IL CAPITALE SECONDO VILFREDO PARETO

Nicola Porro ha letto – o riletto – Il Capitale di Vilfredo Pareto, un saggio critico scritto dall’eminente sociologo ed economista italiano nel 1885, e ripubblicato quest’anno dall’editore Aragno, e ne è rimasto letteralmente estasiato: «È favoloso vedere la lucidità di Pareto e scorgere in alcune sue critiche al marxismo, alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero dominante e collettivistico di oggi». Già solo questo ammirato giudizio ci fa comprendere quanto poco Porro abbia compreso Il Capitale marxiano, e questo, come vedremo, anche sulla pessima scia di Pareto (1). Con quanta superficialità e assenza di cultura storica Porro si approccia a Marx e al cosiddetto marxismo è ben rivelato dagli spassosi passi che seguono: «Alla fine dell’Ottocento Karl Marx è una star. È un Saviano [che faccio, rido?], si parva licet [ah, ah, ah!], su scala globale: è la cosa giusta, scritta nel momento giusto, e appoggiata dai salotti giusti. Sono in pochi a contestarlo [come no!]. Il socialismo è agli inizi, ma gode di grande fama». Ai «salotti giusti» è sufficiente aggiungere i «poteri forti» i «giornaloni» e i salotti radical-chic, ed ecco Marx trasformato in un Bertinotti qualunque, in un protagonista della scena politico-mediatica dei nostri miserabili tempi. Ma che film storico ha visto il signor Porro? Affari suoi, comunque, e del resto lui scrive per un pubblico che non vuole ragionare criticamente, ma desidera piuttosto intrupparsi in una delle tifoserie che movimentano la scena politica di Miserabilandia. Com’è noto, Porro ama tifare per le squadre che si schierano “a destra” del metaforico campo di gioco e che propugnano un capitalismo liberale/liberista insofferente nei confronti di ogni forma di statalismo. Ora, non avendo capito un solo fico secco degli scritti marxiani (ammesso che non si siano limitati a ripetere secolari quanto infondati luoghi comuni fabbricati dai detrattori dell’ubriacone di Treviri), i personaggi alla Porro credono che il comunista tedesco sia nientemeno il padre di tutti gli statalisti sinistrorsi, e quindi ritengono che attaccandolo raggiungono più facilmente il loro target. Ecco perché non mi sento minimamente chiamato in causa dalle «critiche al marxismo e ad alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero dominante e collettivistico di oggi», critiche che anzi mi divertono alquanto proprio per l’inconsistenza dottrinaria di chi le formula.

Giustamente Porro scrive che, in generale, Pareto critica «la cosiddetta teoria del valore marxiana», e che tale critica è «cosa che oggi è diventata generalmente accettata»: dalla scienza economica borghese, mi permetto di aggiungere. D’altra parte è più che logico che sia così, considerato che la marxiana teoria del valore è in primo luogo una radicale critica dei rapporti sociali capitalistici, i quali sono, per Marx e per il modesto scolaretto che scrive, rapporti di dominio e di sfruttamento. Ma veniamo al peso massimo!

Il saggio di Pareto, scritto nel 1894 come Introduzione al più celebre testo marxiano pubblicato nel 1867 (2), esordisce osservando che «il libro di Carlo Marx dovrebbe intitolarsi il capitalista, piuttosto che il capitale, almeno se si vuole intendere quest’ultima parola nel senso, abbastanza generalmente ammesso, di beni economici destinati a facilitare la produzione di altri beni» (3). Già da queste poche frasi si capisce come l’intellettuale italiano non abbia compreso il concetto marxiano di capitale, e come egli si muova concettualmente all’interno di quella economia politica che Marx giustamente definì volgare, ossia priva di profondità analitica e ferma al punto di vista del pensiero comune, e robinsoniana, ossia priva di senso storico, tale cioè da trasformare le categorie dell’economia politica in platoniche idee eterne, perfettamente in grado di penetrare i misteri di ogni sistema economico-sociale: da Adamo ed Eva in poi. Attribuire un significato storico e sociale ben preciso alle categorie economiche adoperate dalla moderna economia politica, ebbe per Marx il significato di trattare la società borghese come un sistema sociale transeunte esattamente come lo furono le società che l’hanno preceduta, e facendo ciò egli si appropriò e al contempo superò il metodo storico-dialettico hegeliano, il quale aveva indicato appunto nella società borghese il compimento del processo storico.  A differenza di Marx, Pareto aveva dunque del capitale una concezione non storica ma metastorica, idealistica o, appunto, robinsoniana, come dimostra la seguente citazione: «Robinson nella sua isola aveva dei beni economici che egli impiegava nella produzione di altri beni, cioè aveva dei capitali, ma non aveva alcuna circolazione né di merci, né di denaro» (4). Per Pareto, anche l’arco e le frecce dei cacciatori primitivi rientrano a pieno titolo nella rubrica del capitale: robinsonate, appunto (5). Scrive Marx: «Nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, non fosse altro questo strumento che la mano; nessuna produzione è possibile senza lavoro passato, accumulato, non fosse altro questo lavoro che l’abilità assommata e concentrata nella mano del selvaggio mediante l’esercizio ripetuto; il capitale è tra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato; dunque il capitale è un rapporto naturale eterno, universale. Ovverosia, a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che solo trasforma uno “strumento di produzione”, in un capitale» (6). Solo sotto determinate condizioni storiche lo strumento di produzione, la materia prima e lo stesso lavoro, ossia i fattori produttivi che incontriamo nelle diverse formazioni storico-sociali, assumono la natura di capitale, e ciò per Marx si realizza nella forma capitalisticamente più “pura” – ossia peculiare – nel momento in cui il produttore immediato della ricchezza sociale (l’operaio, il contadino) viene violentemente allontanato dal possesso dei fattori produttivi e, quindi, dal prodotto del suo lavoro, la cui proprietà è presa in carico in forma monopolistica dal Capitale – non importa quale forma giuridica assume la proprietà capitalistica (7).

Ma per Marx è l’esempio robinsoniano in quanto tale che non ha la benché minima consistenza “scientifica”, un briciolo di senso che non sia quello di mettere in luce la concezione ingenua e fallace del processo sociale di chi lo adopera credendo di poter semplificare fondatamente passaggi logici e storici. «Il singolo ed isolato cacciatore e pescatore con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle immaginazioni prive di fantasia che hanno prodotto le robinsonate del XVIII sec. […] La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro. Ma è inutile indugiare su questo punto. E non ci sarebbe neppure bisogno di toccarlo se questa insulsaggine, che aveva un senso e una ragione per gli uomini del XVIII secolo, non fosse stata reintrodotta seriamente nel bel mezzo dell’economia più moderna da Bastiat, Carey, Proudhon ecc.» (8). Un’insulsaggine che evidentemente ha fatto breccia anche nel pensiero “scientifico” di Pareto. E non per caso.

Pareto distingue il capitale semplice, che sarebbe più corretto definire capitale eterno («beni destinati alla produzione di altri beni»), e capitale appropriato, «capitale che funziona nelle mani dei capitalisti»: «Il libro di Carlo Marx è evidentemente diretto contro questa categoria di capitali, o, in altri termini, contro i capitalisti. quanto al capitale semplice, Carlo Marx non ne disconosce per nulla l’importanza. […] È il capitalista il nemico» (9). Secondo il nostro scienziato sociale Marx vorrebbe salvare il Capitale e annientare i capitalisti. Ora, anche un modestissimo lettore dei testi marxiani, qual è certamente chi scrive, non può che sorridere dinanzi a una sciocchezza così grossolana; è noto, infatti, che Marx scrisse che si occupava dei singoli capitalisti solo nella loro qualità di funzionari del Capitale, in quanto personificazione (incarnazione) di esso. Per Marx, infatti, il capitale è in primo luogo un rapporto sociale storicamente determinato, e per questo la “fenomenologia” giuridica riguardante la sua proprietà (privata, statale, mista, cooperativistica, azionaria) nulla toglie e nulla aggiunge alla sua sostanza storica e sociale. Su questa infondata interpretazione dei testi marxiani è potuta nascere la miserabile leggenda del Marx statalista. Sulla differenza abissale che corre tra statalizzazione e socializzazione rimando al mio post Sul concetto di socializzazione.

A differenza dei socialisti piccolo-borghesi del suo tempo, che piagnucolavano sui “lati negativi” dello sviluppo capitalistico e che propugnavano un ritorno della società borghese verso forme meno “selvagge” e disumane di economia mercantile, Marx si sforzò di individuare piuttosto le cause di fondo che rendono assolutamente necessario il continuo sviluppo delle forze produttive sociali in regime capitalistico, un imperativo categorico che periodicamente entra in conflitto con la vitale ricerca del profitto; non si trattava, per lui, di superare i “lati cattivi” del Capitalismo e di conservarne i “lati buoni”, oppure di restaurare forme economiche ormai superate, che peraltro avevano preparato il terreno per la nascita della moderna società borghese, ma di oltrepassare in avanti, con una coraggiosa – o magari semplicemente disperata! – corsa rivoluzionaria, il regime sociale capitalistico, e mettere finalmente al servizio dell’intera umanità quanto il millenario processo storico-sociale ha prodotto in termini di conoscenze tecniche e scientifiche (10). Questo atteggiamento storico (materialistico), così distante dall’indignazione moralistica del piccolo-borghese progressista, nei confronti del Capitalismo ha indotto nella testa dei lettori più superficiali e indigenti di dialettica dei tasti marxiani l’idea che Marx fosse, sotto sotto, un entusiasta apologeta dello sviluppo capitalistico: niente di più falso e di più ridicolo! Bisogna riconoscerlo: la dialettica materialistica non è pane per i denti degli scienziati sociali che amano proiettare la propria insulsaggine dottrinaria sul pensiero altrui. Almeno questa è la convinzione di chi scrive.

Scrive Marx: «La particolare, specifica funzione del capitale è la produzione di plusvalore che non è niente altro che produzione di pluslavoro, appropriazione di lavoro non pagato nel reale processo produttivo, che si presenta materializzato come plusprodotto» (11). Come si vede, qui Marx parla della funzione peculiare del capitale, non del capitalista, e analoghe precisazioni si trovano in diverse pagine del Capitale, testo che concepisce il Capitalismo non come la risultante di molteplici scelte economiche prese dai detentori di capitali, ma come il primo modo di produzione realmente sociale apparso sulla scena storica. La stessa teoria marxiana del valore (a cominciare dalle distinzioni tra valore e prezzo di produzione, tra lavoro concreto e lavoro astratto, tra plusvalore e profitto) non è accessibile alla comprensione se non si tiene fermo il principio della totalità sociale che informa l’analisi critica marxiana. E difatti Pareto mostra di non comprendere, per l’essenziale, il nocciolo di questa teoria, anche perché egli tratta come un cane morto il lascito dottrinario degli economisti classici: «Noi riputiamo, per nostro conto, assolutamente oziosa, nello stato attuale della scienza, ogni discussione che non abbia altro scopo che di sapere che cosa si deve intendere per valore, capitale, o altre simili espressioni. È questa una questione che appartiene alla filologia, ma non già alla scienza economica» (12). Per Pareto la sostanza storica e sociale del valore, del capitale, della merce, del lavoro salariato o di altre simili “cose” non rappresenta un problema ma un fatto del tutto privo di misteri da svelare, di zone d’ombra da rischiarare attraverso l’analisi. Mentre per la scienza economica positiva – e apologetica – il rapporto sociale capitalistico è un dato, un fatto compiuto che bisogna accettare acriticamente alla stregua del contadino che accetta l’esistenza della terra, del sole e della pioggia come intangibili ed eterni elementi naturali (13), per Marx all’opposto questo rapporto sociale rappresenta un problema, anzi: il problema, da sviscerare e approfondire in tutti i suoi complessi e contraddittori aspetti. Per lui «il capitale [è] un essere incredibilmente misterioso», e lo è soprattutto perché «la produzione capitalistica sviluppa su grande scala le condizioni del processo lavorativo come potenze dominanti il singolo lavoratore e a lui estranee. […] Le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali che si impongono al lavoratore e, in questa forma, vengono capitalizzate» (14). È in questa dimensione di pura alienazione/reificazione che le forze sociali assumono l’aspetto di capitale, almeno nell’accezione marxiana del concetto che personalmente sposo in toto. Ed è esattamente questa mostruosa (disumana) dimensione che conferisce un grado altissimo, e mai conosciuto nella storia umana, di irrazionalità all’economia che ha fatto dell’uso della scienza e della tecnica la sua stessa condizione di esistenza. Naturalmente per lo scienziato sociale “oggettivo” e “avalutativo” tutte queste considerazioni non sono che fuffa filosofica che niente a che fare ha con l’analisi puntuale e rigorosa dei fatti economici; ciò è perfettamente conforme alla sua concezione feticistica del processo che crea e distribuisce la ricchezza sociale in regime capitalistico. Lo stesso feticismo, ancor prima che nelle teste degli economisti “avalutativi”, si sviluppa nella realtà del processo produttivo: «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro appaiono sottomessi al lavoratore, ma questo ad essi. È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto, nella sua semplicità, è personificazione delle cose e reificazione delle persone» (15). Il recente dibattito intorno all’uso sempre più massiccio e “pervasivo” delle cosiddette tecnologie intelligenti è interamente orientato dalla concezione feticistica di cui parla Marx (16).

Pareto non comprese che tutta la sua costruzione teorica intorno al concetto di utilità economica (ofelimità) può avere un qualche fondamento empirico solo a valle, per così dire, della legge del valore-lavoro, mentre non può sostituirla in alcun modo. Ciò si può dire in analogia con la legge della domanda e dell’offerta, la quale agisce su una sostanza di valore già creata, influenzando la dinamica dei prezzi solo post festum, a valore di scambio creato nel processo produttivo. Un conto è la formazione del valore, un altro l’oscillazione sul mercato della sua espressione monetaria. Prescindendo dalla teoria del valore-lavoro l’ofelimità paretiana può dirci qualcosa di minimamente interessante sul versante della psicologia di massa, non certo su quello del processo economico capitalistico.

Quando poi Pareto scrive che la scienza economica «si occupa dei rapporti fra cose e non fra persone», egli mostra in tutta la sua ingenuità quello che Marx definì con azzeccatissima locuzione feticismo delle merci, fondamento di ogni sorta di feticismo economico (cioè a dire relativo al denaro, alla tecnologia e così via), il quale non consente di capire che «quel che assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi» (17). Ripetiamo per l’ennesima volta il celebre versetto marxiano in sfregio alla scienza sociale “avalutativa”: il Capitale non è una cosa, né una relazione fra cose, ma un peculiare rapporto sociale. L’economia volgare postclassica che si “emancipò” dalla scottante teoria del valore-lavoro di Smith e Ricardo nella prassi economica vede solo movimenti di grandezze fisiche (macchine, materie prime, lavoratori, capitali finanziari, ecc.), mentre il rapporto sociale Capitale-Lavoro che rende possibile e spiegabile sul terreno storico-sociale tali movimenti non li riguarda neanche un po’. E si capisce bene perché!  La più recente scienza economica si è illusa di poter nascondere la propria volgarità e la propria impotenza analitica sotto un gigantesco edificio di equazioni e di concetti matematici che incutono timore solo in chi non ha avuto la ventura di leggere senza pregiudizi Marx e di conoscere, attraverso la sua mediazione critica, i fecondi studi dei fondatori dell’economia politica. La marxiana teoria del valore, che è in primis la teoria dello sfruttamento del lavoratore, “manuale” o “intellettuale” che sia, da parte del Capitale, purtroppo è più viva che mai!

Più in generale, se l’approccio puramente oggettivo, descrittivo e “avalutativo” con la realtà fenomenica è un’ingenua illusione nella sfera della scienza naturale, figuriamoci se esso può godere di maggior credito nel campo dei fenomeni sociali, nella dimensione cioè degli interessi sociali più disparati e, soprattutto, dei conflitti sociali dovuti alla divisione classista degli individui (18). Scriveva Adorno: «Allo stesso modo che da un punto di vista sociale e contenutistico l’apatia politica rivela un carattere politico, lo stesso avviene per la tanto elogiata neutralità scientifica. Da Pareto in poi la scepsi positivistica si è sempre messa d’accordo con il potere esistente, anche con quello di Mussolini. Poiché tutte le teorie sociali sono intrecciate con la società reale, di ciascuna di esse è certamente possibile abusare, o trasformare la funzione, a scopi ideologici; ma il positivismo … si presta specificamente all’abuso ideologico, a causa della sua indeterminatezza contenutistica, del suo modo di procedere che è un incasellare e ordinare, e, infine, della preferenza accordata all’esattezza [il più delle volte semplicemente formale] rispetto alla verità» (19). E la verità parla il duro linguaggio del dominio di classe. Se tu, scienziato “avalutativo” e in ottima fede, non ti occupi (non riconosci) il rapporto sociale dominante, esso si occupa di te, alle tue spalle!

Ma riprendiamo la citazione marxiana lasciata in sospeso: «Le funzioni che il capitalista esercita non sono allora se non funzioni dello stesso capitale – del valore che si valorizza assorbendo valore vivo – espletate con coscienza e volontà: il capitalista funziona unicamente come capitale personificato, capitale-persona, allo stesso modo che l’operaio funziona come lavoro personificato […] Il dominio del capitalista sull’operaio è quindi dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore. […] L’autovalorizzazione del capitale – la creazione di plusvalore – è dunque lo scopo preciso e ossessivo del capitalista, la molla ed il contenuto assoluto del suo operare, […] un contenuto, quindi, astratto e meschino che fa apparire il capitalista completamente sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico non meno che, al polo opposto, l’operaio». Qui addirittura lo stesso capitalista appare nei panni della vittima costretta a sacrificarsi al Moloch sociale chiamato Capitale. Ma, continua Marx, mentre in questa dimensione disumana e alienante il capitalista trova «un assoluto appagamento», «l’operaio, in quanto sua vittima, si pone sin dall’inizio in un rapporto di ribellione, e lo avverte come un processo di asservimento» (20). Tuttavia, una volta eliminati per ipotesi (cara agli statalisti di tutte le tendenze ideologiche e politiche) i singoli capitalisti (21) senza intaccare il rapporto sociale capitalistico che tutto e tutti domina, l’umanità non avrebbe fatto un solo passo avanti sulla strada della sua emancipazione da ogni forma di sfruttamento e di asservimento.

Non avendo compreso, fra l’altro, il concetto marxiano di capitale Pareto fece del comunista di Treviri il precursore del «socialismo di Stato», o «socialismo popolare», come egli lo definì in opposizione al «socialismo borghese», ossia allo statalismo propugnato dai partiti borghesi che egli detestava in quanto economista liberale/liberista; cioè a dire di quel «socialismo», soprattutto nella sua versione lassalliana, contro cui l’uomo con la barba ebbe modo di polemizzare per tutta la sua  tormentata vita. È sufficiente leggere la Critica del programma di Gotha (1875) per capire di che parlo. È così che si spiega la fesseria paretiana che segue: «Bisognerebbe completare la teoria di Carlo Marx colla legge di bronzo di Lassalle perché la dimostrazione [della sua pochezza dottrinaria] fosse completa» (22). Ora, tutto si può dire di Marx, tranne che egli non abbia deriso e combattuto, in quanto concettualmente falsa e politicamente pericolosa (reazionaria), la legge bronzea del salario! (23)

Diamo dunque la parola all’accusato! «È noto che della “legge bronzea del salario” appartiene a Lassalle soltanto la parola “bronzea”, presa in prestito dalle “eterne, bronzee, grandi leggi” di Goethe. La parola “bronzea” è un sigillo che permette agli ortodossi di riconoscersi tra loro. […] Lassalle non sapeva che cosa fosse il salario, ma, sulla scia degli economisti borghesi, prendeva la parvenza per la sostanza della cosa» (24). Una puntuale critica marxiana della legge bronzea del salario, la quale nella sua impostazione concettuale deve molto a Malthus, si trova in Salario, prezzo e profitto, un saggio “popolare” che Marx scrisse nel 1865 per confutare le tesi “bronzee” di John Weston, un operaio seguace di Owen. Riporto solo alcuni passi, tanto per dare al lettore un’idea del suo contenuto: «La volontà del capitalista consiste certamente nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è di parlare della sua volontà, ma di indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti. […] Il cittadino Weston ha dimenticato che la zuppiera nella quale mangiano gli operai è riempita dall’intero prodotto del lavoro nazionale e che ciò che impedisce loro di prenderne di più, non è né la piccolezza della zuppiera, né la scarsità del suo contenuto, ma soltanto la piccolezza dei loro cucchiai» (25). Caspita! Ma allora possiamo annoverare Marx fra i riformatori sociali che si battono per rendere più grande il cucchiaio “degli ultimi”? Marx come un Bertinotti o un Bergoglio qualsiasi? Ma neanche per idea! Infatti egli conclude il saggio come segue: «Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto. […] Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande. Nello stesso tempo la classe operaia non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato.  […] Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera  il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» (26). La lotta economica per strappare al Capitale migliori condizioni di lavoro e di vita come palestra di lotta di classe. Lo so, non è dialettica che gli scienziati sociali positivi possono facilmente comprendere, né si sforzano di farlo: a che pro, del resto?

Scrive Pareto: «Marx cade nell’errore di non fare abbastanza attenzione a ciò: che il valore d’uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbe la composizione chimica, ma è al contrario un semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini. Questo errore è ancora più manifesto per il valore di scambio, ed è una delle cause principali del sofisma che si trova nella teoria del plus-valore». Ora, non riesco proprio a capire dove Pareto ha letto la sciocca idea sul valore d’uso che mette in testa a Marx, il quale storicizzò perfino i cinque sensi umani: «I sensi dell’uomo sociale sono diversi da quelli dell’uomo non sociale. Soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell’uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell’uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore, ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo sino ad oggi» (27). Per Marx l’uomo ha un rapporto storico-sociale con tutto ciò con cui egli entra in rapporto (28), e d’altra parte nemmeno un incallito materialista volgare può pensare che «il valore d’uso è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbe la composizione chimica» di un qualsivoglia oggetto; lo stesso concetto di valore d’uso rinvia immediatamente oltre la “cosa in sé”, in direzione del soggetto consumatore; piuttosto sarebbe da precisare il «semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini» di cui parla, con la superficialità (banalità) tipica dell’economia postclassica,  Pareto. Anche per questo egli appare quantomeno poco credibile quando parla della teoria del plus-valore, che non poteva capire a causa della sua falsa concezione del capitale (e del Capitale), nei termini di un sofisma.

Ciò che a Marx interessa porre in evidenza per ciò che riguarda il valore d’uso è la sua derivazione dai bisogni sociali e dal lavoro umano chiamato a conferire al corpo della materia prima sottoposta alla manipolazione umana impieghi (usi) sempre nuovi, in aderenza agli sviluppi nella struttura produttiva (nuove tecnologie) e, più in generale, nella struttura sociale (nuovi bisogni). «Dove e quando è stato costretto dal bisogno di coprirsi, l’uomo ha tagliato e cucito per millenni, prima che un uomo divenisse sarto. Ma l’esistenza dell’abito, della tela, di ogni elemento della ricchezza materiale non presente nella natura, ha sempre dovuto essere procurata mediante un’attività speciale, produttiva in conformità a uno scopo, che assimilasse particolari materiali naturali a particolari bisogni umani. Quindi il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendentemente da tutte le forme della società» (29).Viceversa, il valore di scambio presuppone l’esistenza di una peculiare forma di società, nel cui seno lo scambio tra prodotti è mediato dal denaro in quanto «misura di valore», come «forma fenomenica necessaria della misura immanente di valore delle merci, del tempo di lavoro» (30). Può anche darsi che Pareto si sia fatto suggestionare dal fatto che Marx definisce il valore d’uso come «ricchezza materiale», ma la natura di questa «ricchezza materiale» è ben spiegata dall’autore del Capitale. Nel suo libro Marx cerca di spiegare perché «la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci», con ciò che tale indiscutibile circostanza, nel XXI secolo molto più vera di quanto non lo fosse nel XIX, presuppone e pone sempre di nuovo in ogni ambito della prassi sociale e nella vita di ogni singolo individuo. È possibile liberare il valore d’uso dei prodotti del lavoro (che oggi hanno appunto la maligna natura di merci, “materiali” o “immateriali” che siano) dalla schiavitù del valore di scambio? Per Marx sì, e, si parva licet, anche per il sottoscritto. Qui però bisogna mettere fine alla cosa!

Ovviamente si può anche essere in completo disaccordo con il punto di vista marxiano concernente la natura del Capitale (che ho il vezzo di scrivere con la “c” maiuscola proprio per enfatizzarne la sostanza storico-sociale, il suo essere in primo luogo un rapporto sociale), ma intanto bisognerebbe capirlo, e a me pare che Pareto neanche riuscì a sfiorare l’essenza teorica e politica del Capitale marxiano. Più in generale, egli concepì l’organizzazione economica capitalistica come un ancorché di naturale, la cui stabilità e razionalità sono continuamente messe in crisi da una generica quanto capricciosa «natura umana». L’economia come la sfera della pura razionalità, della pura logica; la società come il regno dell’irrazionalità e dell’illogicità: questa ingenua dicotomia, così tipica in un pensiero indigente di profondità concettuale, di senso storico e di dialettica, non fa i conti col fatto che è proprio nella sfera economica che si realizza quell’inversione di oggetto e soggetto, di strumento di lavoro e lavoratore, di prodotto e produttore che rappresenta la madre di tutte le irrazionalità generate dalla vigente società, e che non a caso ho posto come filo conduttore di questo modesto scritto.

 

(1) «Vilfredo Pareto nasce il 15 luglio 1848 a Parigi, dove si era rifugiato nei primi anni Trenta suo padre Raffaele (1812-1888), nobile genovese, esperto di ingegneria idraulica e mazziniano, personaggio dalla ricca e poliedrica personalità che ebbe un ruolo importante nell’educazione scientifica del figlio. La madre Marie Métenier (1813-1889) era invece francese. Ancora bambino, Vilfredo torna a Genova (probabilmente nel 1854) e, a Casale Monferrato prima, a Torino poi, frequenta l’istituto tecnico nella sezione industriale. Quindi, sempre a Torino, si iscrive alla facoltà di Scienze, e quindi alla Scuola di applicazione per ingegneri, dove nel 1870 ottiene a pieni voti il diploma di ingegnere. […] In quegli anni legge anche gli Éléments d’économie politique pure di Walras, ma non ne resta affascinato. La conversione alla nuova economia, quella matematica e marginalista, è legata all’incontro con Pantaleoni. Maffeo Pantaleoni era l’economista italiano più originale del periodo (prima dell’arrivo di Pareto), il “principe degli economisti italiani”, come lo definì Piero Sraffa e dopo di lui molti altri economisti del Novecento. Il rapporto con Pantaleoni sarà fondamentale per lo sviluppo della teoria economica di Pareto» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani).
(2) V. Pareto, Introduzione a K.Marx, Il Capitale, Sandron, 1894. Ho letto il saggio di Pareto nella versione pubblicata dalla UTET nel 1934 insieme ad altri saggi.
(3) V. Pareto, Il Capitale, in AA. VV., Politica ed Economia, p. 141, UTET, 1934-XII. In una lettera del 1893 indirizzata a Maffeo Pantaleoni Pareto scrive, riferendosi a Marx, che «quell’autore vale poco», e che se ne occupava solo perché anche in Italia molti intellettuali si stavano convertendo alla nuova “religione” marxista (Lettere a Maffeo Pantaleoni, 1890-1923, I, p. 349, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962).
(4) V. Pareto, Il Capitale, p. 141.
(5) «L’economia politica predilige le robinsonate. […] Perfino il Ricardo ha la sua robinsonata. Secondo lui i pescatori e i cacciatori primitivi si scambiavano subito pesce e selvaggina, come se fossero possessori di merci, nel rapporto del tempo di lavoro oggettivato in questi valori di scambio. Questa volta, egli cade nell’anacronismo di far consultare al cacciatore e al pescatore primitivi, per calcolare i loro strumenti di lavoro, le mercuriali in uso nel 1817 alla borsa di Londra» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 108, Editori Riuniti, 1980).
(6) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I,  p. 7, La Nuova Italia, 1978.
(7) «Come racconta Marx nel suggestivo capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria), il punto di partenza dello svolgimento storico-sociale che porta alla moderna società borghese non è rappresentato dal denaro, dalla sua rivoluzionaria immissione in un ambiente economico altrimenti destinato a rimanere inchiodato a secolari prassi e tradizioni, ma dall’allontanamento violento (anche con l’ausilio del diritto borghese) dei produttori immediati (contadini e artigiani, in primis) dalla proprietà dei presupposti oggettivi della loro produzione e, dunque, dalla proprietà del loro prodotto: questa doppia proprietà, che realizza i nuovi rapporti sociali borghesi, si concentra nelle mani dei capitalisti.  In questo contesto il lavoro salariato si trova in una condizione di totale soggezione nei confronti del Capitale, in una condizione sociale di pura alienazione: gli strumenti di lavoro, la materia prima lavorata e il prodotto del lavoro si ergono come potenze estranee e ostili a chi lavora. Il lavoratore come oggetto della produzione; il Capitale come soggetto della produzione: un mondo invertito che oggi più di ieri genera irrazionalità d’ogni genere e continui mal di testa esistenziali, se così posso esprimermi» (Sul concetto di socializzazione).
(8) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I,  pp. 3-6.
(9) V. Pareto, Il Capitale, p.143.
(10) ) «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda» (K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 34, Editori Riuniti, 1972).
(11) K. Marx, Il Capitale, Libro VI inedito, p. 7, Newton, 1976.
(12) V. Pareto, Il Capitale, p. 141.
(13) «Il dialogo con Croce culmina in una polemica pubblica, ospitata sul Giornale degli economisti nel 1900-1901, attorno al “principi”» e al “fenomeno” economico. Il tema al centro del dialogo con Croce è il ruolo dei “fatti” nella scienza economica. L’economia “sperimentale” di Pareto si fonda sui fatti, considerati più affidabili, dal punto di vista epistemologico, delle categorie di “utilità” o “valore” che riscontrava nella scienza economica del tempo. Croce, dalla sua prospettiva idealista, cercò in quegli anni di mostrargli che i fatti, in realtà, sono meno semplici di quanto Pareto (e i positivisti) pensassero: i fatti hanno bisogno di categorie pre-empiriche che li possano far “parlare”, altrimenti sono spesso muti e sempre equivoci. In particolare, Croce cercò di mostrare che sotto questa fede nei fatti si nasconde una religione, una metafisica: quella positivista. Un corollario di questa fede consiste nel considerare i fatti dell’uomo non sostanzialmente diversi dai fatti della natura, un assunto chiave di Pareto e di tutti i monisti metodologici. Le domande di Croce non convertirono Pareto, lo portarono piuttosto a una fede positivista ancor più radicale. […] Einaudi esprime bene il senso del rapporto tra questi due protagonisti della cultura italiana: “Il Pareto non badò al Croce e scrisse il Trattato di Sociologia Generale, applicando allo studio delle leggi le quali governano le società umane un metodo di classificazioni in tipi e sottotipi […] profondamente ripugnante a chi sia fornito di quel minimo di istinto storico”» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani).
(14) K. Marx, Il Capitale, Libro VI inedito, p. 84.
(15) Ibidem, p. 82.
(16) K. Marx, Il Capitale, I, p. 104.
(17) Su questi aspetti rinvio a diversi miei scritti scaricabili dal Blog: Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(18) «Per Pareto, l’economia è una scienza semplice, perché studia azioni prevedibili, regolari, in quanto azioni logiche. Il difficile delle scienze sociali inizia allora con la sociologia, scienza del non logico.
L’economia viene così ridotta da Pareto allo studio delle sole azioni logiche che gli esseri umani pongono in essere per soddisfare al meglio i propri interessi. L’unica forma di razionalità consentita all’homo oeconomicus è dunque quella strumentale; l’unico paradigma da prendere a riferimento è quello della fisica newtoniana» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani). Per Claudio Napoleoni «la teoria marginalista è la rappresentazione di un mondo armonico, il quale tende all’equilibrio, e sia nelle configurazioni di equilibrio, sia nei processi con cui accidentalmente si discosta da esse è descrivibile mediante modelli non dissimili da quelli con cui la scienza naturale descrive la realtà fisica. Ora la storia del capitalismo ha mostrato in misura crescente che la realtà capitalistica non è una realtà armonica, ma al contrario procede per squilibri, crisi, antagonismi» (C. Napoleoni, Smith, Ricardo, Marx, p. 11, Boringhieri, 1973). E difatti la grande crisi del ‘29 distruggerà definitivamente ogni illusione “armonicista” anche nel campo della “scienza economica”; l’invocazione dell’intervento dello Stato per salvare il meccanismo economico attraverso la regolazione della domanda, della distribuzione del reddito e attraverso la programmazione della produzione segnerà la definitiva scomparsa del pensiero marginalista, e costringerà la moderna “scienza economica” a uscire fuori dalla retorica neo-armonica e a misurarsi con le contraddizioni capitalistiche, a partire da quella più importante e rivelatrice di tutte le altre: la crisi economica, appunto.
(19) T. W. Adorno, Scritti sociologici, p. 272, Einaudi, 1976. «La teoria delle élites diventerà negli anni un elemento centrale nel pensiero di Pareto, in quanto strumento per sostenere la sua tesi. […] In Pareto, questa posizione ideologica elitaria e sempre più critica delle masse e del consenso popolare con il passare degli anni si accentuerà, al punto che egli diverrà uno dei teorici che giustificarono e approvarono l’emergere del fascismo» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani). Scivolare in una concezione ultrareazionaria della società è quello che spesso capita a chi critica la massificazione degli individui e la demagogia democratica come strumento di consenso e di controllo sociale da una prospettiva “aristocratica”. Io mi sforzo di farla, quella critica, cercando di conquistare un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionario. Ci riesco? Lasciamo stare!
(20) K. Marx, Il Capitale, Libro VI inedito, pp. 18-19.
(21) «La produzione capitalistica stessa ha portato a questo, [ossia al] lavoro di direzione totalmente separato dalla proprietà del capitale. È divenuto assolutamente inutile che questo lavoro di direzione sia esercitato da capitalisti» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 515, Einaudi, 1958).
(22) V. Pareto, Il Capitale,   p. 169.
(23) Com’è noto, Ferdinand Lassalle sosteneva che anche in presenza di una congiuntura economica «propizia, generale e durevole, l’aumento dei salari che si verifica a poco a poco genera un tale aumento di matrimoni e di famiglie operaie e un tale aumento di domanda di lavoro che, di regola, viene compensata con ciò la crescente offerta di lavoro, e il salario cade di nuovo al suo antico livello o sotto di questo» (F. Lassalle, Capitale e lavoro, ed. Samonà e Savelli, 1970).  Per dirla con Engels, secondo Lassalle «l’operaio riceve in media solo il minimo del salario perché secondo la teoria della popolazione di Malthus vi sono sempre troppi operai»: di qui, sempre secondo il parere del bronzeo socialista tedesco, la sostanziale inutilità delle lotte operaie sul terreno delle rivendicazioni economiche.
(24) K. Marx, Critica del programma di Gotha, pp. 48-49, Savelli, 1975.
(25) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, pp. 36-38, Newton, 1976.
(26) Ibidem, pp. 115-116. Le Trade Unions non mirano ad altro che ad impedire l’abbassamento del salario al di sotto del suo livello tradizionalmente dato nei diversi rami di commercio, a impedire la riduzione del prezzo della capacità lavorativa al di sotto del suo valore (K. Marx, in appendice a Il Capitale, Libro VI inedito, p. 126).
(27) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del ’44, p. 48, MIA, 2007.
(28) Mi scuso e mi cito: «L’uomo è tale (naturalmente, storicamente e socialmente) nella misura in cui oppone resistenza, “materiale” e “spirituale”, alle cose e agli eventi, e non li subisce passivamente. Come ho scritto altre volte, balbettando abbastanza ignobilmente concetti hegelo-marxiani, l’uomo è la specie che pone la mediazione: “Medio, dunque esisto!”. L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, spontaneamente, cioè a dire prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione, la quale peraltro non tarda a bussare alla sua porta: ed ecco la filosofia, la scienza, l’arte, la religione, e così via. Mediare significa comprendere, trasformare e padroneggiare il mondo, tanto quello “esterno” quanto quello “interno”, e senza soluzione di continuità reale e concettuale tra questi momenti: nel caso dell’uomo è impossibile immaginare un impulso ad agire per soddisfare una necessità vitale che sia privo di un qualche fondamento razionale, non importa quanto “sofisticata” e adeguata alla “verità oggettiva” sia la sua manifestazione» (Sul potere sociale della scienza e della tecnologia).
(29) K. Marx, Il Capitale, I, p. 75.
(30) Ibidem, p. 127.

LA VIOLENZA (DI CLASSE) COME ESSENZA DELLO STATO. Sull’anticapitalismo “anarco-capitalista” di Michael Huemer

000867L’umanità al suo livello più alto non ha
bisogno di uno Stato (Arthur Schopenhauer).

Se l’essenza dello Stato è la violenza: è questo l’ammiccante – ovviamente agli occhi di chi scrive – titolo che Nicola Porro, o chi per lui, ha voluto dare a un suo articolo inteso a dar conto del pensiero politico-filosofico di Michael Huemer, autore di un libro, pubblicato nel 2013 negli Stati Uniti, che è diventato subito un punto di riferimento dottrinario ineludibile per i sostenitori di una società capitalistica in grado di fare a meno dello Stato, giustamente concepito come una presenza non solo ingombrante e oppressiva sotto ogni rispetto (a partire, ovviamente, da quello fiscale) (1), ma necessariamente violenta. Il titolo del libro di Huemer recita: Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, 2015); il sottotitolo è, come si dice, tutto un programma: Un esame del diritto di obbligare e del dovere di obbedire. Diritto di obbligare, dovere di obbedire: capito il concetto? Scrive Porro: «Il testo ci spiega su cosa si fonda questa benedetta autorità politica e il suo strumento ultimo, che è la coercizione. In un esempio illuminante, in fondo, Huemer ci dice che si finisce sempre con la violenza fisica. La catena degli ordini di uno Stato su questo si basa. Se non rispetto il semaforo rosso mi fanno una multa. Se non pago la sanzione, la ingigantiscono, magari togliendomi la patente. Se continuo a girare senza patente, mi fermano. E poi magari mi arrestano. Infine, se non accetto di essere tradotto in cella, qualcuno dovrà pur strattonarmi per un braccio, come minimo, e ficcarmi nell’auto che mi porterà in galera. Certo tutto è fatto da un’organizzazione terza, e tutto è concepito con una procedura, che possiamo definire democratica» (2). Il fatto è che siamo talmente abituati a questa prassi fatta di controlli, sanzioni e procedure, che lo stesso esempio esposto da Porro ci appare assolutamente banale, ossia non degno di una riflessione politico-filosofica: cosa dovrebbe fare lo Stato, se non punire chi non rispetta le leggi? Il senso reale, più profondo, del meccanismo coercitivo sfugge alla riflessione comune, anche perché molti pensano, esattamente come il bravo giornalista del Giornale, che l’apparato chiamato (da chi? da che cosa?) a gestire il controllo sociale e la repressione dei comportamenti ritenuti (da chi? da che cosa?) illegali sia «un’organizzazione terza», non abbia, cioè, una natura politico-istituzionale tale che possa avvantaggiare qualcuno e penalizzare qualcun altro.

Leggo dalla Nota dell’editore: «È l’Autore stesso a formulare la domanda: “Questo libro è pericoloso?” e a ritenere sensato il dubbio “se forse questo libro è un male e se, forse, sarebbe stato meglio non scriverlo”. Giriamo volentieri al lettore l’interrogativo, che sebbene posto in forma presumibilmente – ma non sicuramente – retorica, ci ha provocato un attimo, solo un attimo, di perplessità. Ovviamente, chi sta leggendo, per il fatto stesso di avere davanti ai suoi occhi questa Nota ha già indovinato quale sia stata la nostra risposta: non è un male, tutt’altro. Proprio perché pensiamo che possa essere un bene l’abbiamo pubblicato. Infatti, forse, non tutti i cittadini sono consapevoli dell’inganno su cui si fonda il principio di “autorità politica” che perpetua il potere degli Stati e la servitù volontaria dei cittadini-sudditi, e che è ancora utile indagare sui presupposti etici dell’essenza e dell’attività della istituzione Stato». Per meglio comprendere la perplessità, affermata in chiave più o meno retorica, dall’autore e ripresa seriamente dall’editore, è sufficiente aggiungere che lo studioso californiano si pone senza alcun infingimento il problema circa la possibilità di abolire lo Stato; come vedremo, per Huemer la cosa non è solo necessaria, sotto ogni rispetto (economico, etico, psicologico), ma è anche senz’altro possibile. Tra poco vedremo i termini reali della questione.

È evidente che un nemico dello Stato borghese, in ogni sua possibile accezione e configurazione politico-istituzionale (democratica, autoritaria, totalitaria), qual è chi scrive, non poteva rimanere indifferente nei confronti di questi pochi ma potentemente suggestivi richiami concettuali, tanto più se l’attacco al Leviatano giunge dalla sponda opposta da quella dalla quale egli scaglia le sue poche e fragili frecce anticapitalistiche – tanto per cominciare, il filosofo americano probabilmente giudicherebbe alla stregua di paccottiglia ideologica la qualifica borghese aggiunta allo “Stato” e il mio dichiarato (esibito?) anticapitalismo. Si tratta di una provocazione intellettuale, di un invito a nozze a cui è quasi impossibile resistere. Insomma, per farla breve, ho cercato di approfondire la conoscenza di Huemer, il cui nome mi era noto solo per “sentito dire”. Il suo libro non l’ho ancora letto, cosa che conto di fare al più presto; però ho letto parecchio “materiale” di e su Huemer, sufficiente, credo, a consentirmi di abbozzare una prima impressione intorno alla sua concezione del sociale e del politico, cosa che mi ha consentito di riprendere concetti da me trattati estesamente in altri “lavori” – vedi, ad esempio, Eutanasia del Dominio, L’Angelo nero sfida il Dominio, Stato di diritto e democrazia tra mito e realtà.

Il post che oggi sottopongo all’attenzione del lettore si basa soprattutto su una sintesi del libro di Huemer che si può compulsare in formato PDF – www.tramedoro.eu. Più che esternare il mio punto di vista sulla natura e sulle funzioni dello Stato (borghese), ho cercato di mettere insieme del materiale concettuale interessante su cui riflettere, e ciò spiega le lunghe citazioni che costituiscono il corpo di questo “pezzo”. «Questo libro è un bell’esercizio di logica e un’ottima sfida ai nostri pregiudizi», sentenzia Porro; spero che la mia critica sia all’altezza della situazione.

La punta della lancia antistatalista (più precisamente: anarco-capitalista) di Huemer è puntata contro 1. il potere monopolistico della violenza esercitato dallo Stato (al contrario di ciò che afferma la teoria del Contratto sociale e di quanto pensava Hobbes, il monopolio della violenza, non la sua mancanza, genera ogni sorta di abuso e di arbitrio); 2. il culto dello Stato basato sui falsi presupposti architettati dalla dottrina del Contratto sociale; 3. la psicologia dell’autorità che per Huemer si spiega benissimo ricorrendo al concetto di Sindrome di Stoccolma: «Quando diviene sufficientemente radicato, il potere viene percepito come autorità» (3). «È un comportamento istintivo, una sorta di riflesso condizionato, comprovato peraltro da una nutrita serie di esperimenti analitici, e avvalorato dalla quantità degli studi scientifici che sono stati condotti, nel corso degli anni, al fine di sondare le dinamiche psicologiche e sociologiche che promuovono certi atteggiamenti di totale sudditanza. In alcuni casi, nota Huemer, i cittadini sono soggetti a sviluppare nei confronti dello Stato gli stessi sintomi delle persone colpite dalla Sindrome di Stoccolma, quello sconcertante meccanismo psicologico, osservato numerose volte e dettato forse dall’istinto di sopravvivenza, che porta gli ostaggi a solidarizzare con i rapitori. Infatti, quando una persona è completamente assoggettata a un’altra e non ha alcuna possibilità di fuga, l’unica sua speranza di salvezza consiste nel creare un rapporto di amicizia con il proprio sequestratore. Inconsapevolmente la vittima del sequestro finisce per sviluppare un sentimento di simpatia verso il proprio carnefice, e si illude di vedere in lui dei segni di gentilezza, anche solo sotto forma di mancanza di abusi. In maniera del tutto analoga, molte persone tartassate, maltrattate o angariate dallo Stato continuano a pensare, a dispetto dell’evidenza contraria, che il proprio Stato sia fondamentalmente buono perché offre qualche servizio, per quanto scadente, o perché non abusa del proprio potere quanto altri Stati nella storia: “proprio come le vittime di Stoccolma tendono a negare o a minimizzare gli atti di coercizione dei propri sequestratori, molti cittadini tendono a negare o a minimizzare la coercizione del proprio governo” (p. 215)» (4).

Molto interessante suona alle mie orecchie lo scabroso – non certo per chi scrive, tutt’altro! – accostamento tra lo Stato e una qualsiasi organizzazione criminale azzardato da Huemer: «In cosa si sostanzierebbe l’elemento che distingue l’azione dello Stato da quella di una qualsiasi organizzazione criminale che, in forza del ricorso alla violenza, alle minacce e al ricatto, cerca di imporsi e di imporre coercitivamente la fornitura dei propri “servizi” al resto dei consociati? Per l’autore, la risposta è semplice e si esprime con un concetto ben preciso: “legittimità”. È proprio in virtù di questo specifico fattore, capace di innescare nelle masse un invincibile convincimento fideistico, che lo Stato viene universalmente considerato come un ente eticamente accettabile ed ontologicamente necessario: a differenza, ad esempio, della mafia». Si tratta allora di capire il fondamento sociale di questa legittimità, di comprendere cosa l’ha resa – e la rende – storicamente possibile e socialmente necessaria. In ogni caso, sulla natura criminale dello Stato con me Huemer sfonda una porta non aperta, ma apertissima, e personalmente ho sempre considerato la mafia, come ogni altro tipo di organizzazione criminale illegale (illegittima), alla stregua di un’impresa capitalistica che, come ogni altra impresa che vuol rimanere sul mercato, organizza la sua prassi in vista del profitto. D’altra parte, «sfruttatori condottieri, nobili, leghe, hanno sempre protetto e nello stesso tempo taglieggiato chi dipendeva da essi. Sorvegliavano nel loro dominio la riproduzione della vita. la protezione è l’archetipo del dominio» (5).

Ciò che ai miei occhi “fa premio” nella valutazione del fenomeno mafioso non è il mezzo usato dalla mafia per conseguire certi risultati, ma, appunto, il fine che rappresenta la stessa ragion d’essere dell’organizzazione criminale. Ed è precisamente questa ragion d’essere che rende perfettamente assimilabile la mafia alle organizzazioni “convenzionali” che hanno nel profitto – e nella difesa dei rapporti sociali che rendono possibile l’esistenza del profitto: vedi lo Stato – il loro scopo, il loro essenziale movente. Com’è abbastanza facile capire, la mafia non si spiega, in linea di principio, con l’uso della violenza, che ha una funzione strumentale, ma con il potere totalitario del denaro, per ottenere il quale ogni mezzo è legittimo sul piano della prassi storico-sociale. In senso generale, si può senz’altro dire che le organizzazioni orientate al profitto/denaro considerate criminali dallo Stato rappresentano la continuazione del Capitalismo con mezzi particolari, sotto un particolare regime sanzionatorio. È oltremodo evidente che la prassi delle organizzazioni criminali deve, a volte, entrare in rotta di collisione con l’organizzazione che detiene il monopolio sociale della violenza, la quale difende gli «interessi generali della intera classe borghese, espressi in leggi borghesi» (6); ma ciò costituisce un dettaglio nella complessità della cosa. So benissimo di affermare tesi che urtano assai il politically correct, e che forse inciampano su qualche Articolo del creativo codice penale italiano (basti pensare al famigerato “concorso esterno”); tesi che fanno rabbrividire chi è abituato a pensare in termini di Stato (buono) e Antistato (cattivo), distinzione che personalmente trovo ridicola; ma dire la verità sulla cattiva società è il solo principio etico che mi sforzo di praticare.

«Un argomento di tipo più utilitarista afferma che se molti cittadini si rifiutassero di obbedire alle leggi e di pagare le tasse lo Stato crollerebbe lasciando la società nel caos più completo. Il risultato, secondo la spaventosa descrizione dello stato di natura fatta da Thomas Hobbes nella sua celeberrima opera Il Leviatano (1651), sarebbe la guerra costante di tutti contro tutti. Non ci sarebbero industria, commercio o cultura, perché ognuno cercherebbe di depredare il prossimo e vivrebbe con la paura costante di una morte violenta. L’autorità politica è dunque giustificata dalla necessità di impedire le terribili conseguenze derivanti dall’assenza di un governo. Questo scenario catastrofico sembra però poco realistico, anche perché non è facile portare degli esempi storici a suo sostegno. Le famiglie e gli individui che convivono in aree isolate, lontane dalle istituzioni governative, normalmente non si comportano nel modo ipotizzato da Hobbes. In tali circostanze aggredire i propri vicini per rapinarli sarebbe un comportamento veramente illogico. I rischi di attaccare qualcuno dotato di una forza analoga alla propria superano di gran lunga i benefici, perché l’aggredito o i suoi famigliari potrebbero difendersi o reagire in ritorsione. Gli atteggiamenti violenti inoltre suscitano la diffidenza degli altri abitanti, che adotterebbero misure preventive. La verità è che, con buona pace di Hobbes, la maggior parte degli esseri umani non è sociopatica, ma desidera vivere in pace col prossimo. La grande maggioranza delle persone ha forti obiezioni morali e forti sentimenti negativi nei confronti della violenza e del furto, e quando la prudenza e la morale puntano verso la stessa direzione, osserva Huemer, praticamente tutti sceglieranno quel percorso. La stragrande maggioranza degli individui preferisce vivere in pace con il suo prossimo, trova più vantaggioso e profittevole collaborare e cooperare con lui, e reputa una strategia dominante il produrre, comprare, vendere, scambiare con mutuo profitto beni, informazioni e risorse, anziché ricorrere a soluzioni violente e conflittuali. Il principio strategico generale, spiega Huemer, è che l’uguaglianza di potere genera il rispetto. Nessuna persona razionale ha interesse a entrare in un conflitto violento con avversari che hanno la stessa forza. Le probabilità di perdere il conflitto sono troppo alte» (7).

In sostanza, Huemer immagina una società civile composta esclusivamente da capitalisti, più o meno grandi, i quali si scambiano fra loro beni e servizi in piena armonia: il migliore dei mondi possibili, insomma. «Per il borghese le cose stanno realmente così: egli crede di essere un individuo solo in quanto è un borghese. i teorici della borghesia dànno a questa tesi un’espressione generale, identificano anche teoricamente la proprietà del borghese con l’individualità e vogliono giustificare logicamente questa identificazione» (8).

La società civile come hobbesiano mondo degli interessi tematizzata dalla migliore filosofia politica borghese dal XVI secolo in poi è un concetto che non riscuote il consenso del Nostro filosofo, il quale ripone grande fiducia nell’orientamento verso il bene della «maggior parte degli esseri umani», fiducia che sconfina nell’ingenuità se il pensiero non fa i conti, non con una presunta/mitologica «natura umana», benigna o maligna che sia, ma con la natura dei rapporti sociali (benigni o maligni, ossia umani o disumani) che informano i nostri comportamenti, che plasmano in modo sempre più stringente la nostra intera esistenza.

Per parafrasare Hegel (9), il Dominio rende possibile l’ingresso dello Stato nel mondo, la cui presenza attesta nel modo più categorico l’assenza in questo mondo dell’uomo in quanto uomo. «L’unica società nella quale lo sviluppo originale e libero degli individui non è una frase» 457 è quella «che sollecita le capacità degli individui a svilupparsi realmente», cosa che presuppone il passaggio dell’intera prassi sociale, a cominciare dalle attività che rendono possibile la vita stessa degli individui (la produzione di cibo, vestiti, abiti, strumenti di lavoro), «sotto il controllo degli individui» stessi (p. 291). Premessa ineludibile di ciò è il superamento della divisione classista della comunità umana, e l’estinzione dello Stato attesterà il raggiungimento di questa straordinaria meta, la quale in linea di principio è perfettamente concepibile e realizzabile, nonostante essa ci appaia, e sia in realtà, negata tutti i santi giorni nel modo più netto, tale da lasciare ben poco spazio alla speranza. E qui fanno capolino il poeta: «Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo» (E. Montale, Prima del viaggio), e il profeta: «Dobbiamo farci speranza, essere noi stessi quella speranza che il mondo ci nega in modo così ottuso e brutale» (Isaia).

A questo punto l’obiezione “classica” dell’antistatalista, a maggior ragione se orientato in senso anarco-capitalista, è più che giustificata: «Abbiamo visto come è andata a finire in Russia, in Cina e ovunque i comunisti si sono impossessati del potere». Se l’obiezione è fondata nei confronti dei cosiddetti “comunisti” nostalgici del mondo perduto centrato sul bipolarismo imperialistico Stati Uniti-Unione Sovietica, essa non sfiora neanche la posizione di chi ha sempre condannato i regimi cosiddetti socialisti, denunciandone la natura rigorosamente capitalistica (10). Dal pulpito dell’antistalinismo radicale è facile cogliere nell’arco-capitalismo e nello stalinismo le facce di una stessa cattivissima medaglia – chiamata dominio capitalistico.

Scriveva Max Stirner nel suo famoso libro del 1844 (L’unico e la sua proprietà): «Il modo di procedere dello Stato è violenza, ed esso lo chiama diritto. Ma la violenza dell’individuo esso la chiama delitto». Giustissimo. A suo tempo Marx non scriveva cose diverse. Ciò che il comunista tedesco non condivideva della riflessione stirneriana era la sua inconsistenza storica e sociale, ossia il fatto che i reali rapporti sociali e il reale processo storico non vi avessero il posto che invece essi meritavano ai fini della comprensione dello Stato in generale, e del moderno Stato borghese in particolare. La società moderna come società borghese non trovò in Stirner un adeguato approfondimento critico. A causa di questo grave limite teorico la critica stirneriana non andava molto al di là dagli acquisti concettuali ottenuti dalla dottrina hegeliana dello Stato e del diritto. «Si tratta qui, ancora una volta, soltanto del fatto che ci si deve cacciare dalla testa l’idea fissa dello Stato. Jacques le bonhomme [cioè Stirner] continua sempre a sognare che lo Stato sia una semplice idea, e crede nel potere autonomo di questa idea dello Stato. Egli è il vero “credente dello Stato”. Hegel idealizzava la rappresentazione che dello Stato avevano gli ideologi politici, […] e Jacques le bonhomme prende bona fide questa idealizzazione dell’ideologia per la concezione giusta dello Stato e la critica»  (11). Com’è noto, secondo Hegel la società civile non costituisce il presupposto dello Stato, ma piuttosto è vero il contrario: «Il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immaginaria attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, sono essi propriamente attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre l’idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia, “le circostanze, l’arbitrio” ecc., diventano dei momenti obiettivi dell’idea, irreali, allegorici» (12).

Nella posizione stirneriana Marx coglie l’ingenua illusione di una fuga individuale dall’oppressiva totalità sociale quale si dà nella moderna società borghese – degli anni Quaranta del XIX secolo: figuriamoci oggi! Il comunista di Treviri non attacca l’ideologia dell’Unico perché centrata sull’individuo, come hanno sostenuto anche molti “marxisti”, dimostrando con ciò stesso di non aver letto, non dico capito, L’Ideologia tedesca; bensì in quanto in essa l’individualismo è radicato su una concezione astorica della società e su una concezione volgare («triviale») del comunismo, il cui concetto era nel pensiero stirneriano «tanto miserevole che può avere importanza soltanto nella società odierna e nella sua immagine ideale». Per questo l’individualismo di «San Max» appariva a San Marx gravato di pessimi pregiudizi piccolo borghesi, mentre si trattava di ricavare l’urgenza di un assetto umano della Comunità dal reale processo storico-reale, e non da astratti e storicamente infondati principi ideali (13). Sulla polemica Marx-Stirner rinvio a Eutanasia del Dominio.

Sullo Stato, e su tutto il resto, Loretta Napoleoni la pensa in maniera assai diversa da quanto finora sostenuto: «La genesi dello stato-nazione è la storia del contratto sociale attraverso il quale gli individui creano le nazioni e ne preservano all’interno l’ordine sociale. I presupposti di tale contratto dipendono dalla volontà dei cittadini di cedere alcuni diritti al governo in cambio della garanzia di pace e stabilità. La legittimità dei politici nasce quindi dalla volontà del popolo di ratificare il contratto sociale. Alla radice del contratto sociale c’è il caos dello stato di natura, sinonimo di anarchia. In tale stato non esiste la nozione di diritto. […] L’economa canaglia, caotica, anarchica e illegale, ricorda lo stato di natura» (14). Qui la concezione pattizia che fonda sul piano politico-ideologico il potere delle classi dominanti non poteva essere esplicitata in termini più chiari e semplici, e forse con intenti pedagogici. Alla radice del cosiddetto contratto sociale ovviamente non c’è «il caos dello stato di natura», ma precisi rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, per tutelare i quali i dominanti si sono legittimamente impossessati del monopolio della violenza (usato anche come potente strumento di accumulazione capitalistica originaria), imposto ai dominati col crisma della difesa del «bene comune» e della comune Civiltà. La genesi del moderno Stato-Nazione è la storia della moderna «società civile», spinta dal processo sociale sul terreno delle grandi aspirazioni storiche, ben oltre i vecchi limiti feudali e comunali. «La società civile è il campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti», scriveva Hegel; «la definizione della società civile come bellum omnium contra omnes è notevole», chiosava Marx (15), che aggiungeva: «Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge» (16).

Nel Capitalismo, ossia nella società più selvaggia e violenta che sia mai comparsa sulla faccia della Terra, il Diritto e la Politica devono necessariamente assecondare i processi sociali che disegnano sempre di nuovo il territorio della «società civile», ossia il luogo hobbesiano degli interessi materiali. Canaglia, per riprendere il titolo del libro scritto ormai otto anni fa dalla Napoleoni, è l’economia capitalistica tout court, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia al Brasile, dalla Svezia al Sudafrica.

«Huemer contesta l’idea che l’abolizione dello Stato sia utopistica. La distinzione tra utopismo e realismo, infatti, non dipende da quanto una proposta sia lontana dallo status quo o di quanto sia lontana dalle tendenze dominanti del pensiero politico. La distinzione tra utopismo e realismo riguarda principalmente se un’idea politica o sociale richiede delle violazioni della natura umana. Per questa ragione sono il socialismo e lo statalismo, e non l’anarco-capitalismo proposto da Huemer, che presentano dei caratteri utopistici, a partire dall’eccessivo affidamento sull’altruismo dei governanti». Naturalmente al filosofo americano, che evidentemente conosce solo il “socialismo” di matrice stalinista/maoista, sfugge completamente, o semplicemente lo nega, il presupposto storico-sociale fondamentale della genesi e dell’esistenza dello Stato: la divisione degli individui in classi sociali, o, detto in altri termini, il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento (essendo l’uno il necessario presupposto dell’altro) nei confronti del quale lo Stato svolge la vitale funzione di cane da guardia, oltre ad altre funzioni che potenziano le capacità di dominio (materiale, ideologico, psicologico) delle classi che vivono dell’altrui lavoro, da esse sfruttato nei modi consentiti dal processo storico – dalla schiavitù “classica” alla «schiavitù salariale». E qui il lettore mi consenta una citazione intesa a riprendere le tesi da me sviluppate due settimane fa contro la Costituzione Italiana e la «Repubblica democratica fondata sul lavoro» (salariato): «Lo stato moderno, il dominio della borghesia, è fondato sulla libertà del lavoro. […] La libertà del lavoro è la libera concorrenza fra gli operai. […] Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo» (17). Qui è appena il caso di precisare che si tratta non di generico lavoro, ma del lavoro salariato che fa dell’intera esistenza dei salariati una merce e della loro capacità lavorativa un valore d’uso nella legittima disponibilità dei capitalisti. Chiudo la breve parentesi “anticostituzionale”.

Non volere lo Stato senza mettere in questione i suoi fondamenti storico-sociali è più che una contraddizione: è una sciocchezza al contempo reazionaria e infantile – o ingenua. In realtà, e checché ne pensi l’interessato, la chimera anarco-capitalista di Huemer, lungi dal prefigurare «l’abolizione dello Stato», si limita a portare acqua al mulino della battaglia per uno “Stato minimo”, uno Stato ridotto all’osso (chiamato a gestire solo quelle poche funzioni che non possono essere affidate ai privati: in particolare difesa, giustizia e polizia), da sempre caro ai liberisti; essa si colloca insomma all’interno della secolare disputa tra liberisti e statalisti, tra sostenitori del libero mercato e sostenitori del Capitalismo fortemente regolamentato dallo Stato. Scrive Maurizio Stefanini: «L’interesse crescente per l’anarco-capitalismo dimostra come anche negli Stati Uniti il più liberale degli apparati statuali inizia a essere percepito come troppo apparato, troppo statuale e troppo poco liberale» (18). Come per lo statalista ideologico c’è sempre troppo “privato” anche in regime di Capitalismo di Stato, analogamente per il liberale/liberista ideologico c’è sempre troppo “pubblico” anche in regime di “liberismo selvaggio”. «Sdegnato dagli anarco-collettivisti», continua Stefanini, «l’anarco-capitalismo è però in qualche modo un anarchismo più conseguente. Non difende infatti le ragioni dell’individuo solo dallo stato, ma anche dalla comunità in cui si trova inserito». In questo scritto sto provando a cogliere i limiti, diciamo così, di questa “difesa”.

La mia condanna del Leviatano si fonda sul presupposto fin qui abbozzato, il quale segna l’abissale distanza che separa il mio punto di vista “antistatalista” da quello di Huemer, il quale concepisce lo Stato come una sommatoria di servizi da esso arbitrariamente assunti in regime di monopolio: «Secondo l’opinione dominante solo lo Stato può fornire beni e servizi basilari per il consorzio civile, come la sicurezza, la giustizia, la protezione contro le aggressioni esterne, la realizzazione di infrastrutture indispensabili, l’assistenza e la tutela delle persone più deboli e indifese. […] I servizi di protezione e polizia potrebbero essere erogati da agenzie di sicurezza private, in regime di concorrenza; la risoluzione delle controversie potrebbe essere affidata al giudizio di un arbitro terzo, scelto di comune fiducia tra le parti; le strade e le altre infrastrutture potrebbero essere gestite e mantenute da gruppi e/o da associazioni di proprietari locali, come spesso accade in alcune “privatopie” statunitensi; le leggi potrebbero essere prodotte e generate nell’ambito della conduzione della stessa attività di arbitraggio, sulla falsariga di quanto già ora accade nei sistemi di common law. […] “Il modello di transizione più plausibile è quello in cui le società democratiche si muovano gradualmente verso l’anarco-capitalismo con il progressivo appalto esterno delle funzioni statali a società concorrenti. Non esistono altri ostacoli salvo l’opinione pubblica e l’inerzia degli Stati medesimi” (p. 507)» (19). Sperare che il Leviatano collabori alla propria estinzione mi sembra, a occhio, una pretesa eccessiva. Ma posso sbagliarmi, si capisce. Come vediamo, alla fine il discorso di Huemer si riduce all’affermazione della necessità di privatizzare le funzioni oggi svolte dallo Stato, senza che la natura classista di queste funzioni ne risulti intaccata minimamente. E ciò è perfettamente coerente con il punto di vista anarco-capitalista.

Scrive Huemer: «Una versione più modesta delle condizioni di onnicomprensività e di indipendenza dai contenuti sosterrebbe che lo Stato non ha reale autorità salvo che almeno la maggioranza delle cose che di solito fa e che generalmente si considera sia autorizzato a fare risulti in effetti moralmente ammissibile. Se la gamma di azioni coercitive che lo Stato è in effetti autorizzato a compiere è solo una piccola frazione di ciò che effettivamente fa, allora penso che lo Stato non ha una vera autorità legittima» (20). Ma cosa conferisce allo Stato «una vera autorità legittima»? Il diritto delle classi dominanti a conservare, rafforzare ed espandere il loro potere sociale. Come ho scritto altre volte, il diritto equivale a forza, di più: il diritto è forza (materiale, politica, culturale, ideologica, psicologica, in una sola parola: sistemica). Scriveva Marx: «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro Stato di diritto» (21). Come già sostenuto, l’ideologia pattizia, che pone lo Stato (con tanto di spada sguainata per scoraggiare i nemici interni ed esterni della Nazione) nella funzione di supremo garante del Contratto sociale, cela la natura di classe dello Stato borghese. Sotto questo aspetto, la forma democratica dello Stato è quella che meglio si presta a mistificare la realtà del Dominio.

Il diritto sanziona sul piano politico, giuridico, normativo e ideologico la realtà del dominio di classe. E siccome, come scriveva Lenin (in Stato e rivoluzione), «il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere all’osservanza delle sue norme», ne ricaviamo la necessità, ai fini del mantenimento dello status quo sociale, del Moloch chiamato appunto Stato.

Il punto di vista critico-radicale mette in questione gli stessi concetti di legalità e illegalità declinati sulla scorta di una concezione pattizia (contrattualistica, insomma borghese) delle relazioni sociali. Parlare, ad esempio, di responsabilità personale, in campo penale o sul terreno dell’etica, significa negare la realtà di un processo sociale che stritola ogni reale autonomia degli individui, ogni loro autentica libertà, la stessa possibilità di agire in ogni circostanza in modo umano. Parlare di libero arbitrio e di etica della responsabilità individuale nella società borghese significa fare dell’ideologia apologetica.

La dialettica tra banalità e radicalità del male a suo tempo tematizzata da Hannah Arendt, potrebbe a tal proposito suggerirci pensieri non banali e certamente radicali. Sbagliato non è il comportamento di chi infrange la legge, sbagliata, cioè disumana, è la società che non consente agli individui di vivere un’esistenza autenticamente umana, cosa impossibile in un’epoca storica in cui gli interessi economici dominano in modo sempre più stringente la vita di individui ridotti ad atomi idonei a costituire una massa. «La massa è un prodotto sociale – non un’invariante naturale; un amalgama ottenuto sfruttando razionalmente fattori psicologici irrazionali – non una comunità posta in originaria prossimità all’individuo. Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e unione: ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli. La debolezza obiettiva di tutti nella moderna società» (22). È il processo sociale oggettivo che distrugge le “difese immunitarie”, per dir così, degli individui, preparandoli a un’esistenza di cittadini socialmente abili e responsabili ed esponendoli, soprattutto in situazioni socialmente critiche, al suadente canto delle sirene populiste e demagogiche d’ogni tipo e orientamento politico. Da sempre sono gli ultimi fra gli ultimi nella scala gerarchica i più esposti a queste sirene, come dimostra, fra l’altro, l’ondata sovranista, nazionalista e razzista che scuote diversi Paesi europei, e che costringe partiti e governi “progressisti”e “centristi” a cavalcare il disagio sociale con slogan e promesse elettorali che solo qualche anno fa appartenevano in esclusiva al repertorio dell’estrema destra. La miseria, il senso di precarietà, l’insicurezza generale, la paura di cadere ancora più in basso, il bisogno di razionalizzare in qualche modo l’irrazionale, insomma: la posizione sociale delle classi subalterne è tale da spingerle verso posizioni politiche, sentimenti e pulsioni contrarie al senso di umanità e alla prospettiva dell’emancipazione universale.

ok2È «la debolezza obiettiva di tutti nella moderna società» che ci rende così disponibili alla voce del Padrone. È la struttura oggettiva degli interessi sociali che spiega la struttura psicologico-caratteriale degli individui e della massa; per il pensiero critico si tratta di imparare a cogliere le molteplici mediazioni che connettono la seconda alla prima, senza concedere nulla al facile determinismo. Qui la micologia – o microfisica, per dirla con Foucault – del Dominio può dare eccellenti supporti fattuali e concettuali.

Scrive Aldo Maria Valli: «Vogliamo parlare del principio di responsabilità? Ogni volta che invochiamo l’intervento dello Stato, di questa astrazione senza forma né volto, non facciamo che alimentare un mito e rinforzare l’idea secondo cui qualcuno, non si sa bene chi né dove, debba risolverci i problemi. Così cresce l’inerzia, così si favorisce l’irresponsabilità personale. […] Guardiamoci attorno: a forza di delegare, ci siamo dati sistemi sociali in cui la legge ha raggiunto gradi incredibili di complessità, invadenza e prepotenza. Abbiamo leggi per tutto e la nostra vita è regolata sotto ogni minimo aspetto. Ma possiamo davvero dire di essere liberi, felici e tutelati? O non siamo invece, anche in questo caso, tenuti a bada come bambini sconsiderati e immaturi, costantemente sottoposti alla minaccia della punizione? Questa sarebbe libertà?» (23). Ben detto. Ma il problema è ancora più radicale di quanto non appaia dai passi appena citati, frutto di una riflessione che rimane alla superficie del problema.

Nella misura in cui, per mutuare sempre indegnamente il Ragno di Stoccarda, è il tutto che dà verità, struttura e funzione a ogni particolare condizione, relazione e cosa, non può darsi reale libertà nella società che vede gli individui di tutte le classi sociali venir assoggettati da un Moloch che essi non controllano e dal quale sono invece controllati, incalzati, minacciati. E non sto parlando solo dello Stato, come invece inclinano a pensare i liberali/liberisti, ma della totalità sociale, a cominciare da quella «potenza sociale estranea e ostile» chiamata Capitale che detta le sue bronzee leggi a tutti e a tutto – Stato compreso (24). Persino i singoli funzionari del Capitale devono inchinarsi a ciò che risulta dalla complessa e altamente contraddittoria totalità della prassi economica, che essi sono lungi dal controllare e che piuttosto devono subire, come appare evidente soprattutto in tempi di crisi economica. Tutti devono inchinarsi alle mostruose – disumane – necessità del Moloch, anche se ovviamente tale sudditanza assume un significato diverso nelle differenti stratificazioni sociali: un conto è subire i diktat del mostro come dominanti, un altro è subirli nella triste qualità di dominati. La barca, per usare la nota metafora, è la stessa, ma non tutti hanno l’interesse a mantenerla a galla.

«Nonostante tutta la loro attività, gli uomini diventano più passivi, nonostante tutto il loro potere sulla natura diventano più impotenti rispetto alla società e a se stessi. La società si muove spontaneamente in direzione dello stato di atomizzazione delle masse auspicato dai dittatori» (25).

È questa radicale mancanza di potere sociale che fa degli individui degli eterni bambini alla ricerca di un’Autorità che dia loro un indirizzo preciso, una guida, un senso al complesso e il più delle volte incomprensibile (irrazionale) mondo. Come Freud capì bene, è qui che si radica quella mentalità passivamente gregaria che espone gli individui alle avventure politiche più disastrose e violente. E qui ritorniamo alla necessità di un assetto umano della Comunità. «Finchè un uomo è nella miseria per la cattiva organizzazione sociale, l’identificazione con questo ordine in nome dell’umanità è un controsenso. L’adattamento pratico può essere inevitabile per l’individuo, ma l’occultamento dell’opposizione tra il concetto di uomo e la realtà capitalistica uccide il pensiero di ogni verità. […] Più il potere della concentrazione di capitale e l’impotenza dell’individuo sono incommensurabili, più è difficile per l’individuo svelare l’origine della sua miseria». Qui il concetto di miseria deve essere declinato in termini squisitamente sociali (“esistenziali”, direi), e non riduttivamente materiali – economici. È in primo luogo il velo tecnologico e il velo del denaro, e non la maligna astuzia del potere politico, che concorrono a mantenere gli individui dentro il cerchio stregato del Dominio. Ancora Horkheimer: «Oggi gli ideali possono mutare con la stessa velocità dei trattati e delle alleanze [il filosofo tedesco ovviamente non conosceva la “vita fluida” al tempo dei cosiddetti social network, quando gli “ideali” hanno la stessa scadenza dei prodotti a rapidissima deperibilità]. L’ideologia sta piuttosto nella condizione degli uomini stessi, nella loro riduzione spirituale, nel non aver altra risorsa che la dipendenza. Ogni cosa è vissuta da essi solo in rapporto al sistema concettuale convenzionale della società» (26).

Se le cose stanno così, è facile capire come l’idea secondo la quale la gestione del potere è un’incombenza troppo complessa e difficile per lasciarla nelle mani della “gente comune” si affermi quasi spontaneamente – “naturalmente” – fra le “larghe messe”, peraltro abituate fin dall’infanzia alla divisione sociale del lavoro.

La fuoriuscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Il progetto illuminista non poteva non fallire, giacché esso affidava l’emancipazione universale degli individui a una rivoluzione antropologica (culturale, morale, etica) che lasciava intatta quella struttura classista che li sequestrava (e continua a sequestrarli) nella dimensione disumana del lavoro sfruttato, reificato e alienante.

Il principio di autorità politica, che perpetua il potere degli Stati e la condizione di servitù volontaria dei cittadini-sudditi, non si fonda dunque, in primo luogo, sull’inganno, come pensa illuministicamente il professore dell’Università del Colorado qui preso di mira, ma su peculiari rapporti sociali. Naturalmente tutta questa riflessione non importa un fico secco al nostro anarco-capitalista, il quale vuole solo convincerci che «i servizi di protezione e polizia potrebbero essere erogati da agenzie di sicurezza private, in regime di concorrenza»: che gigantesca conquista sarebbe per l’umanità!

«Lo Stato», scrive Huemer, «viene trattato come se fosse al di sopra del mondo umano empirico, trascendendo non solo i limiti morali ma anche le forze psicologiche che si applicano agli essere umani individuali. Qualsiasi sistema sociale, sia esso anarchico o statalista, deve essere giudicato per come si comporterebbe quando abitato da persone reali, come quelle che troviamo nel mondo reale» (27). Insomma: lo Stato non va idealizzato secondo gli schemi cari ai sacerdoti del Leviatano. Giustissimo. Ma se, come ho cercato di spiegare, prescindiamo dal considerare la struttura classista della società, con ciò che questa struttura presuppone e pone sempre di nuovo a ogni livello della prassi sociale, in ogni ambito della nostra esistenza, le «persone reali» diventano irreali, e il «mondo reale» è tale solo nella testa degli idealisti, inclusi quelli che sprizzano pragmatismo e concretezza da tutti i pori. Il «mondo umano empirico» ha una precisa dimensione storico-sociale, e non tenerne conto conduce il pensiero a farsi un’immagine ideologica di questo mondo e delle sue diverse articolazioni economiche, politiche, istituzionali. Per dirla con Hegel, se ci sfugge l’essenza del fenomeno fondiamo i nostri concetti su una cattiva empiria, e quindi la comprensione della vera natura del fenomeno ci rimane preclusa, necessariamente. Pensiamo di avere in mano la cosa concreta (il «mondo umano empirico», le «persone reali»), mentre in realtà ragioniamo sulla base di concetti astratti. Qui noi prendiamo in considerazione non il generico “uomo” concepito nella sua inessenziale nudità antropologica, l’uomo colto sottraendo dalla sua esistenza “fattuale” la sostanza storico-sociale che gli consente di non essere un incomprensibile concetto, bensì «l’uomo come si è ridotto sotto l’impero di rapporti ed elementi non umani: in una parola, dell’uomo che non è ancora un essere umano» (28). Di qui, il concetto di non-ancora-uomo, concetto che, non mi stanco di ripeterlo, non ha niente a che vedere con le utopie (meglio: le chimere) antropologiche intorno alla possibilità di un uomo “perfetto”, senza macchia né peccato, e corbellerie di simile scadentissimo conio. La “perfezione” non è di questo mondo, né dell’altro. Si tratta piuttosto di prendere seriamente in considerazione la possibilità di condizioni sociali in grado di consentire agli uomini di vivere su una Terra che non conosce le classi sociali e i rapporti di dominio e di sfruttamento che sono alla base dello Stato e, più in generale, della politica. Pensare questa possibilità significa, a mio avviso, mettersi all’altezza del processo storico-sociale oggettivo.

La falsa neutralità dello Stato emerge non in rapporto al comportamento delle «persone reali», ma in relazione alla divisione classista che attraversa la vita di queste persone: è il rapporto sociale oggi dominante su scala planetaria l’essenza che va cercata nei fenomeni che indaghiamo. Alla luce della concezione storico-classista della società e dello Stato qui solo abbozzata il pensiero di Huemer appare, oltre che ultrareazionario (esattamente come lo è il pensiero statalista che egli combatte), ingenuo fino a sconfinare nell’infantilismo.

(1) «Può esserci allora democrazia senza Stato? Certo che sì. Anzi, spesso lo Stato, pur dicendosi a favore della democrazia, nei fatti la ostacola, come si vede bene in tutti i casi in cui la burocrazia statale rende difficile se non impossibile il godimento di alcuni principi democratici. Ma il grande problema resta la tassazione, che a volte assume la forma di una rapina. Forte con i deboli e debole con i forti, lo Stato pretende ma non restituisce nulla, oppure restituisce in minima parte o restituisce male. E il cittadino-suddito, sottoposto alla vessazione, non ha alcuna possibilità di far valere le sue ragioni» (A. M. Valli, Cittadini o sudditi?).
(2) N. Porro, Se l’essenza dello Stato è la violenza, Il Giornale, 5 settembre 2016.
(3) M. Huemer, Il problema dell’autorità politica, p. 215, Liberilibri, 2015.
(4) http://www.tramedoro.eu., p. 8.
(5) M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 107, Savelli, 1932.
(6) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 216, Ed. Riuniti, 1971.
(7) http://www.tramedoro.eu., p. 7.
(8) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 224.
(9) «Lo Stato è l’ingresso di Dio nel mondo, certo esso sta nel mondo ed è quindi soggetto a svisamenti e ad errori. Ma come l’uomo più odioso, un delinquente, uno storpio, un ammalato sono pur sempre uomini, così è dello Stato» (G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, p.430, Laterza, 1979).
(10) «La società della Russia aveva sostituito i capitalisti privati con l’illimitato dominio dello stato. Il nome con cui venne definito tutto questo non ha importanza, ma è chiaro che in senso strettamente marxista e rigorosamente sociologico il capitalismo di stato si era sostituito al capitalismo privato. Il concetto di capitalismo non è determinato dall’esistenza di singoli capitalisti ma dall’esistenza dell’economia di mercato e del lavoro salariato. In seguito alla crisi economica mondiale del 1929-1933, anche in Germania e in America cominciarono a verificarsi processi sociali che si svilupparono in direzione del capitalismo di stato» (W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 325, Sugarco, 1982). Scrive Reich nella Prefazione a Psicologia di massa del 1942: «Bisogna dire chiaramente che anche nella Russia sovietica non esiste un socialismo di Stato, ma un rigoroso capitalismo di stato, in senso strettamente marxista. La condizione sociale di “capitalismo” secondo Marx non è data, come credono i marxisti volgari, dalla presenza di capitalisti individuali ma dalla presenza dello specifico “modo di produzione capitalistico”, e cioè dell’economia di mercato anziché dall’”economia d’uso”, dal lavoro salariato delle masse e dalla produzione di plusvalore, indipendentemente dal fatto che questo plusvalore torni a vantaggio dello stato al di sopra della società o di capitalisti individuali attraverso l’appropriazione privata della produzione sociale. In questo senso strettamente marxista in Russia esiste tuttora il sistema capitalistico» (ibidem, p. 29). Personalmente sono giunto a queste conclusioni intorno al 1979/’80, sulla scorta degli scritti della Sinistra Comunista italiana ed europea, il cui antistalinismo orientato in senso marxista rimonta alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Cosa che, ad esempio, mi ha evitato di versare lacrime amare nel famigerato (per i nostalgici del “socialismo reale”) 1989 e negli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica.  Nel saggio Lo scoglio e il mare provo a spiegare come si arrivò a costruire in Russia il Capitalismo (più o meno “di Stato”) sotto le bandiere di un falso socialismo.
(11) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 356.
(12) K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, p. 26, Editori Riuniti, 1983.
(13) «Voi amate l’uomo, e perciò tormentate il singolo essere, l’egoista; il vostro amore degli uomini è tormento di essi» (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, 1845, p. 274, Ed. Anarchismo, 1987). Nient’affatto, risponde Marx: noi desideriamo che «il singolo essere, l’egoista» diventi un uomo in carne ed ossa, desideriamo che il concetto prenda corpo, corpo umano. «Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista questo potere così smisurato per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 66). Nota bene: di ogni singolo individuo. Nella Comunità umana non solo l’individuo non è sacrificato alle necessità della totalità sociale, come avviene nelle società classiste, ma essa è, per così dire, predisposta fin nei dettagli per rendere possibile il libero dispiegamento del potere «di ogni singolo individuo» sulla propria esistenza. Solo così la totalità sociale, sottomessa al controllo degli individui, non ha modo di darsi in guisa di potere sociale estraneo e ostile che si afferma sulla testa dei suoi stessi creatori, secondo la maligna dialettica che da sempre ha inquietato i poeti e i filosofi umanamente sensibili. Umana è la Comunità che fa dell’uomo, del singolo individuo, la sua totalità.
(14) L. Napoleoni, Economia canaglia, Il Saggiatore, p. 251, 2008.
(15) K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, p. 63.
(16) K. Marx, L’Ideologia tedesca, p. 76.
(17) Ibidem, p. 198.
(18) Il Foglio, 9 giugno 2016.
(19) http://www.tramedoro.eu., p. 10.
(20) M. Huemer, Il problema dell’autorità politica, p. 174.
(21) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, La Nuova Italia, 1978.
(22) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001.
(23) A. M. Valli, Cittadini o sudditi?
(24) «Non voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare deve andare al di là del quadro dello Stato» (M. Foucault, Microfisica del potere, p. 16, Einaudi, 1982). L’analisi del potere politico deve sempre essere considerato alla luce del più complessivo potere sociale, il quale ha molte sorgenti – pensiamo sempre al concetto hegeliano, ripreso e approfondito criticamente da Marx, di «società civile». «Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa del re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica» (ibidem, p. 15).
(25) M. Horkheimer, La trasformazione dell’uomo, in La società di transizione, p. 92, Einaudi, 1980.
(26) M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, 1932, p. 125, Savelli.
(27) M. Huemer, Il problema dell’autorità politica, p. 313.
(28) K. Marx, La Questione ebraica, p. 73, Newton, 1975.

SPIGOLATURE ECONOMICO-FILOSOFICHE

a1. Il “comunismo” di Porro e il vino di Marx
Per il liberale-liberista Nicola Porro «il comunismo» si ha quando lo Stato diventa «l’unico imprenditore» presente sulla scena economica: lo Stato “comunista” organizza il lavoro, stabilisce i salari, adegua la produzione al consumo e all’occupazione e via di seguito. Questo, osserva Porro, lo aveva già capito Alexis de Tocqueville, il quale tra l’altro intuì l’intimo nesso esistente fra «il diritto al lavoro per tutti i cittadini garantito da parte dello Stato» e, appunto, «il comunismo», o quantomeno «una forma di socialismo i cui metodi trasformano, riducono, intralciano la proprietà individuale» (1). Di qui, il discorso di chiaro impianto liberale pronunciato da Tocqueville all’Assemblea francese il 12 settembre 1848, poi pubblicato in un opuscolo il cui titolo entusiasma molto il liberale-liberista dei nostri tempi: Discorso contro il diritto al lavoro. «Avete letto bene: contro il diritto al lavoro», precisa maliziosamente Porro, convinto, a ragione, di irritare soprattutto i feticisti della Costituzione Italiana. Una frecciata che non può certo colpire neanche di striscio chi ha sempre considerato il lavoro salariato (perché di questo ovviamente si tratta) non un «diritto umano», come proclamano i progressisti tipo Camusso e Landini, ma una condanna per chi è costretto a vendersi al Capitale in qualità di merce viva. Una condanna per i salariati («La sua attività appare a lui come tormento, la sua propria creazione come potenza estranea, la sua ricchezza come miseria») e il fondamento della società capitalistica, come insegna lo Spettro di Treviri.

Ho parlato di merce viva: in che senso? Non avrò esagerato assimilando il lavoratore a una merce? Provo a spiegare una cruda locuzione che rinvia a un concetto tanto fondamentale quanto complesso.

Con il salario il capitale non remunera immediatamente il lavoro, ossia una specifica prestazione professionale, come ci suggerisce l’apparenza dello scambio Capitale-Lavoro fissata teoricamente dalla scienza economica borghese, ma compra l’intera esistenza del lavoratore, assicurandosi così il diritto di poterne usare la capacità lavorativa (o forza-lavoro) per un certo tempo. Ciò è stato storicamente possibile perché i «liberi produttori» sono stati allontanati violentemente (anche con l’ausilio del diritto borghese) dai loro mezzi di produzione e dal prodotto del loro lavoro. Espropriazione dei liberi produttori da parte del Capitale, come scrisse Marx nel suggestivo capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria). A un polo il Capitale (mezzi di produzione, materie prime, merci, scienza, industria, commercio, finanza), al polo opposto il lavoratore, proprietario di mera capacità lavorativa. Questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento realizza la sostanza della proprietà capitalistica, la quale è in primo luogo proprietà sul tempo di lavoro altrui.

È il lavoratore che il capitalista porta per così dire a casa, ossia nel luogo predisposto al consumo di quella «merce speciale» in vista della valorizzazione dell’investimento: «Appunto in quanto capacità di creare valore la forza-lavoro viene acquistata» (2). Ne segue che la corretta domanda che la prassi capitalistica invita a formulare a chi intende carpirne i segreti non è quanto costa un peculiare tipo di lavoro, ma piuttosto quanto costa al capitalista l’esistenza del lavoratore che egli intende “mettere a profitto”. Il lavoratore, insomma, non vende capacità professionali: egli piuttosto si vende, semplicemente, anima e corpo. Questa cinica realtà naturalmente non si accorda con le illusioni che il lavoratore coltiva su se stesso in quanto depositario di formazione scolastica, capacità tecniche e di preziose esperienze professionali; è alle sue spalle che si compie la maledizione sociale che trasforma un uomo (non solo il suo lavoro) in una merce.

La forza-lavoro non è dunque che l’estrinsecazione del valore d’uso della merce-uomo, il cui valore di scambio si fissa nel mercato del lavoro come salario. Scrive Marx: «È di importanza essenziale tenere fermo questo punto: […] nello scambio tra capitale e lavoro, preso come puro rapporto di circolazione, non c’è scambio tra denaro e lavoro, ma scambio tra denaro e forza-lavoro vivente. In quanto valore d’uso la forza-lavoro viene realizzata solo nell’attività del lavoro stesso, ma esattamente nella stessa maniera in cui, comprata una bottiglia di vino [la lingua batte sempre dove vuole!], si realizza il suo valore d’uso bevendo il vino [trattasi di idea fissa!]. Il lavoro stesso cade così poco nel processo di circolazione semplice, come quella bevuta [magari!]. Il vino come possibilità, in potenza, è bevibile, e l’acquisto di vino è appropriazione di qualcosa che si può bere. Così la compera di forza-lavoro è disponibilità di lavoro. Poiché la forza-lavoro esiste nella vitalità del soggetto stesso, e si manifesta soltanto come sua propria manifestazione vitale» (3). Capite ora perché parlo di «ubriacone di Treviri»?

2. La proprietà capitalistica. Da Tocqueville a Mao Zedong
Scriveva Tocqueville polemizzando con i seguaci di Proudhon che «attaccano in maniera diretta o indiretta la proprietà individuale»: «Accumulando nelle proprie mani tutti i capitali dei singoli, lo Stato diventa alla fine il proprietario unico di tutto. Ora, questo è il comunismo». No, questo è semmai il Capitalismo di Stato, e in ogni caso non è il Comunismo, almeno come esso si ricava dagli scritti di Marx, di Engels e di Lenin critici fino all’irrisione dei sostenitori del «socialismo di Stato» (4). Scrive ad esempio Engels: «Recentemente, da che Bismarck si è gettato nella statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale dichiara senz’altro socialista ogni monopolio. […]  Ma né la trasformazione in società per azioni né quella  in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo» (5).

Pubblica (statale) o privata (individuale, azionaria, ecc.) che sia la proprietà capitalistica ha sempre un carattere privato, nel senso che essa priva, cioè a dire allontana gli individui o una parte di essi dalla proprietà sulle condizioni materiali che rendono possibile la creazione e l’appropriazione della ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica. Che a mantenere tutti gli individui o solo una parte di essi (i salariati) separati (alienati) da quelle condizioni materiali e dal frutto del loro lavoro sia lo Stato, in quanto Padrone capitalistico che opera in regime di monopolio assoluto, o la classe dei capitalisti che investono in regime di concorrenza (la quale, come diceva sempre il noto avvinazzato, genera sempre di nuovo il monopolio, e viceversa), ciò non muta di un solo atomo la natura sociale del regime capitalistico.

Naturalmente la cosa deve apparire in modo  del tutto diverso agli occhi dei feticisti del Moloch chiamato Stato, i quali vogliono il Capitale (in una delle sue diverse forme giuridiche), ossia il rapporto sociale capitalistico che presuppone e pone sempre di nuovo la dialettica Capitale-Lavoro salariato, ma non i capitalisti in quanto «capitale personificato»; vogliono insomma un Super sfruttatore (o padrone, o «datore di lavoro» ) e una Super classe di sfruttati (o lavoratori, salariati, «collaboratori»): è la loro idea di “socialismo”. Marx ed Engels spararono a palle incatenate contro il cosiddetto «socialismo di Stato» perché sapevano bene quanto l’idea di un solo padrone al Potere; di un solo Grande Padre che assicuri a tutti i figli-lavoratori il necessario per vivere (da lavoratori, e per tutta la vita) sia un’idea ultrareazionaria che da sempre affascina i nullatenenti. In tempi di acuta crisi sociale i populisti di “destra” e di “sinistra” sanno bene come trarre profitto da questa idea radicata nella miseria delle classi dominate, terrorizzate dalla prospettiva, sempre presente alla loro mente, di poter perdere da un giorno all’altro il pane, il tetto e i beni chiamati a soddisfare i loro più elementari bisogni. Prive di coscienza, la miseria e la precarietà generano spontaneamente solo sottomissione e impotenza.

In effetti, ciò che spontaneamente conquista i cuori dei salariati, i quali sono abituati a delegare sempre ad altri (dalla culla alla tomba, passando per scuole, uffici, ospedali, ecc.) le decisioni fondamentali che li riguardano, è un maligno connubio di nazionalismo e statalismo, ossia il desiderio di vivere un’esistenza magari modesta ma sicura e protetta nel seno del Paese che li ospita fin dalla nascita, cioè a dire nella società capitalistica concepita come la sola comunità possibile. Questa condizione disumana mi ricorda i passi di Furore a proposito del carcere McAlester:

«”E come ti trattavano a McAlester?” chiese Casy. “Mica male. Pasti regolari, biancheria di ricambio, ci sono perfino dei locali per fare il bagno. Per certi versi non si sta malaccio. L’unica cosa, si sente la mancanza di donne”. Scoppiò a ridere. “Ho conosciuto uno, anche lui in libertà vigilata, che s’è fatto rificcar dentro. […] Aveva deciso di rientrar dentro dove almeno non c’era il rischio di saltare i pasti e dove c’erano anche certe comodità. Disse che fuori di lì si sentiva sperduto, dovendo oltretutto pensare sempre al domani”» (6).

Com’è noto, del domani non c’è certezza. Il carcere con annesse donne rappresentava la miserabile “utopia” del giovane Joad. Questo, tra l’altro, aiuta a capire la nostalgia per il Capitalismo di Stato che si riscontra in ampi strati proletari dell’Europa orientale che hanno conosciuto il carcere a cielo aperto chiamato «socialismo reale». Si tratta della nota sindrome del “Si stava meglio quando si stava peggio”, che fa capolino nel mondo dei perdenti a ogni brusca accelerazione del processo sociale».

«Ognuno teneva in mano la “ciotola di ferro” e si mangiava tutti dallo stesso “grande calderone”»: questo fu il comunismo con caratteristiche cinesi realizzato da Mao secondo Yang Jisheng, autore di Tombstone, un libro dedicato alla grande carestia che devastò la Cina negli anni 1958-1962, pubblicato a Hong Kong nel 2008 e subito vietato nel resto della Cina. Chissà perché, poi… Nella Critica al programma di Gotha (1875), la cui punta critica è interamente rivolta contro lo statalismo di matrice lassalliana, Marx ironizza sugli economisti che coltivano la convinzione «che il socialismo non elimina la miseria ma può solo renderla generale e distribuirla, nello stesso tempo, sull’intera superficie della società» (7). Ora, possiamo a nostra volta ironizzare sul comunista teutonico solo se crediamo nel carattere comunista, o quantomeno socialista, della Russia di Stalin e della Cina di Mao – per non parlare degli altri “regimi comunisti” e “socialisti” sorti nel Secondo dopoguerra in ogni parte del mondo. Di quel “luminoso” retaggio sopravvivono due sole stelle: la Cina e la Corea del Nord.

3. Diseguaglianze e astuzia del Capitale
Danilo Taino sintetizza come segue il pensiero di Deirdre McCloskey, «l’economista anti-Piketty» che dice di ispirarsi al liberalismo di Adam Smith: «Il fallimento delle rivoluzioni liberali del 1848 ha provocato nei ceti intellettuali di Italia, Germania, Francia, Spagna una reazione contro le classi medie che è arrivata fino a oggi. Un’opposizione che ha preso la forma del conservatorismo, del materialismo storico, del marxismo, del fascismo, dello statalismo: del rifiuto della carica innovativa e liberale della borghesia» (8). Sarebbe fin troppo facile prendersela con Taino e con «l’economista anti-Piketty» per il guazzabuglio ideologico appena citato; ma a mio modesto avviso dovremmo addossarne la responsabilità in primo luogo all’intellettuale conservatore che amava (e ama) indossare i panni del “materialista storico” e del “marxista” nonostante la sua concezione economico-sociale non era (e non è) molto diversa dalle più reazionarie concezioni borghesi circa il modo di organizzare l’economia e la società in vista del «bene comune».

«Il nostro benessere», sostiene l’idealista McCloskey, «viene dalle idee. Nel 1800, il reddito giornaliero di un italiano era di tre dollari; oggi, a parità di valori, è di ottanta. In più, ci sono gli avanzamenti della medicina, dei trasporti, della tecnologia. Una completa trasformazione. Ma non è il risultato della lotta di classe, come sostiene la sinistra, o degli investimenti, come sostengono i conservatori. È il risultato delle idee che hanno prodotto innovazioni come l’elettricità, la radio, i sistemi idraulici». Guarda il caso, quelle idee hanno dovuto attendere il trionfo del Capitale per nascere nelle teste di alcuni geni e poi trovare un’applicazione tecnologicamente ed economicamente sostenibile: bizzarrie della storia che il “materialismo storico” non riuscirà mai a comprendere.

Anche James Dorn, vice presidente per gli studi monetari del Cato Journal, non ne può più della piagnucolosa retorica della diseguaglianza à la Thomas Piketty, retorica che «ignora una realtà fondamentale: qualsiasi intervento statale di eliminazione delle differenze di reddito e ricchezza rischia di erodere la libertà economica, la quale è il vero motore di una crescita che porti benefici a tutti. Reddito e ricchezza sono creati dal processo di scoperta di nuovi mercati e dall’allargamento delle possibilità di scelta degli individui. È una realtà riconosciuta da tutti che esistano differenze significative tra gli individui, in termini di abilità, motivazioni, talento imprenditoriale e caratteristiche personali. Queste differenze sono alla base dell’esistenza dei vantaggi comparati e, quindi, della possibilità di guadagnare da scambi volontari in un mercato libero e composto da soggetti privati. Sia i ricchi sia i poveri guadagnano dal libero mercato: il commercio non è un gioco a somma zero o negativa. Attaccare i ricchi, come se commettessero dei crimini, e invocare l’azione dello Stato per dar luogo a una distribuzione di reddito e ricchezza più “giusta” porta alla creazione di un ethos basato sull’invidia, piuttosto che a un sistema di valori basato sulla proprietà privata, sulla responsabilità personale e sulla libertà» (9). In altri termini, Dorn contrappone l’ideologia liberale-liberista della “destra mercatista” all’ideologia progressista della “sinistra statalista”. Detto per inciso, criminali non sono «i ricchi» ma i rapporti sociali che ne rendono possibile l’esistenza (insieme ai «poveri»: l’altra faccia della cattiva medaglia), e invocare l’aiuto dello Stato posto a difesa di questi rapporti equivale, per «i poveri», a un vero e proprio suicidio.

Scegliere fra le due opzioni ideologiche di cui sopra (liberismo/statalismo), con quel che ne segue sul piano delle decisioni politiche, significa per chi scrive decidersi per la pentola o per la brace: una “scelta” che personalmente lascio nella disponibilità del processo sociale, se non ho – e oggi con tutta evidenza non ho – la possibilità di attaccarlo alla radice. Insomma, l’alternativa qui brevemente evocata è, se osservata nella sua essenza, una falsa alternativa, perché le ideologie messe a confronto condividono la stessa matrice sociale (capitalistica) e sono entrambe al servizio dello status quo sociale.

Naturalmente sarebbe ingenuo solo pensare che un economista come Dorn possa condividere l’idea che non «la libertà economica», le «possibilità di scelta degli individui» e così via rappresentano il cuore pulsante dell’economia capitalistica, ma piuttosto la ricerca del massimo profitto, la valorizzazione del capitale investito in qualsiasi attività economica. Per il pensiero critico-radicale parlare di «libertà economica» e di «possibilità di scelta degli individui» aveva un significato ideologico (falso, capovolto) e apologetico («nonostante tutto, viviamo nel migliore dei mondi possibili!») già ai tempi del giovane Marx (1843-1844), figuriamoci che cosa deve dire di questa “libertà” e di queste “possibilità di scelta” l’anticapitalista attivo oggi, nell’epoca del Capitalismo Totalitario Mondiale. Il lettore mi scuserà l’enfasi delle maiuscole, spero.

È tipico dell’economista borghese di scuola liberista pensare la libertà umana nei termini di una “libera scelta” esercitata dal consumatore all’interno di un mercato che gli offre ogni ben di Dio e che è popolato da mille sirene che da ogni parte gli sussurrano all’orecchio: Tutto ruota intorno a te! «La società – dice Adam Smith – è una società commerciale. Ciascuno dei suoi membri è un commerciante. Si vede qui come l’economia politica fissa la forma estraniata delle relazioni sociali come la forma naturale e originaria e corrispondente alla destinazione umana» (10). È nella forma denaro, colta in tutte le sue funzioni e nel suo incessante sviluppo, che Marx individua l’espressione (non la causa!) più compiuta e disumana dell’estraniazione delle relazioni sociali realizzata dal moderno capitalismo: «Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo. […] Entro il rapporto di credito, non è il denaro che viene superato nell’uomo, ma è l’uomo stesso che viene trasformato in denaro, ossia il denaro si è personificato nell’uomo. La persona umana, la morale umana è divenuta essa stessa articolo di commercio. […] Finchè l’uomo non si riconosce come uomo, finchè non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso. […] Nel denaro […] si è rivelato il completo dominio della cosa estraniata sull’uomo» (11). Ed è precisamente alla luce di questo «completo dominio», che non smette di rafforzarsi e di radicalizzarsi, che a mio avviso va approcciato ogni serio discorso intorno alla libertà umana e, più in generale, alla condizione umana.

Scriveva Luigi Einaudi nel 1944: «Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni. Una donna che passa davanti una vetrina sente un bisogno intenso del paio elegante di calze che vi è esposto; ma non avendo quattrini in tasca, o non avendone abbastanza, non fa alcuna domanda. Il mercato non conosce bisogni, ma domande» (12). Il bisogno incapace di pagare, che non ha modo di incontrare la merce per mancanza o insufficienza di «equivalente generale» (leggi denaro), è economicamente – e quindi socialmente – nullo. Questa mostruosità sociale che getta un potente fascio di luce sulla nostra cosiddetta civiltà umana, appariva a Einaudi alla stregua di un fatto di natura, e ciò corrispondeva alla sua concezione apologetica del Capitalismo, quella che gli fece scrivere la seguente idiozia ideologica: «Il mercato è il servo ubbidiente della domanda che c’è». Servo della «domanda che c’è» o non, piuttosto, del Capitale? In effetti, il mercato è il Capitale – ormai da oltre due secoli, almeno nel mondo cosiddetto civile.

Il teorico del liberismo in salsa italiana naturalmente vedeva le cose economiche in modo tutt’affatto diverso, e difatti egli collocò al centro della scena economica non il Capitale (che trivialità materialistica!) ma il mitico  e umanissimo «consumatore», dalle cui – supposte – libere decisioni di consumo dipenderebbe appunto l’offerta organizzata dagli imprenditori. Per lui il mercato non è che una tecnologia economica, uno strumento, più o meno sofisticato, inventato dall’uomo per assecondare la sua naturale inclinazione a vendere (offerta) e comprare (domanda), e a farlo nel modo più efficiente e razionale (in una sola parola: più economico) possibile. Questo dall’inizio dei tempi e fino a che ci saranno consumatori da soddisfare. Mutatis mutandis, è la stessa concezione “tecnologica” – strumentale – del mercato (e del denaro) che troviamo nel libro di Yanis Varoufakis È l’economia che cambia il mondo. Il marxiano feticismo (della merce, del denaro, della tecnologia, ecc.) è ciò che accomuna gli economisti di “destra” e di “sinistra”, specialisti nel separare i (presunti!) “lati buoni” del Capitalismo da quelli “cattivi”.

4. Ritorno a Mao, per chiudere il cerchio (forse)
«La retorica della diseguaglianza incoraggia le posizioni populiste, o persino estremiste, nel tentativo di realizzare l’egualitarismo», scrive Dorn; lungi dall’essere utile ai poveri, quella retorica piuttosto li sfavorisce. «Non c’è esempio migliore della Cina [e ti pareva!]. Con Mao Zedong, l’imprenditorialità privata venne resa illegale, così come la proprietà privata, che è il fondamento di un libero mercato. Slogan come “colpite duro contro il minimo segno di proprietà privata” lasciarono poco spazio al miglioramento delle condizioni dei poveri. Le comuni create durante il Grande Balzo in Avanti (1958-1961) e un processo decisionale centralizzato portarono alla Grande Carestia, posero fine a una società civile indipendente e costruirono una cortina di ferro attorno all’individualismo. Il governo adottò, insomma, una politica di egualitarismo forzato. Al contrario, Deng Xiaoping, il più importante leader cinese, permise il ritorno a un’economia di mercato e aprì la Cina al mondo esterno. La Cina ora è la maggiore potenza commerciale mondiale: questo dimostra che la liberalizzazione economica è la migliore cura per aumentare la libertà di scelta delle persone. Tale processo ha permesso a centinaia di milioni di persone di uscire dalla povertà. Lo slogan di Deng, “arricchirsi è glorioso”, è decisamente differente dai progetti livellatori di Mao». Si tratta di un argomento forte contro gli egualitaristi del XXI secolo, non c’è che dire. Ma siamo proprio sicuri che Mao intendesse livellare la società cinese inseguendo la “folle utopia” comunista?

Scrive Yang Jisheng: «In un periodo senza guerre, senza epidemie e con condizioni climatiche normali, sono morte di fame 30 o 40 milioni di persone. I dirigenti che causarono una tale catastrofe non erano demoni e non erano neppure pazzi, ma erano piuttosto rivoluzionari dall’intelligenza superiore alla norma e con in mente grandi ideali. La congiuntura storica ha voluto che essi guidassero la Cina a percorrere una via che seguiva il modello sovietico. […] Perché grandi ideali hanno generato grandi tragedie? Perché i rivoluzionari cinesi costruirono un si­stema sulla base di una “grande utopia”: il comunismo» (13). Questa cosa qui io non l’ho mai creduta – o bevuta. Infatti, abbastanza precocemente ho appreso dai comunisti antistalinisti che 1) lo stalinismo fu l’espressione e insieme lo strumento della controrivoluzione antiproletaria (non solo nazionale ma anche internazionale), nonché un formidabile strumento politico-ideologico posto al servizio dell’industrializzazione capitalistica a ritmi accelerati della Russia e degli interessi del Paese in quanto potenza imperialistica di rango mondiale – in assoluta continuità con la storia dell’Impero zarista; e che 2) in Cina il maoismo rappresentò l’ala più radicale, e alla fine vincente, della rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini (in un Paese socialmente arretrato che aveva vissuto una lunga e dolorosa esperienza di sfruttamento coloniale e imperialistico), e in un secondo tempo lo strumento dell’accumulazione capitalistica a tappe accelerate, e questo in perfetta analogia con lo stalinismo. Personalmente non ho mai svolto una critica meramente ideologica dello stalinismo e del maoismo, i quali vanno considerati innanzitutto come espressioni di reali interessi di classe e di reali tendenze storiche e sociali, di natura interna (accumulazione capitalistica, industrializzazione, modernizzazione, lotte interborghesi) e internazionale (collocazione geopolitica della Russia e della Cina, contesa interimperialistica, ecc.). Naturalmente non si può dimenticare di porre l’accento sulla stretta connessione “dialettica” tra questi due piani, testimoniata, ad esempio, dalla rottura maoista con i “fratelli” sovietici, accusati dal Grande Timoniere di praticare una politica estera «socialimperialista»; rottura (come sempre giustificata da ambo le parti tirando in ballo questioni filosofiche e ideologiche circa l’interpretazione e l’attualizzazione del “materialismo storico/dialettico”) che divise il PCC in antisovietici («corrente rossa» filomaoista) e filosovietici («corrente nera» antimaoista). L’accumulazione capitalistica a teppe forzate non è stata mai, e in nessun luogo, un pranzo di gala!

Detto en passant, oggi il Caro Leader di Pechino riscopre la “rigorosa etica maoista” solo per assestare un duro colpo ai suoi avversari politici, attaccati anche sul piano personale e neutralizzati con gli strumenti della più dura repressione. La lotta politica (sempre veicolata attraverso stilemi ideologici più o meno risibili) non si è fermata mai un solo momento nel Partito-Regime del Celeste Capitalismo.

Come ho scritto altre volte, il cosiddetto «socialismo reale» (di conio stalinista, maoista o di altro conio più o meno “originale”) non è che un capitolo particolarmente oscuro del Libro Nero del Capitalismo mondiale. Rimando ai miei studi sulla Rivoluzione d’Ottobre e sulla Cina.

«I nazisti uccidevano per odio, i comunisti per amore: tanto basta, davvero, per chiudere il discorso? Sappiamo bene che troppo spesso in Italia, negli ultimi vent’anni, l’anti-comunismo è stato una barzelletta venuta male. Un’arma di propaganda politica, caricaturale e spuntata [si allude a Berlusconi?]. Esiste invece un dovere della memoria, un dovere della comprensione di come funzionava quel terribile ingranaggio». Questo si legge nel testo redazionale dell’Istituto Bruno Leoni che introduce il PDF La grande Carestia di Jisheng. Di qui, il mio piccolo contributo per tenere viva la memoria e per spiegare «quel terribile ingranaggio». Come diceva quel tipo, «Ciascuno secondo le sue capacità» (e prospettive politiche)!

(1) Il Giornale, 31maggio 2015.
(2) K. Marx, Il Capitale, III, p. 451, Editori Riuniti, 1980.
(3) K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 129, Editori Riuniti, 1963.
(4) A. de Tocqueville, Discorso contro il diritto al lavoro, da L’Intraprendente.
(5) F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Luigi Mongini Editori, 1911.
(6) J. Steinbeck, Furore, p. 33, Bompiani, 1980.
(7) K. Marx,  Critica al programma di Gotha p. 48, Savelli, 1975.
(8) Corriere della sera, 27 settembre 2014.
(9) La retorica delle diseguaglianze alla prova dei fatti, Istituto Bruno Leoni.
(10) K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 15.
(11) Ibidem, pp. 12-13-20.
(12) L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, 1944, p. 22, RCS, 2009.
(13) Y. Jisheng, La grande carestia, Istituto Bruno Leoni, giugno 2015.