DRAGHI, AFFARI E GEOPOLITICA

Sul Manifesto Roberto Prinzi riassume con asciutto realismo geopolitico i termini della questione: «”È un momento unico per ricostruire un’antica amicizia e una vicinanza che non hanno mai conosciuto interruzioni”. Le parole di Mario Draghi pronunciate ieri a Tripoli al premier del Governo transitorio di unità nazionale libico Dabaiba non lasciano spazio a dubbi: l’Italia vuole giocare la parte da leone nella ricostruzione della “nuova” Libia, riportando le lancette dell’orologio (dirà in seguito Dabaiba) al Trattato di amicizia italo-libico del 2008. Allora a Palazzo Chigi c’era Berlusconi mentre a reggere le sorti del paese nordafricano il rais Gheddafi, allora grande amico di Roma scopertosi nemico solo tre anni dopo al punto da essere deposto dalle bombe della Nato […] Affinché ciò accada, ha spiegato il premier italiano, è necessario però che regga il cessate il fuoco. Ma su questo punto ha ostentato sicurezza: “Mi sono state date rassicurazioni durante il nostro incontro straordinariamente soddisfacente, caloroso e ricco di contenuti”. La lista di aggettivi positivi non è apparsa affettata: Roma si sfrega le mani pensando a come la “stabilità libica” potrà tradursi favorevolmente sia nel contrasto all’immigrazione (incubo dell’intera Europa), ma anche per le aziende nostrane. La diplomazia economica italiana lavora per la transizione energetica della Libia che darà più spazio alle energie rinnovabili».

Draghi sprizza ottimismo da tutti i pori: «C’è voglia di fare, c’è voglia di futuro, voglia di ripartire e in fretta».  Certo, l’Italia dovrà vedersela con l’agguerrita concorrenza russa, turca, egiziana, francese e inglese, ma il Presidente del Consiglio ostenta sicurezza circa le capacità del nostro Paese di riconquistare e consolidare le importanti posizioni economiche e strategiche perse in Libia negli ultimi anni. Per il presidente di Federpetroli Italia Michele Marsiglia «gli argomenti all’ordine del giorni non vertono solo sull’energia ma sul piano operativo ci sono temi come infrastrutture e flussi migratori nonché la tanto chiacchierata Autostrada della Pace. E questo vuol dire che la missione di oggi vuol portare l’Italia ad essere sempre più presente nel paese con un ruolo decisivo nelle politiche del Mediterraneo». Secondo Sandro Fratini, presidente di ILBDA (Italian Libyan Business Development Association), «le aziende italiane possono e devono avere un ruolo centrale nell’accompagnare [quanto siamo gentili!] i libici verso la costruzione di uno Stato moderno ed avanzato. In Libia, si sta aprendo un ventaglio di opportunità per tantissimi giovani. Non solo nel settore petrolifero ed energetico, ma anche per chi opera nei settori dell’edilizia, commercio, comunicazione, tecnologia, aviazione, scienza, farmaceutica, fino alla ristorazione. I libici ci chiedono materiali e prodotti italiani, ma hanno anche bisogno di ingegneri ed architetti per completare i progetti architettonici ed infrastrutturali in stallo da anni». Insomma, c’è una grassa fetta di torta che il capitalismo italiano deve intercettare con assoluta necessità e rapidità, perché di certo la concorrenza di “amici” e nemici dichiarati non starà a guardare senza coltivare il “nostro” stesso ambizioso disegno economico e geopolitico. Il fatto che Mario Draghi abbia scelto la Libia per la sua prima missione all’estero dal suo insediamento la dice lunga sull’importanza che il “Sistema-Italia” attribuisce alla presenza italiana nel Paese africano che in larga misura è una “nostra” creazione.

«Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi. Nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario. Da questo punto di vista l’Italia è forse l’unico Paese che continua a tenere attivi i corridoi umanitari» (M. Draghi). E che fa la Libia per i salvataggi? È presto detto: la cosiddetta Guardia Costiera libica, che l’Italia finanzia e arma, intercetta i disperati che cercano di arrivare sulle coste siciliane e li riaccompagna, per così dire, nei lager libici «dove le donne vengono violentate, le famiglie depredate di tutto, gli uomini torturati, seviziati e persino uccisi» (Notizie Geopolitiche, febbraio 2020). Peraltro, molti libici che lavorano per la Guardia Costiera libica organizzano i viaggi della disperazione. Altro che «corridoi umanitari», signor Presidente del Consiglio!

Molti progressisti hanno espresso un’indignata riprovazione per l’elogio della cattura e della tortura confezionato da Draghi per ingraziarsi la controparte libica. Leggo da qualche parte su Facebook: «Draghi esprime soddisfazione alla Libia per i salvataggi. Forse era una barzelletta. I migranti vengono uccisi o messi in lager. I diritti umani sono sottozero. Si vergogni per quello che ha pronunciato. In quanto volontaria impegnata al servizio degli umili e fragili nativi e stranieri, non posso che sentirmi tradita da un governo che mi umilia!!!». Ecco, io non mi sento in alcun modo tradito, offeso e umiliato da un governo che ovviamente lavora per conto del capitalismo e dell’imperialismo tricolore, non certo per difendere e promuovere i cosiddetti «diritti umani», né per sostenere la causa degli umili, nativi o stranieri che siano. Mi piacerebbe molto che l’indignazione delle persone umanamente sensibili sposasse un punto di vista radicalmente anticapitalista.

Com’è noto, l’inchiesta della procura di Trapani nella quale sono state ascoltate le conversazioni di numerosi giornalisti e avvocati hanno avuto l’input dell’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti (*). «L’ordine di indagare sulle Ong partì dal Viminale. Il 12 dicembre del 2016, all’esordio del governo Gentiloni, Angelino Alfano lascia il Ministero dell’Interno passando il testimone a Marco Minniti.Lo stesso giorno parte una lunga informativa. Dopo avere indicato le Ong come “fattore di attrazione”, viene precisato che è stata avviata “un’attività di raccolta informazioni circa le modalità di salvataggio dei migranti in mare, svolte dalle navi di proprietà delle Ong”. Nell’informativa vengono segnalati quattro casi di sconfinamento nelle acque libiche, da parte di alcune organizzazioni umanitarie: Moas e Medici senza frontiere» (Domani). Come scriveva qualche giorno fa Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, si trattò (e si tratta) della «prosecuzione di una guerra (politica) con altri mezzi (giudiziari)». Si trattava di controllare e screditare chiunque denunciasse la criminale gestione dei flussi migratori affidata dal governo italiano alla Guardia Costiera libica. «Intercettateci tutti!», amano dire i manettari che, dicono, non hanno nulla da nascondere. E lo Stato è ben contento di accontentarli. Con escrementizia coerenza, il principe dei giustizialisti duri e puri, colui che sprizza manette da tutti i pori, insomma Marco Travaglio, direttore del Fascio Quotidiano, difende “senza se e senza ma”, e sulla scorta della Sacra Costituzione Italiana, la strategia investigativa della procura Trapani. Escrementizia coerenza, appunto.

(*) «Domenico (Marco) Minniti, ministro dell’Interno tutto rigore e sicurezza. Il controllo dell’immigrazione diventa una questione di vita o di morte per il dirigente dem. L’intero mandato di Minniti al Viminale è incentrato sull’argomento. Fin dal primo giorno, quando comincia a lavorare sul “Memorandum di intesa tra Italia e Libia” mentre Angelino Alfano non ha ancora portato le sue cose alla Farnesina, dove è stato spostato dal nuovo premier Paolo Gentiloni. L’esponente del Pd ha già tutto in mente e a due mesi dal suo insediamento è già pronto l’accordo con i libici per bloccare i migranti alla fonte. Poco importa come. L’importante è la firma di Fayez al Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, sul documento controfirmato dal presidente del Consiglio italiano. Obiettivo prioritario del Memorandum: “Arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti”. In cambio l’Italia avrebbe fornito “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. In altre parole: addestramento, mezzi e attrezzature alla forza di sicurezza comunemente definita Guardia costiera libica, formata da un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti. Senza parlare dei campi dove i migranti vengono trattenuti, considerati da tutte le organizzazioni internazioni per i diritti umani come dei veri e propri centri di tortura, dove i “prigionieri” subiscono violenze di ogni tipo. Del resto, Minniti è persona abituata a ragionare secondo la neutra logica dei costi/benefici. Perché per perseguire un obiettivo ci vuole disciplina e un certo pelo sullo stomaco. Per raggiungere uno scopo non bisogna fermarsi, come gli avrà probabilmente insegnato Francesco Cossiga, l’amico con cui nel 2009 dà vita ad Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) una fondazione dedicata all’analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale. E Minniti non si ferma mai» (Il Dubbio).

Aggiunta dell’8 aprile 2021

 «Da quando il governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, con ministro dell’Interno Marco Minniti, ha firmato nel febbraio 2017 il Memorandum con il governo di Tripoli, le industrie aerospaziali e di armamenti hanno fatto affari d’oro con i ministeri degli stati membri e con Frontex.  Aziende come Airbus, le israeliane Iai e Ebit e l’italiana Leonardo Finmeccanica hanno ottenuto commesse per milioni di euro. Minniti ora è entrato in Leonardo, nominato poche settimane fa a capo della fondazione MedOr, nuovo soggetto creato dalla ex Finmeccanica che si occuperà anche di Libia. Dell’accordo ha beneficiato anche l’Agenzia Frontex, diventata uno degli organismi più finanziati dell’Unione, con un budget attuale di 500 milioni e di oltre un miliardo nei prossimi sei anni. […] A febbraio scorso Minniti è stato nominato nella fondazione MedOr di Leonardo. Di cosa si occupa MedOr? “Permetterà in particolare di consolidare le relazioni con gli stakeholder dei paesi di interesse, al fine di qualificare Leonardo come un partner tecnologico innovativo nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza”. Settore di investimento, quest’ultimo, che ha risentito positivamente dell’accordo Italia-Libia firmato dall’ex ministro. Minniti, contattato, esclude che si possa parlare di conflitto di interesse: “Da ministro non trattavo appalti e non ho avuto alcun ruolo nei contratti di cui parlate”. Poi ci tiene a precisare che la fondazione di Leonardo non ha scopi di business: “Ha altre finalità, costruire un punto di vista comune su aree strategiche per l’Italia, come può essere il Mediterraneo, come del resto fanno molti altri paesi da tempi lontanissimi”» (Domani). Non c’è dubbio.

L’onesto Minniti, degnissimo discendente dell’italico “comunismo” (leggi stalinismo con caratteristiche togliattiane), ha illustrato una prassi sintetizzabile con un “vecchio” concetto: IMPERIALISMO. E anche l’Italia “nel suo piccolo”…

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Limes

Aggiunta dell’11 Aprile 2021

La scottante frase draghiana ormai è arcinota: «Con questi dittatori, di cui uno ha bisogno, bisogna essere pronti a cooperare». Altrettanto noto è che la realpolitik di Mario Draghi ha potuto brillantemente esercitarsi anche con la Libia: «Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi». Ormai abbiamo capito: ci sono dittatori e aguzzini «di cui uno ha bisogno» e con cui «bisogna essere pronti a cooperare». Molti si sono indignati dinanzi al cinico realismo del Presidente del Consiglio, ma si tratta di un’indignazione che non spiega niente e che testimonia piuttosto quanto chi la esprime comprenda pochissimo il mondo che ci tocca subire.

Scrive Francesca Sforza (La Stampa): «Oltre agli americani, tradizionalmente su questa posizione, il premier Draghi incontra il sostegno dell’opinione pubblica e dell’intero arco parlamentare italiano – ostile alla Turchia in chiave anti-islamica a destra e filo-curda a sinistra». Qui urge una mia precisazione, se non altro in quanto componente «dell’opinione pubblica» (dell’«arco parlamentare italiano» non dico niente per non destare l’attenzione di qualche zelante Procura della Repubblica): dal mio punto di vista il democratico Premier italiano e l’autoritario Presidente turco pari sono sotto ogni punto di vista. Mi correggo: in quanto anticapitalista italiano la mia ostilità politica è esercitata soprattutto nei confronti del Presidente del Consiglio italiano. A casa mia l’orgoglio nazionale è messo malissimo.

Il ministro turco dell’industria Mustafa Varank ha dichiarato che la Turchia non può prendere lezioni da un Paese che «ha inventato il fascismo» (vero!) e che «lascia morire i richiedenti asilo» (verissimo!).  «Il portavoce dell’Akp, il partito di Ergogan, ha usato parole durissime: “Hanno chiamato il nostro presidente dittatore e poi hanno aggiunto che devono collaborare con noi sull’immigrazione. È il massimo dell’ ipocrisi [giustissimo!]. Queste persone che trattano i migranti in maniera dittatoriale e immorale [verissimo!], pensano di doverci dare lezione di democrazia”» (La Repubblica). Diciamo pure, con il poeta, che la più pulita di «queste persone», italiane o turche che siano, ha la rogna.

Perché l’Italia ha bisogno del dittatore turco? In primo luogo per una ragione di interscambio economico: ci sono in ballo 17/20 miliardi di euro l’anno. Buttali via, soprattutto in tempi di crisi! Ambienti politici vicini a Leonardo hanno subito temuto per la commessa in ballo con la Turchia. Non a torto: «La prima a finire nel mirino è stata Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale. Dopo due anni di trattative, proprio in questi giorni era prevista la firma del contratto per l’acquisto di dieci elicotteri d’addestramento AW169. Una commessa del valore di oltre 70 milioni di euro, che doveva essere la prima trance di un accordo per sostituire i vecchi Agusta-Bell 206 della scuola delle forze armate turche: l’importo complessivo per l’azienda italiana potrebbe superare i 150 milioni. Dopo le parole di Draghi i turchi hanno fatto sapere che “al momento” l’operazione è sospesa. Avvisi simili sono stati recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci sono almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40 per cento di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale elettrica di Gebze, nella zona industriale di Istanbul. È chiaro che Ankara intende far valere la rilevanza delle relazioni economiche tra i due Paesi. Prima del Covid, l’interscambio era arrivato a toccare 17 miliardi l’anno con quasi 1500 società italiane impegnate in Turchia: una delle più importanti è Ferrero, che produce lì una parte consistente delle nocciole con un business da centinaia di milioni l’anno» (La Repubblica).

L’esperta diplomazia italiana è al lavoro per chiudere la crisi politica con la Turchia e assicurare all’Italia la continuità delle relazioni economiche con quel Paese, il quale peraltro è attraversato da una grave crisi economica che minaccia di destabilizzare il già fragile quadro politico-sociale turco. La continua svalutazione della lira turca è un termometro di questa pessima situazione. L’altro termometro è squisitamente politico-sociale, e registra un’azione sempre più repressiva da parte dello Stato turco nei confronti di tutte le opposizioni sociali e politiche del Paese. Questo sempre a proposito di “fascismo” e di “democrazia”.

Come sappiamo la Turchia è per l’Italia (ma anche per la Francia) sia un partner economico e geopolitico, sia un avversario geopolitico e, soprattutto in prospettiva, economico. Discorso diverso si deve fare per la Germania, che non ha alcun interesse nel pestare i calli al dittatore turco, il quale oltretutto assicura la stabilità nell’area del Mediterraneo  Orientale, anche per quanto riguarda i flussi migratori che partono da quell’area. Ormai da decenni le relazioni tra la Germania e la Turchia hanno una connotazione davvero “speciale” – anche per la forte presenza dei lavoratori turchi nel Paese leader dell’Unione Europea. Nel Mediterraneo Orientale e in Nord’Africa gli interessi economici e geopolitici di Italia, Francia, Grecia e Turchia entrano in reciproca frizione, e qualche scintilla diplomatica (e non solo: vedi l’esercitazione navale greco-cipriota dell’agosto 2020 chiamata Eunomia) si è pure vista nei mesi scorsi. Non a caso la Grecia e Cipro, che con l’Italia stanno cercando di arginare l’aggressiva proiezione turca nel Mediterraneo Orientale, hanno subito mostrato “comprensione” per il premier italiano.

D’altra parte non bisogna sottovalutare il nuovo pensiero strategico adottato dalla Turchia e sintetizzato nel concetto, elaborato fin dal 2006 dagli ammiragli turchi, di Patria blu: «Siamo orgogliosi di proteggere il nostro vessillo glorioso in tutte le acque. Siamo pronti a proteggere con forza ogni fascia dei nostri 462 mila chilometri quadrati di Patria blu» (R. T. Erdoğan). È sufficiente guardare la carta geografica del Mediterraneo Orientale per farsi un’idea della posizione strategica che la Turchia occupa in quell’area sempre più importante anche dal punto di vista energetico – produzione e distribuzione di petrolio e di gas. In questo contesto, «Ogni scintilla può portare alla catastrofe», come disse usando un’immagine perfetta il ministro degli Esteri Heiko Maas nell’agosto del 2020, nel pieno della crisi greco-turca. Allora la ministra della Difesa Florence Parly dichiarò: «Il nostro messaggio è semplice: priorità al dialogo, alla cooperazione e alla diplomazia affinché il Mediterraneo orientale sia uno spazio di stabilità e di rispetto del diritto internazionale e non un terreno di giochi di potenza»: per gli imperialisti europei i cattivoni sono sempre gli altri, i “dittatori” della concorrenza.

La posta in gioco descritta da Angelo Panebianco: «In Libia Draghi è stato tre giorni fa. Allo scopo di riannodare i legami (spezzati o, quanto meno, assai logorati) fra l’Italia e un Paese le cui sorti hanno uno stretto legame con il nostro interesse nazionale: si tratti di rifornimenti energetici, della presenza in Libia delle nostre imprese, di flussi migratori, di contrasto al terrorismo o di sicurezza militare. Una Libia che è oggi spartita fra russi e turchi. Gli uni e gli altri ritengono di essersi conquistati sul terreno il diritto di essere lì, avendo partecipato, su fronti opposti, alla guerra fra la Tripolitania e la Cirenaica. L’Italia è impegnata ad appoggiare gli sforzi dell’attuale governo libico di riconquistare l’unità del Paese. Se coronati da successo danneggerebbero gli interessi sia di Erdogan che di Putin. La Libia non potrà essere davvero riunita se l’esercito turco e i mercenari russi non se ne andranno. Quello italiano è un tentativo necessario ma difficile. Puntiamo sui rapporti economici per ricostituire i nostri legami con la Libia. Ma può la capacità di offrire cooperazione economica sconfiggere le posizioni di forza di coloro (come appunto Erdogan) che hanno soldati e armi sul terreno? I precedenti storici non sono incoraggianti. In ogni caso, il governo Draghi è impegnato, in Libia, in una partita i cui esiti saranno assai importanti per l’Italia. In sintesi: di quanta sicurezza disporremmo (non solo noi, anche il resto dell’Europa), se il Mediterraneo diventasse stabilmente un mare russo/turco? Alzare il tiro della polemica con Erdogan, serve forse a perseguire diversi obiettivi. È un messaggio implicito alla Nato (di cui la Turchia fa tuttora parte), un messaggio che dice: non possiamo più trattare Erdogan con i guanti, come se la Turchia fosse ancora l’alleato di un tempo. È un richiamo agli Stati Uniti, è la richiesta di un loro rinnovato impegno nel Mediterraneo. Potrebbe essere anche un messaggio alla Germania: lo scambio denaro contro controllo delle frontiere forse dovrebbe essere rinegoziato in modo più favorevole per l’Europa. È infine, certamente, un messaggio indirizzato agli italiani: non possiamo evitare di cooperare col dittatore di turno quando ciò serva a tutelare certi nostri vitali interessi ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che ci sono grandi differenze fra noi e il suddetto dittatore, dobbiamo monitorare con attenzione le conseguenze spiacevoli che da queste differenze possono in ogni momento derivare» (Il Corriere della Sera).

«Conseguenze spiacevoli»: che linguaggio felpato! E poi, «spiacevoli» fino a che punto? Lo scopriremo solo… Intanto, godiamoci l’orgasmo patriottico di Massimo Giannini: «Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti) [sic!]. Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita (La Stampa). Sia chiaro, io tifo contro!

L’ALBUM DI FAMIGLIA DI MARCO MINNITI
GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA
PER UNA STRETTA DI MANO…
SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!
DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO
LIBIA E CONTINUITÀ STORICA
A TRIPOLI, A TRIPOLI!
L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”
IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!
TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO

1921-2021. CENTENARI CHE SUONANO MENZOGNERI

La celebrazione della data di fondazione del cosiddetto Partito Comunista Cinese probabilmente non è mai stata così importante come oggi, per il suo virtuale centenario. Infatti, dopo oltre un anno di pandemia questa celebrazione lungamente preparata dal Partito-Regime assume un significato particolare non solo per la Cina, ma per tutto il mondo, visto che essa cade nel momento in cui il grande Paese asiatico si presenta agli occhi di tutti come la potenza che esce trionfante dalla guerra pandemica, la sola grande nazione che non ha fatto registrare indici di sviluppo negativi (nel 2020 il Pil cinese è cresciuto di circa il 2,3%) e che si appresta a farne registrare di fortemente positivi già quest’anno. Spesso il Presidente Xi Jinping ha ricordato i cosiddetti due obiettivi del centenario: la costruzione di una «società moderatamente prospera» entro il 2021, centesimo anniversario della fondazione del PCC, e la creazione di «un’economia prospera e avanzata» entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Obiettivi molto ambiziosi, non c’è dubbio.

«La Cina dichiara vinta la battaglia contro la povertà assoluta. La provincia Sud-Occidentale del Guizhou ha cancellato le ultime nove contee dalla lista delle aree che versano in stato di povertà. La linea ufficiale di povertà in Cina è stata fissata nel 2010 al di sotto di un reddito annuo di 2.300 yuan (294,18 euro al cambio attuale) più bassa quindi della soglia fissata dalla Banca Mondiale di 1,90 dollari al giorno. L’obiettivo fissato nel 2015, e da raggiungere entro la fine di quest’anno, era di eliminare la povertà assoluta, ma il governo cinese deve fare ancora i conti con il forte divario di reddito tra la popolazione urbana e quella rurale e le disparità tra le varie province» (Agi). Sulla reale condizione di vita e di lavoro dei migranti cinesi, cioè del grande esercito di lavoratori che tutti gli anni si sposta dalle zone rurali del Paese per raggiungere i distretti industriali cinesi, dove sarà sfruttato a dovere dal capitale nazionale e internazionale, rimando al post La pessima condizione dei migranti cinesi.

All’inizio di questo breve post ho scritto «cosiddetto Partito Comunista Cinese» e «suo virtuale centenario»: perché?  Perché quello che oggi si chiama Partito Comunista Cinese, e che costituisce l’impalcatura politica, ideologica e burocratica dello Stato (capitalista/imperialista) cinese, non ha nulla a che fare con il Partito fondato il Iº luglio 1921 a Shanghai da alcuni esponenti del Movimento del 4 maggio (1919), tra i quali ricordo Ch’en Tu-hsiu,  professore di filologia che fu il primo segretario del PCC, caduto in disgrazia dopo i sanguinosi eventi del 1927, e Li Ta-chao, tra i fondatori nel 1918 della Società per lo studio del marxismo. Catturato da un Signore della guerra nel 1927, Li Ta-chao venne strangolato dalla polizia dopo lunghe torture.  Il Movimento del 4 maggio si caratterizzò per un acceso antimperialismo rivolto contro le potenze occidentali e contro il Giappone, il quale grazie alla Conferenza di Versailles ereditò tutti i diritti acquisiti nel corso degli anni dalla Germania, la potenza battuta dall’Intesa.

Mao Tse-tung, «un povero studente hunanese, sempre avvolto in un’unica vestaglia nera, ancora preso dai complessi di inferiorità del contadino da poco giunto nella capitale» (E. C. Pischel), partecipò al congresso di fondazione del PCC, ma non vi ebbe un ruolo rilevante. Solo alla fine degli anni Venti Mao crebbe in statura politica, per acquisire nel gennaio del 1935 quel ruolo centrale nella vita del PCC che manterrà per molto tempo, tra cadute mai rovinose e risalite sempre “prodigiose”. A quel punto si trattava però di un soggetto politico, certamente rivoluzionario, ma di natura borghese – nazionalista e antimperialista.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere della Cina, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il più grande, se non l’unico, esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al contesto storico e sociale cinese. Il PCC di Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. La politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese in Cina, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata da Lenin per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale. Tale politica era centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti avrebbero dovuto difendere come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima significativa dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute e conferme sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

L’accesa conflittualità che si manifesterà a partire dai primi anni Sessanta tra l’Unione Sovietica “revisionista” e la Cina ”maoista” si spiega non tirando in ballo dispute politico-ideologiche, ma con la natura capitalistica dei due Paesi: il primo saldamente al vertice della competizione imperialistica mondiale, insieme agli Stati Uniti, e il secondo che cercherà di svilupparsi come grande nazione sottraendosi dall’influenza economica e militare delle due Super Potenze.

Il nuovo PCC degli anni Trenta non fu, dal punto di vista sociologico, sociale, politico e ideologico, il Partito dei contadini, ossia l’espressione diretta dei loro interessi di classe, ma piuttosto un Partito borghese-nazionale che cercò nei contadini la sua fondamentale base sociale d’appoggio per centrare obiettivi di natura squisitamente borghese-nazionale: in primis, l’indipendenza nazionale e lo sviluppo del capitalismo – anche attraverso una riforma agraria più o meno radicale. Scrive Arturo Peregalli nella sua ottima Introduzione alla storia della Cina: «È quindi a giusto titolo che Mao può richiamarsi a Sun Yat-sen, dichiarandosi suo discepolo e continuatore della sua politica. Se Mao è il “vero Dio” della rivoluzione cinese, Sun Yat-sen fu il suo profeta».

Il particolare rapporto politico-sociale che strinse il PCC e i contadini spiega, non solo la completa esclusione della classe operaia del Paese dalla strategia rivoluzionaria dei “comunisti” cinesi, il cui esclusivo obiettivo era, al di là della fuffa ideologica tipica dei soggetti politici d’ispirazione stalinista, l’ascesa della Cina nel “concerto” mondiale in quanto grande nazione capitalistica; ma spiega anche l’andamento contraddittorio, e spesso conflittuale (fino alla violenza armata), di quel rapporto, dal momento che il mondo rurale cinese presentava una complessa stratificazione sociale – a cominciare dalla storica divisione tra contadini poveri e contadini ricchi.

Sulla natura borghese-nazionale della Rivoluzione cinese e del PCC, nonché sulla natura capitalistica della Cina (da Mao a Xi), tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ad alcuni miei scritti dedicati al grande Paese asiatico:  Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Sulla campagna cinese; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Sotto ogni punto di vista (sociale, politico, ideale) non solo non si scorge alcuna continuità tra il PCC del 1921 e il Partito che cento anni dopo porta lo stesso nome e dice di volerne celebrare la nascita, ma quest’ultimo rappresenta piuttosto la più radicale negazione del Partito di Ch’en Tu-hsiu e Li Ta-chao, il quale ancora fragile dal punto di vista sociale e politico, e ancora immaturo da quello dottrinario, mosse nondimeno i primi promettenti passi in un momento in cui la rivoluzione proletaria internazionale sembrava ancora possibile. Scriveva Li Ta-chao nel 1918: «Il fine dei bolscevichi è di distruggere i confini che sono ostacoli al socialismo e di distruggere il sistema di produzione in cui il profitto è monopolizzato dal capitalista. I soviet uniranno il proletariato del mondo e creeranno la libertà universale. Questa è la teoria della rivoluzione del nostro secolo!  La rivoluzione russa non è che una delle rivoluzioni del mondo. La campana ha suonato l’ora dell’umanità, l’alba della libertà è arrivata». Solo retrospettivamente è possibile comprendere come nel 1921, l’anno di nascita del Partito Comunista Cinese e del Partito Comunista d’Italia, la marea della rivoluzione mondiale si stesse rapidamente ritirando, lasciando i bolscevichi isolati nell’oceano del capitalismo mondiale e a dover fare i conti con la catastrofe sociale creata dalla guerra imperialista e dalla guerra civile. La controrivoluzione antiproletaria che porterà il nome di Stalin (ma che non ha a che fare con la cattiva personalità di chicchessia) ebbe in quel tragico isolamento i suoi fondamentali presupposti, e a farne le spese saranno anche i proletari e i comunisti degli altri Paesi, Cina e Italia compresi.

Mutatis mutandis, la celebrazione del centenario della nascita del Partito Comunista Cinese e quella del Partito Comunista Italiano hanno un comune risvolto ideologico, si celebra cioè  una grande menzogna che affonda le sue radici, appunto, nello stalinismo internazionale e nella sconfitta del movimento operaio internazionale, della quale il primo fu, al contempo, una delle principali cause e la più verace e odiosa espressione. Odiosa soprattutto perché siamo ancora qui a parlare del cosiddetto “comunismo” cinese e italiano.

Dal Partito Comunista Cinese del 1921 al Partito Capitalista Cinese del 2021: cosa marca la continuità storica tra i due soggetti politici? L’acronimo!

Scriveva ieri Le Monde: «La Cina crede già di aver vinto la partita con gli Stati Uniti, e forse sta qui il suo maggiore errore di valutazione». Vedremo chi si sbaglia. Di certo non sbaglia chi lotta, “senza se e senza ma”, contro l’Imperialismo Unitario (*).

(*) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporta con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

MYANMAR. AUTODIFESA E VALUTAZIONE CRITICA DELLA SITUAZIONE

Deng Jia Xi

Ecco perché non possiamo più mettere
fiori nei cannoni dei soldati (T. S. Yi).

Mentre il regime militare sanguinario birmano cerca di annegare nel sangue il coraggio e la rabbia dei manifestanti, e usa i social cinesi (TikTok) (*) e russi per minacciarli («Vi uccideremo tutti»), si pone per il movimento di protesta birmano il problema dell’autodifesa e di una più radicale riflessione politica non solo su quanto è successo negli ultimi mesi, ma su ciò che ha determinato l’attuale situazione. Il secondo aspetto del problema, in linea di principio tutt’altro che scollegato dal primo, appare ai miei occhi quello politicamente più fecondo e tuttavia più difficile da collocare sui corretti binari di una valutazione critica della reale posta in gioco – interna e internazionale. Trasformare la rabbia e la disperazione di migliaia di giovani in una più consapevole e indipendente visione degli interessi sociali che entrano in reciproco urto, non è certo un’impresa facile, tutt’altro. Ma la stessa cosa si può dire dei movimenti sociali di protesta che prendono corpo in ogni parte del mondo.

Sostiene Thinzar Shunley Yi, «attivista per i diritti civili e la disobbedienza civile contro i militari golpisti»: «È impossibile controllare Internet per quanta tecnologia cinese e russa stiano tentando di usare. L’odio circola ormai nel sangue. E col sangue. Anche adesso nessuno attacca, se non per tentare di difendersi, peraltro a mani nude. Qualcuno usa fionde e sassi, piccole bombe. Ma bisogna capire il livello di rabbia accumulata. Certo temiamo per le nostre vite, nessuno è sicuro sotto questi regimi che non intendono cedere e sanno che una guerra a loro sarebbe una guerra alla Cina. […] In tutti i cortei e nei rap campeggia la figura sacra, Lady Suu Kyi, ambigua per l’Occidente ma venerata dai suoi seguaci. Per ora è solo lei la via d’uscita. Da ragazza ho per anni tenuto il suo ritratto nella mia camera. Sono con lei, anche se ne ho criticato molte scelte. Ma vedo che tra i miei fratelli e sorelle si sta facendo strada anche una consapevolezza diversa, la necessità di cambiare approccio. Oggi i soldati hanno tolto una maschera che era visibile a tutti anche prima. Ma hanno sempre oppresso specialmente le minoranze, facendo come ho detto il lavaggio del cervello religioso e patriottico a soldati e poliziotti, gente comune compresa» (Intervista rilasciata a Repubblica).

Va ricordato che anche Lady Aung San Suu Kyi e la sua Lega per la democrazia hanno usato nel recente passato il pugno di ferro contro le minoranze del Paese – vedi Rohingya. «Aung San Suu Kyi ha cercato di minimizzare la gravità dei crimini commessi ai danni della popolazione Rohingya. Non li ha neanche menzionati, né ha riconosciuto la dimensione di quei crimini. Questo tentativo di negare è deliberato, ingannevole e pericoloso. L’esodo di oltre 700.000 Rohingya che vivevano in Myanmar non è stato altro che l’effetto di una campagna orchestrata di uccisioni, stupri e terrore» (Nicolas Bequelin, direttore regionale per l’Asia di Amnesty International, dicembre 2019).

(*) «Con un improvviso salto di capacità tecnologiche i soldati usano TikTok, la piattaforma cinese attraverso la quale si coordinano e distribuiscono nei punti caldi delle rivolte per reprimerle e dare il via a chi dovrà sparare, ma anche per comunicare ogni nuovo ordine. Non a caso da settimane i network dei ribelli segnalano l’arrivo di aerei con tecnici e materiale per creare un network di comando virtuale efficace come quelli di Pechino, che non ha ancora condannato il golpe e molti ritengono sia addirittura complice dei golpisti» (La Repubblica).

Aggiunta del 10 marzo

CON OGNI MEZZO NECESSARIO

A quanto pare la giunta militare birmana non si è lasciata commuovere dal santissimo gesto della suora Ann Rosa Nu Tawng: «È successo nella stessa città dove risiede la suora, Myitkyina, capitale dello Stato etnico Kachin da decenni in conflitto con il potere centrale di militari e civili birmani. Almeno altri due manifestanti sono morti, ma molti sono stati feriti gravemente. Le vittime hanno ricevuto un colpo alla testa, sparato dai soliti cecchini dell’esercito appostati su tetti e cornicioni. Nelle stesse ore è giunta la notizia della tragica sorte di due ex leader dell’Lnd, la Lega nazionale per la democrazia, collaboratori della leader agli arresti, uccisi dopo inaudite torture viste sui loro corpi dai familiari ma negate come sempre dai media dei generali» (La Repubblica). I militari sparano anche contro le ambulanze che vanno in soccorso dei feriti.

Nonostante le uccisioni, gli arresti e le minacce di rappresaglia via TikTok, migliaia di giovani continuano a manifestare in tutto il Paese, quasi sempre in forma pacifica, qualche volta lasciando intravedere la possibilità di ricorrere a forme di lotta più incisive, diciamo così, e comunque in grado di opporre alla famigerata brutalità dei militari un minimo di resistenza. Detto en passant, pare che i militari birmani facciano uso, complici le solite “triangolazioni” mercantili, anche di pallottole Made in Italy. Pare.

«Molti temono che se prenderà piede una forma di Intifada più violenta, il movimento potrebbe cadere nella trappola certo non voluta di ritorsioni ancora più feroci, giustificate [sic!] agli occhi del mondo. Per gli esperti nel Paese esistono tutte le condizioni, se non interverranno altre potenze come la Cina che ha già annunciato una difficile mediazione tra le parti, per una guerra civile dalle conseguenze inimmaginabili. Tutti per ora si impegnano però a continuare col metodo della disobbedienza non violenta gandhiana adottata da Madre Suu» (La Repubblica). Intanto la giunta militare ha “consigliato” i Paesi asiatici (l’India e il Giappone, in primis) e occidentali interessati ad avere rapporti economici e diplomatici con il Myanmar, a non adottare nei suoi confronti la politica delle sanzioni “ispirata” da Washington, perché viceversa Naypyidaw sarebbe costretta a mettere l’intera economia del Paese e la sua sicurezza nazionale nelle mani della Cina, mettendo così fine al lungo periodo di “apertura al mondo”. È un fatto che la Malesia e l’India stanno respingendo i profughi appartenenti alle etnie che popolano i confini del Myanmar in fuga dalla fame e dalla prospettiva di sanguinose rappresaglie militari.

«Molti Rohingya stanno nel frattempo solidarizzando con il movimento di disobbedienza e la sorte che li aspetta potrebbe essere un’altra rappresaglia tragica come quella scatenata dagli attacchi di presunti terroristi islamici che giustificarono il genocidio del 2017 e l’esodo in Bangladesh. Le minacce e le sanzioni occidentali non sembrano avere avuto altri effetti che la controfferta di collaborazione con un governo impresentabile al mondo civile» (La Repubblica). Rimane da capire cosa si intende per «mondo civile»: l’imperialismo che piace di più?

Leggi: Myanmar. Per chi suona la pentola.

LA PESSIMA CONDIZIONE SOCIALE DEI MIGRANTI CINESI

Le foglie cadute tornano alle loro radici.
落叶归根

In Cina la condizione sociale dei lavoratori migranti rimane assai dura e precaria, nonostante l’impetuoso sviluppo capitalistico del grande Paese asiatico abbia lasciato cadere anche su questi lavoratori, considerati di serie B, qualche briciola. Per migranti alludo naturalmente ai circa 300 milioni di individui che ogni anno si spostano dalle aree rurali della Cina per riversarsi nelle sue aree urbane, formando quel gigantesco esercito di proletariato che ha reso possibile l’ascesa del Paese ai vertici del capitalismo mondiale. Per capire di cosa parliamo è sufficiente ricordare il “modello” Foxconn, la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici: occupazione di massa, supersfruttamento, bassi salari, condizioni di vita e di lavoro che spesso hanno portato i lavoratori alla disperazione e al suicidio. Oggi circa il 51% dei migranti è occupato nel settore terziario, in linea con le trasformazioni intervenute nel corso del tempo nella struttura del capitalismo cinese.

Questo esercito di operai, di fattorini, di camerieri e di commercianti dà vita a una migrazione interna che per consistenza non ha eguali nella storia umana,  e le cui mete più ambite sono le ricche province del Guandong e dello Zhejiang e le megalopoli come Shanghai e Pechino. Durante il lungo capodanno cinese, questa laboriosa (leggi: sfruttata) «popolazione fluttuante» (in cinese 流动人口, liúdòng rénkǒu) ritorna nelle regioni rurali, per trascorrervi le meritate vacanze. A causa della nota pandemia, nel 2020 moltissimi migranti non hanno potuto riabbracciare i loro cari, e sono rimasti sequestrati nelle megalopoli, anche perché esse hanno avuto più che mai bisogno di fattorini (raider) in grado di consegnare ai clienti, velocemente e a qualsiasi ora del giorno e della notte, cibo e ogni genere di merce trasportabile in quella modalità. Il tutto, per riscuotere un salario di circa 4000 yuan (500 euro, contro i 126 offerti dalla campagna), che nelle metropoli cinesi non è certo sufficiente per vivere “decorosamente”.

Scrive Qiao Yan: «La tradizione degli emigrati cinesi rappresentata dal detto “le foglie cadute tornano alle loro radici”, nei tempi contemporanei non è più osservata come prima. Questo cambiamento di pensiero è in linea con i mutamenti sociali, economici e politici della Cina a partire dall’anno 1978» (L’emigrazione cinese, 2013). A quanto pare, le foglie cadute “desiderano” rimanere là dove le ha trasportate il vento.

«Malgrado gli effetti negativi del coronavirus sull’occupazione, i lavoratori migranti vogliono rimanere a vivere nelle città. Essi non vedono opportunità nelle aree rurali da dove provengono e sperano di poter accedere ai servizi educativi e sanitari cittadini, che sono migliori rispetto a quelli dei loro centri di origine. È quanto emerge da uno studio del Social Work Development Centre for Facilitators, pubblicato il 30 agosto. Il 58,84% dei migranti cinesi vuole continuare a vivere in un centro urbano anche se i loro figli non avranno accesso alle scuole locali. Il governo comprime i diritti dei lavoratori migranti per evitare che i costi dello stato sociale vadano fuori controllo. Il mancato riconoscimento della residenza nelle zone urbane, insieme alla mancanza di lavoro e al taglio dei salari per la pandemia, rendono sempre più difficile la vita in città per chi si è trasferito dalle campagne. Ciò non li spinge però a “tornare a casa”. Il reddito pro-capite nella Cina rurale è in calo dal 2014» (AsiaNews). Il proletariato migrante si trova quindi stretto in una morsa sociale sempre più stretta, e non è certo un caso se la maggior parte delle agitazioni operaie degli ultimi tempi hanno avuto proprio esso come loro protagonista indiscusso, anche se non esclusivo.

In Cina il salario minimo si aggira ancora intorno a 1500 yuan (185 euro). Lo stesso Premier Li Keqiang, ha ricordato in occasione dell’Assemblea nazionale del popolo della scorsa primavera che ci sono circa 600 milioni di cinesi che guadagnano meno di 140 dollari al mese. Nella conferenza stampa di chiusura del NPC, Li espresse un giudizio positivo sulla possibilità di tamponare la crisi occupazionale sviluppando nuovamente un’economia di strada fatta di bancarelle e venditori ambulanti, simile a quella emersa negli anni ’80, suscitando una forte contrarietà presso la fascia maggioritaria del Partito-Regime, sintetizzabile nello slogan: «Indietro non si torna!».

Scriveva Alessandra Colarizi nell’aprile del 2020: «Sebbene, stando agli ultimi dati ufficiali, a marzo il tasso di disoccupazione si è stabilizzato a quota 5,9%, in discesa rispetto all’incremento record del 6,2% riportato nei primi due mesi dell’anno, statistiche indipendenti calcolano il numero reale dei cinesi senza un’occupazione tra i 60 e i 200 milioni se si includono i migranti (mingong), esonerati dalle stime ufficiali ma rilevanti in termini numerici, rappresentando un terzo dei 442 milioni di lavoratori urbani» (Il Manifesto). Pur «rilevanti in termini numerici», i lavoratori migranti non compaiono nemmeno nelle statistiche ufficiali, che infatti vanno sempre lette criticamente e confrontate con i dati forniti da fonti “informali”.

«La parola cinese usata per indicare i lavoratori migranti è 农民工 nóngmíngōng, dove nóngmín significa contadino, e gōng lavoratore. Il termine si riferisce appunto a coloro nati nelle zone rurali del paese, ma emigrati verso le aree industriali in cerca di occupazione. L’etimologia della parola riflette accuratamente il ruolo ambivalente del lavoratore migrante, in equilibrio tra la città di destinazione e la terra di origine a cui è legato. L’origine di questa contraddizione giace nell’esistenza del sistema di registrazione familiare cinese, comunemente noto come 户口 hùkǒu. Secondo questo peculiare meccanismo, l’accesso ai diritti civili e legali di ogni cittadino è vincolato al luogo di nascita di quest’ultimo. Nato nei primi anni ’50 su emulazione della Propiska sovietica, lo hukou è un documento fondamentale nella vita di ogni abitante cinese; ancora oggi, resta indispensabile per ottenere l’accesso a istruzione, cure sanitarie, pensione e assicurazione. Tutti questi servizi vengono garantiti esclusivamente nel proprio paese natale, da cui lo hukou viene rilasciato. Il mancato possesso dello hukou locale costituisce quindi un ostacolo alla libera circolazione della popolazione. Ma non solo. Il sistema cinese ha portato alla creazione di una società diseguale, che nega il diritto all’istruzione e cure mediche a milioni di cittadini. Basti pensare che, nonostante sulla carta l’istruzione sia un diritto garantito, molte scuole pubbliche chiedono ai genitori migranti il pagamento di tasse aggiuntive salatissime. Queste richieste proibitive costringono molti bambini migranti a fare ritorno al proprio villaggio o ad iscriversi in scuole private non riconosciute dal sistema scolastico statale. Davanti a queste premesse, è evidente come l’emarginazione istituzionale e sociale generata dal sistema dello hukou abbia influenzato le vite dei migranti cinesi; a causa della loro identità rurale, essi sono percepiti dai loro concittadini come individui senza cultura ed una minaccia alla stabilità collettiva. Esclusione sociale e mancanza di opportunità hanno condannato i migranti alla segregazione di mercato e all’immobilità di classe, in virtù di uno Stato padre di due cittadinanze distinte: urbana e rurale. […] L’ultima riforma dello hukou prometteva la cittadinanza urbana a 100 milioni di residenti rurali. Tuttavia, sembrerebbe che il piano tenda a favorire ancora una volta l’entrata di capitali, rimanendo in silenzio di fronte alle richieste della popolazione fluttuante» (Bridging China ). Un Paese perfettamente capitalista, non c’è che dire.

Scrive Simone Pieranni, autore di Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (e qui faccio gli scongiuri!): « Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del “socialismo di mercato”. Un apparente ossimoro, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro». Qui siamo ancora al gatto di Deng Xiaoping («Non importa il colore del gatto, purché questo acchiappi il topo»)! Per quanto mi riguarda, è del tutto ininfluente il giudizio che il regime cinese, e la stessa “opinione pubblica” cinese danno sul loro modello sociale.Come diceva qualcuno, nei peridi di “pace sociale” l’ideologia dominante è l’ideologia che fa capo alle classi dominanti.

Il «socialismo di mercato» non è affatto «un apparente ossimoro», ma piuttosto una gigantesca balla ideologica che può affascinare solo chi non conosce la natura del rapporto sociale capitalistico di produzione e ha in mente un concetto assai miserabile di “socialismo” – del genere impallinato da Marx già un secolo e mezzo fa.

Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese;; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

L’INTELLIGENZA DEL VIRUS…

Infinite forme bellissime e meravigliose
si sono evolute e continuano a evolversi.
C. Darwin

Variante americana (in realtà dal marzo 2020 se ne contano almeno due: D614G e B.1.526), variante inglese, variante brasiliana, variante sudafricana, ecc.: quale variante del ceppo originario (cinese?) del Coronavirus è più intelligente? Vallo a sapere! Ho anche letto e ascoltato da virologi di “chiara fama” che le varianti virali sono certamente più infettive rispetto al ceppo originario, ma quasi sempre sono anche meno letali, perché in linea di principio un virus «non ha alcun interesse» a uccidere l’ospite che lo nutre e lo fa prosperare.

Insomma, ascoltando molti virologi, infettivologi, immunologi e affini, cioè le celebrità di questo pessimo tempo, l’ignorante della materia virale (eccomi!) è portato a credere che i virus possano contare su un’invidiabile intelligenza e su una ancor più ammirevole volontà di potenza – proprio nell’accezione nietzschiana (e anche spinoziana: «Poter esistere è potenza») del concetto!

«Abbiamo a che fare con un virus estremamente intelligente che diversifica continuamente le sue strategie di sopravvivenza adeguandole alle risposte immunitarie della sua vittima»: mi è capitato molte volte di ascoltare e di leggere simili asserzioni. A dire il vero alcuni esperti della rognosissima materia attribuiscono la grande capacità di adattamento del virus all’ospite non a una sua particolare intelligenza, ma al contrario alla sua spiccatissima stupidità, la quale si rivelerebbe essere la sua autentica carta vincente. Così la pensa ad esempio Roberto Burioni [1]: «Insomma, un virus è stupidissimo e fa un enorme numero di errori, ma ha un asso nella manica: il mondo esterno gli seleziona quelli che sono utili per la sua replicazione, e butta via gli altri. Il virus è come un incapace giocatore di scacchi che fa tutte le mosse possibili su un numero altissimo di scacchiere; poi però arriva un maestro bravissimo che butta via tutte le scacchiere, tranne quella in cui ha fatto la mossa migliore. In queste condizioni, anche se non si sa giocare a scacchi è più facile vincere!» (Mediclfacts). La stupidità messa al servizio della sopravvivenza: geniale! Il grande Hegel avrebbe – forse – chiosato: «È l’astuzia del virus, bellezza!». Ma questo disegno intelligente, questo sopraffino quanto astuto (dialettico!) modo di costruire le strategie di sopravvivenza è da attribuirsi al virus in quanto tale, o non piuttosto alle Leggi della Natura che presiedono al processo naturale considerato nella sua ricca e complessa totalità (planetaria, cosmica, universale)? Oppure, ed ecco il mio assillo, si tratta di nostre mere proiezioni concettuali, di un nostro più o meno maldestro tentativo di razionalizzare ciò di cui ci sfugge l’intima ragione? L’umanizzazione (antropomorfismo) dei fenomeni naturali è forse stata la prima forma di “razionalizzazione scientifica” praticata dalla comunità umana, e quindi non bisogna accostarsi alla “problematica” qui confusamente evocata con altezzosità scientista, ma piuttosto con l’umiltà di chi desidera capire ciò che ci accade senza pregiudizi e con autentico spirito critico.

Seguendo soprattutto lo scienziato cha ama la divulgazione (che non raramente smotta nella più crassa delle volgarizzazioni), spesso è difficile capire dove finisce il ragionamento analogico e metaforico messo al servizio di quell’eccellente causa, e dove inizia la vera e propria teoria (concezione) dei processi naturali. Sorge perfino il sospetto che ciò che dovrebbe essere solo un’analogia, un modo di parlare per metafore a beneficio dei non addetti ai lavori, sia in realtà l’essenza del pensiero scientifico coltivato dal divulgatore.

Ora, per quel poco che ho letto – e capito – su ciò che riguarda la dinamica dell’evoluzione animale e vegetale, non sono l’intelligenza e la volontà che presiedono ai mutamenti dei viventi, ma molto più semplicemente e più spesso di quanto si creda, la casualità, l’accidentalità. Il concetto di casualità, beninteso, non rimanda affatto a un evento del tutto privo di cause, com’è ovvio (e come sapeva Spinoza: «Di ciascuna cosa esistente ci dev’essere necessariamente una causa determinata in virtù della quale essa esiste» [2]), ma piuttosto a qualcosa che si dà al di là di una puntuale e riconoscibile necessità. Ad esempio, una mutazione genetica è – ci appare – casuale quando essa non deriva da una risposta coerente di un organismo vivente ai problemi posti dall’ambiente esterno, risposta adattiva che trova una corrispondenza nel patrimonio genetico dell’organismo. Nel caso della mutazione casuale sarà invece il meccanismo della selezione naturale a determinare il successo o meno dell’organismo mutato; mutazione che, come osservò Darwin, di solito si conserva quando apporta un miglioramento alla specie, quando si dimostra a essa utile, mentre viene eliminata nell’arco di qualche generazione nel caso contrario. Il più adatto (non il più forte) sopravvive e prospera, il meno adatto si estingue più o meno rapidamente.  Le mutazioni si introducono nel patrimonio genetico di una specie del tutto casualmente: la selezione naturale fa il resto. Secondo un Piano? Ma non scherziamo! Mi correggo: personalmente non penso che ci sia un Piano di qualche tipo, ma un processo oggettivo di cui noi legittimamente cerchiamo di afferrare il senso.

Soprattutto i microrganismi vanno incontro a rapide mutazioni, più o meno significative, a causa della loro struttura biologica estremamente elementare e alla loro incredibile velocità di replicazione [3]. Se nel processo di replicazione del patrimonio genetico qualcosa va storto, per così dire, assistiamo alla mutazione genetica di una cellula, di un virus, di un batterio, eccetera. Se, ad esempio, il virus mutato casualmente mostra di possedere una maggiore infettività e una maggiore capacità di adattamento a determinate condizioni biologiche (un corpo animale di qualche tipo) rispetto al virus di partenza, è ovvio che nel giro di qualche tempo il virus modificato soppianterà, in tutto o in larga parte, il ceppo virale originario, e così via, lungo una catena di modificazioni del tutto casuali. Siamo noi che razionalizziamo questo processo naturale come «intelligente strategia di adattamento del virus», rendendo operativo una concettualizzazione del reale non molto dissimile dal modo di pensare mitologico. D’altra parte, il pensiero mitologico fu il primo sofisticato tentativo umano di dare un senso ai fenomeni naturali e sociali.

Gli organismi complessi sono dotati di un sistema di feedback proteico che controlla la delicata operazione di sintesi degli acidi nucleici, in modo da “correggere” eventuali errori nella replicazione genetica, o di restringerli a un numero molto limitato, tale che la quantità degli errori non generi un – hegeliano – salto qualitativo. Gli scienziati chiamano questa attività di controllo «correzione delle bozze» (proof-reading). Soprattutto per questo gli organismi cosiddetti superiori mutano con estrema lentezza, vantano per così dire una grande inerzia genetica, mentre scendendo nella scala della complessità bio-strutturale cresce esponenzialmente la velocità di replicazione e, quindi, di “errore”.

«Il virus non ha alcun interesse a uccidere l’ospite»: ma le cose non stanno affatto così! Semplicemente accade che il ceppo che annienta l’ospite molto rapidamente altrettanto rapidamente si estingue, mentre quello che lo lascia – di fatto, “oggettivamente”, non in virtù di una scelta – in vita più a lungo si conserva nel tempo. È quello che ad esempio è accaduto all’HIV, che oggi sopravvive come specie virale soprattutto nei suoi ceppi – relativamente – meno virulenti e in grado di adattarsi continuamente al processo di cronicizzazione della malattia a essi associata (AIDS) realizzato dai farmaci. Questo feedback da parte del virus, che si sostanzia in una sempre più rapida moltiplicazione (che fa aumentare le probabilità di un virtuoso “errore”) non ha nulla che si possa anche solo lontanamente definire intelligente – o stupido. L’intelligenza – o stupidità – sta solo dalla parte umana.

Il pensiero di molte persone semplicemente si rifiuta di accettare l’idea che gli effetti profondi e durevoli dovuti alle mutazioni genetiche possono avere come loro causa un evento del tutto casuale. Anche quando non si arriva a dargli una formalizzazione nominalistica, un nome e un cognome, in quel modo di concepire la realtà il concetto del Piano Intelligente si affaccia da tutte le parti. Quando Darwin sottopose L’origine della specie (1859) all’attenzione di John Herschel, che egli considerava il suo eroe scientifico, ne ricevette in cambio una dolorosa stroncatura. Soprattutto Herschel liquidò come «legge alla rinfusa» l’idea della variazione spontanea o casuale. «L’obiezione più ostinata di Herschel alla teoria darwiniana era la sua sensazione che nuovi caratteri favorevoli non sarebbero mai potuti apparire dalla semplice variazione casuale. In vari scritti pubblici sostenne che quelle caratteristiche avrebbero sempre richiesto “una mente, un piano, un progetto”, semplicemente, e ovviamente escludendo la visione accidentale della questione e il concorso casuale degli atomi”» [4]. Ad Herschel ripugnava l’idea che si potesse tirare in ballo la casualità in questioni così importanti per l’uomo e per la scienza: che cosa bizzarra! Il “bizzarro” Darwin ovviamente non sapeva nulla di DNA, il portatore dell’informazione genetica, e di RNA, anch’esso coinvolto nella trasmissione del contenuto genetico, ma aveva capito benissimo il meccanismo casualità-selezione che stava alla base delle mutazioni delle specie e che, come oggi sappiamo, chiama in causa la «biochimica delle catene polipeptidiche che formano le proteine che si ripiegano a forma di elica» (James D. Watson). Senza la comprensione del meccanismo darwiniano quella biochimica ci restituisce un semplice dato di fatto, il sostrato biologico di un processo che va in ogni caso spiegato.

La casualità ha avuto nella storia dell’uomo un ruolo importantissimo.  Come sappiamo, molte scoperte (ad esempio in agricoltura o nella farmacopea) hanno avuto un’origine del tutto casuale, e si sono conservate solo perché l’uomo ne ha riconosciuta la bontà. Si deve piuttosto osservare che la casualità non si dà nel vuoto, in un astratto ambiente naturale e sociale, ma come essa debba relazionarsi con qualcosa –  un contesto – concreto, e quindi come ciò che accade per puro caso spesso non rimane privo di conseguenze. In ogni caso, nessun evento rimane privo di conseguenze. Per questo mi pare più interessante riflettere sulle condizioni ambientali (di qualsiasi natura esse siano: naturali o sociali) che fanno da sfondo all’evento casuale, piuttosto che sull’evento in sé, colto nella sua (impossibile) autonomia rispetto alla totalità del reale.

«La generazione di varianti virali contenenti una o più mutazioni rispetto al progenitore è quindi un fatto atteso, scontato e perseguito»[5]. Scontato (per noi) e atteso (da noi), non c’è dubbio; ma «perseguito» da chi?

Perché sentiamo il bisogno di attribuire una volontà e un’intenzione a qualsiasi cosa, o di stabilire un’immediata relazione di causa-effetto anche nei casi in cui è evidente, a uno sguardo solo un po’ più avvertito, che è ridicolo tirare in ballo i concetti di volontà e di causalità? Per renderci più facile la vita? Non posso escluderlo, tutt’altro. Per ragioni di “economia di pensiero”? Probabile. Ma ciò che a mio avviso è importante rilevare, non è tanto l’uso “economico” dei concetti e della logica, cui spesso siamo costretti per ragioni pratiche; quello che ai miei occhi è degno di considerazione è il fatto che a un certo punto perdiamo il controllo dell’operazione “mentale” che eseguiamo, e questo ne causa la fissazione e cristallizzazione nel nostro modo di concettualizzare la realtà e di rapportarci con essa. Lo strumento cessa insomma di essere al nostro servizio e noi stessi ci facciamo, senza averne la minima contezza, a sua immagine e somiglianza: ragionare “economicamente” diventa il solo modo di ragionare che conosciamo, e a questo punto il pensiero critico non trova appigli, e scivola come chi andasse a piedi nudi su una lastra di vetro bagnata posta in verticale: impossibile!

Come si è capito questa breve riflessione ha poco a che fare con i virus o con altre “problematiche” scientifiche in senso stretto, anche perché chi scrive si muove in esse da perfetto ignorante; essa ha piuttosto a che fare con lo sforzo di capire il modo in cui ragioniamo, come noi razionalizziamo la realtà, cosa che il più delle volte facciamo usando acriticamente schemi logici e concettuali che solo ai nostri occhi si mostrano perfettamente in grado di dar conto di ciò che accade intorno a noi. Spesso è sufficiente riflettere un po’ più criticamente del solito sulle parole che usiamo per esprimere i concetti, per renderci conto di quanto sia assurda la nostra razionalizzazione dei fatti: come può un virus essere intelligente, stupido, cattivo e via di seguito? Come può un virus scegliere una strategia di adattamento, di replicazione e di diffusione piuttosto che un’altra? Semplicemente non può.

Per quanto riguarda la natura essenzialmente sociale – tanto nella sua genesi quanto nelle sue conseguenze – della pandemia che ormai da oltre un anno imperversa sul mondo, rimando al PDF Il Virus e la nudità del Dominio.  Detto en passant, dal vaccino russo a quello americano; dal vaccino cubano a quello cinese e così via, sulla nostra pelle si sta giocando una schifosissima partita geopolitica. Ma su questo aspetto della questione ci sarà modo di ritornare.

 

[1] «”A margine del dibattito sull’opportunità o meno dell’obbligo vaccinale si è sviluppata in Italia una più generale discussione su una questione davvero non semplice: la scienza è democratica? È stato soprattutto Roberto Burioni a sostenere presso il grande pubblico una risposta negativa. Secondo il noto scienziato del San Raffaele, “la scienza non è democratica”, perché in ogni suo settore (ad esempio quello dei vaccini) l’opinione degli esperti – una volta verificato il consenso nella comunità scientifica – deve senza incertezze prevalere su quella di chi non ha studiato la materia” (AA. VV., Fake news in ambito medico-scientifico e diritto penale, p. 26, Filodiritto Editore, 2019). Cercherò di criticare questa posizione autoritaria, che postula l’obbligo vaccinale, non dal punto di vista dell’astratta democrazia, del cosiddetto principio di maggioranza, bensì da quello che contesta radicalmente – alla radice – la stessa divisione sociale del lavoro come si configura nella società capitalistica, a cominciare dalla divisione sociale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. L’immunità di gregge che hanno in testa gli scienziati che pensano come Burioni presuppone l’esistenza degli individui come gregge, come massa di individui atomizzati privi di un punto di vista generale sulla società che pure essi stessi riproducono giorno dopo giorno, sempre di nuovo» (Il Virus e la nudità del Dominio, p. 121).
[2] B Spinoza, Etica, p. 69, Fratelli Melita, 1990.
[3] «Batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana» (R. M. Nesse, G. C. Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999).
[4] D. Kingsley Dagli atomi ai caratteri, Le scienze, n. 486, 2009.
[5] Varianti virus, quando un fenomeno naturale e atteso diventa una notizia, Infezioni obiettivo zero, 2021.

Il CONGO E LA SOSTANZA DI QUESTA SOCIETÀ-MONDO

Ho appena finito di ascoltare l’informativa sull’attentato in Congo del ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Montecitorio. Riassumo la conclusione dell’intervento: per onorare e ricordare i nostri servitori dello Stato, l’Italia, che si trova al centro del Mediterraneo, deve moltiplicare i suoi sforzi per rafforzare la sua presenza in Africa, sulla scia del Partenariato con l’Africa presentato dalla Farnesina nel dicembre 2020.

Cito dal documento Il Partenariato con l’Africa: «L’Africa è da tempo un’assoluta priorità della politica estera italiana. Il rapporto con i Paesi del Continente e le sue organizzazioni è oggi basato su una partnership paritaria, orientata ad uno sviluppo condiviso e ad affrontare insieme le molteplici sfide globali, superando così la tradizionale visione donatore/beneficiario.  L’attenzione italiana verso l’Africa è orientata a garantire sia la crescita equilibrata del Continente che il nostro interesse nazionale, anche in un quadro europeo ed internazionale. La nostra posizione geopolitica al centro del Mediterraneo e la tradizionale propensione al dialogo con l’Africa, anche alla luce della crescente centralità che il Continente sta assumendo di fronte a fenomeni globali sempre più complessi, rende opportuna un’azione di politica estera coerente, articolata su: pace e sicurezza; governance e diritti umani; migrazioni e mobilità; cooperazione e investimenti; sviluppo economico sostenibile; lotta ai cambiamenti climatici; collaborazione culturale e scientifica. Tale azione si innesta sull’antica e intensa presenza dell’Italia in Africa (che ci distingue da altri attori sul Continente) articolata non solo su calibrate scelte politiche, ma anche sulle molteplici iniziative della Cooperazione allo Sviluppo italiana, sulla radicata esperienza delle nostre ONG e dei volontari, sul ruolo delle missioni religiose e di quelle archeologiche, e sulle numerose comunità di connazionali, molti dei quali imprenditori» (Ministero degli Affari Esteri).

Da ciò si evince, tra l’altro, l’importante ruolo che le ONEG e i volontari svolgono a supporto dell’imperialismo italiano. A loro insaputa? Ma certamente! Qui la buona/cattiva coscienza dei soggetti non ha alcun rilievo nello sforzo di comprendere la dinamica del processo sociale considerata nella sua dimensione internazionale.

«L’uccisione dell’Ambasciatore italiano Luca Attanasio e del Carabiniere Vittorio Iacovacci, avvenuta il 22 febbraio ad alcune decine di chilometri da Goma, capitale del North Kivu, regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) al confine con il Ruanda, ha improvvisamente riacceso l’attenzione internazionale su uno dei focolai di conflitto più violenti, complessi e duraturi di tutto il continente africano. Nonostante l’enorme ricchezza naturale e mineraria, il North Kivu è una delle regioni più povere, sottosviluppate e fragili del Paese, dove le vulnerabilità sociali rappresentano il principale incentivo alla feroce conflittualità etnico-settaria. Oltre 20 gruppi etnici e relative milizie armate combattono sia contro le Forze governative e i Caschi Blu della missione ONU MONUSCO, sia e le une contro le altre per il controllo del territorio e delle sue risorse, in particolare quelle agricole e minerarie. Su tutte, oro, pietre preziose e minerali di importanza strategica per l’industria ad alta tecnologia (coltan) e per i traffici illeciti» (CESI Italia). Personalmente, e a differenza dei progressisti e dei francescani (nel senso di Papa Francesco), non ho mai fatto alcuna distinzione, tanto sul piano economico quanto su quello “etico”, fra traffici “leciti” e traffici “illeciti”: si tratta in entrambi i casi di intascare profitti e denaro, di consolidare potere politico e sociale.

Qui di seguito la nota che ho postato ieri su Facebook.

La sostanza di questo mondo

Nel rituale discorso di cordoglio, il Presidente della Camera Roberto Fico ha definito l’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e di un carabiniere della scorta «un attacco vile e inspiegabile nei confronti di due servitori dello Stato». Ora, se c’è qualcosa che possono capire anche i bambini è proprio quello che è accaduto ieri a Kanyamahoro, nella provincia congolese del Kivu del Nord. Non mi riferisco ovviamente alla dinamica dell’agguato, che rimane ancora avvolta nel mistero, ai gruppi armati locali coinvolti davvero nell’agguato, ma alla sostanza della questione, che ha come fattore centrale la spartizione del bottino: chi per continuare a incassare grassi profitti, chi per portare a casa qualche briciola di pane, magari con l’uso della forza: «Sono uomini cenciosi ma con i kalashnikov, particolare che fa la differenza tra padrone e vittima, tra uomo e insetto da schiacciare. Come ieri nell’agguato al convoglio dell’ambasciatore italiano emergono dalle foreste, occupano un villaggio, saccheggiano una miniera, attaccano soldati malvestiti, affamati, che si trascinano dietro, come nomadi, famiglie e bestie» (D. Quirico, La Stampa).

Le due parole chiave che rendono di facilissima comprensione i massacri che da vent’anni si consumano da quelle parti sono due: immensa ricchezza e immensa povertà. Tradotto in termini meno asettici e più “scientifici”: capitalismo, capitalismo e ancora capitalismo. Rinvio anche alla dinamica storica che tanto a che vedere ha con ciò di cui parliamo: capitalismo, schiavismo, colonialismo, imperialismo.

«Il contrabbando delle ricchezze del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane e dai paesi confinanti. Basti pensare che il Ruanda figura fra i primi produttori mondiali di coltan anche se ufficialmente è privo di miniere. Nella capitale Kigali hanno sede le direzioni delle multinazionali, soprattutto belghe e americane, che commerciano in minerali preziosi. L’Italia è un attore relativamente minore» (Limes). E infatti Roma lavora da tempo per conquistare qualche posizione, magari a scapito dei cugini europei – a cominciare dai soliti francesi!

Limes

Come ha scritto oggi il già citato Domenico Quirico in un bell’articolo, «Le guerre nel Kivu hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev»: diamanti, oro, niobio, rame, cobalto, coltan, tungsteno, tantalio, stagno, manganese, piombo, zinco, carbone, uranio, petrolio. Senza parlare del legname e delle piante di eccezionale pregio. In realtà la tavola di Mendeleev in questo caso incrocia anche la tavola della geopolitica.

«Il tantalio: un metallo che resiste alla corrosione, ad esempio. Lo scavano in queste foreste da cui sono balzati fuori i killer dell’ambasciatore, lo scavano uomini e bambini con la vanga, le mani impastate di fango e di sudore. Tante piccole mani distruggono la foresta per cercarlo. Uomini armati li controllano, pronti a sparare. Il padrone della concessione, con un satellitare, tratta forniture, contratti, conti in banca e le tangenti per i funzionari e i ministri del governo. E la cassiterite? La avete mai sentita nominare? Esiste, serve per saldare e per le leghe speciali: si nasconde in questa terra nera come sangue raggrumato. […] Nei villaggi dell’alto Huelè non c’è giorno in cui bambini e bambine non vengano rapiti, trasformati in schiave sessuali e in combattenti, spie, portatori. Li marchiano sulla fronte, sul dorso e sul petto con croci disegnate con olio di karité, che i miliziani acholi chiamano “moo-ya” e dicono sia una pianta sacra. E poi ci sono milizie comandate da stregoni che promettono l’invulnerabilità con pozioni magiche e gris gris, e le bande degli antichi massacratori hutu del genocidio ruandese degli Anni novanta. Sono sfuggiti alla vendetta dei tutsi rifugiandosi nelle foreste del Kivu e si sono trasformati in una armata di spiriti, avida e feroce. E poi piccoli signori della guerra, imprenditori di milizie che le affittano per difendere le miniere, saccheggiare, offrire protezione: la guerra business, la guerra che nessuno racconta perché è un romanzo criminale» (D. Quirico, La Stampa).

Criminale è questa Società-Mondo che ha nel denaro il suo spietato Moloch assetato di sangue – metaforico e reale, realissimo: «Con il denaro posso portare in giro con me, in tasca, il potere sociale universale, la connessione sociale generale e la sostanza della società» (K. Marx). E che questa Società-Mondo abbia una sostanza escrementizia, per me è poco ma altrettanto sicuro. Sicurissimo.

MYANMAR. PER CHI SUONA LA PENTOLA…

BEAT YOUR POT! La gente la sera, dalle 20, batte le pentole dalle case come segno di protesta. Un vecchio rito popolare contro il maligno che è stato trasformato in atto di ribellione e di protesta contro il colpo di stato.

Dopo i proiettili di gomma, ora militari e polizia usano pallottole vere per fermare le proteste contro il colpo di Stato dello scorso 1º febbraio. Già si contano i primi morti e molti feriti. «Le forze armate (Tatmadaw) hanno imposto il divieto di raduni di più di quattro persone in dieci regioni e Stati, incluso Yangon, ma decine di migliaia di persone hanno ignorato l’ordine e si sono affollate per le strade. Per la prima volta da quando sono scoppiate le proteste, agenti antisommossa sono stati dispiegati per le strade di Yangon e nella capitale Naypyidaw e avrebbero aperto il fuoco sui manifestanti» (ISPI). Non «avrebbero»: lo hanno fatto. Questo è, come si dice, poco ma sicuro. I manifestanti, che rischiano fino a 20 anni di carcere, hanno deciso di fare di oggi, 22 febbraio, una grande giornata di mobilitazione e di lotta. La probabilità che l’Esercito birmano (espressione soprattutto della comunità Bamar) usi contro i manifestanti il pugno di ferro è altissima. Confessava cinicamente un militare birmano nel 1988, nel corso di una delle tante ondate repressive che hanno segnato la recente storia birmana: «L’esercito non ha la tradizione di sparare in aria. L’esercito spara per uccidere». E infatti allora tra i manifestanti si contarono centinaia, se non migliaia di morti.

Ultim’ora: «La giunta militare ha intanto diffuso una nota su Mrtv accusando i manifestanti in piazza oggi di incitamento alla “rivolta e anarchia”. Il Consiglio di amministrazione dello Stato, nome ufficiale della giunta militare, ha affermato che “i manifestanti stanno ora incitando le persone, in particolare adolescenti e giovani emotivi, a un percorso di confronto in cui subiranno la morte”» (adnKronos). La giunta militare sta mettendo in conto – e forse pianificando – un bagno di sangue?

Limes

Comprendere i motivi del colpo di Stato militare in Birmania (Myanmar) non appare, a un primo sguardo, impresa agevole, nel senso che è dal colpo di Stato “socialista” del 1962 che l’Esercito gioca in quel Paese un ruolo politico ed economico a dir poco centrale (1). Il sistema politico del Myanmar è sempre rimasto saldamente sotto il controllo del Tatmadaw (le Forze armate birmane) anche durante il «processo di democratizzazione» del Paese avviato nel 2011, e che ha visto Lady Aung San Suu Kyi diventare di fatto la leader del Paese e il suo partito (Lega nazionale per la democrazia) la principale forza politica, almeno sul piano formale-elettorale.

Secondo Soe Lin Aung, «Da un certo punto di vista, i militari non avevano bisogno di lanciare un colpo di Stato; l’esercito detiene già un notevole potere politico ed economico, nonostante abbia consentito nel 2011 a un governo formalmente civile di prendere forma dopo decenni di suo dominio. Nella dispensa post-2011, i militari si sono riservati un quarto dei seggi in parlamento, abbastanza per prevenire eventuali emendamenti alla costituzione del 2008, che in gran parte ha scritto per proteggere la propria posizione. Tre ministeri chiave sono rimasti sotto il controllo esclusivo dei militari» (Chuang). Ma negli ultimi anni il compromesso tra militari e classe dirigente civile si è indebolito, sfilacciato e incrinato, diventando sempre più precario, e il grande successo elettorale dello scorso novembre ottenuto dalla Lega nazionale per la democrazia (oltre l’80% dei voti) ha messo in allarme il gruppo dirigente del Tatmadaw, il quale ovviamente non vuole perdere il suo ruolo di perno centrale del sistema. La giunta militare, capeggiata dal generale Min Aung Hlaing, ha parlato di «brogli elettorali» e ha dichiarato di voler mettere in sicurezza la “democrazia”, compito che la Costituzione del 2008 (voluta dall’Esercito!) assegna appunto ai militari.

La posta in gioco in quel Paese non è insomma la democrazia (2), la libertà e il benessere dei cittadini, ma il potere economico e politico, dopo che la crisi economica degli ultimi anni, le tensioni etniche mai sopite e anzi sempre più accese, nonché le dinamiche geopolitiche hanno rotto l’equilibrio che si era appunto realizzato tra l’esercito e la classe dirigente “civile” – corresponsabile peraltro della dura repressione dei gruppi etnici che popolano i confini del Paese. «Le minoranze etniche del Myanmar sono state oggetto di spietate campagne di controinsurrezione per decenni. Saw Kwe Htoo Win, vicepresidente dell’Unione nazionale Karen, ha affermato: “Non importa se i militari inscenano un colpo di stato, il potere è già nelle loro mani. Per noi nazionalità etniche, sia che la NLD sia al potere o che l’esercito prenda il potere in esclusiva, non cambia nulla, perché non ne facciamo ancora parte. Noi siamo quelli che continueranno a soffrire a causa di questo sciovinismo» (Chuang).

Scrive Emanuele Giordana: «Alla fine di agosto dello scorso anno si era tenuta una Conferenza di pacificazione nazionale tra governo, esercito e minoranze etniche che sembrava aver ottenuto buoni risultati, soprattutto perché «tutte le parti hanno concordato, per la prima volta, sull’idea di costruire uno stato federale. […] Ora però questa già difficile e fragile architettura rischia di andare in pezzi e di vanificare un’operazione che è stata la vera vittoria politica nazionale di Aung San Suu Kyi e della Lega proprio in quanto rappresentanti di un governo civile in grado di far apparire i militari non più l’unico arbitro di una possibile negoziato di pace ma solo dei comprimari. Il vero pericolo per il Myanmar viene da lì. Da un possibile riaccendersi dello uno scontro etnico-identitario e da una nuova spinta verso l’autonomia secessionista. Un elemento non solo di conflitto e sofferenza interna ma un puzzle che, andando in pezzi, rischia seriamente di minare l’intera stabilità regionale in gran parte del Sud-est asiatico e al confine meridionale cinese» (ISPI).

C’è da dire che le Forze armate birmane sono molto presenti e attive anche nell’economia “informale” (o “illegale”): narcotraffico, contrabbando di pietre preziose e di legni pregiati, eccetera. Nell’angolo remoto e roccioso nel quale si uniscono le frontiere del Laos, della Thailandia, della Birmania e della Cina da moltissimo tempo è fiorente la coltivazione del papavero per il mercato dell’oppio e altri suoi derivati oggi più di moda – soprattutto nelle società occidentali.

Scrive Lorenzo di Muro: «La posta in gioco era e resta l’intelaiatura del potere in Birmania. La partita geopolitica centrata sulla sfida indopacifica tra Pechino e Washington ha fornito la cornice utile al golpe delle Forze armate (Limes). La Cina per adesso sta a guardare, e probabilmente il Partito-regime non ha gradito l’iniziativa dei militari: il mantra dell’imperialismo cinese è infatti la difesa della stabilità politico-sociale che agevola la sua penetrante iniziativa economica. «Si tratta di affari interni a quel Paese, la cui sovranità va sempre rispettata»: come no! Anche la Thailandia, fedele alleata degli Stati Uniti e retta da una giunta militare, ha parlato degli avvenimenti birmani come di «affari interni», al pari di Cambogia e Filippine – i cui regimi politici com’è noto non sono esattamente “democratici”.

Alcuni analisti pensano invece che i militari birmani hanno agito, magari solo in parte, dietro una precisa “sollecitazione” cinese. Comunque sia, a questo punto la sconfitta dei militari potrebbe rappresentare per Pechino un pericoloso precedente: la resistenza di Hong Kong è stata infatti piegata, ma non ancora spezzata, e sotto la cenere della repressione e dell’emergenza pandemica la brace continua a bruciare.

Per Giorgio Cuscito, «La Cina non gioisce per il colpo di Stato in Myanmar, ma i suoi interessi strategici la obbligano a preservare i rapporti con il governo instaurato dal Tatmadaw, le Forze armate birmane. Pechino ha tre obiettivi. Il primo è evitare che il golpe comprometta il completamento del Corridoio economico sino-birmano. Il progetto serve ad accedere all’Oceano Indiano senza passare per lo Stretto di Malacca, presidiato dagli Stati Uniti. Il secondo è preservare l’accesso alle cospicue risorse energetiche e minerarie del vicino meridionale. La Repubblica Popolare è il primo partner commerciale del Myanmar e la sua seconda fonte di investimenti esteri dopo Singapore. Infine, da tempo il governo cinese vuole servirsi dell’appoggio di Naypyidaw per accrescere il suo soft power nel Sud-Est asiatico. Allo stesso tempo la combinazione tra golpe, epidemia di coronavirus, rallentamento economico e proteste (come quelle scoppiate a Yangon) rende il contesto birmano incerto e scoraggia Pechino a schierarsi definitivamente. La Repubblica Popolare non rinnegherà esplicitamente il dialogo instaurato negli ultimi anni con Aung San Suu Kyi (leader di fatto del paese) e la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) grazie agli investimenti e al sostegno sulla questione dei rohingya. Soprattutto, Pechino continuerà a interagire con i gruppi armati di etnia cinese del Nord del Myanmar per usarli come arma negoziale nei confronti del Tatmadaw» (Limes).

Come si sa, il Celeste Imperialismo è, sul piano politico-ideologico, molto “pragmatico” e “realista”, e alla fine esso sceglie sempre la carta che offre le più ampie garanzie ai suoi investimenti economici e geopolitici. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Cina ha prontamente bloccato la risoluzione che condannava il colpo di Stato dell’Esercito birmano, ma questo non esclude affatto che Pechino stia lavorando nell’ombra per un compromesso accettabile dai militari golpisti e dal partito della “Lady”.

L’inno della rivolta birmana del 1988 suonava così: «Non saremo soddisfatti fino alla fine del mondo». L’inno degli anticapitalisti di tutto il mondo suona invece come segue: «Non saremo soddisfatti fino alla fine del capitalismo/imperialismo». Lo so, ci tocca essere insoddisfatti ancora per molto tempo…

Limes

(1) Allora il colpo di Stato guidato dal generale Ne Win si spiegava soprattutto come un tentativo della fragile nazione birmana di non soccombere dinanzi alle rivolte dei vari gruppi etnici e di non lasciarsi fagocitare dal conflitto interimperialistico giocato nella regione del Sudest asiatico da Stati Uniti, Russia e Cina. Soprattutto quest’ultima incuteva molto timore nella classe dirigente birmana, sia perché la presenza cinese nell’economia (soprattutto in quella creditizia) del Paese cresceva di anno in anno, e anche perché Pechino ispirava l’azione di molti gruppi politici birmani, molti dei quali sostenevano la lotta armata delle etnie che rivendicavano l’indipendenza o quantomeno una maggiore autonomia. La «via birmana al socialismo» (sic!) si concretizzò in una nazionalizzazione di industrie, banche e attività commerciali che ebbe come immediato risultato la fuoriuscita dal Paese del capitale estero  e la morte del turismo (quasi tutti gli indiani e i cinesi presenti nel Paese fecero le valigie), cosa che precipitò la Birmania in una grave crisi economica di lunga durata. Quasi tutti i generi di prima necessità (riso, pesce, sale, olio da cucina, gamberi, latte, sapone, indumenti) vennero razionati. Il crollo dell’esportazione del riso ridusse drasticamente l’afflusso di divise estere nel Paese. La Birmania ricavava allora dal riso il 70% delle sue entrate in divise estere. Il primato dell’esportazione di riso che prima le apparteneva passò nelle mani della Thailandia. La crisi economica si fece sentire molto meno nelle zone rurali, le quali potevano contare su un’economia di sussistenza in grado di fornire cibo e indumenti in quantità sufficienti. Ne Win si giustificò dicendo che la priorità del Paese era quello di irrobustire la sua fibra morale corrosa dalla fascinazione del capitalismo occidentale, il quale prometteva ai Paesi del Sudest asiatico aiuti economici e militari solo per assoggettarli  economicamente e “spiritualmente”. I «diavoli della strada» (cioè i giovani) di Rangoon facevano il possibile per seguire la moda dei loro coetanei londinesi e italiani, e questo al generale sciovinista, che rimpiangeva i giorni della guerra («Allora eravamo tutti uniti, adesso ognuno fa per conto suo»), non andava affatto bene. Egli si diceva disposto a tutto, pur di conquistare e conservare uno straccio di indipendenza nazionale. La stessa logica infernale guiderà in Cambogia i Khmer rossi.

La Birmania diventa indipendente il 4 gennaio 1948. Nel 1885 i britannici avevano fatto di quel Paese una provincia dell’India. In seguito alla rivolta contadina del 1931, nel 1937 la Birmania venne separata dall’India e si vide riconosciuta dalla Gran Bretagna un’ampia autonomia politico-amministrativa.

(2) «Il presunto collegamento tra apertura politica ed economica non sembra più così chiaro. Invece, assistiamo a una transizione capitalistica lunga decenni, intrecciata con una varietà di forme politiche. Anche una breve occhiata ai vicini del Myanmar (Cina, Thailandia, Singapore) dimostra che il capitalismo difficilmente garantisce la democratizzazione. Qui spicca una certa configurazione del potere borghese. Sia in Myanmar che nella Grande Cina, ad esempio, un apparato statale centralizzato (i militari nel primo caso, una burocrazia del Partito-Stato nel secondo) ha navigato in una relazione tesa con frazioni borghesi separate dal regime, alcune delle quali sono politicamente liberali e più collegate a Capitale occidentale. Cosa significa rompere questo allineamento? In Myanmar, i militari non avranno più lo stesso accesso al capitale occidentale. Tuttavia, la lunga transizione capitalista del Myanmar è stata sempre alimentata molto di più dai capitali dell’Asia orientale e sud-orientale, che vanno dal suo tremolante settore dell’abbigliamento alle sue industrie agroalimentari in crescita e alle principali forme di estrazione di risorse (vale a dire petrolio e gas, in particolare le riserve di gas offshore della Thailandia, e i doppi oleodotti e gasdotti che scorrono verso lo Yunnan, Cina). L’agricoltura di semisussistenza continuerà a erodersi nelle vaste aree rurali del Myanmar e nelle zone montuose di confine man mano che il lavoro precario a basso salario si espande nei centri urbani» (Chuang). Qui per «transizione capitalistica» va inteso il passaggio da un’economia fortemente controllata dallo Stato (che chiamare “socialista” è a mio avviso semplicemente ridicolo, per non dire altro) a un’economia centrata sul capitale “privato”. Sulla natura sociale del capitale, statale o privato che sia, rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema.

 

 

 

 

 

 

A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. Sul concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale

La cooperazione degli operai comincia soltanto nel
processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno
già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono
incorporati nel capitale (K. Marx).

 

1. Studiare l’Industrial Smart Working e la cosiddetta Fabbrica Intelligente (cioè robotizzata e digitalizzata), chiamata anche Industria 4.0 e in altri mille modi (tutti ugualmente suggestivi e idonei alla mistificazione del rapporto sociale capitalistico da parte di economisti, sociologi e politici “modernisti”), ha avuto per me soprattutto il significato di ritornare a riflettere su un fondamentale concetto marxiano: la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale, con annessa dialettica tra sussunzione formale e sussunzione reale. Una dialettica che peraltro si presta benissimo, a mio avviso, come chiave di interpretazione analogica di molti e importanti fenomeni sociali che si danno fuori dai luoghi immediati della produzione del valore, e che investono appunto aspetti della nostra vita che sembrano non avere nulla a che fare con la sfera immediatamente economica. Di più: è proprio questa dialettica che, a mio avviso, giustifica l’uso – si spera non ideologico – del concetto di sussunzione totale della vita da parte del capitale, anche se è nella sfera produttiva (di plusvalore) che tale concetto trova il suo più pregnante e puntuale riscontro.

I teorici della Fabbrica Intelligente affermano che a differenza della vecchia fabbrica, quella di nuova concezione richiede agli operai non solo di eseguire gli ordini ma soprattutto di pensare (nientedimeno!), anche in “modalità creativa” e, addirittura, “critica” [1]. Ma si tratta di una truffa ideologica (vedi, ad esempio, il concetto di Coboticacollaborative robot –, che rimanda all’«assistenza collaborativa» del robot nei confronti del lavoratore), di un guazzabuglio terminologico inteso a capovolgere i termini della questione, a mistificare la realtà, la quale vede il capitale assorbire sempre più completamente nel proprio corpo il lavoratore. Marx parlava di lavoro vivo incorporato nel capitale – e il mio fin troppo suscettibile pensiero evoca subito certe scene particolarmente agghiaccianti del film La cosa! Certo, anche di Alien.

Il robot non assiste in modo collaborativo il lavoratore, come vuole la “cobotitica”, ma per un verso accelera enormemente l’obsolescenza di macchine e capacità lavorative, e per altro verso rende più produttiva ogni singola “risorsa umana”. Il concetto di uso capitalistico delle macchine dà perfettamente conto del ruolo che la robotica ha ormai da diverso tempo nel processo produttivo immediato e nella sfera economica nel suo complesso.

«Il futuro del lavoro è nelle nostre mani e l’intelligenza artificiale è solo l’ultimo anello di una lunga catena di straordinari sviluppi concepiti e realizzati dall’uomo» [2]. Mi permetto una piccolissima correzione: posto l’attuale status quo sociale il futuro è sempre più saldamente nelle mani del capitale, per conto del quale gli individui realizzano la  «lunga catena di straordinari sviluppi» tecno-scientifici che concorrono a tenerci ben stretti al carro del Dominio. Nella cosiddetta fabbrica digitale, come e più che nella fabbrica “analogica”, si parla una lingua sola: quella, appunto, del capitale – e non quella dell’Algoritmo, come vuole un certo pensiero feticistico. E unità di linguaggio significa dominio totale sui lavoratori, la loro totale integrazione nelle disumane necessità del Moloch.

«Da un lato l’economia digitalizzata e globalizzata ha delle esigenze, soprattutto in termini di flessibilità e professionalità, ignote alla società industriale novecentesca, dall’altra il lavoro intrecciato sempre di più con la conoscenza da un lato, e con la dequalificazione

e la precarietà dall’altro, pongono esigenze di personalizzazione dei rapporti di lavoro che vanno al di là della mera conservazione del posto (l’istituto chiave del diritto novecentesco)» Questa «personalizzazione» non si traduce affatto in un adattamento della “tecnologia intelligente” alle qualità e alle necessità dei lavoratori, ma, all’opposto, realizza una più completa adattabilità dal lavoro vivo al lavoro morto, alla “macchina intelligente” [3]. Il comando sul lavoro da parte del capitale è dunque il perno concettuale e – soprattutto – reale che ci permette di capire la società-mondo del XXI secolo e le molteplici/contraddittorie dinamiche (economiche, politiche, geopolitiche, ideologiche, ecc.) che lo modellano e rimodellano sempre di nuovo (più che “liquida”, oggi la vita appare gassosa), e con una rapidità che può sorprendere solo chi sottovaluta la potenza sociale del Moloch.

2. Sviluppando il concetto marxiano di sussunzione reale sulla base della società capitalistica del XXI secolo, quasi “naturalmente” giungiamo all’elaborazione del concetto di sussunzione totale, ossia di una piena integrazione del lavoro vivo nella prassi del capitale, che sembra non lasciare ai lavoratori che residuali brandelli di autonomia esistenziale. Tale concetto appare adeguato, sebbene assai più problematico dal punto di vista della teoria del valore (mi riferisco alla marxiana distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo), anche quando volgiamo l’attenzione sulla sfera economica considerata nella sua compatta (e disumana) totalità sociale e sulla vita quotidiana di tutti gli individui, sempre più asservita, fin nei minimi dettagli, alle esigenze del Moloch sociale. È proprio qui, a questo livello “esistenziale”, che il concetto adorniano di composizione organica dell’individuo, elaborato dal filosofo tedesco in analogia – in realtà si tratta di ben più che di una semplice analogia – con il noto concetto marxiano di composizione organica del capitale, trova a mio avviso una sua puntuale applicazione: «Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la sua coscienza di se stesso come un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria produttività, mentre di fatto l’individuo, nell’economia moderna, funge da semplice agente del valore. […] Decisiva, nella fase attuale, è la categoria della composizione organica del capitale. Con questa espressione la teoria dell’accumulazione intendeva “l’aumento della massa dei mezzi di produzione a paragone della massa della forza-lavoro che li anima”. Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo. […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”» [4]. Quando parliamo di mercificazione della vita umana (a partire dalla capacità lavorativa venduta e acquistata in guisa di merce) evochiamo un mondo (fatto di attività, di relazioni, di affetti, di speranze e di sogni) radicalmente disumano e disumanizzante che lascia ben poco oltre i suoi confini, i quali sono fatti della nostra stessa sostanza, e difatti nemmeno li consideriamo come tali. Quantomeno, chi è in carcere sa di essere segregato fisicamente dentro una dimensione che può toccare, vedere, annusare, concepire facilmente.

È con questa pessima realtà, che certamente non invita all’”ottimismo della rivoluzione”, che l’anticapitalista della nostra epoca deve fare i conti. Naturalmente a chi è incline alla facile depressione, è vivamente sconsigliato di approcciare il nostro respingente mondo senza una cospicua scorta di sostanze ideologiche – ma in questo caso egli si confronterebbe con un mondo che esiste solo dentro la sua testa “rivoluzionaria”. L’ideologia è l’oppio del “rivoluzionario” che soffre e non comprende: non pochi teorici della “biopolitica” condividono questa triste condizione.

Dall’organizzazione scientifica della produzione (taylorista, fordista e toyotista), siamo dunque passati all’organizzazione scientifica della vita di tutti e in tutto il mondo – essendo beninteso la scienza, insieme al suo “risvolto” tecnologico, una potente espressione del capitale. Ciò che fa della scienza della natura di questa epoca storica una scienza capitalistica non è, ovviamente (ma anche questo solo fino a un certo punto), l’oggetto del suo interesse, ossia la natura, ma i rapporti sociali dominanti che la rendono di fatto possibile e la potenza sociale (il Capitale) che la usa come un potente strumento di dominio e di sfruttamento dell’uomo e della natura. La natura capitalistica della scienza non ha dunque nulla a che fare con la volontà dei singoli scienziati: si tratta piuttosto di una determinazione oggettiva che si dà alle loro spalle e contro la loro stessa coscienza di individui desiderosi di lavorare per il bene dell’umanità.

Fin qui ho cercato di introdurre, lo ammetto un po’ alla rinfusa, alcuni concetti che adesso cercherò di chiarire.

Sussunzione formale, sussunzione reale: di che si tratta? La domanda è rivolta in primo luogo a me stesso, come retorica sollecitazione a ordinare meglio le idee, ma anche a chi non avesse ancora approfondito il fondamentale tema, con il consiglio di rivolgersi direttamente ai testi marxiani qui citati.

Nel Capitolo XIV della V Sezione del Primo libro del Capitale, Marx si sofferma sulla distinzione, reale e concettuale, che insiste tra  plusvalore relativo e plusvalore assoluto – la cui genesi egli tratta nella III Sezione (La produzione del plusvalore assoluto) e nella IV Sezione (La produzione del plusvalore relativo). In queste pagine egli nelle quali si dimostra come in regime capitalistico il processo lavorativo, che attiene all’aspetto oggettivo (tecnico, materiale, organizzativo) della produzione, è anche e fondamentalmente un processo di valorizzazione, ossia di creazione di un valore (espresso in denaro) maggiore  (un plus di valore) rispetto a quello investito nella produzione di una merce. Il concetto fondamentale da tenere bene in mente è che per Marx «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. […] Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serva all’autovalorizzazione del capitale. […] Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia» [5]. I concetti di lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che Marx riprende dall’economia politica “classica” [6], hanno un significato solo se riferiti al modo di produzione capitalistico e non intendono esprimere alcun giudizio di valore – se non nel senso appena visto: «esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia». Il concetto di lavoro salariato (il lavoro di cui parla anche la Costituzione Italiana all’Art 1) come maledizione sociale è al cuore della teoria marxiana del valore, e sotto questo aspetto i critici borghesi di Marx non hanno affatto torto, ovviamente sempre all’avviso di chi scrive, quando sostengono che il comunista di Treviri anche in campo economico non ha fatto scienza, ma piuttosto (tradotto nella “mia” vetusta terminologia) coscienza rivoluzionaria, coscienza di classe. Naturalmente qui si prende per buono il significato (ideologico nell’accezione marxiana del termine: pensiero falso, capovolto, “a testa in giù”) di scienza stabilito dal pensiero oggi socialmente dominante.

Purtroppo la pessima condizione dei nullatenenti non crea spontaneamente in loro una coscienza rivoluzionaria, non fa di essi una soggettività “ontologicamente” anticapitalista, come forse credono gli intellettuali sempre a caccia di nuovi “soggetti rivoluzionari” – del genere “operaio sociale”, “proletariato cognitivo” e via di seguito. Ma non divaghiamo!

Per quanto riguarda i concetti di lavoro produttivo e lavoro improduttivo, c’è da dire che la produzione e la vendita dei servizi in modalità mercantile (il servizio-merce) [7] non muta il carattere improduttivo della sfera dei servizi, la quale si appropria, sottoforma di profitto (commerciale, finanziario, genericamente “terziario”) una parte del plusvalore generato nella sfera capitalisticamente produttiva, cioè nell’industria e nel settore agricolo – distinzione, questa, puramente formale, soprattutto nel Capitalismo del XXI secolo.

Tutte le attività che per il capitale industriale rappresentano un mero costo, delle spese improduttive, pur essendo necessarie al processo di produzione considerato nella sua totalità («faux frais della produzione») [8], presto o tardi subiscono un processo di esternalizzazione che crea nuove attività per i capitali in cerca di profitti fuori della sfera industriale. La divisione sociale del lavoro si allarga e diventa sempre più complessa, finendo per rendere problematica la stessa individuazione della sua genesi, delle cause che l’hanno generata, e ciò confonde nella testa dell’economista superficiale (o volgare/triviale, per dirla con Marx) la fondamentale distinzione che passa tra attività produttive e attività improduttive – sempre capitalisticamente parlando. La complessità sul terreno economico è la madre di tutti i feticismi.

Tra l’altro, la mitizzazione feticistica dell’economia “immateriale” che domina la scienza economica dei nostri giorni, trascura una realtà che sta sotto gli occhi di tutti: la gigantesca varietà di merci che esistono oggi, la quale fa impallidire l’immane raccolta di merci di cui parlava Marx ai suoi tempi. Per non parlare della loro quantità. La continua moltiplicazione dei bisogni “artificiali” (ma sarebbe più corretto definirli senz’altro sociali) realizza la moltiplicazione delle merci chiamate a soddisfarli, e qui il marketing si fa davvero scienza sociale di prima grandezza. È sufficiente pensare, ad esempio, al numero di elementi materiali che compongono uno smartphone, per capire che soffochiamo, letteralmente e molto più di prima, dentro una «immane raccolta di merci». L’”Internet delle cose” realizza lunghissime catene del valore che coinvolgono, per ogni singolo prodotto, molti Paesi del primissimo come dell’ultimissimo mondo – pensiamo all’economia che gira intorno alla produzione del cobalto, del litio, delle terre rare, un’economia peraltro che odora molto di Imperialismo [9].

Il rapporto capitalistico di produzione (di “beni e servizi”) domina, in modo sempre più totalitario, l’intera sfera economica, ma questa realtà non ha significato il superamento della “vecchia” distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo (e tra plusvalore e profitto, essendo il primo la base “valoriale” di ogni tipologia di profitto e di rendita): si tratta di un limite storico insuperabile perché è immanente al concetto stesso di capitale.

Il fatto che il rapporto sociale capitalistico abbia sussunto sotto di sé qualsiasi attività lavorativa, producendo anche i servizi in guisa di “merci immateriali”, non significa affatto, come già detto, che qualsiasi attività lavorativa sia diventata produttiva – almeno nell’accezione marxiana del concetto, o, ancora più precisamente, all’idea che chi scrive si è fatto di quel concetto. Non tutti i lavori sottomessi al rapporto capitalistico sono per ciò stesso lavori produttivi.  Non lo sono, a mio avviso, quei lavori che producono a favore del capitale non plusvalore ma profitto, il quale è una forma derivata (secondaria) del primo, è una sua decurtazione (pensiamo al profitto commerciale che drena una fetta del plusvalore industriale). Il lavoro che produce profitto valorizza il capitale che lo sfrutta, e in questo ristretto senso tale lavoro può essere considerato produttivo; ma questo profitto non rappresenta la creazione di nuovo valore prima inesistente nella società, anzi ne rappresenta una diminuzione, appunto perché esso sorge attingendo a un plusvalore già esistente, e in questo senso quel lavoro è da considerarsi improduttivo se considerato socialmente, che poi è il solo punto di vista che permette di apprezzare la complessa dialettica tra plusvalore e profitto, tra valorizzazione primaria (basica) e valorizzazione secondaria (derivata). Questa dialettica ha un preciso riscontro nella guerra intercapitalista per la spartizione del plusvalore (che molti capitali incamerano sotto forma di profitto, di rendita e altro) e nella contraddittoria dinamica dell’accumulazione capitalistica – un problema che qui non è il caso neanche di sfiorare. Come sosteneva Marx, con la trasformazione del plusvalore in profitto si «nasconde sempre più la vera natura del plusvalore e quindi l’effettivo meccanismo del capitale», e questo già nel processo di formazione del saggio generale del profitto, ossia nell’esistenza del capitale che opera nella sfera produttiva di plusvalore come capitale sociale – media sociale dei capitali individuali [10].

È vero che ai tempi di Marx solo poche attività generatrici di servizi erano assoggettate al rapporto capitalistico, ma la distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo non riguarda l’estensione, più o meno grande, di quel rapporto alla sfera dei servizi, ma la stessa natura di essi, il loro essere «prodotto inseparabile dall’atto del produrre» [11]. La filiera capitalistica del valore fecondato dal lavoro vivo è la seguente: pluslavoro → plusprodotto → plusvalore; ossia: tempo (di lavoro) → prodotto (del lavoro) → denaro (espressione e sintesi dell’intero processo produttivo considerato socialmente). Per essere capitalisticamente produttivo il lavoro deve produrre plusvalore, non “semplice” profitto, il quale deriva concettualmente e realmente dal primo. La definizione marxiana del lavoro produttivo non è cioè riferita né ai valori d’uso dei prodotti del lavoro (materiali o immateriali che essi siano), né al profitto genericamente inteso, ossia a un generico arricchimento del capitale che sfrutta il lavoro.

Lo sviluppo capitalistico non è riuscito a superare i limiti oggettivi immanenti alla dialettica plusvalore-profitto, e solo la gigantesca circolazione di capitale fittizio in ogni sfera economica e sociale nasconde la natura storicamente vecchia e decrepita del capitale, cosa che appare evidente nelle crisi economiche generali, quando il gigantesco castello di carta costruito con valori economici puramente nominali crolla, lasciando a terra morti e feriti – metaforici e reali. È allora che la radice “valoriale” che tiene insieme la baracca capitalistica appare in tutta la sua putrescente e limitata esistenza. Naturalmente occorrono occhi giusti per vedere l’enormità della cosa. E qui ritorniamo al concetto di coscienza di classe che abbiamo già incontrato.

«Ogni lavoratore produttivo è un salariato, ma non per questo ogni salariato è un lavoratore produttivo. Se il lavoro viene comperato per essere consumato come valore d’uso, come servizio, anziché sostituirlo, come fattore vivente, al valore del capitale variabile e incorporarlo al processo di produzione capitalistico, questo lavoro non è un lavoro produttivo ed il salariato non è un lavoratore produttivo. Il suo lavoro, allora, è consumato in ragione del suo valore d’uso, non in quanto pone valore di scambio» [12]. L’uso del lavoro improduttivo crea un servizio di qualche tipo; l’uso del lavoro produttivo, invece, conserva il vecchio valore («capitale morto») e ne crea uno interamente nuovo (plusvalore), inesistente nella società prima dell’atto produttivo, oltre naturalmente ad aggiungere il suo proprio valore («capitale variabile», salario). Il profitto che il lavoratore improduttivo permette di incassare al suo padrone, non solo non rappresenta un valore assolutamente nuovo, ma si spiega, logicamente ed economicamente, solo a partire dalla creazione del plusvalore, la cui essenziale caratteristica è quella di provenire solo dal lavoro vivo, dall’atto immediato della valorizzazione attraverso la produzione, e da nient’altro. Il plusvalore appartiene interamente alla sfera della produzione; il profitto (quando non coincide, come accadeva soprattutto nella fase infantile del capitalismo, con il profitto industriale) nasce nella sfera della circolazione, nel cui seno prende corpo la produzione dei servizi.

«Questo fenomeno, che cioè con lo sviluppo della produzione capitalistica tutti i servizi si trasformano in lavoro salariato e tutti gli esecutori di questi servizi si trasformano in lavoratori salariati, che cioè essi hanno in comune questa caratteristica con i lavoratori produttivi, permette di scambiare i due termini tanto più perché è un fenomeno che caratterizza la produzione capitalistica e che è da questa creato. D’altra parte, permette agli apologeti di trasformare il lavoratore produttivo, poiché è un lavoratore salariato, in un lavoratore che scambia semplicemente i suoi servizi contro denaro. Con ciò viene felicemente ignorata la diversità specifica di questo “lavoratore produttivo” e della produzione capitalistica – come produzione di plusvalore, processo di autovalorizzazione del capitale il cui semplice agente incorporato è il lavoro vivo. […] Certi lavori improduttivi possono incidentalmente essere collegati al processo produttivo e il loro prezzo stesso può entrare nel prezzo delle merci e quindi il denaro speso per essi può rappresentare una parte del capitale anticipato ed il loro lavoro apparire come un lavoro che si scambia non con reddito ma direttamente con capitale» [13]. È lo stesso sviluppo capitalistico basato sullo sfruttamento sempre più scientifico della forza-lavoro a creare i presupposti per un’espansione dell’area capitalisticamente improduttiva: «Lo straordinario aumento raggiunto dalla forza-lavoro produttiva nelle sfere della grande industria, accompagnato com’è da un aumento, tanto in estensione che in intensità, dello sfruttamento della forza-lavoro in tutte le restanti sfere della produzione, permette di adoperare improduttivamente una parte sempre maggiore della classe operaia» [14]. Teniamo presente che Marx scriveva nel 1867, cioè sulla scorta di una base tecnoscientifica del capitalismo che oggi ci appare “preistorica” in tutti i sensi, e quindi non bisogna sorprendersi dell’enorme rigonfiamento dell’area improduttiva dell’economia capitalistica, al contrario! Piuttosto occorre mettere questa tendenza in intima relazione con la crescita della composizione organica del capitale e con il processo allargato dell’accumulazione capitalistica, per capire come tutta questa complessa e contraddittoria dialettica incide sul saggio medio sociale del profitto e, quindi, con l’andamento dei cicli economici – con ciò che ne segue, in linea di principio, sulla dinamica politica e sociale.

Sui concetti di valore, lavoro e denaro rinvio chi legge ai miei appunti di studio raccolti in due PDF: Il dominio dell’astratto (2019), Capitale monetario e capitale operante (2014).

3. Il processo produttivo capitalistico colto nella sua totalità sociale è in effetti qualcosa di molto complesso, ma l’analisi critica dei suoi molteplici momenti consente al pensiero che si sforza di afferrarne l’essenza (il processo produttivo capitalistico come processo di produzione di plusvalore) di farsi strada nella complessità senza rimanere incagliato nella sua caotica e contraddittoria fenomenologia. Quando non si vuole fare questo sforzo, o si ha in testa un’idea (meglio, un’ideologia) che per forza si vuol fare corrispondere alla realtà, si possono scrivere passi solo apparentemente radicali come quelli che seguono: «Nel contesto bioeconomico la produzione della ricchezza (valore aggiunto o surplus) ha cha fare sia con l’attività di produzione che di riproduzione della vita sociale stessa: diventa così molto più complicato distinguere tra lavoro produttivo, riproduttivo e improduttivo». Certo, difficile, ma non impossibile, tutt’altro, e certamente lo sforzo appare fondamentale per comprendere la reale dinamica del processo capitalistico, del conflitto sociale e delle politiche “suggerite” alla politica dalle classi dominanti. Riprendo la citazione: «Il lavoro – materiale, immateriale, cognitivo, corporale – produce e riproduce la vita sociale. L’impossibilità di distinguere produzione e riproduzione implica l’incommensurabilità del tempo e del valore. Un esempio eclatante è costituito proprio dal lavoro cognitivo, nel quale il ruolo della scienza, del sapere, degli affetti e della comunicazione sono tutte variabili che influenzano la dinamica della produttività, ma la cui origine non è declinabile a livello di singolo essere umano, ma solo come esito di un processo di cooperazione sociale. È ciò che Marx definisce il “general intellect”. Secondo Marx, ad un certo punto dello sviluppo capitalistico (che Marx proietta nel futuro), la forza-lavoro verrà fortemente intrisa della scienza, della comunicazione e del linguaggio. Il General Intellect è collettivo, intelligenza sociale creata dal processo di cumulazione del sapere, della tecnologia e del “know-how”. Il General Intellect è un bene comune, il cui valore non è misurabile».[15] È corretto scrivere che si tratta di «un punto dello sviluppo capitalistico che Marx proietta nel Futuro»? No. L’analisi marxiana presuppone infatti già nel presente (seconda metà degli anni Sessanta del XIX secolo) l’esistenza del carattere sociale («collettivo») della produzione capitalistica. Per il comunista di Treviri già allora il general intellect si dava come una forma di esistenza del capitale e come una sua formidabile forza produttiva, esattamente come lo è la cooperazione del lavoro che si sviluppa su basi capitalistiche: «La cooperazione degli operai comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Dunque, la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale. La forza produttiva sociale del lavoro si sviluppa gratuitamente appena gli operai vengono posti in certe condizioni; e il capitale li pone in quelle condizioni. […] Come la forza produttiva sociale del lavoro sviluppata mediante la cooperazione si presenta quale forza produttiva del capitale, così la cooperazione stessa si presenta quale forma specifica del processo produttivo capitalistico, in opposizione al processo produttivo dei singoli operai indipendenti o anche dei piccoli maestri artigiani. È il primo cambiamento al quale soggiace il reale processo di lavoro per il fatto della sua sussunzione sotto il capitale» [16]. Ciò che a mio avviso rende attuale, oggi più di ieri, la marxiana teoria del valore (che, è bene sempre precisarlo, è la teoria dello sfruttamento del lavoro vivo da parte del capitale mediante l’uso del capitale morto: macchine e quant’altro), è appunto il suo respiro sociale, il suo presupporre il carattere assolutamente sociale («collettivo») del capitale, e questo in un’epoca storica in cui nello stesso Vecchio Continente permanevano larghe sacche di economia precapitalistica.

È partendo da questo presupposto concettuale e reale (sebbene ai suoi tempi non ancora del tutto dispiegato) che Marx ha potuto sviluppare il fondamentale concetto di saggio medio –  sociale – di profitto che sta alla base del prezzo di produzione  e che fa della legge del valore una legge della produzione sociale in regime capitalistico. Produzione non di cose, di oggetti d’uso, ma di valore e di plusvalore, non dimentichiamolo mai – anche solo per non rimanere impigliati nel feticismo della Cosa che è anch’esso un dato strutturale (non meramente ideologico) di questa società. Ecco cosa Marx scriveva, ad esempio, a proposito della «Formazione di società per azioni»: «Il capitale, che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale, e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro, acquista qui direttamente la forma di capitale sociale contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso» [17]. Prima di andare oltre Marx, impresa peraltro ammirevole proprio perché non del tutto agevole, bisogna prima averne compreso le opere e il metodo critico-analitico, cosa che moltissimi innovatori della legge del valore mostrano di non saper fare.

Insomma, altro che «bene comune»! Piuttosto, bene del e per il capitale: «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate  in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» [18]. Marx non allude a una semplice tendenza storica, ma piuttosto a un modo necessario di essere del capitalismo nell’epoca della sussunzione reale del lavoro: egli si riferisce al suo presente, non al futuro. Ovviamente questa realtà non smette di svilupparsi, di approfondirsi, di radicalizzarsi, di espandersi (fino a inglobare l’intero pianeta e la nostra stessa “nuda vita”) senza tuttavia modificare i suoi tratti peculiari ed essenziali.

Ecco invece il futuro come viene fuori, sempre secondo il nostro comunista preferito, sul fondamento del presente capitalistico (e, ovviamente, dopo la rivoluzione sociale vittoriosa): «Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, dall’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza. […] Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore creato. Le forze produttive e le relazioni sociali – entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale – figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata» [19]. Tutto quello (la scienza, la tecnologia, la cooperazione sociale del lavoro, ecc.) che potrebbe emancipare i nullatenenti e, con essi, l’intera umanità, si presenta sul miserabile fondamento della società capitalistica come un formidabile strumento di dominio e di sfruttamento: solo la rivoluzione sociale anticapitalista è in grado, per Marx (e, assai più modestamente, per chi scrive), di liberare il processo di emancipazione universale oggi incatenato alla «base miserabile» di una società fondata sul «furto del tempo di lavoro altrui».

Detto solo en passant, va rilevato come nella concezione marxiana della Comunità umana (umanizzata) del futuro l’individuo («ogni individuo», «ogni membro di essa», «il libero sviluppo delle individualità») occupi il centro della scena, non sia cioè subordinato alla totalità sociale (magari rubricata come “bene comune”), come accade invece nella società capitalistica, il cui tanto propagandato “individualismo” cela la realtà di individui socializzati in senso atomistico e massificato. La libertà di ciascuno, il pieno sviluppo delle molteplici capacità individuali, la piena soddisfazione dei bisogni di ogni singolo membro della comunità: tutto questo rappresenta per Marx il fondamento di una Comunità autenticamente umana, creazione della libera e fraterna collaborazione degli individui che non conoscono la divisione classista degli individui, la divisione sociale del lavoro stabilità autoritariamente da qualcuno o da qualcosa (ad esempio, dallo stesso processo produttivo), lo Stato e tutto quello che connota una società informata da rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – la relazione di dominio di classe implica necessariamente la relazione di sfruttamento di classe, e viceversa.

«Col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo» [20]: è il Programma Comunista di Marx – e di chi scrive.

I teorici della fine del lavoro [21] ai tempi della sua robotizzazione più spinta e generalizzata, sono vittima di un grave abbaglio ideologico che spesso smotta senz’altro nel ridicolo. La centralità del lavoro vivo come esclusivo mezzo per la creazione del plusvalore è, come detto sopra, una maledetta realtà del XXI secolo che solo il pensiero incapace di profondità e radicalità critico-analitica non è in grado di comprendere. Mentre è dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso che quei fini intellettuali parlano, appunto, di fine del lavoro, decine di milioni di individui in tutto il mondo sono entrati ogni anno nella disumana dimensione del lavoro produttivo: dalla Cina all’india, dall’Africa ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo dell’Asia, contribuendo peraltro direttamente (nel mercato del lavoro) e indirettamente (con la svalorizzazione delle merci che compongono il paniere-salario) a una brusca svalorizzazione del lavoro vivo nelle società capitalisticamente avanzate dell’Occidente. La tesi della fine del lavoro si basa su una lettura superficiale e affrettata, oltre che ideologicamente orientata, dei fenomeni che travagliano il mondo della produzione negli ultimi trenta anni, come la precarizzazione del lavoro, l’esternalizzazione delle attività non immediatamente produttive un tempo svolte dalle imprese industriali, l’accelerazione nei processi di ristrutturazione tecnologica di quelle imprese, la delocalizzazione delle multinazionali, la globalizzazione capitalistica genericamente considerata, la finanziarizzazione di molte attività economiche, e così via.

4. Capitalisticamente parlando, è produttivo solo il lavoro che produce plusvalore, e non oggetti utili alla vita degli esseri umani, secondo una classica definizione dell’economia politica volgare. Scrive Marx: «Il prodotto specifico del processo di produzione capitalistico – il plusvalore – viene creato dallo scambio con lavoro produttivo» [22]. Il corpo della merce nasconde questa essenziale verità, per afferrare la quale occorre sottoporre la forma merce a un’analisi critica per così dire antifeticistica. Per capire il concetto di plusvalore occorre pensare la giornata lavorativa (ad esempio 7 ore di lavoro) come se fosse composta dalla somma di due distinte attività lavorative: in una (della durata ad esempio di 3 ore), il lavoratore riproduce il suo proprio valore [23], nell’altra (le rimanenti 4 ore) egli produce un plus di valore che il capitalista intasca a titolo puramente gratuito. Marx chiama tempo di lavoro necessario (a riprodurre la forza-lavoro) la prima parte della giornata di lavoro (3 ore), e tempo di lavoro superfluo quello erogato nel corso della seconda (4); ovviamente quello che appare superfluo dal punto di vista del lavoratore, è assolutamente necessario dal punto di vista di chi ne usa le capacità lavorative in vista di un profitto – nel nostro esempio elementare profitto e plusvalore si equivalgono. Si tratta di due punti di vista inconciliabili, ancorché entrambi legittimi sul fondamento della società capitalistica; due differenti prospettive “esistenziali” (sociali) che stanno alla base dell’antagonismo Capitale-Lavoro immanente al concetto stesso di capitale – il quale include quello di lavoro salariato. Il fondamento oggettivo (e al contempo soggettivo, perché afferisce al solo lavoro vivo) del plusvalore è il pluslavoro, che come abbiamo visto Marx chiama anche lavoro superfluo. L’oggettivazione “cosificata” del pluslavoro si ha nel plusprodotto, secondo la filiera del valore che abbiamo già incontrata. Il plusprodotto naturalmente lo incontriamo anche nelle economie precapitalistiche, mentre il plusvalore è un prodotto tipico dell’economia capitalistica, la quale generalizza la forma-merce (a partire dal lavoro) e la forma-denaro.

Il capitalista ha due modi per incrementare il plusvalore smunto al lavoratore: o allunga in modo assoluto la giornata lavorativa (portandola, nel nostro esempio, da 7 a 8), oppure, a parità di giornata lavorativa, la allunga solo relativamente al tempo di lavoro superfluo (da da 4 a 5), il che implica necessariamente un simultaneo accorciamento del tempo di lavoro necessario (da 3 a 2). Ma come può realizzarsi questo spostamento temporale senza toccare i limiti della giornata lavorativa?  Con l’introduzione delle macchine, e non in una singola impresa, o in un solo ramo industriale, ma in tutta la sfera industriale e, in linea di principio (è la realtà del XXI secolo), in tutte le attività sociali. Infatti, l’uso delle macchine rende molto più produttivo il lavoro, riducendo in tal modo il tempo di lavoro necessario a riprodurre la vita del lavoratore – e della sua famiglia. È chiaro che qui si affaccia una dinamica storico-sociale che riguarda il processo capitalistico considerato nel suo sviluppo, nel suo incessante rivoluzionamento tecnologico e sociale, almeno a partire dalla Prima rivoluzione industriale – la cui datazione non è univoca: alcuni la fanno iniziare dal primo decennio successivo alla metà del XVIII secolo, altri ne individuano l’inizio già nel XVII secolo.

La sottomissione del processo lavorativo al capitale sulla base di un processo lavorativo preesistente e non modificato, accomuna il capitalismo dell’infanzia ai precedenti modi di produzione, tutti basati sullo sfruttamento di chi per vivere è costretto a lavorare sotto un padrone di qualche tipo.

Prima di andare avanti, ritengo utile una rapida precisazione riguardante l’uso che Marx fa del termine “capitalista”: «Il capitalista stesso è solo un detentore di potere in quanto personificazione del capitale (per cui, nella contabilità italiana, appare sempre come doppia figura, per esempio come debitore del suo proprio capitale)» [24]. Ciò che nella marxiana analisi critica della società capitalistica è essenziale non è il singolo capitalista, e nemmeno la classe dei capitalisti, ma il rapporto sociale capitalistico di produzione, il quale dà corpo, come già sappiamo, a una relazione di dominio e di sfruttamento – degli individui e della natura. Anche in questo senso per Marx non fa alcuna differenza se a sfruttare la capacità lavorativa è un singolo capitalista, un consorzio di capitalisti, oppure lo Stato come «capitalista collettivo», secondo la celebre definizione di Engels. Anche ai capitalisti il prodotto della prassi sociale considerata nella sua totalità appare come una potenza sociale che sfugge al loro controllo, come un Moloch cresciuto alle loro spalle e che essi possono vedere solo post festum, a cose fatte. Ed è per questo che la razionalità capitalistica, che si fonda su un uso sempre più esteso e capillare della tecnoscienza, in ogni attività umana, ha necessariamente come suo più autentico prodotto una condizione umana essenzialmente irrazionale. Marx tratta l’operaio e il suo padrone «come funzionari personificati» del rapporto sociale di produzione capitalistico. Ovviamente questa complessa dialettica sociale non ha lo stesso impatto sulla classe dominante, che ha tutto l’interesse a difendere il rapporto sociale capitalistico, e sulla classe dominata, che ha l’interesse esattamente opposto. Nella buia notte del dominio capitalistico non tutte le vacche hanno lo stesso colore. E infatti Marx osserva che «sbagliano coloro che intendono sussumere operai e capitalisti sotto il rapporto generale di possessori di merci facendone l’apologia e cancellando la loro differentia specifica» [25]. Un conto è la merce non vivente, un conto affatto diverso è la merce vivente (il lavoratore), il cui valore d’uso realizza la sua disgrazia sociale e la fortuna e il potere del suo acquirente – del capitalista. Su questi temi rimando al PDF Dialettica del dominio capitalistico – che vedi Testi scaricabili.

5. Con l’uso della tecnoscienza e lo sviluppo della capacità di lavoro socialmente combinata («lavoro collettivo») la società, qui considerata come una gigantesca fabbrica che produce lavoratori, accorcia dunque il tempo di lavoro necessario a produrre un lavoratore (e la sua famiglia). «Quando un singolo capitalista riduce più a buon mercato p. es. le camicie mediante un aumento della forza produttiva del lavoro, non è affatto necessario che si proponga il fine di far calare pro tanto il valore della forza-lavoro e quindi il tempo di lavoro necessario; ma egli contribuisce ad aumentare il saggio generale del plusvalore solo in quanto e per quanto finisce per contribuire a quel risultato di far calare il valore della forza-lavoro» [26]. Il singolo capitalista non lo sa, ma lo fa. La riduzione del prezzo di tutte le merci e i servizi che finiscono nel paniere che alimenta la vita dei lavoratori e delle loro famiglie presto o tardi finiscono per ridurre il prezzo della stessa capacità lavorativa, e questo causa la contrazione del tempo necessario del lavoro che consente al tempo di lavoro superfluo di espandersi senza arrecare danno alla “sana” e “civile” produzione della capacità lavorativa, del lavoratore, il quale ha bisogno di cibo, di vestiario, di alloggio, di istruzione, di qualche divertimento e di tutto quello che gli serve per vivere in quanto lavoratore.

Diminuisce il lavoro necessario a produrre i lavoratori, e cresce il pluslavoro, e quindi il plusvalore. Storicamente il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario tende a crescere, anche a parità di paniere-salario o con un relativo incremento di esso. Infatti, «il prolungamento del pluslavoro deve derivare dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario, e non viceversa, cioè l’accorciamento del tempo di lavoro necessario non deve derivare dal prolungamento del pluslavoro» [27]. Ovvero, e come già sappiamo, è l’accorciamento del tempo di lavoro necessario che consente al pluslavoro di crescere, perché viceversa il lavoratore non potrebbe riprodursi giorno dopo giorno come lavoratore salariato, e presto diventerebbe una risorsa inutile per il capitale.

Nel primo esempio fatto sopra (produzione di plusvalore assoluto a composizione tecnica del capitale invariata), per incrementare il plusvalore il capitalista può scegliere sia un’intensificazione del lavoro  a parità di ore lavorate che un prolungamento assoluto della giornata di lavoro, oppure può fare entrambe le cose, scelta che implica un rapido logoramento fisico e psichico della forza-lavoro, che deve essere rimpiazzata continuamente con forza-lavoro ancora “fresca”. In questo modo il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale aumenta in modo assoluto tanto per ciò che concerne il tempo (da 7 a 8 ore di lavoro), quanto per ciò che riguarda la densità del lavoro: si lavora più a lungo e di più.

Come ricorda Marx, il superamento della produzione manifatturiera [28] attraverso l’introduzione delle macchine nel processo produttivo, e quindi con la creazione della moderna industria capitalistica, in un primo momento sortì l’effetto di 1) allargare enormemente la base del lavoro vivo pronto a venir impiegato produttivamente, e di 2) declassare i lavoratori prima impiegati nella manifattura e nella produzione artigianale vera e propria. «In quanto le macchine permettono di fare a meno della forza muscolare, esse diventano il mezzo per adoperare operai senza forza muscolare o di sviluppo fisico immaturo, ma di membra flessibili. Quindi lavoro delle donne e dei fanciulli è stata la prima parola dell’uso capitalistico delle macchine! […] Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia operaia, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza-lavoro dell’uomo, e quindi svalorizzano la forza-lavoro di quest’ultimo. […] Così le macchine allargano fin dal principio anche il grado di sfruttamento, assieme al materiale umano da sfruttamento che è il più proprio campo di sfruttamento del capitale» [29]. Marx riporta le inchieste parlamentari e mediche ufficiali che documentavano il terribile grado di deterioramento fisico, psicologico e morale della famiglia operaia: «Come ha dimostrato un’inchiesta medica ufficiale nel 1861, gli alti indici di mortalità si devono, prescindendo dalle condizioni locali, prevalentemente all’occupazione extradomestica delle madri, donde deriva che i bambini sono trascurati, maltrattati, fra l’altro sono nutriti in modo inadatto, mancano di nutrizione, vengono riempiti di oppiacei, ecc; al che si aggiunge l’innaturale estraniamento delle madri nei riguardi dei loro figli, con la conseguenza dell’affamamento e dell’avvelenamento intenzionale» [30]. Dinanzi alla cieca brama di plusvalore del singolo capitalista, che distruggeva con sorprendente rapidità la stessa materia prima che rende possibile la creazione del valore, cioè i lavoratoti, lo Stato, in quanto organo che difende gli interessi generali del capitale; lo Stato come difensore massimo e di ultima istanza del rapporto sociale capitalistico, si vide costretto a porre degli argini legali all’«autocrazia del capitale» che non conosceva alcun limite. Si iniziò così a legiferare sull’orario massimo di lavoro, sul lavoro dei bambini e delle donne, sull’igiene nei posti di lavoro e così via, anche perché i lavoratori iniziarono a capire che interrompendo il lavoro arrecavano un grave danno ai loro padroni, cosa che dava loro una importante carta da giocare contro gli istinti più brutali del Moloch. Lo sviluppo di una coscienza di classe, sebbene ancora debole e confusa, non poteva non richiamare l’attenzione della politica, almeno della sua parte più intelligente e lungimirante, fatta di gente che capiva fino a che punto poteva essere distruttivo un capitalismo del tutto privo di regole. Fin dall’inizio il riformismo si sviluppa come il più intelligente e duttile strumento di conservazione sociale, perché non si può esercitare il potere sociale sui nullatenenti solo con il bastone. Anche la democrazia capitalistica ha questo fondamentale significato socialmente conservativo.

6. Storicamente parlando, il capitale prende possesso di una determinata attività lavorativa già esistente, ma non la trasforma radicalmente dal punto di vista tecnologico e organizzativo: il contadino e l’artigiano vengono sussunti sotto il rapporto sociale di produzione capitalistico, ma continuano a lavorare sostanzialmente come prima, senza cioè modificare di molto il loro modo di produrre e di organizzarsi. Il contadino e l’artigiano trasformati in salariati hanno, per così dire, un piede ancora dentro il vecchio mondo, quanto a strumenti di lavoro (con una dotazione tecnologica assai scarsa) e a organizzazione del lavoro, e l’altro dentro il nuovo mondo, quello capitalistico, appunto, quanto a rapporto sociale di produzione. Il lavoratore salariato, manifatturiero o agricolo che sia, conserva ancora un certo grado di autonomia esistenziale rispetto al processo tecnico-organizzativo. In questo quadro, e come abbiamo visto nell’esempio riportato sopra, se il capitale vuole estorcere al lavoratore agricolo o manifatturiero una maggiore quantità di plusvalore deve farlo lavorare più intensamente, logorandone più rapidamente le capacità psicofisiche, oppure deve usarlo (sfruttarlo) per un tempo più lungo, cosa che comunque alla lunga produce anch’essa un grave deterioramento delle capacità produttive del lavoratore. Naturalmente può fare entrambe le cose, soprattutto quando può contare su una massa quasi illimitata di forza-lavoro da cui attingere. Come già sappiamo, Marx chiama il plusvalore estorto in questa modalità plusvalore assoluto, e definisce sussunzione formale del lavoro sotto il capitale la relazione che si stabilisce tra capitale e lavoro. Il termine formale si riferisce in realtà all’essenza sociale stessa del Capitalismo, ossia alla vigenza del rapporto sociale di produzione capitalistico, la cui genesi ha come cuore pulsante il progressivo, e spesso brutale, allontanamento del produttore immediato (il lavoratore) dalle condizioni oggettive della produzione, le quali cadono, insieme al prodotto del lavoro, nell’esclusiva (monopolistica) disponibilità del capitale. Una parte del prodotto incamerato dal capitale ritorna al lavoratore sotto forma di salario. Che la proprietà delle condizioni oggettive della produzione (macchine, materie prime, edifici, mezzi di trasporto, ecc.) abbia una natura giuridica privata o pubblica (statale), ciò non muta di un solo atomo l’essenza del rapporto sociale capitalistico, il cui significato consiste nell’esistenza di esseri umani che per vivere sono costretti a vendere in guisa di merce capacità intellettuali e manuali, mercificando con ciò stesso la loro intera esistenza – e non solo la loro attività lavorativa. Il lavoro salariato non rende liberi, né dà dignità a chi è costretto a praticarlo. Questo è bene precisarlo contro gli statalisti (di “destra” e di “sinistra”) e contro gli apologeti dell’”onesto lavoro”, del salario portato a casa con il volto imperlato di sudore e la coscienza piena di dignità: miseria del pensiero etico dominante!

Scrive Marx: «La produzione del plusvalore relativo presuppone un modo di produzione specificamente capitalistico. […] Al posto della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale subentra quella reale. […] Le forze produttive del lavoro storicamente sviluppate, cioè sociali, si presentano come forze produttive del capitale al quale il lavoro viene incorporato» [31]. Il capitale si crea un ambiente tecnologico e organizzativo del tutto peculiare rispetto ai modi di produzione precapitalistici, un ambiente produttivo creato a sua immagine e somiglianza. Mentre noi possiamo benissimo concepire un capitalismo che in certe epoche o in determinate condizioni nazionali di arretratezza economico-sociale usi tecnologia storicamente superata, non possiamo invece concepire una società precapitalistica che faccia uso della tecnologia sviluppata sulla base del moderno capitalismo: questo ci suona infatti francamente anacronistico. Nell’antichità non era affatto sconosciuta la potenza straordinaria del vapore, ma essa non venne mai applicata nella produzione, la cui base tecnica continuò per secoli a basarsi soprattutto sulla forza muscolare degli uomini; la forza del vapore fu invece applicata per scopi ludici, o in attività del tutto secondarie e in ogni caso mai per soppiantare la forza umana o per renderla più produttiva: mancavo il concetto stesso di un simile uso della tecnologia. In epoca di sussunzione reale, caratterizzata dall’estrazione del plusvalore relativo, la rivoluzione del processo produttivo diventa un dato strutturale e permanente, ed è anche per questo che ha poco senso parlare oggi di quarta o quinta “rivoluzione industriale”.

Apro una breve parentesi “utopica” – relativa cioè a quello che ancora non esiste e che forse non esisterà mai, pur avendo questa “cosa” nel presente le sue solidissime premesse. Come il capitalismo si è creato un ambiente tecnologico e organizzativo adeguato alla sua natura, analogamente una futura ipotetica Comunità umana (umanizzata) non potrebbe non realizzare un ambiente produttivo a sua immagine e somiglianza. Così come c’è un uso capitalistico della tecnoscienza e una struttura organizzativa adeguata a questo uso, allo stesso modo deve esserci un  uso umano (umanizzato) delle tecnologie e una corrispondente organizzazione comunitaria del lavoro. Non esistono tecnologie e modelli organizzativi buoni per tutte le epoche storiche, e una Comunità che fosse centrata sulla piena autorealizzazione degli individui che collaborano per il bene, la felicità e la libertà di ciascuno e di tutti, saprebbe a mio avviso creare un ambiente produttivo in grado di soddisfare questo assoluto imperativo umano, accettando l’uso di determinate tecnologie e di determinati “paradigmi” organizzativi e scartandone altri. In una Comunità umana, non tutto ciò che è possibile realizzare e usare viene effettivamente realizzato e impiegato, ma solo quello che, per così dire, supera il vaglio dell’ufficio Qualità Umana. Chiudo la parentesi “utopica” e ritorno alla miseria dell’oggi.

7. Scrive Marx: «Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento, tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario [nobile] ateniese», teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista» [32]. Marx osserva che nell’epoca della sussunzione formale (la quale, non dimentichiamolo, ha posto le basi per l’epoca successiva e ha lasciato sul corpo di quest’ultima ferite profondissime e ancora oggi sanguinanti) nel capitalista «la voracità di plusvalore si presenta nell’impulso a uno smodato prolungamento della giornata lavorativa»; e questo anche perché «il capitale, come abbiamo già osservato, è in un primo momento indifferente di fronte al carattere tecnico del processo di lavoro del quale si impadronisce: in un primo momento lo prende come lo trova» [33].

Marx trattò diffusamente il passaggio dalla sussunzione solo formale a quella reale in un quaderno che portava il titolo che segue: Libro primo. Il processo di produzione del capitale. Capitolo sesto. Risultati del processo di produzione immediato. Questo Capitolo sesto, scritto intorno al 1865 (secondo alcuni traduttori sarebbe stato scritto fra il 1863 e il 1866, secondo altri nel 1864), e che Marx non incluse nell’opera pubblicata nel 1867 (Il Capitale), rimase inedito fino al 1933; esso rappresenta all’avviso di tutti gli studiosi del Capitale un concentrato di elaborazione teorica intorno alla concezione marxiana del plusvalore davvero eccezionale. Mi unisco umilmente al loro autorevole giudizio. Leggiamone allora qualche altro passo.

La «sottomissione reale del lavoro al capitale» segnala la nascita «di un modo di produzione specificamente capitalistico (anche dal punto di vista tecnologico) sulla base del quale e con il quale si sviluppano contemporaneamente e subito i rapporti di produzione, corrispondenti al processo di produzione capitalistico, tra i diversi agenti della produzione, e, specialmente, tra capitalista e salariato. […] Le forze produttive sociali del lavoro, ovvero le forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (comunitario) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’uso delle macchina e, soprattutto, la trasformazione del processo produttivo in utilizzazione consapevole delle scienze naturali, meccanica, chimica, tecnologica etc. per scopi precisi; […] questo sviluppo della forza produttiva del lavoro associato, in opposizione al lavoro isolato dei singoli etc., e, con esso, l’applicazione della scienza al processo di produzione immediato, tutto ciò si presenta come forza produttiva del capitale, non come forza produttiva del lavoro, nella misura in cui esso è identico al capitale. La mistificazione propria del rapporto capitalistico si sviluppa ora molto di più di quanto avvenisse o potesse avvenire nel caso della sottomissione solo formale del lavoro al capitale» [34]. La tecnica e la scienza (la tecnoscienza) vengono ad assumere un ruolo fondamentale nella sottomissione reale, a cominciare dal fatto che esse rendono possibile la creazione del plusvalore relativo attraverso una continua crescita della produttività del lavoro. Se è vero che la produzione del plusvalore relativo rappresenta il paradigma del moderno capitalismo, la creazione del plusvalore assoluto attraverso un prolungamento “fisico” (temporale) della giornata lavorativa non esce affatto dall’orizzonte capitalistico del XXI secolo, anche se questa modalità estorsiva rimane confinata nei settori industriali (agricoltura compresa) tecnologicamente meno avanzati.

A proposito: sussunzione o sottomissione? I due termini si equivalgono? Scrive Marx: «Nella manifattura e nell’artigianato [sussunzione formale] l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica [sussunzione reale] è l’operaio che serve la macchina. Là dall’operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane» [35]. «Gli operai gli sono incorporati come appendici umane»; «il lavoro vivo – all’interno del processo produttivo – è già incorporato al capitale»; assistiamo alla «reale incorporazione del lavoro vivo nella forma d’esistenza oggettiva del capitale», al suo «reale assorbimento» [36]: qui gira, per così dire, a pieno regime il concetto di sussunzione reale non come mera sottomissione/subordinazione del lavoro al capitale, ma soprattutto come inclusione del primo nella sfera del secondo.  Il concetto marxiano di autovalorizzazione del capitale, del capitale che valorizza se stesso senza il bisogno di qualcosa che arrivi dall’esterno, si comprende solo alla luce dell’assorbimento del lavoro vivo nel concetto di capitale. Il lavoro vivo “si fa” capitale, è capitale.

È Marx che usa due diversi termini (Subsumtion e Einreichung) per esprimere lo stesso concetto (il pieno dominio del capitale sul lavoro) oppure sono i suoi traduttori a scegliere discrezionalmente i due corrispondenti termini italiani (sussunzione e sottomissione, spesso anche subordinazione)? Penso cha la prima ipotesi sia quella corretta. In ogni caso personalmente trovo più conforme al concetto marxiano sopra richiamato il termine sussunzione, tanto più alla luce della società capitalistica del XXI secolo.

Come spiegano i dizionari, sussumere deriva dal latino sumĕre, ossia prendere, assumere. «Sussumere: nella logica formale, ricondurre un concetto nell’ambito di un concetto più generale nella cui estensione esso è compreso». È questo l’uso che di questo concetto fa la filosofia idealistica tedesca: da Kant a Hegel, passando per Schelling. Soprattutto Hegel adopera il concetto di sussunzione in modo fecondo, perché lo problematizza ponendo il focus nella relazione che insiste tra ciò che sussume (l’universale) e ciò che viene sussunto (il particolare). Marx trasporta il concetto di sussunzione definito dalla logica nell’ambito dei rapporti sociali di produzione. Il capitale domina e fa suo il lavoro non come se quest’ultimo si trovasse al suo esterno, come se gli fosse ontologicamente estraneo, ma come qualcosa che gli appartiene organicamente, come una sua fenomenologia, una realtà fatta della sua stessa sostanza. «Il lavoro vivo – all’interno del processo produttivo – è incorporato al capitale» [37]. Incorporare, portare dentro, inglobare, in una sola parola: sussumere. La relazione di sussunzione è insomma una relazione di dominio che si consuma senza residui all’interno della forma-capitale. Lo stesso antagonismo tra capitale e lavoro salariato, che sta alla base della lotta di classe nella moderna società capitalistica, “cade” a mio avviso nella dimensione concettuale e reale qui sommariamente delineata.

8. Abbiamo visto che nel passaggio dalla sussunzione formale del lavoro sotto il capitale a quella reale centrale è il concetto di uso capitalistico della scienza e della tecnologia [38]: «La scienza, come prodotto intellettuale generale dello sviluppo sociale, appare qui come direttamente incorporato al capitale. […] Nella macchina la scienza realizzata appare di fronte agli operai come capitale» [39]. E a proposito di uso capitalistico della tecnoscienza, ecco una tipica manifestazione di pensiero feticista che crede di essere un pensiero critico-radicale: «Per decenni, il movimento ambientalista anti-industriale radicale ha esposto la doppia aggressione tecno-industriale: la distruzione della natura, che è inseparabile dalla distruzione della libertà. […] Nella “guerra” contro il virus, è la Macchina che vince. La Macchina Madre ci tiene in funzione e si prende cura di noi. […] La crisi sta aprendo finestre di opportunità per il potere tecnocratico di intensificare la sua presa tecnologica. Quelli che ancora aspirano a una vita libera hanno contro di loro il tecno-totalitarismo, le masse mimetiche, la volontà di potenza. Sopravvivono su una Terra devastata. Non importa quanto sia brutta la situazione, deve rafforzare la nostra determinazione a vivere contro il nostro tempo; finché rimane possibile essere qualcuno, non solo qualcosa. Una persona, non una machina» [40]. Se non si comprende che «l’organizzazione sociale basata sul primato dell’efficienza e della razionalità tecnica» è l’organizzazione sociale che il capitale ha imposto a tutti i Paesi del mondo; se non si capisce che chi sta vincendo la partita non è «la Macchina» ma, appunto, il Capitale; che il tecno-totalitarismo è l’espressione socialmente più “sofisticata” del totalitarismo capitalistico, ossia del dominio totalitario dei rapporti sociali capitalistici; ebbene, se non si comprende questo, che rappresenta a mio avviso l’ABC di un pensiero autenticamente critico-radicale, «vivere contro il nostro tempo» rimane una vuota quanto suggestiva frase che non si avvicina di un solo millimetro alla verità delle cose – e quindi all’elaborazione di una prassi politica adeguata a questa epoca storica.

«Del macchinario si abusa per trasformare l’operaio stesso, fin dall’infanzia, nella parte di una macchina parziale», scrive Marx analizzando il modo in cui le «potenze mentali» della scienza si sono trasformate in poteri del capitale sul lavoro» [41]. Questo solo per dire che non viviamo in una «società tecno-industriale» astrattamente considerata, priva di una peculiare determinazione storico-sociale: viviamo in una società capitalistica dalle dimensioni planetarie – ma forse il Collettivo francese qui citato è vittima della menzogna colossale che riguarda il “socialismo reale” (leggi: reale capitalismo), la cui «società tecno-industriale» non era (e non è: vedi la Cina di Xi Jinping!) poi meno cattiva di quella occidentale.

 

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[1] «Nel lavoro taylorista la produttività era legata all’implementazione da parte dell’operaio del modello ‘scientifico’ dell’attività lavorativa ritenuto più efficiente e stabilito dalla direzione. Il modello era composta da una serie di atti finalizzati alla realizzazione ‘razionale’ del prodotto, cioè col maggiore risparmio di tempo e quindi al minor costo possibile. Finalità di efficienza ovviamente presenti, anzi incrementate con quella della qualità del prodotto, nell’Industria 4.0. Ma il fordismo, dal punto di vista dell’operaio, era il trionfo del comportamentismo, gli stati mentali venivano sempre dopo, mentre nel 4.0 si pone al centro la questione del coinvolgimento emotivo e personale del lavoratore, valorizzando al massimo questo tipo di obiettivi già avanzati nei decenni precedenti dalla lean production. D’altra parte, senza partecipazione attiva non è possibile implementare l’innovazione. L’innovazione tecnologica richiede in maniera non occasionale e strutturale il “coinvolgimento” e la “partecipazione” del lavoratore» (G. Mari, Introduzione a Il lavoro 4.0 La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, p. XXX Firenze University Press, 2018).
[2] Il futuro del lavoro tra intelligenza artificiale e automazione, Industria Italiana, 18 ottobre 2018.
[3] G. Mari, Introduzione a Il lavoro 4.0 La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, p. XXIV.
[4] T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994.
[5] Karl Marx, Il Capitale, I, p. 556, Editori Riuniti, 1980.
[6] «Nel quarto libro di quest’opera, che tratterà la storia della teoria, si vedrà più da vicino come l’economia classica abbia sempre fatto della produzione del plusvalore la caratteristica decisiva dell’operaio produttivo. E quindi la sua definizione dell’operaio produttivo varia col variare della sua concezione della natura del plusvalore. Così i fisiocrati dichiararono che solo il lavoro agricolo è produttivo, perché esso soltanto fornisce un plusvalore. Ma il fatto è che per i fisiocrati il plusvalore esiste esclusivamente nella forma di rendita fondiaria» (Ibidem, p. 556). I manoscritti marxiani che trattavano la storia della teoria del plusvalore vennero pubblicate da Karl Kautsky tra il 1905 e il 1910, col titolo di Teorie del plusvaloreStoria delle teorie economiche, Einaudi, 1954.
[7] «La produzione capitalistica rende la merce la forma generale di ogni prodotto» (Karl Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 96, Newton Compton, 1976). Di ogni prodotto, “materiale” o “immateriale” che sia.
[8] «In quanto forma ibrida che si colloca tra la sfera produttiva e quella della circolazione, il settore della logistica merita una trattazione particolare, che qui è il caso di tralasciare. […] Scrive Marx: “L’industria dei trasporti costituisce da un lato un ramo autonomo della produzione, e perciò una particolare sfera di investimento del capitale produttivo. D’altro lato, si distingue perché appare come la continuazione di un processo di produzione entro il processo di circolazione e per il processo di circolazione» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 156, Editori Riuniti, 1980). […] Per Marx il mutamento di luogo dell’oggetto di lavoro è assimilabile a un mutamento nella sostanza di questo stesso oggetto, e questo perché “il valore d’uso delle cose si attua soltanto nel loro consumo, e il loro consumo può rendere necessario il loro mutamento di luogo, cioè l’aggiunto processo di produzione dell’industria dei trasporti. […] All’interno di ogni processo di produzione il mutamento di luogo dell’oggetto di lavoro e i mezzi di lavoro e le forze-lavoro a ciò necessari – ad es., cotone che dalla sala di cardatura passa alla sala di filatura, carbone che dal pozzo viene portato alla superficie – hanno una parte di grande importanza. Il passaggio del prodotto finito in quanto merce finita da un luogo di produzione autonomo in un altro da questo spazialmente distante mostra lo stesso fenomeno, solo su una scala più grande. Al trasporto dei prodotti da un luogo di produzione in un altro segue ancora quello dei prodotti finiti dalla sfera della produzione nella sfera del consumo. Il prodotto è pronto per il consumo solo quando ha compiuto questo movimento” (ibidem, p. 154)» (S. Isaia, Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 2012, pp. 131-133, 2012).
[9] «Tutti noi oggi facciamo largo uso di cellulari, tablet, computer portatili e altri dispositivi elettronici portatili e tutti noi spesso imprechiamo a causa della scarsa durata delle batterie al litio ricaricabili che li fanno funzionare. Pochi di noi però hanno la consapevolezza del fatto che il cobalto, elemento grazie al quale si riesce a produrre quelle batterie, viene ottenuto attraverso il lavoro sottopagato e inumano di adulti e bambini nelle miniere della Repubblica democratica del Congo» (La repubblica, 27 gennaio 2016). «La Repubblica Democratica del Congo produce più del cinquanta per cento del cobalto di tutto il mondo e secondo un recente rapporto disponibile su ResearchGate circa il venti per cento viene estratto a mano con un processo chiamato “estrazione artigianale e su piccola scala”. La restante parte viene prodotta in miniere industriali su larga scala solitamente di proprietà di aziende straniere, principalmente cinesi. Il settore di estrazione mineraria in Congo dipende dal lavoro minorile, e i bambini svolgono i lavori più pericolosi tra cui lo scavo dei tunnel in miniere di cobalto arretrate» (Lifegate, 25 giun 2020). Questo sempre a proposito di capitalismo intelligente – fin troppo intelligente!
[10] K. Marx, Il Capitale, III, pp. 208-209, Editori Riuniti, 1980.
[11] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 76. «In generale, i lavori di cui si fruisce solo in quanto servizi, malgrado possano essere sfruttati direttamente in modo capitalistico, non si trasformano in prodotti separabili dagli operai ed esistenti come merci autonome al di fuori di essi. […] [Questi lavori] vanno trattati nella categoria del lavoro salariato che non è nello stesso tempo lavoro produttivo» (pp. 72-73). «La definizione del lavoro produttivo (e perciò anche del lavoro improduttivo, come suo contrario) poggia sul fatto che la produzione del capitale è produzione di plusvalore ed il lavoro da essa impiegato è un lavoro che produce plusvalore, […] che il fine della produzione capitalistica sia il prodotto netto, di fatto puramente nella forma del plusprodotto, in cui si rappresenta il plusvalore, deriva dal fatto che la produzione capitalistica è essenzialmente produzione di plusvalore (pp. 77-78).
[12] Ibidem, p. 69.
[13] Ibidem, pp. 70-71.
[14] K. Marx, Il Capitale, I, p. 491.
[15] A.  Fumagalli, Scambio di lavoro, conoscenza e bioeconomia, in Autori vari, Atti del workshop internazionale Lavoro cognitivo e produzione immateriale. Quali prospettive per la teoria del valore?, p. 29, Università di Pavia, 2005.
[16] K. Marx, Il Capitale, I, pp. 374-376.
[17] K. Marx, Il Capitale, III, p. 518, Editori Riuniti, 1980.
[18] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), II, p. 403, La Nuova Italia, 1978.
[19] Ibidem, 401-402.
[20] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 36, Editori Riuniti, 1972.
[21] Per Andrè Gorz, uno degli esponenti di punta di quella scuola di pensiero, «la crisi della misurazione dell’orario di lavoro genera inevitabilmente la crisi della misurazione del valore», cosa che starebbe appunto portando alla rapida estinzione del lavoro umano, sostituito dal “lavoro” dei robot. «La ricchezza sociale prodotta è un bene collettivo nella creazione del quale il contributo di ciascuno non è mai stato ed è oggi meno che mai misurabile, e il diritto a un reddito sufficiente, incondizionato e universale equivale, in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, consapevolmente o no» (A. Gorz, L’Immateriale, p. 72, Bollati Boringhieri, 2003). Anche qui troviamo la “bizzarra” concezione della ricchezza sociale capitalistica come «bene collettivo». Posso anche condividere la rivendicazione di un reddito, di un sussidio per disoccupati e precari, soprattutto se questa rivendicazione è veicolata attraverso la lotta autonoma dei diretti interessati; è l’ideologia che c’è dietro molte di queste rivendicazioni che non mi sento di condividere affatto. Sul “capitalismo cognitivo” rimando ad alcuni PDF: Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
[22] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 71.
[23] «Il valore d’un uomo è, come per tutte le altre cose, il suo prezzo; vale a dire, quanto si per usare la sua forza» (T. Hobbes, Il Leviatano, citato da K. Marx, Il Capitale, I, p. 203).
[24] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 81.
[25] Ibidem, p. 91. «Per dimostrare che il rapporto tra capitalista e operaio non è altro che un rapporto tra possessori di merci che si scambiano vicendevolmente denaro e merce con vantaggio reciproco e mediante un libero contratto, basta isolare il primo processo e pervenire al suo carattere formale. Questo semplice trucco non è stregoneria, ma rappresenta l’intero patrimonio di sapienza dell’economia volgare» (ibidem, p. 31). Il trucco consiste appunto nel considerare la merce-lavoro solo dal punto di vista del suo valore di scambio, espresso nel salario, tralasciando di considerarne il valore d’uso, ossia il suo consumo nel processo produttivo, che è in primo luogo un processo di valorizzazione, ossia di sfruttamento, sia che la paga sia “alta”, sia che la paga sia “bassa”. «Il salario reale può rimanere immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire. […] Quantunque l’operaio disponga di una maggiore quantità di merci che non prima, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista. […] Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. […] La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 64-68, Newton, 1978). «Il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» (K. Marx, Critica al programma di Gotha, p. 49, Savelli, 1975).
[26] K. Marx, Il Capitale, I, p. 355.
[27] Ibidem, p. 353.
[28] Marx colloca storicamente il periodo della manifattura, «come forma caratteristica del processo di produzione capitalistico», tra la metà del secolo XVI e l’ultimo terzo del secolo XVIII, e descrive il processo attraverso il quale la divisione del lavoro si trasforma in una struttura sociale consolidata, in «un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini. […] Questa base tecnica ristretta esclude una analisi realmente scientifica del processo di produzione» (ibidem, p. 381). Tuttavia è nel periodo manifatturiere che avviene il progressivo superamento della cooperazione semplice in direzione di una cooperazione sempre più caratterizzata dalla presenza delle macchine nel luogo di lavoro, con ciò che ne seguì in termini di divisione del lavoro e di subordinazione del lavoratore alle macchine.
[29] Ibidem, pp. 437-438.
[30] Ibidem, p. 441. A proposito del consumo sempre più diffuso dell’oppio «fra le operaie e gli operai adulti e anche nei distretti agricoli», così che i droghieri consideravano gli oppiacei «l’articolo di più facile smercio», Marx commenta con amara ironia: «Ecco la vendetta dell’India e della Cina contro l’Inghilterra» (p. 443). Una vendetta che colpiva soprattutto il “popolo degli abissi”, affamato e degradato a tal punto da cercare una via di fuga nello stordimento dei sensi: evidentemente, la religione come «oppio dei popoli» non dava alcun sollievo al popolo lavoratore…
[31] Ibidem, pp. 557-563.
[32] Ibidem, p. 269.
[33] Ibidem, pp. 271-283.
[34] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, pp. 51-52.
[35] K. Marx, Il Capitale, I, p. 467.
[36] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 80-87.
[37] Ibidem, p. 80.
[38] Su questo tema rinvio al PDF Sul potere sociale della scienza e della tecnologia (2017).
[39] Ibidem, pp. 81-83.
[40] Contro l’organizzazione scientifica del mondo, intervista a Pièces et main d’œuvre, La Décroissance, estate 2020. «Parts and Labour, spesso abbreviato in PMO, è un gruppo con sede a Grenoble impegnato in una critica radicale della ricerca scientifica, del complesso militare-industriale, della cardatura, dell’industria nucleare, delle biotecnologie e delle nanotecnologie» (Wikipedia).
[41] Il Capitale, I, pp. 466-467.

CUBA. ENNESIMO ANNUNCIO DI UNA “GRANDE RIFORMA ECONOMICA”

Cuba. Annuncio dell’ennesima “riforma economica” da parte del regime. Ogni volta che l’isola caraibica si trova a un passo dal baratro, ecco spuntare all’orizzonte la prospettiva di una «più coraggiosa apertura» di Cuba al capitalismo privato. L’ultima “grande riforma” risale a 13 anni fa, e venne lanciata dall’ex presidente Raúl Castro. Risultato? La crisi che abbiamo dinanzi. Non è facile ristrutturare radicalmente un’economia senza mettere in discussione vecchi e assai radicati interessi, rendite di posizione e, soprattutto, la struttura del regime politico vigente. E infatti l’opposizione al regime cubano pensa che l’ennesimo annuncio “riformista” non sia che un segnale lanciato dall’Avana soprattutto agli Stati Uniti, per catturarne la benevolenza. «Per José Daniel Ferrer, leader dell’Unpacu, la principale associazione di resistenza dal basso al castrismo, oggi appoggiata da un numero crescente di contadini, è indubbio che “l’intenzione è quella di far innamorare il neopresidente degli Stati Uniti Joe Biden con una presunta apertura economica interna, ma l’unico obiettivo è che gli Usa eliminino le sanzioni e aprano il flusso delle rimesse, dei voli e dei viaggiatori, che poi è la formula che piace ai comunisti: farsi mantenere al potere dai soldi del capitalismo» (Il Giornale). Chi associa Cuba al comunismo, o anche a qualcosa di lontanamente assimilabile a una società non capitalista, ha in testa un concetto di “comunismo” e di “anticapitalismo”che personalmente trovo di una comicità (diciamo così) davvero irresistibile. Sulla natura nazionale-borghese della mitica Rivoluzione cubana rimando a qualche mio post dedicato al tema (*).

Per La Stampa, «La nuova Revolución [sic! ] non guarda più al Che, ormai un monumento per i turisti, il modello è la Cina di Xi Jinping»; dal fatiscente e sgangherato capitalismo con caratteristiche cubane al capitalismo ultra organizzato e tecnologizzato con caratteristiche cinesi? Sarebbe davvero una miracolosa transizione!

Ma di “modello cinese” (e vietnamita) per Cuba si parlò già nel 2012: «Nei piani di Raúl Castro la transizione a Cuba seguirà il modello di Pechino e Hanoi: apertura al capitalismo ma non alla democrazia. La Cina sta abbracciando il capitalismo e da anni invita Cuba a fare lo stesso – addirittura lamentandosi privatamente della lentezza con cui il regime dell’isola caraibica introduce i cambiamenti. La cooperazione cinese è da anni improntata anche alla creazione di capacità industriali e di un tessuto imprenditoriale a L’Avana. Pechino è da qualche anno il secondo partner commerciale di L’Avana, dopo il Venezuela di Hugo Chávez. L’espansione dell’economia di mercato è da sempre una priorità della politica estera statunitense; come non gioirne se si verifica a pochi chilometri dalle coste della Florida? La Cina non farebbe per Cuba quanto fece a suo tempo l’Unione Sovietica. Per Pechino una relativa stabilità nei rapporti con gli Usa è più importante della solidarietà dettata da ormai sbiadite affinità ideologiche; dal canto suo L’Avana dovrebbe aver imparato subito dopo il collasso dell’Urss quanto sia rischiosa la dipendenza economica da un solo partner. Per quanto gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese possano collaborare però, ci saranno aree e temi nei quali – pur non arrivando necessariamente a un confronto armato – resteranno rivali» (Limes, 11/07/2012). Dopo undici anni, siamo ancora a parlare di una “via cinese al capitalismo” per Cuba. La transizione di Cuba verso un capitalismo più moderno e prospero è davvero lenta, fin troppo lenta.

L’arretrata società cubana è tormentata da una lunga e grave crisi economica, aggravata dalle sanzioni imposte dall’ex presidente americano Donald Trump e, ancor più recentemente, dalla pandemia. «Dopo anni di stagnazione, nel 2020 l’economia cubana ha conosciuto una contrazione dell’11 per cento (il peggior calo in quasi tre decenni) e la popolazione ha dovuto fare i conti con scarsità di beni di base e file interminabili per ottenerli. Ad oggi, il cosiddetto settore “non statale”, con l’esclusione dell’agricoltura tenuta in piedi da centinaia di migliaia di fattorie, è composto principalmente da piccole cooperative attive nel turismo, nell’artigianato e nel trasporto locale. Secondo la ministra Feito, citata da Granma, l’organo di stampa del Partito comunista [rido!], si tratta di circa 600 mila lavoratori, ossia il 13 per cento della popolazione attiva. La nuova riforma dovrebbe aprire ai privati quasi tutti i settori dell’economia: “Soltanto 124 rimarranno parzialmente o del tutto controllati dallo Stato”, ha riferito ancora la ministra Feito, senza però specificare quali» (La Stampa). Di certo c’è che l’umore della popolazione cubana si fa di giorno in giorno sempre più nero. Nell’ultimo mese l’inflazione ha dimezzato il potere d’acquisto del 90 per cento dei cubani, ossia di tutti quelli che non possono spendere in dollari. Il peso cubano è una valuta nazionale sempre più leggera, mentre il velleitario CUC (convertibile in perfetta parità con il dollaro) creato negli anni Novanta è stato eliminato.  «Il CUC seppellirà l’egemonia del dollaro», aveva detto allora il mitico Fidel, subito festeggiato dai castristi di mezzo mondo – i quali ancora oggi associano Cuba alla Revolución, costringendo in tal modo il modestissimo personaggio che scrive a immaginarsi un genio della scienza sociale: tutto è relativo! Per fortuna di solito mi confronto con persone che mettono in riga il mio principio di realtà, riconducendomi alla modesta dimensione intellettuale che mi compete: mannaggia!

«Cuba non fa parte della Banca Mondiale né del Fondo Monetario Internazionale, per cui non ha accesso ad alcun finanziamento. Con un probabile avvicinamento, gli Stati Uniti potrebbero presentarsi come un “consigliere” in materia finanziaria. E le attività economiche private potrebbero accedere a fondi americani per operare e crescere sull’isola. Ma saranno vere le intenzioni del regime castrista? Secondo il Financial Times, John Kavulich, presidente del Consiglio economico e commerciale Usa-Cuba, se Cuba promuove la liberalizzazione del tasso di cambio ed espande il settore privato, ciò creerebbe incentivi per Washington a impegnarsi: “La chiave è che l’amministrazione Biden deve credere che l’amministrazione Díaz-Canel sia seriamente intenzionata a ristrutturare l’economia. L’unico modo per dimostrare serietà è sopportare i sacrifici della trasformazione”» (Formiche.net). Si tratta anche di vedere la postura che la Russia e la Cina assumeranno nei confronti di un seppur piccolo riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti. Di certo possiamo dire che, “trasformazione” o meno, sono tanti e gravosi i sacrifici che i senza riserve di Cuba stanno sopportando.

«Secondo Harold Cárdenas Lema, professore universitario, analista e fondatore del blog La joven Cuba, però si è rotto “il contratto sociale” per cui “la gran maggioranza della popolazione cubana chiudeva gli occhi di fronte alla repressione dell’opposizione e del dissenso ritenuti annessionisti o nel libro paga degli Usa”» (Il Manifesto, 12/12/2020). D’altra parte il regime è stato chiaro circa il trattamento che verrà riservato agli oppositori politici e sociali che minacciano di scendere in strada: «All’interno della Rivoluzione tutto, contro la Rivoluzione niente». Abbasso la “Rivoluzione”! Viva la Rivoluzione!

(*) Riflessioni sulla rivoluzione cubana; Fidel Castro; Sul fallimento del “laboratorio politico-sociale” latinoamericano.
Per quanto riguarda Ernesto “Che” Guevara, al di là della sua fraseologia pseudo-rivoluzionaria che tanto ammaliò i “marxisti” europei della sua epoca (e purtroppo anche di quella successiva, fino ai nostri giorni), egli a mio avviso va collocato interamente dentro l’esperienza ultrareazionaria del cosiddetto “socialismo reale”, ossia del reale capitalismo vigente in Unione Sovietica, in Cina e negli altri Paesi “socialisti”. Questo senza nulla togliere al suo ruolo nella rivoluzione nazionale-borghese cubana. La sua ideologia piccolo-borghese risalta soprattutto nella strategia guerrigliera che egli propose a tutti i Paesi dell’America Latina, anche a quelli forniti di un proletariato urbano e di un contadiname salariato interessati, almeno potenzialmente, a una lotta di classe autenticamente anticapitalista – la sola che si possa definire antimperialista in senso proletario, non nazionale-borghese. «Ecco la prima impressione del Che in visita in Urss: “Anche io, arrivando in Unione Sovietica, mi sono sorpreso perché una delle cose che si nota di più è l’enorme libertà che c’è (…) l’enorme libertà di pensiero, l’enorme libertà che ha ciascuno di svilupparsi secondo le proprie capacità ed il proprio temperamento.” (E. Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi 1969, pag. 946). Queste parole furono pronunciate nel 1961, cinque anni dopo la repressione della rivoluzione operaia ungherese da parte delle truppe di Mosca. E sulla strategia di sviluppo del socialismo, parlando ancora dell’Urss, si può notare quanta confusione era presente nelle idee del rivoluzionario argentino: “Mi ascolti bene, ogni rivoluzione, lo voglia o no, le piaccia o no, sconta una fase inevitabile di stalinismo, perché deve difendersi dall’accerchiamento capitalista.” (K. S. Karol, La guerriglia al potere, Mondadori 1970, pag.53). Lo stalinismo qui viene trattato come una malattia dell’infanzia. In realtà è stato un processo di controrivoluzione politica [e sociale, aggiungo io] portato avanti da una casta, la burocrazia di cui Stalin era appunto il rappresentante, che non si esaurì affatto con la morte di quest’ultimo. Comportò l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia bolscevica, quella della rivoluzione d’Ottobre» (R. Sarti, Note sul pensiero del Che). A mio avviso lo stalinismo fu, nell’essenza, l’espressione di una controrivoluzione capitalistica che si spiega anche, se non soprattutto, alla luce del contesto internazionale dell’epoca; l’esistenza di una «casta burocratica» posta al servizio del capitalismo e dell’imperialismo con caratteristiche “sovietiche” si spiega alla luce di quella controrivoluzione antiproletaria, e non viceversa. Ma questo è un altro discorso.

IL NOME DELLA MALATTIA E QUELLO DELLA CURA

La distruzione degli ecosistemi attraverso la deforestazione, l’inquinamento, il riscaldamento e quant’altro ha creato in alcune aree del nostro pianeta un habitat favorevole alla vita dei pipistrelli, i quali hanno, come ormai sappiamo, «una tragica peculiarità: veicolano circa 3000 tipi diversi di coronavirus. La maggior parte dei quali non si trasmettono agli esseri umani, con qualche eccezione: Mers, Sars e ora Covid-19» (La Repubblica, 5/02/2021).

L’ultimo studio scientifico che dimostra quanto appena affermato è di qualche giorno fa, e ieri ne parlavano tutti i maggiori quotidiani italiani. «I ricercatori del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge suggeriscono che negli ultimi 100 anni l’innalzamento delle temperature globali abbia portato a una esplosione di specie di pipistrelli nella provincia cinese dello Yunnan, a confine con Myanmar e il Laos. Quella stessa area da cui, secondo gli studi genetici, si sarebbe originato il Sars Cov-2, passato probabilmente ai pangolini e poi agli esseri umani. Nello studio pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment si specifica che ben “40 specie di pipistrelli si sono trasferite nell’ultimo secolo verso la provincia cinese meridionale dello Yunnan, specie che ospitano circa 100 tipi diversi di coronavirus”. Ma qual è il meccanismo che ha portato alla concentrazione in una stessa area di così tanti mammiferi alati e dei loro parassiti virali? “Il cambiamento climatico degli ultimi cento anni ha trasformato questa provincia cinese in un habitat ideale per i pipistrelli”, risponde Robert Beyer, zoologo a Cambridge e primo autore dello studio. Più nel dettaglio, i ricercatori del team inglese hanno dimostrato come le variazioni, verificatesi da inizio Novecento a oggi, di temperatura, luce solare e anidride carbonica presente nell’atmosfera abbiano trasformato un’area caratterizzata da arbusti tropicali in savane e boschi di latifoglie. Un ambiente perfetto per molte specie di pipistrelli che vivono nelle foreste. […] Non sarebbe in sé una notizia clamorosa: il riscaldamento globale sta innescando migrazioni in tutto il mondo animale, dagli orsi polari ormai senza ghiaccio ai pesci che inseguono il mutare delle correnti» (La Repubblica).

Purtroppo per noi, i pipistrelli (*) sono portatori della «tragica peculiarità» riportata sopra. Comunque sia, pipistrelli o meno, non c’è dubbio che oggi siamo esposti al rischio di malattie infettive molto di più che in passato. Ma a chi attribuire la responsabilità “ultima” (ma anche “prima”, a ben vedere) di questa sciagurata esposizione? È una domanda che rivolgo a tutti, anche ai “complottisti”, ai “negazionisti” e ai loro critici più spietati – quelli che amano sparare sulla Croce Rossa, per intenderci.

Secondo David Quammen, l’autore dell’ormai famoso e celebrato Spillover, «Dobbiamo raccoglierci, tutti, intorno allo stesso falò intellettuale, e costruire una comunità di persone consapevoli» (Il Corriere della Sera). Esatto! Ma in che senso? Sempre secondo Quammen, «la scomparsa della biodiversità, i nuovi patogeni e i cambiamenti climatici non sono l’una la causa dell’altra, ma sono fenomeni collegati», ed è anche per questo che, a mio avviso, non ha alcun senso attribuire una nazionalità ai patogeni che minacciano la nostra salute e la nostra stessa vita. Il Coronavirus che ci tormenta non parla una lingua nazionale (il cinese, ad esempio), ma la lingua del rapporto sociale di produzione oggi dominante in ogni parte del mondo: dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Europa all’Africa, ecc. Chi desidera usare un linguaggio meno “ideologico”, “vecchio” e politicamente connotato del mio, può sempre parlare di “attività antropiche” non meglio definite sul piano storico e sociale: non c’è problema! O no?

«La Terra è malata. Lo sappiamo da anni. Quello che non sappiamo è quale livello abbia raggiunto il suo malessere. I segnali ci sono. Basta guardarsi in giro, vedere e assistere alle reazioni di una natura che si ribella al riscaldamento globale, agli uragani che si abbattono con furia devastando cose e uomini; al disboscamento selvaggio che provoca gli incendi; alle piogge battenti che sommergono interi territori lasciando sul lastrico chi sulla terra ci lavora e ci campa, costringendo a esodi intere popolazioni. Adesso, c’è un elemento in più. Nuovo. Che spinge gli esperti e gli scienziati a redigere un rapporto allarmante: ci sono sempre più specie di animali selvatici che hanno contratto strane forme di infezione. Micosi, funghi, escoriazioni cutanee e del pelo. Sono aggredite da nuovi virus. Il rischio è che lo possano trasmettere ai loro fratelli e sorelle domestiche e da questi ai noi umani. Un “salto di specie”, quello che si chiama zoonosi e che i virologi, ma non solo loro, considerano il veicolo con cui i misteriosi microrganismi ci aggrediscono per nutrirsi, sopravvivere e espandersi. Il Covid-19 è l’ultimo esempio devastante. La malattia del Pianeta sembra aver raggiunto anche la vita silvestre. La fauna selvatica è sempre più aggredita a seconda dell’attività umana» (La Repubblica, 20/11/2020).

Come si chiama la malattia che affligge il nostro pianeta? E qual è, a mio modesto avviso, il solo “programma specifico” in grado di guarirlo intervenendo sulle radici stesse della malattia? Non intendo rispondere a queste due impegnative domande; non per un’improvvisa défaillance cognitiva, o per paura di incorrere in una censura algoritmica (l’Intelligenza Artificiale è troppo sofisticata per curarsi delle mie riflessioni analogiche), ma per non essere ripetitivo.

(*) «In tutto il sudest asiatico il guano di pipistrello costituisce un’importante risorsa economica per le popolazioni locali. Per esempio, in Cambogia, ove il guano di pipistrello è considerato “oro nero”, esso viene raccolto sia direttamente nelle grotte, da appositi minatori, i quali a mani nude e senza nessuna protezione riempiono sacchi della preziosa merce, sia stendendo delle reticelle al di sotto delle rotte frequentate dai pipistrelli, per raccogliere il guano da essi rilasciato in volo (e quindi fresco), come spiegato in un’intervista apparsa sul South-East. Il guano di pipistrello è così apprezzato, che anche l’agricoltura biologica dei ricchi paesi occidentali vi ha accesso, ed è possibile comprarlo direttamente sia su Amazon sia dalla sua controparte cinese, il sito di vendite online AliBaba. Esso, quindi, non solo sostiene l’agricoltura locale – specialmente di riso – ma alimenta una economia che rimpingua le magre casse dei locali, i quali, giustamente, lo valorizzano come una risorsa pregiata per sbarcare il lunario» (E. Bucci, Il Foglio, 3/8/2020). Quando si dice economia di merda!

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MAURIZIO LANDINI E IL NUOVO RINASCIMENTO ITALIANO…

Per il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, «La mossa del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stata una mossa di grande intelligenza e responsabilità che ha spiazzato le forze politiche. Mai come adesso abbiamo la necessità di fare sistema». Fare sistema, cioè a dire sostenere questa escrementizia società che non solo sfrutta i lavoratori e se ne libera tutte le volte che ne ha la convenienza/necessità, ma che li espone anche al rischio della malattia e della morte, come accade in questi tempi particolarmente malsani. Non c’è che dire, i lavoratori italiani sono in ottime mani.

Ancora il “simpatico” Landini: «Abbiamo bisogno al più presto di un governo nel pieno della sue funzioni e di un coinvolgimento delle parti sociali molto più forte. E questo non vuole dire sostituirsi alla politica o al governo ma di dire la nostra ed essere coinvolti nella progettazione del futuro». Dal leader del sindacalismo collaborazionista e parastatale non ci si può aspettare che una politica collaborazionista, appunto.

«Sicuramente Draghi è una persona autorevole, e sicuramente può essere una persona utile»: su questo Landini ha ragione da vendere, per così dire. Si tratta piuttosto di capire utile a chi, a che cosa. Non certo alle classi subalterne: dire questo sarà poco ma quantomeno è sicuro. «Non vorrei si stesse pensando alle poltrone [sic!] anziché a cosa fare per il bene del Paese». Quando si parla del «bene del Paese» quasi mi commuovo. Quasi. A proposito! Si scrive “Paese” ma si legge società capitalistica, ovviamente.

I sinistrati sono divisi: c’è chi appoggia Draghi («È il male minore!») e c’è chi rimpiange Conte («È il male minore!»). Della serie: Miserabilandia – comunque vada a finire l’ennesima farsa italiota. C’è la farsa e purtroppo c’è anche la tragedia: l’esistenza di un enorme gregge umano ancora disposto a seguire i vecchi e i nuovi padroni.

IL MONDO “CAPOVOLTO” DEL WORLD ECONOMIC FORUM

È sufficiente leggere gli interventi dei protagonisti del World Economic Forum di quest’anno, per capire chi oggi sta vincendo la partita della competizione capitalistica/imperialistica mondiale. Sto forse alludendo alla Cina? Soprattutto al grande Paese asiatico, com’è ovvio di questi tempi; ma è tutta la regione dell’Asia-Pacifico che si conferma sempre più come l’area capitalisticamente più strutturata, forte e dinamica del mondo. Certo, anche quella più “resiliente” ai cigni neri (incluse le pandemie), tanto per civettare anch’io con il lessico modaiolo.

Mentre i leader occidentali ostentano pessimismo e perplessità sul futuro dell’attuale modello di Capitalismo (ovviamente non sul Capitalismo in quanto tale, come peculiare modo di produzione fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento storicamente determinati: questa è roba vecchia!), accusato di generare contraddizioni, conflitti (anche generazionali), disuguaglianze mai viste prime, ingiustizie sociali d’ogni tipo, degrado ambientale e quant’altro; mentre accade questo «solo Xi Jinping, il presidente cinese, resta ancorato alla globalizzazione di prima della pandemia, come se nulla fosse accaduto, forte dei successi economici che i brandelli del multilateralismo, ancora rimasti sul terreno dopo il tornado Trump, ancora gli concedono. Nessuna riflessione o aggiustamento da parte del leader cinese» (Businnessinsider.com). Qualche commentatore particolarmente spiritoso (e arguto) ha scritto che più che a Davos (ancorché virtuale, causa Coronavirus), per certi versi sembra di trovarsi al Forum sociale di Porto Alegre, tra i nemici dell’onnipotenza del potere del denaro e degli eccessi dell’ultra-liberalismo della scuola dei Chicago Boys. Perfino il Presidente francese Macron non ha voluto fare mancare la sua personale critica: «Il modello capitalista non può più funzionare»; ma ha subito aggiunto che in ogni caso «il capitalismo e l’economia di mercato non si possono certo liquidare in fretta»: e che premura c’è? Per Macron bisogna insomma emendare il «lato oscuro» del Capitalismo, non fare di esso una caricatura per buttare, come si dice, il bambino insieme all’acqua sporca. Personalmente non vedo che acqua sporchissima e un Moloch che si nutre della vita degli individui. Occorre, ha concluso il Presidente francese, «mettere al centro del problema la risposta alle problematiche del modello capitalista»: chissà che voleva dire.

Come sempre la Cancelliera Tedesca ha cercato di rassicurare sia Washington («Dobbiamo lavorare insieme ma con trasparenza»: vedi le responsabilità cinesi sulla genesi della pandemia) che Pechino («Chiudersi non serve, il multilateralismo è centrale. Non si deve guardare solo indietro, ma anche avanti»). Il senso di questo guardare avanti è probabilmente anche contenuto nell’accordo Cina-UE del 30 dicembre scorso. Ancora la Cancelliera (rivolta alla Cina): «Quando iniziano le interferenze? e quando finiscono se si sostengono valori fondamentali? Il presidente della Cina si è impegnato a rispettare la dichiarazione delle Nazioni Unite (sui diritti dell’uomo, ndr). Bisogna discutere questa questione, non importa da quale sistema sociale proveniamo» (Il Sole 24 Ore). Tranquilla, Angela: «proveniamo» dallo stesso sistema sociale, quello capitalistico – ovviamente.

Dopo aver esternato la sua – solita – apologia della globalizzazione capitalistica (che oggi vede appunto vincente la Cina), Xi Jinping ha voluto lanciare alla concorrenza (soprattutto agli Stati Uniti) un messaggio forte e chiaro: «Chi crea clan o inizia una nuova guerra fredda, chi rifiuta, minaccia o intimidisce gli altri, chi imporre l’allontanamento tra i popoli, o interrompe le catene di appalti con le sanzioni, al fine di indurre l’isolamento, sta solo spingendo il mondo alla divisione e persino allo scontro». La nuova Amministrazione statunitense è avvertita. Il punto più caldo della competizione capitalistica globale oggi si trova nell’area dell’Est-Pacifico, e non è un caso se le strategie militari della Cina e degli Stati Uniti sono sempre più focalizzate su quell’area.

Aveva detto Xi Jinping al Forum di Davos del 2017: «La Cina ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare»: la concorrenza, soprattutto quella che oggi boccheggia, se n’è accorta, eccome!

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