutandis, questo schema è applicabile anche alla realtà del XXI secolo, e non a caso il protezionismo è oggi invocato dai paesi capitalisticamente in ritardo o da quelli che più degli altri avvertono i morsi della crisi.
Negli anni ottanta del XIX secolo le dottrine stataliste della scuola storica tedesca e dei socialisti della cattedra, sostenitrici di un vasto intervento pubblico in campo economico-sociale, presero il sopravvento nel dibattito sulle prospettive di sviluppo economico del Paese, eclissando il pensiero liberista sostenuto dagli epigoni di Cavour. D’altra parte, il liberismo dello statista piemontese aveva avuto soprattutto un significato politico, più che economico: «Il liberalismo di Cavour era lo strumento fondamentale della sua politica estera … Cavour seppe dare all’Europa l’esempio di una pratica di governo dignitosamente liberale, capace di mantenere i propri impegni e di conquistare la fiducia del paese. Di fronte all’Austria egli mostrava la possibilità di un governo nazionale che non aveva bisogno di ricorrere allo stato d’assedio» (P. Gobetti, La rivoluzione liberale, p. 41, Ed. del Corriere della Sera, 2009). O, più semplicemente, Cavour seppe interpretare al meglio le esigenze di un Paese che era uscito dalla rivoluzione nazionale-borghese gravato di moltissime magagne, e comunque non in grado di dettare condizioni alle potenze europee che ne avevano favorito l’unificazione nazionale. Fare buon viso a cattivo gioco, e in questo il Conte di Torino fu un maestro.
I trattati internazionali ineguali del 1850 (politica della porta brutalmente spalancata, più che aperta) esposero drammaticamente l’economia nazionale giapponese all’assalto delle potenze straniere. Come evitare al Giappone il destino dell’India e della Cina? Alla classe dominante del Sol Levante apparve immediatamente chiaro che se il Paese non fosse transitato rapidamente dalla vecchia struttura economica feudale al moderno capitalismo il suo triste destino era già scritto sul libro dei paesi coloniali o semicoloniali. Mentre la Cina reagì alla sfida occidentale con l’inerzia che le derivava dal suo glorioso passato e dalla sua enorme dimensione geosociale, il Giappone ebbe una reazione affatto diversa. Anziché tentare di tenersi alla larga da una corrente storica che ormai travolgeva tutto il pianeta, la classe dirigente giapponese iniziò a studiare il modello sociale capitalistico che sembrava adattarsi meglio alle condizioni e alle ambizioni del Paese. La scelta cadde sulla Germania.
«Negli anni ’70 – del XIX secolo – il governo giapponese seguì decisamente una politica tendente a scoraggiare gli investimenti stranieri, e a riscattare gli impianti industriali di proprietà straniera e a restituire i prestiti esteri: era la politica che Bismark aveva consigliato di adottare, quando la missione Iwakura era andata a fargli visita» (J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo, p. 67, Einaudi, 1979). Nel momento in cui occorreva avviare una transizione straordinariamente rapida da un presente diventato improvvisamente obsoleto al futuro, in un ambiente sociale interno segnato dalla debolezza della moderna classe borghese e in un contesto internazionale dominato dalla crescente competizione imperialistica, la macchina statale doveva necessariamente giocare un ruolo centrale, finendo per diventare la leva fondamentale dell’accumulazione capitalistica. «Per un certo numero di ragioni, lo stato fu il meccanismo che riorganizzò la situazione politica ed economica interna e agì come intermediario complessivo nei confronti del mondo esterno. Il quadro generale dell’economia giapponese fu determinato dall’imperialismo … L’origine di molti tratti caratteristici del capitalismo giapponese risalgono al periodo Meiji: l’energico intervento dello stato nella formazione, nell’accumulazione e nell’investimento del capitale; la concentrazione dei beni capitali; il controllo statale sull’attività bancaria; la direzione e l’intervento dello stato nel commercio estero; un certo numero di severi provvedimenti contro il capitale straniero» (p. 62). A questo punto sono sicuro che a qualche lettore statalista, o “socialista”, ovvero socialsovranista sia venuta l’acquolina in bocca!
Forse è la vicenda giapponese quella che più chiaramente delle altre mostra lo stretto legame che vi fu tra la politica protezionistica come incubatrice del capitale “ritardatario” (Stati Uniti, Germania, Giappone, Italia, in parte la stessa Francia) e l’ascesa del moderno Imperialismo, da una parte, e tra la prima e l’ideologia nazionalista, dall’atra. Per i paesi costretti a inseguire il primato capitalistico dell’Inghilterra, il nazionalismo rappresentò la faccia politico-ideologica del protezionismo, e poi, in una fase più matura del loro sviluppo, dell’Imperialismo. In Inghilterra, invece, quest’ultimo non ebbe bisogno del sostegno di una forte e aggressiva ideologia, e ciò ne conferma il carattere essenzialmente economico.
Ancora oggi le forme più “fondamentaliste” di nazionalismo, che non di rado si sposano con il più ottuso “radicalismo religioso” (vedi paesi musulmani), allignano là dove il capitale nazionale è – relativamente – debole e si sente minacciato da presso dal capitale internazionale, ovvero ne subisce da sempre il dominio. Ecco perché associare il protezionismo al nazionalismo è legittimo sotto ogni punto di vista, e non a caso esiste il concetto di nazionalismo economico che compendia i due concetti.
Sul piano generale possiamo dire che la concezione liberista ha come corollario una teoria dello Stato incentrata sul primato dell’economia («Stato minimo», subordinato agli interessi della «società civile»), mentre la concezione protezionista ha una teoria dello Stato basata sul primato della politica, e per questo la seconda appare assai più ideologica (falsa) della prima, la quale almeno lascia intravedere, sebbene attraverso mille veli, la reale sostanza sociale dello Stato, potenza ancella dell’economia. Entrambe le concezioni comunque non si sono sviluppate da un libero dibattito dottrinario, ma hanno espresso reali interessi di classe, reali processi sociali, caratterizzati, come detto all’inizio, da una diversa genesi dello sviluppo capitalistico. È questo quadro storico-sociale che occorre avere in mente quando riflettiamo intorno ai concetti di liberoscambismo e protezionismo, entrambi strumenti politico-ideologici al servizio della conservazione sociale a cui le classi dominanti ricorrono “pragmaticamente” a seconda delle circostanze.
Lungi dall’essere concetti che si elidono a vicenda, liberismo e protezionismo si danno piuttosto l’uno come sviluppo – non negazione – dell’altro, e non di rado le prassi cui essi si riferiscono convivono all’interno di una stessa economia nazionale. Per questo non ha alcun fondamento, né storico né economico, assolutizzare, autonomizzare e contrapporre l’uno all’altro quei due concetti e le relative prassi.