LA DITTATURA È SOCIALE, NON SANITARIA

Da più parti, ma soprattutto negli ambienti politico-culturali della “destra” e tra i cosiddetti “negazionisti”, si parla sempre più spesso di dittatura sanitaria, cioè di un regime autoritario imposto ai cittadini dal governo con la scusa della crisi sanitaria, e con l’attivo supporto degli “esperti”: virologi, infettivologi, medici, statistici, scienziati di varia natura. Non pochi in Occidente considerano il Covid una bufala pianificata a tavolino dal “sistema” (o dai “poteri forti”) per dare un’ulteriore stretta alle nostre già anoressiche e boccheggianti libertà individuali: la mascherina come metafora e simbolo di un bavaglio politico, ideologico, esistenziale. La paura del contagio come strumento di controllo e di governo: Foucault parlava di disciplinamento dei corpi e, quindi, delle menti.

Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica francese ha dichiarato a proposito della “crisi sanitaria” che in Francia ha subito un’inaspettata escalation: «È vero, stiamo comprimendo la vostra libertà in aspetti molto importanti della vostra vita, ma siamo costretti a farlo per tutelare la vostra salute». Prendiamo per buona l’intenzione di Macron e riflettiamo sul contenuto “oggettivo” di quella dichiarazione: che realtà sociale ne viene fuori?

La dittatura di cui intendo parlare qui è in primo luogo un fatto, ossia una realtà che prescinde da qualsivoglia intenzione, da qualsiasi progettualità politica, da qualsiasi tipo di volontà; e come sempre al fatto segue il diritto, ossia la formalizzazione politica e giuridica di ciò cha ha prodotto la società. Naturalmente la politica cerca di approfittare in termini di potere e di consenso (due facce della stessa medaglia) della situazione, ma questo è l’aspetto che appare ai miei occhi il meno interessante, almeno in questa sede, anche perché esso mostra la superficie di un fenomeno, si muove nella contingenza, mentre ciò che ha significato è la radice, la dinamica e la tendenza dei fenomeni sociali.

«Siamo in una dittatura sanitaria? È un discorso che non sta in piedi. Con il virus non si po’ fare una trattative, né politica né sindacale»: affermando questo l’ormai noto infettivologo Massimo Galli dà voce a quello che mi piace definire, lo ammetto con scarsa originalità di pensiero, feticismo virale. Attribuire al virus una “crisi sanitaria” che ha una natura squisitamente sociale. Condizioni sociali considerate su scala planetaria hanno trasformato un virus in un vettore di malattie, di sofferenze, di contraddizioni sociali, ecc. Credere insomma che il problema sia il Virus, e non la società che l’ha trasformato in una fonte di malattia, di sofferenze e di crisi sociale (che coinvolge l’economica, la sanità, la politica, le istituzioni, la salute psicosomatica delle persone): ecco spiegato in estrema sintesi il concetto di feticismo virale. Pensare che la nostra vita sia minacciata da un invisibile organismo vivente, il quale avrebbe il potere di tenere sotto scacco l’economia e le istituzioni di interi Paesi: ebbene questa assurda idea la dice lunga sulla nostra impotenza sociale, sulla nostra incapacità di dominare con la testa e con le mani fenomeni che nulla o poco hanno a che fare con la natura, mentre hanno moltissimo a che fare con la prassi sociale capitalistica. Nella nostra società l’apprendista stregone lavora senza sosta, H24.

È vero, verissimo: la potenza che ci tiene sotto scacco è invisibile, e in un certo senso la sua natura può benissimo essere considerata come virale, ma in un’accezione particolarissima che non ha nulla a che vedere con la natura. Si tratta, infatti, degli impalpabili (ma quanto concreti!) rapporti sociali capitalistici, i quali realizzano un mondo che noi per l’essenziale non controlliamo e che subiamo come se fosse un’intangibile e immodificabile realtà naturale.

«Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella»: così ha scritto Papa Francesco nella sua ultima Enciclica Fratelli tutti. Oggi ciò che connette tutto e tutti sono appunto i rapporti sociali di produzione capitalistici, i quali fanno del Capitale un Moloch che domina sulle nostre vite e sulla natura. Siamo tutti fratelli sottoposti alle disumane leggi della dittatura capitalistica. Si tratta di una dittatura sociale, oggettiva, sistemica, che si realizza giorno dopo giorno in grazia delle nostre molteplici attività sottoposte al dominio del calcolo economico.

Apro una piccola parentesi. Come ormai abbiamo imparato in questi mesi, se nella gestione della “crisi sanitaria” va tutto bene è merito del governo, se qualcosa invece va male, è colpa di quei cittadini irresponsabili che sono più inclini ai piaceri della movida che alla salute della comunità. Non solo siamo costretti a subire le conseguenze di una prassi sociale che non sbagliamo affatto a considerare complessivamente irrazionale proprio perché è informata dalle logiche economiche (capitalistiche), e non dal calcolo umano; ma chi ci amministra è pronto a infliggerci multe, punizioni di vario genere e una colata di stigma sociale e di sensi di colpa se nostro malgrado infrangiamo le ultime disposizioni governative in materia di sicurezza e di distanziamento asociale e dovessimo trasformarci, non sia mai, in “untori”! Non solo il danno, ma anche la beffa! Per favore, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?» Sono affari miei! Chiudo la parentesi.

Il Papa ovviamente non va oltre il solito (banale?) e ingenuo discorso intorno all’uomo astrattamente considerato che pretende di farsi Dio non avendone le capacità, ed essendo piuttosto vittima della demoniaca brama di profitti, mentre bisognerebbe «sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale». Il “neoliberista” scuote la testa, il “progressista” applaude come da copione. Massimo Cacciari, dall’alto della sua filosofia katechontica, nicchia: «Il discorso di Bergoglio è un grande appello alla fraternità universale che resterà, lo sappiamo, purtroppo inascoltato. Egli sviluppa temi ormai classici nelle encicliche della Chiesa. Insomma è naturale che Bergoglio parli delle tragedie del mondo in questi termini» (La repubblica). Io invece penso che il mondo creato dal capitalismo non possa che essere disumano e disumanizzante, e che per questo esso non debba conoscere altra “riforma” che non sia la sua radicale distruzione in vista di un assetto autenticamente umano della Comunità dei fratelli e delle sorelle – finalmente affrancati dalla divisione classista. Ma questa è solo una mia bizzarra opinione che impallidisce al cospetto del buon samaritano di cui parla il Santissimo Padre nella sua Enciclica dedicata «alla fraternità e all’amicizia sociale».

La nostra minorità politica in quanto cittadini, così ben esemplificata dall’affermazione macroniana di cui sopra (vi amministriamo per il vostro bene), si può a mio avviso comprendere in tutta la sua tragica portata solo se considerata alla luce della dittatura sociale che qui mi sono limitato a richiamare all’attenzione di chi legge, e sul cui fondamento è possibile ogni tipo di “involuzione autoritaria”. Inclusa quella dei nostri giorni, di queste ore.

«Con il virus non si può fare una trattativa, né politica né sindacale», ci dice il saggio Galli pensando di infilzare con la sua “pungente ironia” i teorici del “negazionismo” (no virus, no mask, no vaccino); e infatti non si tratta di raggiungere un compromesso di qualche tipo con il virus: si tratta (si tratterebbe!) di farla finita una buona volta con una società che ci espone a ogni genere di rischio (da quello pandemico a quello idrogeologico, da quello ecologico a quello bellico, da quello economico a…, fate un po’ voi), a ogni sorta di preoccupazioni e sofferenze.

«Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà» (Fratelli tutti). È quello che ho detto!

DAVOS E LO STATO (PESSIMO) DEL MONDO

Ultime notizie dal 48° incontro annuale del World Economic Forum di Davos: «Dopo le forti misure protezionistiche per proteggere il mercato domestico dell’auto, il presidente statunitense Donald Trump ha posto pesanti dazi anche su pannelli solari e lavatrici importati da Cina e Corea del Sud» (Notizie Geopolitiche). Anche l’India ha fatto sentire la sua voce contro il crescente protezionismo americano: «Il protezionismo e la tentazione di riportare indietro le lancette dell’orologio sul tema della globalizzazione rappresentano “una minaccia non meno preoccupante del cambiamento climatico e del terrorismo”. Lo ha detto il premier indiano Narendra Modi al Forum economico mondiale che si tiene nella città svizzera di Davos» (La Repubblica). La verità è che quasi tutti i Paesi che partecipano al mercato mondiale sono protezionisti, ovviamente in diversa misura e con differenti modalità (commerciali piuttosto che fiscali, ecc.); essi amano denunciare il protezionismo degli altri, tacendo ovviamente sul proprio, che comunque sarebbe sempre giustificato dall’altrui cattiva disposizione. I cattivi, com’è noto, sono sempre gli altri.

L’anno scorso a Davos fu il Presidente cinese Xi Jinping a rubare la scena: «La globalizzazione ha certamente creato dei problemi, ma non si deve gettare il bambino con l’acqua sporca. Nuotiamo tutti nello stesso oceano. Il protezionismo, il populismo e la de-globalizzazione sono in crescita, e questo non va bene per una più stretta cooperazione economica a livello globale». Ora, individuare nel Capitalismo cinese un esempio di economia antiprotezionista mi sembra quantomeno esagerato. L’accusa rivolta da Pechino agli Stati Uniti di «abuso di mezzi di difesa commerciale» non è di quelle che possono mettere in imbarazzo Washington. Il fatto che la Casa Bianca sia disposta a surriscaldare il clima nelle relazioni commerciali con la Corea del Sud, con ciò che quest’atteggiamento “assertivo” può comportare di negativo per gli Stati Uniti sul versante geopolitico, testimonia l’alto tasso di conflittualità raggiunto dalla competizione capitalistica. «L’India assume un’importanza particolare se si calcola, come sostiene l’Fmi, che la sua economia crescerà a ritmi assai più sostenuti rispetto alla Cina: il Pil salirà del 7,4% contro il 6,6% della Cina» (La Repubblica). Probabilmente assai presto vedremo anche i contraccolpi geopolitici di questa ascesa capitalistica dell’India.

Leggo da qualche parte a proposito del Rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta presentato l’altro ieri al World Economic Forum: «È impressionante sapere che 8 uomini da soli sono padroni di oltre 400 miliardi di dollari, una montagna di danaro che, praticamente, costituisce la medesima quantità di denaro posseduto da 3.6 miliardi di persone. Ogni due giorni nasce un nuovo miliardario, soprattutto in Cina e Russia. E in questo quadro l’Italia non fa eccezione dato che il Rapporto segnala che l’1% più’ benestante della popolazione italiana detiene il 25% della ricchezza nazionale netta. Il Rapporto Oxfam sostiene inoltre che “multinazionali e super ricchi continuano ad alimentare la diseguaglianza ricorrendo a pratiche di elusione fiscale. Massimizzano i profitti, in alcuni casi abbassando i salari, e usano il potere per condizionare le scelte della politica”. “Ricompensare il lavoro e non la ricchezza” è un altro slogan che si è sentito alto e forte ma che purtroppo viene ripetuto da anni senza grandi risultati visti i numeri». Il Capitalismo è sempre più brutto, cattivo e disumano; il Capitalismo del XXI secolo è esattamente conforme alla natura, alle dinamiche e alle “leggi di sviluppo” esposte da Marx ormai oltre un secolo e mezzo fa: per favore, ditemi qualcosa che non so! «Ricompensare il lavoro e non la ricchezza»: ditemi qualcosa di serio, intendevo, non le solite banalità buoniste pescate nel grande mare dell’ideologia dominante, dove nuotano ricette, “utopie”, “visioni” e chimere buone per tutti i gusti.

Vediamo cosa ha da dire il Compagno Papa Francesco a tal proposito: «Occorre rimettere l’uomo al centro dell’economia». Questa perla concettuale l’avevo già sentita. Che delusione, mi aspettavo qualcosa di più originale. D’altra parte, posso criticare il Santissimo Padre per la sua assoluta ignoranza circa il funzionamento dell’economia capitalistica (che deve avere, con assoluta necessità, il profitto al centro del proprio interesse) senza cadere nel ridicolo? Certo che no!

Nel messaggio indirizzato ai partecipanti del Forum, il Papa ha fatto anche riferimento all’intelligenza artificiale e alla robotica, per concludere che esse devono «contribuire al benessere dell’umanità e alla protezione della nostra casa comune, e non il contrario». Francesco è particolarmente allarmato dal fenomeno della disoccupazione tecnologica: milioni di posti di lavoro cancellati dall’uso sempre più diffuso della robotica nei processi produttivi e nei servizi – anche di cura: negli ospedali e nelle case. Anche qui naturalmente vale la considerazione (retorica, lo riconosco) di cui sopra: passerei giustamente per sciocco se intendessi convincere il Capo della Chiesa Romana che, posto il Capitalismo, l’uso sociale della tecno-scienza è orientato necessariamente in direzione del massimo profitto. No, non voglio creare altra disoccupazione: Francesco, predica pure il tuo Santo Verbo al «mondo fratturato», tanto più che la mia ricetta (lotta di classe e rivoluzione sociale anticapitalistica) non ha un grande appeal, diciamo così, agli occhi dei tuoi amati “ultimi”. Chi sono io per dirti che sollecitare «il mondo imprenditoriale» a promuovere la «giustizia sociale insieme a una giusta ed equa ridistribuzione dei profitti» è cosa che può suscitare solo ilarità presso i nemici dell’economia fondata sul profitto?  Forse qualche considerazione più originale e sfiziosa su quanto accade a Davos possiamo incrociarla volgendo lo sguardo a “sinistra”.

Per Marco Revelli, il Rapporto Oxfam «dice, soprattutto, che quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. È, biblicamente, sterco del diavolo» (Il Manifesto). Ma è soprattutto, marxianamente, sterco del dominio, un dominio che, com’è noto, si fonda sullo sfruttamento del lavoro umano e della natura. L’intensità e le forme di quello sfruttamento variano da Paese a Paese, da continente a continente, seguendo la linea dell’ineguale sviluppo capitalistico (che non è un dato meramente economico); ma questo non muta di una virgola la natura del rapporto sociale capitalistico ovunque esso domini, e oggi il suo dominio ha i confini dell’intero pianeta. A Nord come a Sud, a Ovest come a Est si tratta di estrarre (di «smungere») profitto dal lavoro salariato attraverso la produzione di un “bene o servizio”. Il Capitalismo è un modo di produzione fondato sul lavoro salariato: esattamente come prescrive la Costituzione «più bella del mondo» per la Repubblica del nostro Paese.

«Il sistema economico globale», continua Revelli, «plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella mega-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità. L’ipocrisia è diventata la forma attuale della post-democrazia. Con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i conti». Come sono caduti in basso i “comunisti”: adesso rimpiangono anche «un simulacro di eguaglianza»! Lo so, tutto è relativo, ma un limite all’abiezione concettuale ci deve pur essere. O no? Evidentemente no!

Naturalmente a questi “comunisti” sfugge l’intimo e necessario nesso esistente tra il «simulacro» di ieri e l’«ipocrisia» di oggi, il fatto che è stato proprio il «simulacro» di ieri a preparare l’«ipocrisia» di oggi, come si tratti di un processo coerente e organico, non certo di una rottura epocale tra ieri («democrazia») e oggi («post-democrazia»). In ogni caso i comunisti, da Marx in poi, hanno sempre attaccato l’ipocrisia connaturata alla forma borghese della democrazia, la quale con un gioco di prestigio ideologico cerca di cancellare il carattere classista della nostra società. Non dai «dogmi del neo-liberismo» deve liberarsi l’umanità, ma dai rapporti sociali capitalistici in quanto tali, e non è certo dai nostalgici dei simulacri (e del mondo finito con la caduta del Muro di Berlino) che possiamo aspettarci un contributo in quel senso. La «sinistra» («qualunque sinistra») di cui parla Revelli è parte del problema, non è parte della soluzione. Rispetto a questa «sinistra» io non mi colloco “più a sinistra”, o “più a destra”, ma su un altro terreno. Su questo terreno (chiamatelo pure Giuseppe, collocatolo sopra o sotto: non ne faccio una questione terminologica o topologica) appare imprescindibile un’opera di demistificazione anti-ideologica di grande respiro, tesa a colpire l’ideologia dominante (che, come diceva l’uomo con la barba, «è l’ideologia delle classi dominanti») in tutte le sue manifestazioni sociali e fenomenologie politiche. Sulla rifondazione della «sinistra» anche per via elettoralistica, ho scritto qualcosa nel mio ultimo post.

«Ecco perché l’incontro di Davos, aldilà del rituale, potrebbe sembrare ai più una meravigliosa presa in giro verso i miliardi di persone che vivono con due dollari al giorno» (Affari Italiani). In effetti, fin quando «i miliardi di persone» che vivono di lavoro salariato, quando hanno la “fortuna” di avere un lavoro, non troveranno il modo (si tratterà di coscienza? di coraggio?  di forza? di disperazione?  di “miracolo”?) di urlare un planetario Adesso basta!  in faccia alle classi dominanti di tutto il mondo, la «meravigliosa presa in giro» non potrà che perpetuarsi, giorno dopo giorno, per la gioia dei benintenzionati (laici o religiosi che siano, di “destra” o di “sinistra” non fa alcuna differenza), i quali potranno continuare a ripetere i soliti auspici in favore degli “ultimi” nei Forum, nei Convegni, nei Parlamenti, nelle Chiese, nei comizi elettorali, ovunque.

OCCULTISMO

Dopo gli speculatori finanziari che ingrassano servendo il Dio Denaro, i capitalisti che inseguono solo il profitto (che scandalo!), i corrotti incapaci di cristiano pentimento e i mafiosi indegni di Nostro Signore è la volta degli operatori della superstizione. Il Compagno Papa è davvero infaticabile. Leggo sul Messaggero: «”Avrei voglia di domandarvi, ma ognuno risponda dentro, in silenzio, quanti di voi ogni giorno leggono l’oroscopo? Quando vi viene voglia di leggerlo, guardate a Gesù che vi vuole bene”. Papa Francesco mette all’indice gli esperti di astrologia, le fattucchiere, i medium nonché maghi e divinatori. Non servono “oroscopi o negromanti per conoscere il futuro”, non serve la “sfera di cristallo o la lettura della mano”: il “vero cristiano” si fida di Dio e si lascia guidare in un cammino aperto alle sorprese di Dio. Altrimenti “non è un vero cristiano”».

Detto che chi scrive non è un cristiano, né vero né falso, sarebbe auspicabile, Santissimo, qualche “sorpresa” in meno; troppe “sorprese” non fanno bene alla salute, diciamo. Alludo a quelle “sorprese”, di cui tutti farebbero volentieri a meno, tipo guerre mondiali, campi di sterminio, gulag, carestie, malattie, annegamenti nel Mediterraneo, disperate e spesso mortali fughe attraverso il deserto alla ricerca di un tozzo di pane, miserie materiali e spirituali di vario genere, e via elencando. Diciamo che quanto a guida del gregge il buon Dio ha finora lasciato a desiderare. E per favore non scomodare il libero arbitrio: non provarci nemmeno! Né la tesi circa il carattere necessariamente imperscrutabile, eppur razionalissimo, del Disegno Divino può reggere, neanche lontanamente, il confronto con chi offre sul mercato della vita risposte “umanamente” più sostenibili. E poi, se togli al gregge anche il “diritto” alla superstizione cosa gli rimane nel difficile e quotidiano tentativo, spesso non coronato dal successo, di dare un senso all’insensatezza più sfacciata? La “vera religione”? La scienza? Ma se ciò bastasse, oggi non staremmo qui a lamentare il successo di medium, maghi, fattucchiere, negromanti, astrologi, divinatori, ecc., ecc. D’altra parte, lo scottante caso della Madonna di Medjugorje di cosa ci parla?

«Ogni anno in Italia, cadono vittime del fenomeno dell’occulto circa 12 milioni di persone. Secondo quanto riportano diverse associazioni antiplagio le  persone raggirate sborsano anche diversi miliardi di euro per ingrassare i 120.000 maghi operanti nel settore. Somme che si concentrano soprattutto nelle grandi città: Milano, Roma e Napoli.  Il 52% delle consulenze presso i maghi vengono fatte per questioni di cuore, il 24% per questioni economiche ed il 13% per questioni di salute. Sono tantissime le denunce che arrivano allo sportello antiplagio rivelando casi di dipendenza dalla consulenza, casi nei quali i clienti parlano del telefono come di una vera e propria droga».

Ora, dinanzi a questo fenomeno, come ad altri analoghi fenomeni sociali, c’è da chiedersi se la maggiore responsabilità circa il suo dilagare negli strati più diversi della popolazione sia da attribuire agli operatori del settore, i quali in fondo si limitano a soddisfare una domanda, secondo i noti criteri “mercatisti”, o non piuttosto alla società presa nel suo insieme che crea quel mercato – che realizza l’incontro tra la domanda in grado di pagare e l’offerta.

Nel precedente post dedicato al Compagno Papa, mi sono permesso di affermare, sulla scorta del mio astrologo di riferimento, la seguente banalità: «Non c’è magagna sociale che non realizzi un’occasione di profitto per chi ha le giuste “competenze specifiche” (da quelle giurisprudenziali a quelle malavitose, da quelle sanitarie a quelle criminali) da far valere sul mercato: è il Capitalismo, Santità!». Confermo! Non è insomma agli operatori della superstizione che si può imputare il carattere radicalmente disumano e irrazionale della vigente società; non sono loro che creano un materiale umano così vulnerabile alle sciocchezze d’ogni genere. Vietare, criminalizzare o semplicemente ridicolizzare gli “impostori” e i “ciarlatani” non eliminerà un mercato creato dall’hegeliana società civile, ed è questa consapevolezza che, tra l’altro, mi suggerisce un atteggiamento critico, ma non illuministico, nei confronti di ogni forma di superstizione, a cominciare da quella venduta come «vera fede» dalla Chiesa Romana.

Qualche anno fa il Cardinale Ersilio Tonini stigmatizza l’invasione delle rubriche astrologiche nei media: «Questo dilagare spasmodico, ossessionante dell’occultismo fra non molto eroderà via la sostanza, il concetto stesso che l’uomo ha di sé e del suo posto fra le cose e i fenomeni. E lo farà intaccando la radice dell’essenza umana: l’intelligenza» (da Vero, 13 Maggio 2011). Ma come, «la radice dell’essenza umana» non si trovava un tempo nel nostro essere stati creati a immagine e somiglianza di Nostro Signore? Ecco il teologo spiazzato dalla concorrenza comportarsi alla stregua di un ateo, il quale pretende di dare scacco matto al Re (al Celeste Sovrano del Creato) sul piano della mitica evidenza scientifica. Il fatto è che chi avverte un subdolo disagio rodergli l’anima, oltre che il corpo, non cerca discorsi intelligenti, ma discorsi conformi all’assurdità del Mondo che lo ospita. L’espansione dell’occultismo non ha a che fare con una supposta indigenza in fatto di intelligenza (magari causata dalla solita televisione e dai cosiddetti social), ma testimonia piuttosto l’impotenza sociale di tutti gli individui, la loro indigenza esistenziale. È vero che, come scriveva Adorno, «L’occultismo è la metafisica degli stupidi», ma è soprattutto vero che occulte sono le Potenze Sociali che ci dominano, nonostante esse camminino sulle gambe degli uomini. Sotto questo radicale aspetto siamo tutti stupidi: dallo scienziato che vuole riprodurre in laboratorio l’Istante Zero della Creazione Universale, al teologo che vuole provare la superiorità della sua fede sul piano della razionalità.

I politici “tradizionali” si lamentano per il dilagare dell’antipolitica; gli scienziati si lamentano per il diffondersi nella società di atteggiamenti antiscientifici; il giornalismo mainstream denuncia il dilagare delle fake news; la Chiesa denuncia la sleale concorrenza organizzata ai suoi danni da parte di «false religioni alternative» e si scaglia contro le “insane” inclinazioni superstiziose dei cristiani. Verrebbe da esclamare: da che pulpito!

Aggiunta da Facebook:

LA CHIESA E IL “FRONTE UNICO UMANISTA”

Da La Repubblica:

«Il cardinale Gianfranco Ravasi, teologo, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, non è però uomo che si dia per vinto. Con il “Cortile dei Gentili” e il “Tavolo permanente per il dialogo fra scienza e religione” sta cercando “alleati” fra coloro che hanno ancora fiducia nell’uomo e nel suo pensiero. «Atei, scienziati, persino chi ancora crede nelle ideologie. Non è più tempo di contrapposizioni ma di dialogo. […] La tecnologia corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire. […] Per colpa dell’ignoranza, non della scienza, stiamo vivendo una globalizzazione della cultura contemporanea dominata solo dalla tecnica o dalla pura pratica. C’è, ad esempio, una sovrapproduzione di gadget tecnologici di fronte alla quale non riusciamo a elaborare un atteggiamento critico equilibrato. Ci ritroviamo in un’epoca di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini. Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un’unica dimensione [quest’ultima locuzione non mi è nuova]. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un’intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima. […] Il fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret [ma non era stato Paolo?], era un laico, non un sacerdote ebraico. Egli non ha esitato a formulare un principio capitale: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. La contrapposizione fra clericali e anticlericali ormai è sorpassata. Alcuni aspetti della laicità ci accomunano tutti e la teologia ha smesso da tempo di considerare la filosofia e la scienza solo come sue ancelle. I problemi piuttosto sono altri. Semplificazione, indifferenza, banalità, superficialità, stereotipi, luoghi comuni. Una metafora del filosofo Kierkegaard mi sembra adatta ai tempi di oggi: la nave è finita in mano al cuoco di bordo e ciò che dice il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani. È indispensabile riproporre da parte di credenti e non credenti, i grandi valori culturali, spirituali, etici come shock positivo contro la superficialità ora che stiamo vivendo una svolta antropologica e culturale complessa e problematica, ma sicuramente anche esaltante”».

A mio avviso, e come provo ad argomentare nei miei modesti scritti, il comando della nave è invece saldamente nelle mani del Capitale, cosa impossibile da capire quando gli occhi sono occlusi, mi si consenta la dotta metafora, dal prosciutto feticistico che impedisce di vedere i rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che presuppongono e pongono sempre di nuovo ciò che siamo e che facciamo, «tecnologia intelligente» inclusa. Per un verso il Fronte Unico Umanista proposto da Ravasi fa capire, mi sembra, con quanta intelligenza politica e con quale respiro dottrinario si muova la Chiesa, o quantomeno una parte maggioritaria di essa; e per altro verso ci parla della profondità della crisi esistenziale (che poi è crisi sociale tout court) che stiamo attraversando in questo scorcio di XXI secolo. Da sempre la Chiesa si mostra particolarmente a proprio agio nei momenti critici, pronta a orientare e a confortare il gregge che soffre ma non comprende.

Nella sua infinita ingenuità, diciamo così, il nostro Cardinale vorrebbe salvare qualcosa che andrebbe piuttosto creata: la dimensione umana delle nostre relazioni sociali. In ogni caso, e per quel che vale, io mi chiamo fuori dal F. U. U. Per me oggi più di ieri è «tempo di contrapposizioni», possibilmente di classe. Sì, sono settario fino in fondo, settario senza speranza. Ma di classe! E che un qualche Dio (anche artificiale, per me andrebbe benissimo: non coltivo certe fisime ideologiche) mi aiuti!

 

A DOMANDA RISPONDE

Papa Francesco: «Cosa c’è all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo?».
Sebastiano: Rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Nel XXI secolo questi rapporti si compendiano nel concetto di Capitalismo e nella sua demoniaca prassi, che oggi ha una dimensione mondiale.

Papa Francesco: «Cosa c’è all’origine del degrado e del mancato sviluppo?».
Sebastiano: La contraddittoria manifestazione di quei rapporti sociali.

Papa Francesco; «Cosa c’è all’origine del traffico di persone, di armi, di droga?»
Sebastiano: L’economia fondata sul profitto «predato», «smunto», «estorto», «scroccato» ai lavoratori nelle onestissime imprese che producono beni e servizi. Su questa base virtuosa si erge l’edificio di una società completamente dominata dal denaro, la cui origine, com’è noto, non puzza, non ha colore, non ha sesso, non ha razza, non ha religione (fratello Jihadista si fa per dire!), è del tutto impersonale, è soprattutto disumana. Non c’è magagna sociale che non realizzi un’occasione di profitto per chi ha le giuste “competenze specifiche” (da quelle giurisprudenziali a quelle malavitose, da quelle sanitarie a quelle criminali) da far valere sul mercato: è il Capitalismo, Santità!

Papa Francesco: «Cosa c’è all’origine dell’ingiustizia sociale e della mortificazione del merito? Cosa, all’origine dell’assenza dei servizi per le persone? Cosa, alla radice della schiavitù, della disoccupazione, dell’incuria delle città, dei beni comuni e della natura? Cosa, insomma, logora il diritto fondamentale dell’essere umano e l’integrità dell’ambiente?».
Sebastiano: Azzardo una risposta originale: il maledetto rapporto sociale di cui sopra!

Per Sua Santità la causa è invece un’altra: «La corruzione, che infatti è l’arma,  è il linguaggio più comune anche delle mafie e delle  organizzazioni criminali nel mondo. Per questo, essa è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali». Di qui, la sua “rivoluzionaria” idea di scomunicare i corrotti e i mafiosi.

Ora, chi sono io per obiettare al Santissimo Padre che è il profitto il linguaggio comune di tutte le attività imprenditoriali, comprese quelle mafiose e quelle che fanno capo alle «organizzazioni criminali nel mondo»? Chi sono io per obiettargli che è il Capitale in sé che dà corpo a «un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte»? E difatti, come sempre, non gli obietto un bel nulla: non è che il poveruomo può scomunicare, dalla sera alla mattina, un intero regime storico-sociale! Un  po’ di sano realismo, per favore. E poi anche il Papa ha il sacrosanto diritto di vendere un po’ di ideologia al popolo indignato e affamato di capri espiatori. Che il Capo dei Capi Totò Riina crepi in carcere e senza il conforto di Nostro Signore!
Non sarò diventato anch’io un pochino populista? Che tempi! Che tempi!

“STRUTTURE DI PECCATO” E “CAVERNA EGOICA”. E POI DICE CHE UNO FA GLI SCONGIURI!

toto-874121Ha detto il Santissimo Padre in occasione della festa dell’Economia di Comunione (4 febbraio): «Il principale problema etico del capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. […]. Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!». No, compagno Papa, questo è il capitalismo, il quale sa bene come promuovere qualsiasi tipo di merce, compresa quella immateriale chiamata “etica della responsabilità”. Una merce che si vende benissimo, tra l’altro, soprattutto fra le pecorelle smarrite più acculturate del gregge. «Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione». Qui non posso dargli torto! E a questo punto non posso fare a meno di richiamare alla mente le tirate marxiane contro la filantropia borghese, questa cattiva coscienza buona solo a pareggiare i conti nella partita doppia dell’etica e a nascondere, peraltro abbastanza pietosamente, «l’antagonismo delle classi». Una sola citazione: «I filantropi vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile. Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono più borghesi degli altri» (Miseria della filosofia). E, sia detto con il rispetto dovuto al Vicario di nostro Signore, Bergoglio non fa eccezione. Ne fornisco la prova: «È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri, soprattutto con i poveri […]. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone!». Marx avrebbe forse chiosato così: «In ogni tempo i buoni borghesi e gli economisti filantropi si sono compiaciuti di formulare questi voti innocenti» (ivi). L’innocenza e l’ipocrisia sono dunque le due facce della stessa cattiva moneta chiamata Capitalismo?

Pare che sia un’impresa impossibile capire che dove esistono il profitto e il denaro, comunque “concettualizzati”, deve necessariamente esistere una generale condizione di disumanità nella società, semplicemente perché, come ripeto ormai abbastanza stancamente post dopo post, il profitto e il denaro presuppongono e creano sempre di nuovo rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Si dirà che il Papa sarà forse un “comunista”, come credono molti politicamente indigenti, con rispetto parlando, si capisce, ma rimane pur sempre un Papa. Che pretendiamo, un Papa folgorato sulla strada che conduce a Treviri? E che Cristo! Lungi da me queste diaboliche pretese. Ma non mi pare che il resto del mondo la pensi, quanto al profitto e al denaro, diversamente da Francesco. Perfino certi “marxisti” pensano che «un altro capitalismo è possibile», magari cambiandogli semplicemente il nome. Scriveva a questo proposito Karl Korsch nel 1912: «Se si domanda a un socialista che cosa intende per “socialismo” si riceve come risposta, nel caso migliore, una descrizione del capitalismo e l’osservazione che “il socialismo eliminerà il capitalismo”». Dopo un secolo le cose non sembrano di molto cambiate, anche grazie al trionfo, nel secolo scorso, del Capitalismo di Stato in guisa di “Socialismo reale”,  e così il Papa oggi può passare per “comunista” solo perché predica, praticamente tutti i giorni, la seguente sciocchezza: «È l’uomo che deve dominare sul denaro e sul profitto, non il denaro e il profitto sull’uomo». Come faccio a non ridere, a non sparare sulla Croce Rossa?! Se hai il profitto e il denaro hai il dominio del Capitale sull’uomo, necessariamente, non perché il diavolo ci ha messo la coda o altro. Punto! È una questione di Dominio, Santo Padre, non di Demonio. Beninteso, so di predicare al vento, e quindi riprendo il ragionamento “anticapitalista” del Papa più amato dai progressisti.

Non si tratta, Egli dice, solo di «curare le vittime», ma soprattutto di «costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più». Dobbiamo dunque affidare le sorti dell’umanità a un miracolo? Nient’affatto! È sufficiente «cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale», perché «imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. […] Quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato alla sua azione [ma] occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime». Il Papa ritorna spesso sulle «strutture di peccato», che forse è un modo cristianamente corretto di alludere ai rapporti sociali capitalistici, chissà. O forse, più semplicemente e “classicamente”, si evoca la presenza del Demonio su questa Terra. In ogni caso il “peccato originale” oggi si chiama Capitale, una potenza sociale tanto astratta quanto tremendamente concreta. Sempre a mio modestissimo avviso non bisogna «cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale», impresa che peraltro negli ultimi due secoli non ha avuto un gran successo, ma iniziare un altro gioco, un gioco che veda protagonisti solo uomini, e non classi sociali. Altro che (chimerica) comunione dei profitti! «Cambiare le regole del gioco»: così si esprimono le persone che rimangono alla superficie dei problemi, che non riescono a cogliere la realtà dei rapporti sociali che informano la nostra intera esistenza, nell’intero pianeta. «Cambiare le regole del gioco»: è un modo politicamente ingenuo e infantile di esprimersi – e di pensare.

Luca Kocci sul Manifesto commentava così il discorso del Papa qui citato: «Il Pontefice propone un riformismo radicale in un’ottica interna al sistema capitalistico». Perché, quelli del Manifesto propongono un’ottica diversa? Ma siamo seri! Anche il Manifesto si muove nell’ottica di «cambiare le regole del gioco».

A proposito di “comunisti”! Scrive Rossana Rossanda nella sua lettera al Congresso di Sinistra Italiana: «Di fatto, mi sembra che non si sia andati oltre al dilemma reale del Novecento: fra garanzia dei diritti civili e nessuna garanzia dei diritti sociali, oppure, all’opposto, garanzia dei diritti sociali e nessuna garanzia dei diritti di libertà». Qui la cosiddetta “signora del comunismo” ripropone la rancida, quanto infondata, distinzione tra «Capitalismo reale» e «Socialismo reale». Come se, “ai bei tempi”, i «socialismi reali» avessero garantito alle classi subalterne i «diritti sociali», sebbene a discapito dei «diritti di libertà»! Come se «la garanzia dei diritti di libertà», a sua volta, non fosse stata – e non sia – altro che, al contempo, una mistificazione ideologica e una prassi politica intese a rafforzare quel dominio sociale capitalistico che nega in radice la stessa possibilità di un’autentica libertà, inconcepibile in una società fondata sulla divisione classista degli individui. Lo stesso concetto di «diritto di libertà» contiene in sé la contraddizione che ne rivela il contenuto di classe, perché dove c’è il diritto, ossia la legge del Leviatano, la «libertà» è assimilabile all’ora d’aria concessa al detenuto. Ci si può accontentare, si può dire che ci può essere anche di peggio su questa Terra (vedi la Corea del Nord, ad esempio), e questo non lo nego affatto; ma si tratta pur sempre di un realismo che ci conferma nella schiavitù nei confronti dei rapporti sociali capitalistici. Anche nei lager nazisti o nei gulag stalinisti vigeva il relativismo delle condizioni, come hanno raccontato magistralmente Primo Levi e Aleksandr Solženicyn. La differenza tra quelle eccezionali condizioni e la normalità della prassi sociale è puramente quantitativa, non qualitativa: l’eccezione rivela piuttosto l’autentica natura della regola, e in questo preciso significato la conferma. Il peggio non conosce limiti, ed è su questa pessima verità che da sempre ha potuto contare il Dominio, che può sempre minacciare contro chi si lamenta un ulteriore giro di vite. Così è stato nei «capitalismi reali» e così è stato nei «socialismi reali», che poi altro non furono (e non sono: vedi la Cina) che dei reali capitalismi – più o meno “di Stato”.

La Rossanda conclude così la sua lettera: «I socialismi reali e i partiti comunisti si sono dissolti senza neppure affrontare le domande che avevano lasciate irrisolte». Questi sono problemi che lascio volentieri a chi in passato ha dato credito ai «socialismi reali» e ai «partiti comunisti», che personalmente ho sempre considerato capitoli particolarmente ignobili del Libro nero del Capitalismo mondiale.  «Quando ieri al congresso di Sinistra Italiana un giovane compagno ha terminato di leggere questo messaggio inviato da Rossana Rossanda tutti si sono alzati in piedi e hanno intonato l’Internazionale, il pugno alzato nel saluto comunista» (Il Manifesto). Dalla tragedia (lo stalinismo internazionale) alla farsa (i sinistri italioti).

Nel suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 settembre 2016, Barack Obama ha consegnato al mondo la perla di saggezza che segue: «In n mondo in cui l’1% dell’umanità controlla una ricchezza pari al 99%, non c’è uguaglianza». Caspita, non ci avevo mai pensato. Che grande verità ho appreso dalla bocca dell’ex leader massimo della prima potenza capitalistica del pianeta! Poi subito dopo Barack ha detto che «dopo la fine della guerra fredda possiamo dire che il mondo è più prospero che mai». Diciamo allora che io e il mondo marciamo su due strade parallele, diciamo…

L’altro ieri ho letto l’articolo di Giuliano Ferrara (Il Foglio) dedicato al «partito della Sconfitta Inc.», e mi sono confermato nell’idea che egli sia, fra gli intellettuali ultrareazionari di “destra” e di “sinistra”, quello di gran lunga più intelligente – semplicemente perché di solito non è ossessionato  dalla premura di mettere la sordina al cinismo insito nelle cose stesse, e non, in primo luogo, nelle parole chiamate a raccontarle. In ogni caso, lo cito: «Certo le destre arrembanti che attaccano globalizzazione e liberismo economico, sviluppo tecnologico e creazione di valore nei mercati aperti, hanno vinto la lotteria nel Michigan, devastano il linguaggio politico senza aggettivi, né corretto né scorretto, e pesano minacciose sulle elezioni francesi per scardinare Europa e diritti di libertà per ariani ed ebrei (l’Inghilterra in Brexit è un’altra cosa, è eccentrica, è un’isola). Certo la classe media dei paesi affluenti d’occidente è piena di problemi, è insofferente, si becca in pieno l’impazzimento del sistema della comunicazione fake-oriented, e le ondate di malessere vero si introducono dentro la sinistra, le sinistre, con una discreta violenza che a volte fa paura. Questo è ovvio, è il problema per tutti tranne che per i demagoghi e i loro servizievoli portavoce di tutte le risme.  […] La classe media disagiata perché ricca e welfarizzata soffre, d’accordo, in questa parte di mondo aperta all’uscita di miliardi di esseri umani dalla povertà e alla concorrenza di classi miserabili che tentano di essere meno miserabili, e in molti si domandano che fine farà il lavoro nell’epoca della robotizzazione, e magari qualche bru bru gli dice che si possono elevare muri contro la ricerca alleata della cattiva finanza come si progettano muri impossibili contro i messicani. D’accordo. Posto così, il problema è definito, ma già meglio del nuovo schema postmarxiano della proletarizzazione universale (cazzate anni Duemila che vengono direttamente dagli scarti degli economisti maoisti anni Sessanta del Novecento, tipo Baran e Sweezy). Domandina: c’è qualcuno che spiega loro che non è colpa di Reagan, della Thatcher, di Blair, di Clinton, di Lawrence Summers e magari di Google, Amazon, Merkel, Renzi e Macron? C’è? Non c’è». A questo punto mi faccio coraggio e timidamente domando: e allora, di chi è “la colpa”?, a chi dobbiamo attribuire il marasma sociale-esistenziale dei nostri pessimi e globalizzati tempi? La risposta l’ho già data prima e quindi vado avanti.

Ieri su Repubblica Massimo Cacciari evocava il grande spirito illuminista e riformista di Giordano Bruno, un grande filosofo che lottò contro «la decadenza d’Europa, contro il suo declino politico e morale»: «La guerra che ci separa fino a negarci non è soltanto un regresso allo stato dell’uomo lupo all’uomo, non è soltanto pazzia, di cui si è detto, ma pretenderebbe negare il supremo, ontologico vincolo di amore che regge l’universo nell’infinità dei suoi mondi. Ogni muraglia che qui si voglia innalzare pretende di ribellarsi all’eterno creare della Natura stessa, di cui la libertà della mente è esplicazione e immagine. L’Europa che si sprofonda nella sua caverna egoica, che sta portando a esiti estremi quel declino morale e politico, già tragicamente illuminato il 17 febbraio del 1600 dal rogo di Campo dei Fiori, questa Europa di mura, fittizie carceri e impotenti potenze, sarà eruttata via dalla potenza della stessa Natura, se si ostinerà a non ascoltare la voce dei suoi grandi, lo spietato realismo delle loro profezie, le loro dolorose verità. Memoria attiva, immaginativa, memoria di forze che possono essere genesi del nostro futuro. Memoria che questa Europa sembra impegnata solo a dimenticare». Solo ai grandi filosofi come Cacciari è concesso di sorvolare, senza temere una nota di demerito (diciamo), su una pinzillacchera, su una quisquilia che provo a riassumere così: «questa Europa» è l’Europa dominata dagli interessi capitalistici, è l’Europa delle nazioni che in passato hanno cercato di realizzare una massa critica (chiamata Unione Europea) per poter recitare un ruolo da protagonisti nella contesa interimperialistica, è l’Europa che non ha affatto (anzi!) risolto la rognosissima Questione Tedesca (la quale spiega anche i tentativi di Francia e Inghilterra di tenere a bada, con esiti altalenanti, la potenza oggettiva della Germania), è l’Europa alle prese con le contraddizioni sociali interne e internazionali generate dalla famosa – ma di non facile comprensione per certi filosofi – globalizzazione capitalistica. Oggi (vedi Il dubbio) Cacciari prega il Dio della Ragione perché il Partito Democratico non vada in frantumi consegnando il Paese ai grillini o “alle destre”. «E chi se ne frega!». È l’animaccia di Giordano Bruno che ha parlato, sia chiaro.

Leggiamo, per concludere degnamente, il piagnisteo di un altro uomo di buona volontà (Sergio Segio): «Le maggiori 200 multinazionali non finanziarie a livello mondiale impiegano 27.855.641 dipendenti e hanno avuto nel 2015 profitti per 18.811 miliardi di dollari, un valore superiore all’intero PIL degli Stati Uniti (18.700 miliardi). Se non si erode e ridimensiona fortemente questo potere e quello della finanza, causa prima delle enormi diseguaglianze sociali, delle crescenti povertà, delle devastazioni ambientali, del sistema della guerra e del neocolonialismo, di un modello di sviluppo centrato unicamente sul profitto, semplicemente e terribilmente non ci sarà futuro». E allora siamo davvero fottuti! Infatti, erodere e ridimensionare «fortemente» il potere sociale del Capitale è un’impresa forse ancora più titanica che volerlo annientare senz’altro, una volta per sempre. In ogni caso io mi tengo la mia utopia e lascio volentieri ai riformatori sociali che sprizzano “realismo” da ogni poro la loro mostruosa chimera. «Un vecchio proverbio boemo dice: “Il pessimista è un ottimista che si è informato”». Mi sa tanto che il proverbio citato dall’Elefantino nell’articolo sopramenzionato non dica poi il falso. Anzi!

SUL PERONISMO DI PAPA FRANCESCO

peronismo-revolucionarioHo letto il breve saggio dello storico Loris Zanatta, pubblicato dalla Rivista il Mulino (2/16), dedicato al Santissimo Padre, icona vivente del progressismo mondiale (da Sanders a Corbyn, per non parlare di Bertinotti: «La rivoluzione la fa il papa»*) e bestia nera dei cattolici integralisti (vedi Antonio Socci) e degli atei devoti (vedi il solito Giuliano Ferrara). Un papa peronista? è il titolo del saggio, il quale invita il lettore a rispondere con un perentorio «sì» a quella domanda tutt’altro che provocatoria. 

La punta della critica di Zanatta, il cui ultimo libro s’intitola La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Laterza, 2014), è rivolta appunto contro ciò che egli considera un anticapitalismo in salsa peronista, lo stesso “anticapitalismo” che tanto successo sta riscuotendo in una non piccola fetta della cosiddetta “sinistra anticapitalista”. In questo caso potremmo forse parlare di atei devoti e in adorazione. L’articolo in questione, di cui offro un’ampia sintesi, è interessante soprattutto perché aiuta a comprendere meglio il fenomeno politico e sociale rubricato solitamente come Populismo, la cui matrice ideologica ha solidi agganci tanto nel patrimonio ideale e politico di “destra” (fascismo e nazismo, in primo luogo) quanto in quello di “sinistra” (in primis in quello che Zanatta chiama «comunismo» e che personalmente, e di certo assai più modestamente, trovo più corretto chiamare stalinismo, inteso come un anticomunismo allo stato puro mascherato e veicolato attraverso una fraseologia pseudo comunista). A ben vedere, l’autore offre anche una buona chiave di lettura per interpretare molti tic psicologici e molti pregiudizi ideologici tipici degli “anticapitalisti” che militano a “sinistra”. La precisazione “politico-topologica” va fatta perché anche nell’estrema destra prospera una forte retorica “anticapitalista”**.

Inutile dire che chi scrive non condivide neanche un po’ l’impianto politico-ideologico che sorregge l’interessante critica che Zanatta muove al peronismo francescano: la pretesa superiorità della democrazia liberale su ogni forma di autoritarismo basato sul dirigismo statale; la superiorità del «metro laico e disincantato» che invita a ricercare un «approccio pragmatico» ai problemi del mondo rispetto alla «visione manichea del mondo tipica del populismo», la quale orienterebbe il pensiero verso una concezione apocalittica che rappresenta il fertile terreno su cui attecchiscono le pericolose «utopie redentive»: vedi appunto i fascismi e i “comunismi” del XX secolo.

Scrive Zanatta: «Non sarà eccessiva l’ostilità del papa per il mercato? Il più intrigante nodo del pensiero sociale di Francesco ci riporta però alla sua riflessione sui poveri, intesi come categoria sociologica, e sul Povero, inteso in senso spirituale. Il dilemma è presto detto: da un lato, il papa lancia strali contro l’ingiusto sistema economico, causa della diffusa povertà nel mondo; dall’altro lato, però, indica nel Povero la quintessenza delle virtù da preservare. Francesco sottoscriverebbe la famosa frase di Olof Palme: il nostro nemico non è la ricchezza, ma la povertà? O dinanzi al rischio che con la povertà svaniscano le virtù cristiane del Povero, prediligerebbe un mondo di poveri? Così farebbe pensare la sua esplicita vena pauperistica. Non è chiaro: Bergoglio forse pensa, come Fidel Castro, che quando la ricchezza “comincia a corrompere, a contaminare” il popolo, allora c’è qualcosa di “più potente del denaro” da preservare, “e si chiama coscienza”. Peccato che ciò presupponga l’esistenza di uno Stato etico che si arroghi il diritto di plasmare la “coscienza” del popolo e di stabilire ciò che è bene e ciò che è male per esso». Tutto questo presuppone soprattutto, almeno per come la vedo io, un modo di pensare la ricchezza, la povertà, la politica e la “coscienza” (sic!) che rimane confinato ben dentro lo status quo sociale, non importa se approcciato e “declinato” in termini liberaldemocratici o statalisti/populisti. Il mio nemico è la ricchezza nella sua odierna configurazione storico-sociale, è quel Capitalismo che il socialdemocratico Olof Palme si “illudeva” di poter sfruttare a vantaggio dei poveri («la pecora capitalistica va ingrassata e tosata, non macellata!») e che il Papa Peronista desidera condurre sulla retta via della moderazione («il profitto non deve superare certi ragionevoli limiti») e dell’umanesimo («l’economia deve servire l’uomo, non l’uomo deve servire l’economia»). Non penso che lo stesso Zanatta si rifiuterebbe di sottoscrivere subito e di buon grado quest’ultima “umanissima” perorazione. Ecco perché a questo punto della breve presentazione un altro bel sic! sparato contro i critici e contro gli adulatori del Santo Padre non sfigurerebbe. Almeno credo. In ogni caso, buona lettura!

***

Da non credente, mi impressiona vedere le sberle che volano nella Chiesa; da storico provo disagio al rivedere nelle trincee gli eserciti che si batterono al Concilio: il mondo è così cambiato, da allora! Da studioso ventennale della Chiesa argentina trasecolo vedendo la figura di papa Francesco tirata di qua e di là. Credo perciò utile riflettervi partendo da dove proviene: il cattolicesimo argentino. E farlo da lontano, schivando le dispute che agitano la Chiesa. Senza pretesa di insegnare nulla: solo di segnalare il contesto storico e culturale entro cui si colloca la parabola di Bergoglio.  Prima, due premesse. Una riguarda la celebre etichetta di papa peronista che dal primo momento Bergoglio si porta addosso. Molti ci hanno scherzato, pochi si sono sforzati di capirla. Sarà che del peronismo si hanno da noi nozioni vaghe, che si pensa sia fenomeno esotico di luoghi remoti. A torto: poiché il peronismo è il più tipico caso di populismo latinoamericano e il populismo è nostro pane quotidiano, faremmo bene a prenderlo sul serio. Bergoglio è peronista? Assolutamente sì. Ma non perché vi aderì in gioventù. Lo è nel senso che il peronismo è il movimento che sancì il trionfo dell’Argentina cattolica su quella liberale, che salvò i valori cristiani del popolo dal cosmopolitismo delle élite. Il peronismo incarna perciò per Bergoglio la salutare coniugazione tra popolo e nazione a difesa di un ordine temporale basato sui valori cristiani e immune da quelli liberali. Bergoglio, in breve, è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America Latina.

Ma allora Bergoglio è populista? Assolutamente sì, purché tale concetto sia inteso a dovere. Che si chiami peronismo o in altro modo, i tratti ideali del populismo antiliberale sono sempre gli stessi. Difatti il populismo del papa non ha nulla di originale, salvo la proiezione globale che la sua carica gli conferisce. […]

1737565La nozione di pueblo è l’architrave del suo immaginario sociale. Non c’è niente di male: pueblo è una bella parola, potente ed evocativa. Ma anche scivolosa e ambigua. Qual è l’idea di pueblo di Francesco? Il suo popolo è buono, virtuoso e la povertà gli conferisce un’innata superiorità morale. È nei quartieri popolari, dice il papa, che si conservano saggezza, solidarietà, valori del Vangelo. Lì sta la società cristiana, il deposito della fede. Di più: quel pueblo non è per lui una somma di individui, ma una comunità che li trascende, un organismo vivente animato da una fede antica, naturale, dove l’individuo si scioglie nel Tutto. Come tale, quel pueblo è il Popolo Eletto che custodisce un’identità in pericolo. Non a caso l’identità è l’altro pilastro del populismo di Bergoglio: un’identità eterna e impermeabile al divenire della storia, di cui il pueblo ha l’esclusiva; un’identità cui ogni istituzione o Costituzione umana deve piegarsi per non perdere la legittimità che le conferisce il pueblo.

Va da sé che tale nozione romantica di pueblo sia discutibile e che altrettanto lo sia la superiorità morale del povero. Non ci vuole un antropologo per sapere che le comunità popolari hanno, come ogni comunità, vizi e virtù. E lo riconosce, contraddicendosi, lo stesso Pontefice, quando stabilisce un nesso di causa ed effetto tra povertà e terrorismo fondamentalista; un nesso peraltro improbabile. Ma idealizzare il pueblo aiuta a semplificare la complessità del mondo, cosa in cui i populismi non hanno rivali. Il confine tra Bene e Male apparirà allora così diafano, da sprigionare l’enorme forza insita in ogni cosmologia manichea. Ecco così il papa contrapporre il pueblo buono e solidale a una oligarchia predatrice ed egoista. Un’oligarchia trasfigurata, priva di volto e nome, essenza del Male come cultrice pagana del Dio denaro: il consumo è consumismo, l’individuo egoista, l’attenzione al denaro adorazione senz’anima. Tale è il nemico del pueblo per Bergoglio; sì, nemico, come un tempo definiva la «razionalità illuminista», la «pretesa liberale» di omogeneizzare il creato.

Qual è il peggior danno arrecato da tale oligarchia? La corruzione del pueblo. L’oligarchia ne mina le virtù, l’omogeneità, la spontanea religiosità, come un Diavolo tentatore. Viste così, le crociate di Bergoglio contro di essa, per quanto emulino il linguaggio della critica postcoloniale, sono eredi della crociata antiliberale che i cattolici integralisti conducono da un paio di secoli in qua. Cosa per nulla strana: l’antiliberalismo cattolico che sul piano secolare simpatizzò per le ideologie antiliberali di turno, fascismo e comunismo in primis, è naturale abbracci oggi con ardore la vulgata no global. Certo, v’è nella storia del cattolicesimo una robusta tradizione cattolico-liberale, votata alla laicità politica, ai diritti dell’individuo, alla libertà economica e civile. Ma non è tale la famiglia che vide crescere Francesco. Se il Sacro Collegio avesse eletto un papa cileno, chissà, forse avrebbe pescato in quell’universo culturale. Ma la Chiesa argentina è la tomba dei cattolici liberali, uccisi dall’onda nazionalpopolare. È fondata la visione populista del mondo di Bergoglio? Sarà efficace per ridare alla Chiesa e al suo messaggio la rilevanza perduta? Per resistere alla progressiva secolarizzazione del mondo? Non è detto. […]

Su tale idea di pueblo poggiano gli altri pezzi del populismo di Francesco. L’idea, in primo luogo, che la democrazia sia un concetto sociale, solamente sociale. E che democratico sia perciò l’ordine che rispetti il Vangelo realizzando la Giustizia Sociale: ammesso che esista. In tal caso, la forma del regime politico è secondaria: un’autocrazia popolare che distribuisca la ricchezza e sia rispettosa della religiosità del pueblo sarà senz’altro una democrazia; quand’anche dovesse esagerare nel porre sotto controllo media, tribunali, Parlamento, finanze pubbliche e così via. La dimensione politica e istituzionale della democrazia, il delicato equilibrio di poteri dello Stato di diritto, la tutela giuridica delle libertà individuali non sono temi cui Bergoglio sia mai stato molto sensibile. Le rare volte che ne tratta, suole riproporre l’antico distinguo tra democrazia formale e sostanziale. Eppure proprio la violenta storia latinoamericana dovrebbe avere insegnato che la forma, in democrazia, è sostanza. In quanto alle «democrazie partecipative» latinoamericane dei nostri tempi, sono ennesime riedizioni del più retrivo patrimonialismo di Stato, con corollario di abusi clientelari, autoritarismo politico, disastro economico. Il dramma venezuelano sta lì a ricordarlo. […]

A proposito di Cuba, un viaggio che meriterebbe un capitolo a sé, taluni passaggi spiccano. Il primo è il discorso di Bergoglio ai giovani cubani. Non solo non vi è cenno a libertà e democrazia, ma il papa li ha allertati: attenti al consumismo, ha detto a chi a malapena sa che cos’è il consumo; guardatevi dall’individualismo, ha ammonito dove l’individuo è costretto a pregare ciò che impone lo Stato, pena la galera. Parrebbero scherzi da prete, se non rispondessero alla sua idea di pueblo: sa bene che il castrismo è figlio legittimo della tradizione populista; che il comunismo di Castro è una deviazione secolare dal messaggio evangelico, fenomeno diffuso in tutta la cattolicità latina. Difatti, ciò che dice il papa ricorda i lunghi discorsi in cui Fidel Castro illustrò la trasformazione di Cuba in riduzione gesuitica dei nostri tempi. Ciò che preme a Bergoglio è tenere Cuba nell’ovile populista, evitando che il pueblo perda la religiosità che quel regime così austero ha preservato, benché sotto altro nome. L’imperativo non è liberarlo, ma salvarlo dalle sirene capitaliste, dal contagio liberale. […]

Non sorprende, a questo punto, che Francesco ripeta spesso uno dei suoi mantra più cari: il Tutto è superiore alla Parte. È un modo di dire che il pueblo, entità mitica e divina, trascende l’individuo. Ancor meno sorprende che tale condanna dell’individualismo sia storicamente servita a legittimare numerose tirannie esercitate in nome del pueblo, dedite a sacrificare i diritti individuali sull’altare di una giustizia sociale di cui non s’è mai vista traccia: peronismi, castrismi, chavismi e compagnia.

È un altro passaggio dei viaggi pontifici a illustrare tale punto: in Africa, almeno due volte il papa ha avallato la subordinazione della parte al tutto, dell’individuo al pueblo, dei diritti di una minoranza alla supposta identità del popolo. Il primo in Uganda, dove Francesco non ha dato voce né udienza ai gay, minacciati di ergastolo per il «delitto» di omosessualità; misura per fortuna abrogata dalla Corte costituzionale. In ottica populista, il riconoscimento dei diritti omosessuali è tipico esempio di colonialismo ideologico, di contagio della sana religiosità del pueblo africano con le ubbie immorali del decadente occidente. In termini simili Bergoglio aveva accolto il matrimonio gay in Argentina.

Ci sono poi le stupefacenti considerazioni di Francesco sull’Aids. A un giornalista tedesco, che gli chiedeva se non varrebbe la pena che la Chiesa cambiasse posizione sul profilattico, Bergoglio ha risposto: «Il problema è più grande. La malnutrizione, lo sfruttamento delle persone, il lavoro schiavo, la mancanza di acqua potabile: questi sono i problemi. Non chiediamoci se si può usare tale o talaltro cerotto per una piccola ferita. La grande ferita è l’ingiustizia sociale». Benché l’Aids interessi milioni di individui, non è che una «piccola ferita» rispetto al titanico compito di restaurare l’impero della giustizia nel mondo. C’è un’umanità da salvare: come perdersi dietro a individui che probabilmente hanno peccato?

Se tale è il prisma ideale attraverso cui il papa interpreta il mondo, ha buon gioco chi ne fa notare la vena apocalittica, la cui altra, inevitabile faccia è la vena redentiva. È uno snodo chiave, poiché il binomio apocalissi / redenzione è l’anima della visione manichea del mondo tipica del populismo; una visione ostile agli approcci pragmatici ai problemi del mondo, in cui Francesco vede in agguato l’impero «tecnocratico» che tutti ci domina. Che dire della vena apocalittica del papa? Francesco ha ragione da vendere quando denuncia le disuguaglianze, le ingiustizie, le nuove marginalità, gli abusi contro i migranti, le guerre, la bomba ambientale. Al tempo stesso, non ricordo epoche esenti dallo spettro dell’apocalissi. Forse viviamo un tempo più tragico, decadente, malato di altri? Chissà, boh, non credo. Molto dipende dal metro usato per giudicare. Se il metro è il Regno dei Cieli, non v’è epoca che si salvi dall’ira di Dio. Ma se il metro è laico e disincantato, quest’epoca è come le altre: un bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Sennonché l’analisi apocalittica del mondo induce il papa a evocare un moto redentore: «fate rumore», dice ai giovani; seguite valori grandi, emulate i martiri, lottate per l’utopia evangelica. È il suo mestiere, si dirà: è vero. Ma il terreno delle utopie redentive è tra i più delicati. Checché ne dica la vulgata, infatti, gli uomini tendono a legittimare la violenza e a muoversi guerre in nome di tali utopie più che di banali interessi economici. Quanto ai tremendi effetti delle utopie redentive, così care ai movimenti sociali cui il papa tiene infiammati discorsi, la storia argentina torna in soccorso: pochi Paesi come l’Argentina ne hanno patito gli effetti. Militari, peronisti, Chiesa, guerriglieri si sono scannati in nome della nazione cattolica e della cattolicità del pueblo, con sprezzo per la democrazia borghese e lo Stato di diritto. Il risultato è noto al mondo. […]

Questo capita dove s’impone il populismo: la difesa dell’identità del pueblo, questa specie di Araba Fenice, oscura lo Stato di diritto, i cui principi sono anzi additati come indebiti strumenti delle classi coloniali contro la virtù del popolo. Il populismo riversa così il suo impulso manicheo sull’arena politica.

Risultato: la dialettica politica si trasforma in guerra tra pueblo e antipueblo; l’apocalissi è una profezia che si autoavvera; la redenzione rimane un sogno inappagato. Ciò non impedisce però a Francesco, afflitto dall’idea che la globalizzazione contagi e uccida le identità del pueblo, diverse tra loro ma tutte intrise di religiosità, di invocarne la difesa a oltranza. È ciò cui mira quando si scaglia contro l’uniformità che il capitale imporrebbe al mondo. […] Al laico malato di dubbi, però, qualche domanda sorge spontanea. La prima è se le vaghe idee che il papa espone sull’economia siano le più adeguate per ridurre le disuguaglianze sociali e la povertà. Ne dubito. E so che ne dubitano in molti. Il papa non è un economista e non è tenuto a dare ricette! Giusto. Ma dato che, com’è sacrosanto, si esprime in proposito, altrettanto lecito sarà esprimersi su quanto le sue diagnosi e le terapie cui allude siano fondate: molto meno mercato, molto più Stato, in breve; l’economia dovrebbe basarsi su principi morali invece che sulla logica del profitto. Il che non è una gran novità, diciamolo. Il fatto è che i modelli economici populisti cui in tal modo Francesco allude non hanno mai dato buona prova: né in termini di creazione della ricchezza da distribuire, né di riduzione strutturale delle disuguaglianze. Le economie populiste fabbricano povertà in nome del povero e la loro eredità suole gravare sulle generazioni future. […]

Sullo sfondo, intanto, tante cose accadono e sollevano enormi interrogativi sulla fondatezza della visione del mondo di Francesco e sulla nozione di pueblo che l’ispira; e quindi sulla sua efficacia nel restituire alla Chiesa la rilevanza perduta. Le società moderne, anche quelle del Sud del mondo, sono sempre più articolate e plurali: parlarvi di un pueblo che vi custodisce identità pure e intrise di religiosità è spesso un mito cui non corrisponde alcuna realtà. Continuare a considerare i ceti medi, cresciuti a milioni e ansiosi di più consumi e migliori opportunità, ceti coloniali nemici del pueblo, non ha senso: tanti poveri di ieri sono ceto medio oggi. Il mercato religioso è in rapida evoluzione e la secolarizzazione incalza a passi da gigante. Perfino sul piano politico, i populismi con cui il papa condivide tante affinità hanno subito duri colpi, specie in America Latina, tanto da fare sospettare che stiano rimanendo orfani del pueblo che invocano. … È con [questi problemi] che dovrà misurarsi il Santo Padre. Adorato dai fedeli ma anch’egli orfano, almeno un po’, del pueblo.

* «Al meeting di Comunione e liberazione ho trovato il popolo. Ricordo che per Gramsci l’intellettuale può pensare di rappresentare il popolo solo se con questo vi è quella che lui chiamava “una connessione sentimentale”. Lì l’ho trovata» (Il Corriere della Sera). Per fortuna a chi scrive non interessa  neanche un po’ «rappresentare il popolo», né ha mai pensato in termini di «popolo», un concetto che nel XXI secolo serve solo a occultare l’esistenza delle classi sociali e l’antagonismo che – almeno potenzialmente – ne deriva. Anche per questo «lo smarrimento dell’identità di cui soffre la sinistra» denunciato dall’ex rifondatore dello statalismo lo lascio volentieri ai cultori della «connessione sentimentale».

** Mi permetto una piccola (e provocatoria?) divagazione. Cito dal Mein Kampf di Adolf Hitler: «Il Marxismo ha creato l’arma economica che l’Ebreo internazionale utilizza per distruggere le basi economiche degli Stati nazionali liberi ed indipendenti, per rovinare la loro industria ed il loro commercio nazionali; il suo obiettivo è di rendere le nazioni libere schiave della finanza mondiale dell’Ebraismo, che non conosce confini di Stato». Ora, se al «marxismo» sostituissimo il più credibile «neoliberismo» e al posto dell’«Ebreo» mettessimo il guru della finanza, non avremmo tradotto Hitler nei termini del sovranista dei nostri giorni? Lo so, non bisogna semplificare i problemi, né, tanto meno, azzardare improbabili parallelismi storici. Però la tentazione è tanta!

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schiavi-caporalato1-487x325«Cos’è la mafia?». La mafia è la continuazione del Capitalismo con altri mezzi, mezzi violenti intendo. «Con altri mezzi? E la violenza sistemica cui il Capitalismo ci sottopone nei periodi di cosiddetta pace? Senza contare le guerre più o meno mondiali che ci stanno alle spalle e quelle che vivono nel presente allo stato latente. Perfino il Papa più amato dai progressisti e il Presidente Mattarella evocano continuamente il pericolo di una Terza guerra mondiale!». Mi correggo: la mafia è un modo come un altro (una modalità adeguata alle circostanze “oggettivamente date” in un luogo: ad esempio, il Mezzogiorno italiano) di organizzare la caccia al profitto. Insomma, la mafia è fatta della stessa escrementizia sostanza del Capitalismo. Va bene così? «Un po’ stiracchiata, ma diciamo che come risposta sintetica può andare bene». Dio, come sono diventato esigente ultimamente!

Questo improbabile – schizofrenico? – dialogo intende riferirsi a due concetti tornati in auge dopo le recenti morti sul fronte dello sfruttamento intensivo di “capitale umano” nelle campagne del Belpaese: agromafia e caporalato. Insomma, si scrive agromafia e caporalato ma si legge Capitalismo. Semplicemente. Il Capitalismo “reale”, come si dà in concreto nelle condizioni date. Ecco perché metto subito la mano alla rivoltella quando ascolto o leggo sciocchezze come quelle proferite da Cosimo Marchionna, segretario della Spi Ggil di Brindisi: «il caporalato va combattuto con la stessa intensità di come si combatte la mafia, perché i caporali sono dei delinquenti». Concetti ripresi dal Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina e dall’intero universo politico italiano, peraltro alle prese con la “scandalosa” vicenda romana. Ecco quanto dichiarava il citato Ministro qualche mese fa: «Dobbiamo creare in tutto il Paese le condizioni perché non si assista più allo sfruttamento di immigrati irregolari: non c’è giustificazione per le aziende che sfruttano la disperazione di chi lavora in nero per cercare margini nell’attività produttiva» (AgroNotizie, 17 febbraio 2015). Non c’è giustificazione? Forse su Marte…

Il sistema del caporalato è parte integrante di una peculiare organizzazione dello sfruttamento capitalistico in agricoltura. Personalmente l’ho sperimentato nel lontano 1980, quando con alcuni amici di scuola andammo a Pachino (50 chilometri da Siracusa) a raccogliere l’uva da vino per mettere in tasca qualche soldo prima che iniziasse il nuovo anno scolastico. Fu un’esperienza a dir poco devastante! Dormivamo nei vagoni vuoti dei treni merci fermi alla stazione. Niente acqua per pulirci! In compenso, l’odore del mosto si sentiva dappertutto. Il caporale ci veniva a prendere con un camioncino prima dell’alba nella piazza centrale del paese, portando secchi, coltelli e cappellini, e ci accompagnava in campagna. Lavoravamo circa dieci ore al giorno, sempre chini sull’uva, attenti a non lasciare a terra un solo acino: chi ci controllava ci faceva ritornare subito indietro. Alla fine della giornata ci voleva un po’ di tempo perché io e i miei amici riconquistassimo la posizione eretta: «Ma questi campagnoli ce l’hanno la schiena?». Ci sembrava impossibile avere una schiena e fare quel lavoro per più di un mese. La cosa che allora mi colpì maggiormente fu l’autosfruttamento che si infliggevano molti proprietari dei vigneti, i quali proprio per questo pretendevano da noi avventizi almeno un pari impegno: «Io ho fatto due filari e tu solo uno!», mi disse a un certo punto una vecchia incartapecorita vestita di nero dalla testa in giù. L’ho subito odiata. A mezzogiorno una breve sosta per il “pranzo”: pane, formaggio, mosto e vino, offerti simpaticamente dalla vecchia di cui sopra. Il vino era superbo, questo lo devo ammettere. Alla sera eravamo tutti ubriachi, di lavoro e di vino. In Francia usavano (e usano) il vino di Pachino per “tagliare” il loro prodotto. Chiudo la parentesi personale.

Il caporalato sembrava in via di estinzione, ma la crisi internazionale del 2008 non solo lo ha rianimato, ma lo ha introdotto anche in alcune filiere produttive del Nord, semplicemente perché tale sistema di organizzazione e di controllo si è dimostrato vincente, ossia adeguato alle esigente degli investitori nella produzione agricola. «Il caporalato è come se fosse una medaglia a due facce: da una parte esiste ancora il caporalato classico soprattutto per la frutta pregiata (si pensi alle donne che raccolgono le fragole) nel quale il caporale è quasi un mediatore e molti lavoratori riescono a guadagnare decentemente; dall’altra esistono lavori pesanti di produzione di massa di alcuni prodotti come il pomodoro, del quale il raccolto è veramente massacrante. Questo secondo tipo di caporalato ha incrementato lo schiavismo. Il libro prova a spiegare quale percezione ha il bracciante migrante del suo lavoro, del campo. A un livello più generale la riduzione in schiavitù si estende a un ambito lavorativo. E non è solo un discorso che riguarda i laboratori della Cina dove i bambini cuciono i palloni della Nike, cioè una schiavitù esterna all’Occidente, ma comincia a essere anche interna all’Occidente stesso» (Alessandro Leogrande, intervista rilasciata a Omero, 15 febbraio 2009).

Secondo Roberto Moncalvo, Presidente della Coldiretti, «Senza il quotidiano lavoro di 322mila migranti nelle campagne italiane non ci sarebbe il made in Italy a tavola, che ha permesso al nostro Paese di ottenere primati in tutto il mondo. C’è dunque la presenza di veri e propri distretti produttivi di eccellenza del made in Italy che possono sopravvivere solo grazie al lavoro di 322mila immigrati regolari, dalle stalle del nord dove si munge il latte per il Parmigiano Reggiano alla raccolta delle mele della Val di Non, dal pomodoro del meridione alle grandi uve del Piemonte» (La Presse, 18 luglio 2015). Senza il prezioso lavoro di migliaia di migranti molti settori dell’economia italiani sarebbero chiusi già da un pezzo, senza parlare del contributo che essi danno al nostro Welfare: è l’argomento che molti antirazzisti usano contro i «beceri leghisti» e i razzisti d’ogni tipo. Essi aggiungono anche che, dopo tutto, i migranti fanno i lavori che noi italiani perlopiù ci rifiutiamo di fare: sbaglia o è in malafede, dunque, chi dice che i migranti ci rubano il lavoro. Non c’è dubbio. Però – come scrivevo su un post del 2010 dedicato ai fatti di Rosarno – il discorso “equo e solidale” va completato in questi termini: molti proletari italiani si rifiutano di fare certi lavori particolarmente faticosi non in assoluto, ma a quel prezzo (a quel salario) e a quelle condizioni (orario di lavoro, sicurezza, igiene, tecnologie impiegate, ecc.).

image_1918«Lo sfruttamento del lavoro dei lavoratori migranti nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia in parecchie zone dell’Italia meridionale è diffuso. Essi ricevono paghe inferiori di circa il 40 per cento, a parità di lavoro, rispetto al salario italiano minimo concordato tra le parti sociali e lavorano un maggior numero di ore. Le vittime dello sfruttamento del lavoro sono migranti africani e asiatici e, in alcuni casi, cittadini dell’Unione europea (soprattutto bulgari e rumeni) e cittadini di paesi dell’Europa orientale che non fanno parte dell’Unione europea (tra cui gli albanesi). Lavoratori migranti indiani e africani, impiegati nelle zone di Latina e Caserta, hanno parlato con Amnesty International in condizioni di anonimato.[…] “Lavoro 9-10 ore al giorno dal lunedì al sabato, poi cinque ore la domenica mattina, per tre euro l’ora. Il datore di lavoro mi dovrebbe pagare 600-700 euro al mese; io contavo di mandare 500 euro al mese a mio padre in India. Negli ultimi sette mesi, però, il datore di lavoro non mi ha pagato il salario intero. Mi dà solo 100 euro al mese per le spese. Non posso andare alla polizia perché non ho documenti: mi prenderebbero le impronte e dovrei lasciare l’Italia” (Sunny)» (Rapporto di Amnesty International sullo sfruttamento di lavoratori migranti nell’agricoltura, 18 dicembre 2012). Capite bene che in queste condizioni per un disoccupato italiano non particolarmente qualificato (a bassa composizione tecnologica, per dirla con il campagnolo di Treviri) c’è poco da fare, è sconfitto in partenza, e difatti non sono pochi i disoccupati che hanno smesso di cercare un lavoro che in molti settori (dall’agricoltura all’edilizia, dalla metallurgia ai servizi di cura) sembra guardare solo dalla parte dei più disgraziati, degli ultimi fra gli ultimi. Di qui l’interesse per i nullatenenti d’ogni colore, lingua, religione e nazione di non farsi reciprocamente concorrenza su un mercato del lavoro sempre più concorrenziale (hobbesiano) perché esposto ai rigori della globalizzazione. Anticipo la legittima sentenza del lettore: è cosa più facile a scriversi e a leggersi che a farsi. Lo so. E lo sanno benissimo anche i lavoratori “in nero” (bianchi o “colorati” che siano) che obtorto collo si arrendono a paghe miserevoli e a condizioni di sfruttamento indicibili, i loro padroni che hanno facile gioco nella concorrenza al ribasso tra i braccianti e nel ricatto occupazionale, e i caporali eventualmente ingaggiati per organizzare il super sfruttamento del “capitale umano” – a volte il “normale” sfruttamento non consente all’impresa di rimanere sul mercato.

«Di caldo si muore davvero. La cronaca di quest’estate ci restituisce tredici morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime si sono accasciati nei campi, nei cantieri e anche sui camion. C’è anche Arcangelo che da giorni lotta tra la vita e la morte dopo che un infarto lo ha colto nelle campagne di Andria» (Panorama). Di caldo? Ma mi faccia il piacere! Di Capitalismo, piuttosto. Secondo la deputata di Sel, Celeste Costantino che da anni segue le condizioni dei migranti impegnati nei campi del sud, «nell’anno dell’Expo è questa la realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura». Chi parla di «filiera sporca» mostra non solo di essere un apologeta del Capitalismo a «filiera pulita», ma di approcciare il problema di cui si parla da un punto di vista puramente ideologico, senza cioè fare i conti con il reale processo sociale, con la dinamica capitalistica come si dà in concreto, sulla base di condizioni generali di natura locale, nazionale e internazionale.

Sullo sfruttamento intensivo dei migranti in agricoltura segnalo un interessante studio di Domenico Perrotta (Ben oltre lo sfruttamento. Lavorare da migranti in agricoltura), dal quale cito alcuni illuminanti passi: «Lo scorso settembre, la tv francese France 2 ha mandato in onda un’inchiesta, dal titolo Les récoltes de la honte, sulle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti stranieri impiegati in Puglia nella coltivazione e lavorazione di broccoli e pomodori venduti dalle catene di supermercati francesi, come Auchan, Carrefour e Leclerc. Gli autori del documentario – che ha approfondito le condizioni dei lavoratori anche in Camerun e Guinea Conakry – mostravano ai consumatori francesi che i prezzi bassi dei prodotti alimentari sono possibili grazie ai bassissimi salari corrisposti a quei lavoratori. Il caporalato e gli abusi sui raccoglitori di pomodori in Puglia sono stati oggetto di una campagna di denuncia anche sui media norvegesi, tanto da spingere sindacati e catene di supermercati di quel Paese a chiedere un incontro, tenutosi lo scorso ottobre, a sindacati e associazioni di produttori agricoli italiani, per promuovere “standard etici” [sic!] Queste inchieste descrivono una realtà fatta di sfruttamento lavorativo ai limiti della schiavitù, condizioni abitative drammatiche nei casolari abbandonati e nei “ghetti”, lavoro nero o grigio, caporalato, aziende agricole in difficoltà, strozzate dai prezzi imposti dalle catene della grande distribuzione. Questa è l’immagine dell’agricoltura italiana, soprattutto meridionale, che si sta diffondendo in Europa. Una situazione non certo sconosciuta in Italia».

Scriveva ieri Vittorio Feltri, felice di poter bastonare la concorrenza progressista sul terreno della solidarietà sociale: «Se la signora Clemente fosse stata, anziché una barese del contado, una siriana, una libanese o un’africana, il Paese si sarebbe commosso, avrebbe gridato all’iniquità sociale, alla mancanza di solidarietà. Ma per sua disgrazia era una terrona miserabile e disgraziata». Due disgrazie due misure? «Paola abitava nei dintorni di Bari, che non è in Nigeria, ciò nonostante manco un cane si è interessato alla sua condizione di schiava antica in questo mondo moderno» (Il Giornale). Il tentativo di contrapporre gli schiavi indigeni agli schiavi d’importazione mi sembra abbastanza evidente. Ma posso anche sbagliarmi. Di sicuro non è dal noto giornalista che mi aspetto una dimostrazione di autentico “internazionalismo proletario”…

«È un miracolo – continua Feltri – che finora sia andata al Creatore soltanto Paola. Numerose, però, sono le persone candidate a subire la medesima sorte». Come si legge in Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Mondadori, 2008), un libro-inchiesta del già citato Alessandro Leogrande, nei campi del Tavoliere delle Puglie «Non è raro che vengano ritrovati i corpi dei braccianti morti e abbandonati sul ciglio delle strade per simulare un incidente». Leogrande ha studiato soprattutto lo sfruttamento intensivo di manodopera bracciantile proveniente dall’Est e dai Balcani, dalla Polonia e dall’Albania in primis: «Ho avuto sin da subito chiaro che non era una questione di sfruttamento e basta, ma qualcosa di peggiore: ci sono dei morti ignoti e degli scomparsi avvolti da una nube invalicabile. C’è una vera e propria falla di morti sconosciuti e non spiegabili, e anche le statistiche sono difficili. Uno dei pochi dati certi è di 118 scomparsi polacchi di cui solo il 20% nella sola provincia di Foggia. La cosa impressionante è che, dopo anni di ricerca e inchieste, questo muro di gomma resta intatto e ancora se ne sa pochissimo». Una parte di quei braccianti è stata rimpiazzata dalla nuova ondata di migranti provenienti dall’Africa.

Ancora Feltri: «Nell’era delle tecnologie avanzate, l’agricoltura in Puglia, e non solo in Puglia, non è cambiata rispetto agli anni Cinquanta, quando i braccianti crepavano come mosche per una manciata di spiccioli, compenso misero elargito dal padrone del feudo in cambio di lavoro massacrante in campagna, nelle masserie e nelle vigne». Perrotta ci suggerisce una lettura più complessa del problema: «Attenzione, l’agricoltura che utilizza manodopera migrante non è povera e arretrata. Si tratta invece di produzioni e filiere profondamente inserite nei mercati nazionali e internazionali e diffuse nelle pianure costiere dell’Italia meridionale: il casertano e la Piana del Sele in Campania; le piane di Sibari e Gioia Tauro in Calabria; il siracusano, il ragusano e il trapanese in Sicilia; la Piana di Metaponto e la zona dell’Alto Bradano in Basilicata; la Capitanata, il Nord Barese e la zona di Nardò in Puglia. […] La presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi, insomma, ha consentito a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata, causata in definitiva dalla competizione internazionale dovuta alla liberalizzazione dei mercati dei prodotti agricoli». È la globalizzazione capitalistica, bellezza! Per molti aspetti gli immigrati hanno reso possibile la via italiana alla competizione capitalistica internazionale nei settori agricoli e manifatturieri più esposti alla concorrenza dei prodotti made in Cina piuttosto che a quelli made in Portogallo (o in Tunisia o in Marocco, Paesi nei quali, ad esempio, si è sviluppata una filiera di trasformazione del pescato davvero importante).

Dal punto di vista degli interessi capitalistici non c’è, in assoluto, un modo eticamente migliore o peggiore di far fronte alle necessità della produzione (che, come insegnava l’uomo con la barba, è in primo luogo produzione di plusvalore, ossia di valore non pagato ai lavoratori): su questo punto ogni capitalista si regola come può, avendo sempre come bussola la bronzea Legge del profitto. Lo so che questo discorso suona cinico all’orecchio del progressista e che molto dispiace al compagno Papa («Non ci si può regolare solo in base al profitto»: anche, ma non solo…), ma cinica è la realtà, non le parole che cercano di esprimerla rifuggendo da ogni insulso eufemismo. Gli esorcismi politicamente corretti non aiutano a comprendere i fenomeni sociali e sono un invito a nozze per i populisti d’ogni colore, specialisti nella strumentalizzazione del disagio sociale e della “lotta tra poveri”.

Secondo il Presidente di Confagricoltura Mario Guidi, «La piaga del lavoro nero si combatte non solo con le sanzioni, ma ricostruendo un’economia competitiva ed economicamente soddisfacente. Gli agricoltori devono puntare ai mercati aggregandosi per essere competitivi e le Regioni devono accompagnare questo processo con grandi interventi infrastrutturali e logistici, sfruttando i fondi europei e sostenendo gli investimenti agricoli. Tutti devono lavorare di più, velocemente, con soddisfazione reciproca delle aziende e dei lavoratori» (Agronotizie, 17 febbraio 2015). Musica per le orecchie dei sostenitori del capitalismo «a filiera pulita» e possibilmente anche corta. In attesa delle famose “riforme strutturali” e della costosa rivoluzione tecnologica capace di modernizzare l’agricoltura italiana, molti imprenditori del “settore primario” usano quel che passa il convento capitalistico accettando di correre qualche rischio, perché, come si dice, il gioco vale ancora la candela. «Ecco cosa stupisce e indigna: non c’è anima che combatta lo schiavismo, che tenti di stroncarlo assicurando alla giustizia coloro che lo praticano senza freni e senza pudore» (V. Feltri). Caro Vittorio, se mi posso permettere, il Capitalismo «è quest’acqua qua»: gli “eccessi” che tanto indignano gli uomini di buona volontà ci dicono tutto sulla vera natura di questa società, sulla sua fisiologia. Lo schiavismo praticato «senza freni e senza pudore» non è un dato patologico della realtà, tutt’altro. Patologico, dal punto di vista umano, è piuttosto il regime sociale capitalistico tout court, dalla Cina di Xi Jinping all’Italia di Renzi. Tranquillizzo il lettore: non cerco di convincere Feltri, non credo di possedere ancora capacità magiche; faccio della mera “retorica strumentale”.

A proposito di cinismo e di svalorizzazione della capacità lavorativa! Ecco cosa scriveva il super cinico David Ricardo nei sui Principi di economia politica (1817): «Diminuite le spese di fabbricazione dei cappelli e il loro prezzo finirà per precipitare al loro nuovo prezzo naturale. Diminuite le spese per il sostentamento degli uomini, diminuendo il prezzo naturale dell’alimentazione e del vestiario necessari all’esistenza, e vedrete che i salari finiranno con l’abbassarsi per quanto sia potuta aumentare anche la richiesta di mano d’opera». Ma qui si trasforma l’uomo in cappello! M’indigno! Suvvia, un po’ di rispetto per il capitale umano! L’ubriacone tedesco però la pensava diversamente: «Certo, il linguaggio di Ricardo è quanto mai cinico. Ma non gridiamo troppo al cinismo. Il cinismo è nei fatti», e i fatti ci dicono che «il lavoro, essendo esso stesso una merce, come tale viene misurato in base al tempo necessario a produrre gli oggetti indispensabili al mantenimento costante del lavoro, ossia a far vivere il lavoratore e a metterlo in grado di riprodurre la sua specie» (Miseria della filosofia). La cosa considerata attraverso la mediazione del denaro ci si manifesta attraverso i prezzi dei beni-salario. Paesi come la Cina e l’India, con le loro merci a basso costo che entrano nella formazione del prezzo del lavoro, hanno dato un grande contributo alla riduzione del «prezzo naturale dell’alimentazione e del vestiario necessari all’esistenza»; ma in molti settori produttivi del nostro Paese ciò non è stato sufficiente a garantire la dovuta competitività e gli adeguati livelli di profitto. La pressione sul salario e sulle condizioni di lavoro ha dunque agito direttamente e drammaticamente, con ogni mezzo necessario (“legale” e “illegale”), e ciò è stato possibile grazie appunto all’esistenza di un esercito di miserabili sempre più numeroso. Se non è possibile investire in Cina, in Albania o in Africa, occorre realizzare in Italia (o solo in alcune zone speciali del Paese) condizioni generali di lavoro almeno paragonabili a quelle che offrono quei Paesi. O supersfruttare o perire! Giustifico forse, anche solo “oggettivamente”, il supersfruttamento? Certo che no! Mi sforzo di capire il mondo nel quale ho la ventura di vivere. Tutto qui.

Per Papa Francesco «la chiave con la quale affrontare la questione dei migranti è la Misericordia»; per chi scrive la chiave per affrontare ogni fenomeno sociale e ogni contraddizione sociale è quella che mette insieme la presa d’atto della natura necessariamente disumana della nostra società e la consapevolezza circa la possibilità del suo superamento in direzione di rapporti sociali semplicemente umani. Più che una chiave interpretativa del processo sociale evoco un miracolo, mi rendo conto.

QUALCHE CONSIDERAZIONE CRITICA SULL’ENCICLICA FRANCESCANA

a7«Ciao vecchio Marx, è arrivato Francesco»: così titolava l’altro ieri l’articolo di fondo del Garantista; ovviamente il «vecchio Marx» non ha nulla a che fare, nemmeno in forma mediata, né con il giornale diretto da Piero Sansonetti, né col Papa né con i papisti di “sinistra”. Come si evince con solare chiarezza anche dai passi che seguono: «Oggi abbiamo scelto per aprire il giornale un titolo un po’ giocoso: “Ciao Marx, è arrivato Francesco”. Che però non è solo giocoso. Vogliamo dire questo: oggi il papa assume su di sé, sulla chiesa cattolica, sul mondo cattolico, il compito di dare guerra all’ingiustizia sociale, ai danni culturali e di coscienza provocati dal mercato inteso non come strumento dell’economia – da limitare, da governare attraverso la democrazia e la politica – ma come sistema di pensiero, anzi di pensiero unico, e come insieme di valori» (P. Sansonetti). Già concepire il mercato, nella sua connotazione “positiva”, «come strumento dell’economia» (capitalistica!), e non come espressione e sostanza di rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, significa affermare quella concezione feticistica e apologetica del Capitalismo contro cui Marx non smise mai di polemizzare e ironizzare. Il fatto che si continui a tirare inopinatamente la barba del comunista di Treviri per coinvolgerlo nel salvataggio del Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, secondo la moda progressista di questi tempi, la dice lunga sulla cultura politica di ex, neo e post “comunisti”. Piuttosto, questi signori dovrebbero chiamare in causa il filosofo della miseria, quel «signor Proudhon» che «è dalla testa ai piedi filosofo ed economista della piccola borghesia» (Marx).

Il pensiero politico-sociale che informa l’ultima Enciclica papale (una «prolungata riflessione, gioiosa e drammatica insieme», intorno ai problemi posti dalla crisi ecologica e umana dei nostri tempi) non supera il livello medio del pensiero progressista dei nostri malandati giorni. Di qui, l’entusiasmo francescano dei papisti sinistrorsi – un esempio a caso: i “comunisti” del Manifesto: «Que­sta enci­clica rap­pre­senta un salto di qua­lità nella rifles­sione sull’ambiente».

Anche la delusione dei destrorsi appare scontata («La destra americana», scriveva l’atro ieri Matteo Matzuzzi sul Foglio, «da tempo è nella sua maggioranza schierata contro l’idea stessa che il Pontefice possa scrivere di ecologia»), ma almeno da quella parte si è ancora in grado di cogliere qualche contraddizione e qualche eccesso di banalità nel discorso benecomunista del Santissimo Padre. D’altra parte, il benecomunismo, di matrice laica o religiosa, molte volte fa rima con luogocomunismo. Di certo ha pure pesato sul giudizio fortemente negativo della “destra liberista” la consulenza che Leonardo Boff, massimo esponente della Teologia della Liberazione, ha fornito a Francesco proprio in vista della stesura della Sacra Lettera Ecologista. Sempre Matzuzzi informa che «Il senatore James Inhofe, presidente della commissione Ambiente del Senato, ha fatto sapere di non concordare “con la filosofia del Papa sul riscaldamento globale”, aggiungendo che l’enciclica “sarà usata dagli allarmisti per mettere in atto politiche che causeranno l’aumento delle tasse e colpiranno più duramente i poveri”». Da “destra” e da “sinistra” non si fa che pensare al benessere dei poveri: non è commovente tutto ciò?

Ambientalismo di vecchio (vedi Club di Roma) e di nuovo conio (vedi Al gore ma anche Naomi Klein), egualitarismo (a quanto pare Piketty fa ancora “tendenza”), luogocomunismo male argomentato intorno al demoniaco dominio della finanza sulla cosiddetta economia reale (Ora et labora!), feticismo tecnocratico («L’umanità è entrata in una nuova era in cui la potenza della tecnologia ci pone di fronte ad un bivio»), benecomunismo a gogò («Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti»: Amen!), ottimismo della ragione teologicamente orientata («La speranza ci invita a riconoscere che c’è sempre una via di uscita, che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi») e molto altro ancora.

Tra le poche cose interessanti che ho trovato nella Lettera Enciclica Sulla cura della casa comune segnalo la critica francescana a un certo approccio malthusiano con i problemi posti dall’inquinamento e dalla povertà estrema, approccio che secondo il Papa fiancheggia la «cultura dello scarto» (vedi alle voci: aborto e anticoncezionali):   «Invece di risolvere i problemi dei poveri e pensare a un mondo diverso, alcuni si limitano a proporre una riduzione della natalità. Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute riproduttiva”. Però, se è vero che l’ineguale distribuzione della popolazione e delle risorse disponibili crea ostacoli allo sviluppo e ad un uso sostenibile dell’ambiente, va riconosciuto che la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale». In effetti i problemi afferenti alla sostenibilità ambientale, alla fame, alle malattie e a quant’altro affligge ancora vaste aree del pianeta non sono generati tanto dall’ineguale distribuzione della popolazione ma 1) dall’’ineguale sviluppo capitalistico (leggi anche, sul piano del processo storico-sociale, colonialismo/imperialismo) e 2) dall’esistenza stessa del Capitalismo sulla Terra. «La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso». Mi permetto una brevissima aggiunta: «perverso», ossia contrario a un assetto umano della nostra vita, è il dominio capitalistico tout court che oggi sussume sotto le sue bronzee leggi l’intero pianeta, i «poveri del Sud» come i – supposti – ricchi del Nord.

Anche sulla scottante questione degli organismi geneticamente modificati Papa Francesco si smarca da un certo ideologismo manicheo NO-OGM che non ha alcun fondamento storico, scientifico ed economico, e che sbandierando il «principio di precauzione» finisce per sostenere acriticamente gli interessi di alcune multinazionali considerate “buone” contro quelli, altrettanto legittimi (ossia capitalistici), delle multinazionali giudicate “cattive” sulla scorta di parametri scientifici, economici ed etici che a un esame appena appena critico (o semplicemente informato) si rivelano essere  delle balle speculative che hanno molto a che fare con il pensiero magico. Scrive ad esempio Alice Pace: Su temi scivolosi come questo, dove ci sono mille forze e interessi in gioco, è facile che chi si scaglia senza se e senza ma contro il consumo di olio di palma sostenga che chi non lo fa sia asservito alle multinazionali che lo producono o che commercializzano i prodotti che lo contengono. Senza forse rendersi conto che il boicottaggio in toto di questo prodotto è al tempo stesso un asservirsi alle multinazionali degli oli concorrenti, come quello di soia e di colza, con le quali è in atto da anni una vera e propria guerra per il mercato. Insomma, paradossalmente coloro i quali si fanno paladini della lotta contro le multinazionali, se ne fanno a loro volta promotori» (www.wired.it). Le vie che menano all’inferno…

A pagina 103 dell’Enciclica si può leggere: «È difficile emettere un giudizio generale sullo sviluppo di organismi geneticamente modificati (OGM), vegetali o animali, per fini medici o in agricoltura, dal momento che possono essere molto diversi tra loro e richiedere distinte considerazioni. D’altra parte, i rischi non vanno sempre attribuiti alla tecnica stessa, ma alla sua inadeguata o eccessiva applicazione. In realtà, le mutazioni genetiche sono state e sono prodotte molte volte dalla natura stessa. Nemmeno quelle provocate dall’essere umano sono un fenomeno moderno. La domesticazione di animali, l’incrocio di specie e altre pratiche antiche e universalmente accettate possono rientrare in queste considerazioni. È opportuno ricordare che l’inizio degli sviluppi scientifici sui cereali transgenici è stato l’osservazione di batteri che naturalmente e spontaneamente producevano una modifica nel genoma di un vegetale».  Questo approccio “pragmatico” può anche soddisfare il “lato liberale” di Giovanni Sartori, tanto per citare un noto scienziato sociale, ma non può certo sorridere al suo “lato malthusiano”. Sartori è da tempo in polemica con i Sacri Palazzi Vaticani, accusati di voler ostacolare con ogni mezzo una razionale politica demografica. La catastrofe sociale ed ecologica è imminente; il Pianeta morirà di fame, di sete e di caldo: «Che fare? Io dico che la crescita demografica va fermata ad ogni costo. Ma nessuno osa dirlo; l’argomento è proibito. Tutti o quasi tutti invocano la tecnologia e le sue scoperte. Ma non c’è tecnologia che basti e che ci salvi con dieci miliardi di viventi» (Corriere della Sera, 15 Agosto 2011). E il poverino ha pure ragione: di sicuro la tecnologia non ci salverà! In ogni caso, «Secondo la Fao nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di persone. La popolazione del pianeta è di 7 miliardi di individui e 842 milioni soffrono la fame» (S. Sileoni, Istituto Bruno Leoni, 19 giugno 2015). La progressione geometrica malthusiana fa acqua da tutte le parti, oggi più che al tempo in cui il noto ubriacone tedesco ne metteva in ridicolo, penetrandolo criticamente, il reazionario fondamento concettuale.

Come fa notare Francesco Ramella sulla questione dell’inquinamento e del surriscaldamento «negli ultimi quarant`anni si è assistito a una radicale evoluzione di tale quadro: se nel 1971 le tre aree più ricche del Pianeta – America del Nord, Europa occidentale e Giappone – emettevano circa il 60% della anidride carbonica, negli anni seguenti si è registrata una progressiva riduzione della loro quota che nel 2011 si è attestata a meno di un terzo del totale. Pressoché l`intero aumento delle emissioni, che ha conosciuto un`accelerazione negli ultimi due decenni, è quindi da ricondursi allo sviluppo dei Paesi che partivano da livelli di reddito molto bassi, sviluppo che ha determinato, secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale, una riduzione della popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà assoluta dal 52% del 1980 al 21% del 2010. […] Negli Stati Uniti – e in molti Paesi ad alto reddito – la qualità dell`aria è radicalmente migliorata negli ultimi cinquanta anni. Oltreoceano, pur in presenza di un aumento della popolazione pari a 80 milioni di persone, la quantità di acqua consumata è diminuita rispetto al 1970, dal 1990 si è ridotto il consumo di plastica e quello di carta; il consumo pro-capite di petrolio è oggi inferiore del 25% rispetto al 1980. I problemi ambientali più gravi sono oggi correlati alla povertà, non alla ricchezza» (Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015). Questo per dire della complessità del problema, che certamente non sfugge al Papa (magari ai papisti sì): «In attesa di un ampio sviluppo delle energie rinnovabili, che dovrebbe già essere cominciato, è legittimo optare per il male minore o ricorrere a soluzioni transitorie» (p. 128). Anche la Cina, che sta attraversando una drammatica crisi ecologica in diverse aree del Paese (basti pensare ai famigerati villaggi del cancro), sta cercando di correre ai ripari, ma non è facile promuovere in quella che rimane la più grande fabbrica capitalistica del mondo rivoluzioni tecnologiche e scientifiche in vista di macchine a risparmio energetico e a limitate emissioni inquinanti e un nuovo modello di sviluppo centrato sulla produzione di merci ad alto valore aggiunto e a – relativamente – basso impatto ambientale. Per innalzare quella che Marx chiamava la «composizione tecnica del capitale» ci vuole tempo, e soprattutto sono necessari molti investimenti. Insomma, nel “bene” come nel “male” è tutta una questione di sviluppo capitalistico, e di certo la «conversione ecologica» sostenuta anche da Bergoglio non sarà un pranzo di gala.

«Nel frattempo», incalza Francesco, «i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. […] È quello che succede, per fare solo un semplice esempio, con il crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria: i mercati, cercando un profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda. Se qualcuno osservasse dall’esterno la società planetaria, si stupirebbe di fronte a un simile comportamento che a volte sembra suicida» (p. 44). Senza entrare nel merito dei criticati «stili di vita, di produzione e di consumo», a me viene in testa una domanda abbastanza retorica: ma la benemerita «economia reale» non ha forse tutto l’interesse a sostenere e ad espandere quei vituperati stili di vita? I «mercati» cercano un «profitto immediato»? Che scandalo! Come si permettono i signori capitalisti a cercare il «profitto immediato»? Roba dell’altro mondo! O di questo (capitalistico) mondo? Se qualcuno osservasse dall’esterno la società planetaria dopo aver letto (e possibilmente compreso) Il Capitale di Marx si farebbe delle crasse risate su certe illusioni papiste e progressiste (due termini che oggi si equivalgono, a quanto pare) circa la possibilità di un Capitalismo “dal volto umano”.

La «cultura dello scarto» lamentata dal Papa è radicata in una prassi sociale orientata in modo sempre più stringente dalle esigenze economiche, ed è per questo che parlare di fratellanza umana («Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli») senza mettere radicalmente in questione il fondamento classista dei fenomeni sociali che offendono e indignano la coscienza dell’opinione pubblica più “umanamente sensibile” e “culturalmente avvertita” (vedi, ad esempio, la cinica “questione immigrati”), significa di fatto alimentare la coazione a ripetere del Male – per civettare indegnamente anch’io con la teologia. Ma significa anche, su un terreno politico più contingente, lasciare che populisti e demagoghi d’ogni genere trovino abbondante materia prima nel disagio sociale degli strati più poveri della popolazione, notoriamente più esposti alle contraddizioni sociali. Io ho in testa un altro genere di fratellanza possibile (cioè da costruire partendo da zero!) a rapporti sociali invariati, ma non è il caso di parlarne adesso.

Checché ne dica l’entusiasta Raniero La Valle, il denaro di Francesco ha molto a che fare con il pensiero del «socialismo reazionario» à la Proudhon (quello che voleva la merce ma non, appunto, il denaro, il capitale ma non i capitalisti, il capitale ma non la finanza, il lavoro salariato ma non lo sfruttamento dei lavoratori, il “lato buono” del Capitalismo ma non il suo “lato cattivo”), e nulla a che vedere con «il capitale» di Marx, il cui concetto rimanda direttamente a un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che non permette di seguire terze o quarte vie alternative a quelle della conservazione (comunque declinata: “da destra” o “da sinistra”, dal campo liberista o da quello statalista, dai liberisti-selvaggi o dai benecomunisti) e della rivoluzione sociale: la sola «conversione umana», questa, che personalmente riesco a concepire. Ma le mie capacità, com’è noto a chi mi conosce bene, sono limitate, e di questo l’umanità dovrà pur tener conto. Per fortuna essa può contare sulla via luminosa indicata da Francesco, il Papa dei poveri. «Con que­sta enci­clica», continua infatti La Valle, «il gioco di far finta di non capire non sarà più possibile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché non sta facendo una pre­dica, sta chie­dendo una scelta. […] Papa Fran­ce­sco abbrac­cia vera­mente tutti (come ne sono figura essenzia­lis­sima per il cri­stiano le brac­cia di Cri­sto aperte sulla croce) e si pone non come capo di una Chiesa, e nem­meno come profeta dei cre­denti, ma come padre della intera uma­nità. Per­ché il mes­sag­gio è il seguente: non que­sta o quella Potenza o Isti­tu­zione, non que­sto o quello Stato, non quel par­tito o movimento, ma solo l’unità umana, solo la intera fami­glia umana giuridicamente costituita e agente come sog­getto poli­tico può pren­dere in mano la terra e assicurarne la vita per l’attuale e le pros­sime generazioni». Qui un bell’Amen! ci sta davvero bene.

Dal (cosiddetto) anticapitalismo radicale al papismo più rognoso: ovviamente chi conosce certi “comunisti” non può stupirsi di nulla. D’altra parte i sinistri, soprattutto quelli di casa nostra, non possono vivere senza il Che Guevara (o, per quelli più acculturati, il “pensatore critico”) di turno, e quindi non sarò certo io a «strappare dalla catena i fiori immaginari», ottenendo con ciò il solo risultato che il compagno «porti la catena spoglia e sconfortante». Non ho mai avuto un atteggiamento illuminista/ateista con le illusioni dell’umanità sofferente. Ma come si fa a gettare «la catena» e a «cogliere i fiori vivi»? Ne riparliamo un’altra volta, magari commentando una nuova epocale Enciclica francescana.

Ecco un passo dell’Enciclica assai proudhoniano, che certamente è destinato a mandare in visibilio uomini di buona volontà come Piketty e Varoufakis: «Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura» (p. 144). Nel Capitalismo in generale e nel Capitalismo giunto nella sua «fase imperialistica» in particolare lo Stato cerca di salvare «ad ogni costo» le banche «facendo pagare il prezzo alla popolazione»: che brutta cosa! La storia del Capitalismo è la storia del piagnisteo piccolo-borghese intorno ai “lati cattivi” del sistema, il quale secondo gli uomini di buona volontà intenti a versare lacrime benecomuniste non andrebbe spazzato via una volta per sempre così da permettere l’apparizione sulla Terra di una umanità degna dell’alto concetto elaborato dai migliori umanisti d’ogni tempo – compresi non pochi profeti biblici –, ma “semplicemente” rivisto e riformato. Gran bella Chimera, non c’è che dire! Mi tengo allora la mia Utopia, tanto più che non mi va di venir rubricato fra gli uomini di buona volontà.

Nella Laudato si’ di teologicamente significativo c’è forse il tentativo francescano di rispondere ad una vecchia accusa «lanciata contro il pensiero ebraico-cristiano: è stato detto che, a partire dal racconto della Genesi che invita a soggiogare la terra, verrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio della natura presentando un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore. Questa non è una corretta interpretazione della Bibbia come la intende la Chiesa. Anche se è vero che qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. È importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una giusta ermeneutica, e ricordare che essi ci invitano a “coltivare e custodire” il giardino del mondo. […] La Bibbia non dà adito ad un antropocentrismo dispotico che non si interessi delle altre creature» (pp. 53-54). Naturalmente sulla scorta della Bibbia, come di ogni altro Testo Sacro, è possibile fare qualsivoglia deduzione concettuale e dimostrare una cosa e il suo esatto opposto. E difatti Francesco non dimentica di precisare che «È importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una giusta ermeneutica. […] Inoltre la Chiesa Cattolica è aperta al dialogo con il pensiero filosofico, e ciò le permette di produrre varie sintesi tra fede e ragione» (p. 50). Qui si può forse apprezzare il lascito teologico di Benedetto XVI, il cui tentativo di assorbire il pensiero scientifico occidentale nel seno della concezione ebraico-cristiana del mondo si coglie molto bene nella famosa – e per molti famigerata – Lezione Magistrale tenuta da Ratzinger all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006.

D’altra parte il moderno pensiero ecologicamente corretto più che con la biblica Genesi ama prendersela con Cartesio e con Galilei, accusati di aver fondato quella concezione antropocentrica e meccanicistica del mondo che sarebbe la vera responsabile delle magagne che oggi squassano il nostro bel pianeta. Secondo Paolo Scroccaro, dell’Associazione Eco-filosofica, «Se la scienza moderna avesse seguito Leonardo, invece di seguire Galilei e Cartesio, molto probabilmente anche la direzione della civiltà sarebbe stata molto diversa» (cit. tratta da Decrescita, autori vari, Sismondi ed., 2009).  Ideologia alla stato puro, avrebbe detto Marx. Invece Fritjof Capra, teorico della cosiddetta «ecologia profonda», la pensa esattamente come l’eco-filosofo italiano: «Ritengo ragionevole pensare che la scienza occidentale si sarebbe sviluppata in modo diverso se i famosi Quaderni di Leonardo (che sono rimasti nascosti per oltre due secoli dopo la sua morte nel 1519) fossero stati studiati dai suoi contemporanei» (ibidem). Vedete quanto la storia del mondo dipende dal caso? Altro che «determinismo economico»! E allora, via Cartesio e Galilei e largo a Leonardo: ecco compiuta la «rivoluzione culturale» che (forse) ci salverà dall’autodistruzione.

Ma ha poi un fondamento storico e filosofico contrapporre Leonardo a Cartesio e a Galilei? Naturalmente no. Non vi fidate del mio giudizio? Allora leggete uno che in fatto di storia del pensiero scientifico la sapeva assai più lunga del sottoscritto: «Porre l’inizio della meccanica al tempo di Galilei e di Descartes significa non prendere in considerazione almeno 50 anni di ricerca scientifica […] È certo che Leonardo nelle sue ricerche ha impiegato metodi quantitativi esatti e che ha sottolineato la generale applicabilità della matematica. [… ] Egli pose i principi di una compiuta immagine meccanicistica del mondo» (H. Grossmann, Le basi sociali della filosofia meccanicistica e la manifattura,1935). Insomma, checché ne dicano i filosofi dell’ecologia profonda, alla ricerca di capri espiatori filosofici in grado di salvare (non lo sanno, ma lo fanno!) la capra dei rapporti sociali capitalistici e i cavoli del rispetto ambientale, Leonardo si colloca al centro della genesi del pensiero scientifico moderno, prodotto e – al contempo – fattore della genesi (con la g piccola!) del moderno Capitalismo (con la c grande!). Mi scuso per la digressione “storico-filosofica” e mi avvio rapidamente alla conclusione.

«C’è uno scontro di civiltà tra cristiani e barbari», proclama il neo-crociato Sansonetti: «La civiltà della quale il papa è testimone e rappresentante non è la stessa di Grillo, di Salvini, di Bush, dei leader ungheresi. C’è una distanza abissale tra questi due modi di pensare e di vivere. C’è uno scontro di civiltà difficilmente ricomponibile. O vince il papa o vincono i reazionari. E così mi succede di sentire un sentimento che non credevo mai di poter provare. La simpatia per l’esercito del papa. E mi viene da dire una frase impronunciabile: c’è uno scontro di civiltà tra cristiani e barbari. E io sto con i cristiani…». Su questo non avevo dubbi, conoscendo l’origine “comunista” del simpatico giornalista, una volta militante di quel PCI pieno di “cattocomunisti” e di teorici del “compromesso storico” con le «forze progressiste e democratiche» del cattolicesimo italiano. Dall’antifascismo militante allo scontro di civiltà: se non è zuppa, è pan bagnato.

Alla devastante avanzata del «paradigma tecnocratico» non si possono opporre, secondo Francesco, «una serie di risposte urgenti e parziali»: «Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste possono finire rinchiuse nella stessa logica globalizzata. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale. È possibile, tuttavia, allargare nuovamente lo sguardo, e la libertà umana è capace di limitare la tecnica, di orientarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (p. 88). È «l’ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali» (p. 107), che sta al centro dell’Enciclica del Papa. Non è possibile salvare la natura dallo sfruttamento sempre più intensivo da parte del Capitale (di cui il denaro è solo una necessaria quanto fondamentale «forma fenomenica») senza mettere l’uomo al riparo dai vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Più che ecologica, o astrattamente antropologica, la conversione invocata da Francesco dovrebbe essere umana, ma nell’accezione più radicale (sociale) del concetto. Si tratta, per dirla in breve, di organizzare umanamente il mondo, affinché l’uomo, «che non è ancora un essere umano» (Marx), possa agire e riconoscersi come uomo: è la “mia” rivoluzione integrale, che ovviamente non contrappongo al Santissimo Padre, ma alla disumana vigenza del Dominio – ho scritto Dominio, Franciscus, non Demonio!

APOLOGIA DELL’IMPERFEZIONE

Amateur contestants pose in telephone booths during the annual European Elvis Tribute Artist Contest and Convention in BirminghamScrive Giorgio Arfaras (Limes, 6 marzo 2015), economista del Centro Einaudi: «Sono per l’apologia dell’imperfezione: non ha senso parlar male dell’imperfetto, è lamentela e non azione». Sono d’accordo. Infatti, come altre volte ho scritto contro i paladini della Realpolitik e i teorici del “male minore”, non si tratta di costruire la Società Perfetta, secondo un luogo comune da sempre scagliato contro le “chimeriche pretese” dei rivoluzionari, ma di rendere finalmente possibile la Comunità Umana. La perfezione, si sa, non è di questo mondo, e solo un ingenuo può rivendicarla; l’umanità invece potrebbe esserlo: ecco perché anziché lamentarci delle “imperfezioni” che ogni giorno scopriamo in questa società dominata dagli interessi economici (capitalistici), dovremmo piuttosto agire contro questa stessa società presa in blocco, colpevole, almeno agli occhi di chi scrive, di essere sempre più disumana, e non sempre più “imperfetta”. Una lamentela, questa, che lascio volentieri, ad esempio, a chi vuole salvare il Capitalismo da se stesso attraverso forti iniezioni di sovranismo politico: auguri!

«In un mondo di baratti», scrive sempre Arfaras, «sarebbe molto complicato vivere, a meno di avere esigenze davvero modestissime. Un mondo senza moneta è primitivo, elementare, si consuma poco e si offre poco: un mondo orripilante». Così deve necessariamente ragionare chi non riesce nemmeno a concepire astrattamente la possibilità di una Comunità libera dalle catene della cieca necessità e che, proprio per questo, non sa che farsene della moneta, la quale, a differenza di quel che crede la scienza sociale borghese (a cominciare da quella che ama presentarsi in guisa progressista e financo “rivoluzionaria”), non è un mero intermediario al servizio delle transazioni economiche; non è una tecnologia economica al servizio degli uomini, ma l’espressione forse più compiuta di peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Più che di un’apologia dell’imperfezione, qui si tratta piuttosto di un’apologia dello status quo sociale.

Ecco perché quando il Compagno Papa Francesco, dopo aver ripetuto per l’ennesima volta la suprema banalità secondo cui «il denaro è lo sterco del diavolo», incita le imprese (soprattutto quelle cooperative: sic!) a mettere «il denaro a servizio della vita autentica, dove non comanda il capitale sugli uomini ma gli uomini sul capitale», egli non fa che ungere e benedire i duri ingranaggi della macchina capitalistica, oltre che esprimere quel feticismo delle cose (denaro, tecnologia, merci) che alimenta anche il mercato del disagio, la cui crescente domanda è soddisfatta dalle più varie figure professionali: politici, ideologi, psicanalisti, guru del Complottismo e quant’altro. A ben vedere, la brama di denaro che a gradi diversi pungola tutti gli individui (salvo i pochi eletti che stanno leggendo questa modesta riflessione, si capisce) non rinvia alla – supposta – presenza del Demonio su questa Terra “imperfetta”, ma al Dominio capitalistico che si è fatto Mondo. E uomo – o non-ancora-uomo, «l’uomo nella sua esistenza accidentale, […] l’uomo come si è ridotto sotto l’impero di rapporti ed elementi non umani: in una parola, l’uomo che non è ancora un essere umano» (K. Marx, La Questione ebraica). Qui non c’è lamentela, o astratto umanitarismo; qui c’è radicalità di pensiero. Andare verso l’uomo stesso, per dirla con il gergo fenomenologico, non verso l’impossibile perfezione.

Naturalmente gli ”apologeti dell’imperfezione” come Giorgio Arfaras possono contare su un vantaggio competitivo difficilmente recuperabile dagli “utopisti”: l’esperienza del cosiddetto «socialismo reale». Contro gli “utopisti” di tutto il mondo ha fatto più lo stalinismo internazionale (ancora attivo, come dimostrano certi post che ho letto anche oggi sull’Ucraina, della serie: nel mondo si stava molto meglio ai tempi della Guerra Fredda, quando c’era il “comunismo”, sebbene… imperfetto), che tutti gli anticomunisti dichiarati (vivaddio!) del pianeta messi insieme. Il complotto ai danni degli “utopisti” è stato quasi perfetto, bisogna ammetterlo. Quasi? Ebbene sì, anch’io sono «per l’apologia dell’imperfezione». Per convinzione? Per disperazione? Per necessità? Per ottimismo della volontà? Fate un po’ voi.

A proposito di “utopisti” e di stalinismo! Scriveva qualche anno fa il “catto-marxista” Reinhard Marx, ex Vescovo di Treviri (città nella quale ha scritto Il Capitale, una critica cristiana alle ragioni del mercato) e Cardinale per grazia ricevuta dal “conservatore” Ratzinger (le vie del Signore sono davvero infinite!): «Un capitalismo senza un quadro etico è nemico del genere umano» (La Stampa, 26 ottobre 2008.). Ma al capitalismo, caro Marx, non manca affatto «un quadro etico» di riferimento: manca sostanza umana, e deve mancargli necessariamente, perché la sua genesi e la sua attualità è radicata nel lavoro salariato, base originaria di ogni forma di ricchezza nella sua attuale forma storica. E il lavoro salariato presuppone e pone sempre di nuovo, con assoluta necessità, un mondo disumano, prim’ancora che “imperfetto”. Anche la tanto esecrata finanza speculativa si dissolverebbe come neve al sole senza la creazione di valore reale (valore e plusvalore, per dirla con l’altro Marx) nelle eticamente corrette fabbriche del mondo.

Ancora il Cardinale Rosso: «Noi con l’etica sociale della Chiesa non abbiamo mai confuso l’opera filosofica di Marx con Stalin ed i Gulag. Non si può attribuire a Marx ciò che hanno fatto i suoi epigoni. Lui ha bene analizzato il carattere di merce del lavoro e previsto la mercificazione di tutti i settori della vita». Santo subito, senza se e senza ma!

CADE ANCHE IL MURO CUBANO?

che__700Ieri sera un amico di recente acquisizione e di nessuna “cultura politica” mi ha detto che il miglior regalo per il mio compleanno l’ho ricevuto, a quanto pare a mia insaputa, «da Castro, Obama e Papa Francesco: non sei contento?» E poi si è complimentato per la riflessione da me postata ieri su Facebook, che si concludeva come segue: «Signori, il clima, almeno quello geopolitico, mi sembra prettamente natalizio. Molto freddo! Non ci rimane che indossare un bel cappotto. “Color grigio/verde militare?”. Il solito pessimista! Il quale evidentemente non conosce la novità del giorno: “Passi storici per un nuovo corso: così la Casa Bianca commenta la svolta nelle relazioni fra Stati Uniti e Cuba con una serie di misure che allentano l’embargo su L’Avana. Il Vaticano avrebbe giocato un ruolo da garante nelle trattative fra Stati Uniti e Cuba, iniziate lo scorso anno” (ANSA). E già mi sento più natalizio! Grazie Francesco. E buon compleanno anche a te».

Naturalmente mi sono messo a ridere: «Padre, perdonalo perché non sa quel che dice!». E giù risate contagiose, perché anche il poveretto s’è messo a ridere: «Ma perché stiamo ridendo, poi?». L’ho rinviato al mio modestissimo Blog per farsi almeno un’idea circa la mia posizione sul “socialismo caraibico”.

Todos somos americanos! La destra estrema americana e la sinistra estrema planetaria fedele all’infinita «Rivoluzione Cubana» non sono d’accordo: «Nessuna accondiscendenza: ora e sempre resistenza!» Resistenza “anticomunista”, da un lato, resistenza “antimperialista” dall’altro. A mio modesto avviso, due facce di una stessa medaglia: quella che ripropone sempre di nuovo la contesa interimperialistica come unico orizzonte possibile. Ci sono poi quelli che si chiedono chi abbia vinto: la democrazia americana o il “socialismo” cubano?  Scrive oggi Franco Venturini sul Corriere della Sera: «Davide e Golia si sono dati la mano, con reciproche concessioni (lo scambio di spie o presunte tali), con reciproca dignità, e soprattutto con una pragmatica constatazione, questa soltanto americana: cinquant’anni di inimicizia e di embargo hanno aiutato più che danneggiato il comunismo castrista, sono stati la sua stampella nei momenti difficili, hanno esaltato il nazionalismo che più dell’ideologia politica è da sempre la base del regime».

Ci sarà tempo per analizzare attentamente le cause, interne e internazionali, e la reale portata geopolitica della «svolta storica» reclamizzata forse con eccessiva enfasi dai media di tutto il pianeta; oggi desidero semplicemente ripetere per l’ennesima volta, anche a beneficio della mia amica, che il «comunismo castrista», da sempre base politico-ideologica del regime cubano post Batista (1959), non ha mai avuto nulla a che fare né con il comunismo né con il socialismo, ancorché “reale” e con caratteristiche tropicali*.

Ecco perché nella primavera del 2012, quando l’allora Pastore Tedesco Ratzinger volò a Cuba per dire che «il marxismo si è rivelato una strada senza via d’uscita», criticai i “marxisti” nostrani che, anziché approfittare dell’occasione per denunciare lo stalinismo con caratteristiche cubane venduto al mondo come “socialismo” e rivoluzione permanente (la mitica «Rivoluzione Cubana»), obiettarono al santissimo Padre che «se il socialismo è morto anche il capitalismo non sta poi così bene», e che se i comunisti mangiano i bambini, lo fanno «per evitare che finiscano nelle luride mani dei preti pedofili». Un po’ pochino per i miei difficili gusti. Ma questo i nostalgici della Guerra Fredda e dei Muri (dopo quello di Berlino è caduto anche quello dell’Avana?) non possono capirlo.

 

* Ancora nell’anno di grazia 2014 è possibile leggere la seguente balla speculativa: «La rivoluzione del 1959 dissolve il vecchio apparato statale borghese e permette alle masse di accedere al potere per costruire una società nuova, basata sulla giustizia sociale» (L. Vasapollo, J. S. Cabrera Albert, Vivir bien o muerte!, p. 43, Datanews, 2013). Sulla natura storico-sociale della rivoluzione cubana del ’59 e della «società nuova» edificata a Cuba, rimando al post Riflessioni sulla rivoluzione cubana.

Leggi anche: RICORDANDO EL PATRIOTA DI CARACAS

laurel-and-hardy-laurel-and-hardy-30795541-1024-768-740x350Postato su Facebook il 20 dicembre 2014

CASTRO, MADURO E LA MALAPOTENZA

Secondo Luciano Capone, «Quando uno dei più longevi regimi ateo-marxisti della storia riprende le relazioni diplomatiche ed economiche con il paese capitalista per eccellenza, grazie alla mediazione del Papa, vuol dire che qualcosa è profondamente cambiato» (Il Foglio, 20/12/14). Ma potrebbe anche dire che la definizione del regime cubano come “ateo-marxista” è semplicemente comica. Almeno la cosa fa ridere chi scrive. Ah, ah, ah!… Mi scuso, asciugo le lacrime e mi ricompongo. Ancora Capone:

«“Possono mettersi le loro sanzioni dove sanno, questi yankee insolenti”, aveva dichiarato Maduro, che dopo un paio di giorni si è trovato di fronte a un accordo tra Cuba e gli yankee, di cui evidentemente non era stato informato: “Dobbiamo riconoscere che la riparazione storica nei confronti di Cuba è un gesto coraggioso da parte di Obama”, ha commentato il presidente venezuelano». Ah, ah, ah! Qui siamo a Oggi le comiche!! Come si fa a non ridere?!

«Il disgelo tra Cuba e gli Stati Uniti ha tolto al chavismo anche la logora arma propagandistica del “Satana imperialista” e ha dato ulteriore vigore all’opposizione: “Nicolás, Raúl ti ha messo un’altra volta in ridicolo”, ha dichiarato il leader dell’opposizione Henrique Capriles Radonski. E in effetti la svolta inaspettata, almeno a Caracas, di Raúl Castro non fa altro che danneggiare il consenso interno di un Maduro già a corto di dollari, petrolio e carisma». Questo, invece, non farà di certo ridere il regime venezuelano.

LA BANDIERA RUBATA DEL PAPA PROGRESSISTA

?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????Una parte della borghesia desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese. Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficienza, i membri delle società protettrici degli animali [già allora!], i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista).

Nell’intervista di ieri a Papa Francesco curata per Messaggero.it, Franca Ginasoldati non resiste alla tentazione di rivolgere al Supremo Vicario la solita rivelatrice domanda: «Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L’Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni?»

Quindi: comunismo, pauperismo e populismo messi nello stesso evangelico sacco. Amen! Il povero Lenin trattato alla stregua di un qualsiasi amico dei poveri, lui che ancora giovanissimo e con qualche capello in testa sostenne a muso duro contro gli amici del popolo la tesi secondo la quale i contadini martirizzati dalle continue carestie avevano bisogno più di coscienza rivoluzionaria, che del soccorso della borghese filantropia e del conforto della religione.

Ma a ben considerare la giornalista non commette poi un così grave peccato dinanzi alla verità, visto il concetto di “comunismo” che è venuto fuori dalla teoria e dalla prassi dei “comunisti” negli ultimi ottant’anni. Se persino un personaggio come Enrico Berlinguer è ricordato in questi giorni come uno degli ultimi leader “comunisti” degni di rispetto, si comprende bene come il termine “comunismo” non sia oggi che una vuota parola, che si può spendere appunto anche a proposito del capo di una delle più vecchie, strutturate ed efficaci agenzie politico-ideologiche al servizio del Dominio.

il-papa-con-la-bandiera-del-brasileMa veniamo alla risposta di Francesco (Lui ama farsi chiamare così): «Marx non ha inventato nulla! Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani». La Ginasoldati ci fa sapere che Francesco «ride» pronunciando queste parole. E ne ha tutti i motivi.

Ora, come sa chiunque abbia anche solo una conoscenza approssimativa degli scritti marxiani, il Papa di Treviri non ebbe mai i poveri come sua bandiera, ma il proletariato cosciente della propria posizione sociale e della propria “missione storica”: emancipare l’intera umanità attraverso la propria emancipazione. Al centro del discorso marxiano vi è l’attualità del dominio capitalistico e la possibilità della liberazione da ogni forma di coazione e di miseria (materiale e “spirituale”), non certo la povertà (compresa quella “esistenziale”), materia prima per riformisti, filantropi, preti e psicoanalisti. La Comunità netta di classi sociali e fondata sui bisogni umani (eliminazione del valore di scambio a esclusivo beneficio del valore d’uso): questa è l’originale “invenzione” marxiana.

«È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio»: lo disse, a quanto pare, Gesù non Carlo Marx. infatti, per il comunista tedesco si trattava di fare entrare nel Regno dell’Uomo non il povero, e magari anche il ricco di buona volontà, bensì l’uomo in quanto uomo, cosa che per lui presupponeva il superamento rivoluzionario della vigente società borghese fondata sulla ricerca del profitto.

L’ubriacone teutonico fece, con rispetto parlando, un uso igienico che non sarebbe educato precisare nei dettagli (ma ci siamo capiti!) della cosiddetta bandiera della povertà, che personalmente lascio volentieri nelle mani del Papa Progressista e dei suoi numerosissimi tifosi, molti dei quali di religione “comunista”, più o meno ortodossa o rifondata. Marx non aderì mai a quella «morale degli schiavi», vero e proprio veleno ideologico inoculato nelle vene degli ultimi che attendono – invano – di diventare i primi, che giustamente Nietzsche, profondo conoscitore della psicologia dei dominati, sempre condannò, anche se da un punto di vista filosofico e politico che non è certamente affine a quello di chi scrive.

Detto en passant, forse non è del tutto casuale se la prima enciclica di Benedetto XVI, il Papa teologo, ebbe come suoi oggetti critici espliciti proprio Nietzsche e Marx.

bergoglio-piccolo-papa-309873Scriveva Engels nel 1894, in una delle sue “volgarizzazioni” del pensiero socialista (non sempre utili alla causa, bisogna ammetterlo): «Entrambi, cristianesimo primitivo e movimento operaio moderno, predicano un imminente riscatto dalla schiavitù e dalla miseria; ma il cristianesimo primitivo pone questo riscatto in una vita dell’al di là, dopo la morte, in cielo; il socialismo lo pone in questo mondo, in una trasformazione rivoluzionaria della società». Ora, che ci azzecca la bandiera di Francesco, la cui stessa ragion d’essere si fonda sull’eterna esistenza del Male su questa Terra, con la bandiera di Federico, il quale nella sua utopistica ingenuità (che condivido) il Male voleva sradicare hic et nunc? Misteri della fede (progressista)!

10447074_743898022323258_1352543204675997902_nAggiunta da Facebook (7 luglio 2014)

L’INCHINO DELLA MADONNA

Ha destato molto scandalo l’inchino della Madonna delle Grazie della frazione Tresilico di Oppido Mamertina davanti all’abitazione del vecchio boss Peppe Mazzagatti, agli arresti domiciliari per motivi di salute. Invece appare del tutto naturale che ancora nel XXI secolo milioni di persone abbiano bisogno del conforto della Madonna. E, anche per prevenire antipatici equivoci ateistici, dico che non si tratta di un problema culturale, bensì di una questione squisitamente sociale. Come diceva il Mammasantissima di Treviri, «La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di un mondo senza spirito». Amen! Qualcuno a questo punto potrebbe sentirsi autorizzato a gridare: «Viva la Madonna, abbasso il Capitalismo!»? Forse. D’altra parte, chi sono io per stigmatizzare una simile autorizzazione?

«Quando non si adora il Signore», aveva detto il Santissimo Francesco a Sibari giusto qualche giorno fa, «si diventa adoratori del male, come lo sono coloro che vivono di malaffare e di violenza». Ma gli «adoratori del male», se mi è concesso obbiettare al Papa più amato dai progressisti, sono concepibili solo in una società fondata sull’ossessiva ricerca del massimo profitto, quest’ultimo declinato anche in termini non immediatamente economici («Che me ne viene da questa situazione? da questa azione? da questa relazione? ecc.).

Come disse una volta Papa Carlo, ciò che va scomunicato non è l’adoratore del male, ma il Male in sé, ossia il rapporto sociale che mette tutti in balìa di potenze sociali (che si esprimono, ad esempio, nel Moloch Denaro) che non controlliamo e che ci controllano dalla mattina alla sera, 360 giorni all’anno. Sante domeniche incluse.

Leggi, se vuoi, La natura criminale della mafia.

È UFFICIALE: PAPA FRANCESCO NON È COMUNISTA. CHE DELUSIONE!

RIMETTERE AL CENTRO IL LAVORO?

in bilicoNel suo saggio del 2010 La malattia dell’Occidente. Perché il lavoro non vale più (Laterza, 2013), Marco Panara, giornalista economico del quotidiano La repubblica, denuncia ciò che da tempo era noto agli economisti e ai leader politici di tutto il mondo: «La perdita di valore del lavoro, e il conseguente trasferimento di ricchezza del lavoro al capitale». Sulla scorta dei dati forniti dalle maggiori istituzioni internazionali che monitorano l’andamento dell’economia mondiale, egli calcola nell’ordine di 5 punti annui  (circa 1500 dollari all’anno per ciascun lavoratore occidentale) questo indiscutibile trasferimento di ricchezza.

Il salario si fa sempre più anemico, mentre il profitto ingrassa con la stessa rapidità seguendo una “legge di sviluppo” che sembrava essere andata in soffitta insieme al polveroso Carlo Marx. Non è che “a volte ritornano”; è che il Capitale non è mai andato via dalla scena.

«Quello che sta accadendo in Occidente da un quarto di secolo a questa parte», scrive Panara, «è che il valore del lavoro diminuisce costantemente. Si potrebbe dire che nello scontro secolare tra lavoro e capitale in questa fase ha vinto il capitale». Perché «in questa fase»? Diciamo piuttosto che il Capitale è destinato a vincere sempre e necessariamente sul lavoro, almeno fino a quando non verrà superato il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che lo ha reso possibile storicamente (attraverso la formazione di una classe di nullatenenti costretti a vendersi ai capitalisti per sopravvivere) e che lo espande e lo rafforza sempre di nuovo – anche attraverso le crisi economiche, che sono immanenti al meccanismo di funzionamento di questo modo di produzione.

Questo al di là delle fluttuazioni che possiamo registrare contingentemente nell’andamento del salario reale, il quale, è bene ricordarlo, si trova in una relazione assai stretta non solo  con le condizioni della valorizzazione, e quindi con il processo di accumulazione, ma anche con la peculiare stratificazione sociale di un Paese: vedi, ad esempio, il peso che i ceti parassitari percettori di qualche tipi di rendita hanno nella distribuzione del plusvalore. Insomma, per farla breve, il lavoro è sempre e necessariamente legato al carro del profitto.

La svalorizzazione economica del lavoro, osserva Panara, si dà insieme alla sua svalorizzazione a tutto campo: sul piano politico come su quello etico. «Oggi viviamo in una società in cui il denaro conta assi più del lavoro». Anche qui: perché «oggi»? Diciamo, più correttamente, che sempre più il denaro agisce, in quanto equivalente universale delle merci, come potenza sociale («che sta dentro le nostre tasche») in grado di comprare tutto ciò che ha un valore sul mercato. Al lettore il facile compito di individuare ciò che si sottrae alla bronzea legge del valore. A suo tempo gli scugnizzi di Napoli riuscirono a confezionare e a vendere anche l’aria di Posillipo: che genialità!

Per rendere una vivida immagine del potere che il denaro ha sugli individui moderni, lo spendaccione di Treviri citò (in latino) il verso biblico che segue: «Essi hanno un solo pensiero, e danno la loro forza e il loro potere alla bestia. E che nessuno possa comprare o vendere, se non chi abbia il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome» (Apocalisse). Come spiegò a suo tempo Marx, il denaro non è una cosa, non è una tecnologia economica messa dal progresso storico al servizio della società, dal cui grado di responsabilità politica ed etica dipenderebbe un suo uso più o meno buono: il denaro è in primo luogo l’espressione di un peculiare rapporto sociale.

Per quanto possa sembrare assurdo a chi concentra la propria attenzione solo, o soprattutto, sui fenomeni afferenti la circolazione della ricchezza (più o meno fittizia) nella sua forma finanziaria, anche oggi il potere del denaro non potrebbe essere neanche concepito senza il quotidiano sfruttamento dei salariati in ogni luogo del pianeta. La stessa speculazione finanziaria, che in effetti non sembra avere alcun rapporto con il lavoro vivo, può costruire i suoi grattacieli di carta solo a partire dalla cosiddetta ricchezza reale: solo su questo miserabile (sotto tutti i punti di vista) fondamento è possibile quella miracolosa moltiplicazione “valoriale” che fa sorgere nella testa di chi specula e in quella di chi teorizza il mondo “postcapitalistico” la chimera del denaro prodotto a mezzo di denaro.

Poteva mancare, nel libro in questione scritto da un vecchio progressista, un dolente richiamo all’articolo primo della Costituzione? «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»: che fine ha fatto, si chiede amareggiato Panara, quella solenne dichiarazione in un Paese in cui avanza la svalorizzazione “a 360 gradi” del lavoro, cresce la precarizzazione del lavoro, dilaga la disoccupazione, soprattutto fra le nuove generazioni? Panara ricorda quanto disse Giuseppe Saragat nel 1947, a commento dell’Art.1: «Che cosa vuol dire questo articolo primo della Costituzione? Vuol dire che essa mette l’accento sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sulla attività produttiva di quella ricchezza. È il rovesciamento delle vecchie concezioni». Quasi mi commuovo e abbocco. Quasi.

malutemporeA suo tempo il comunista che sussurrava alla bottiglia mi salvò dall’infatuazione costituzionalista introducendomi nell’arcano mondo della creazione del plusvalore, popolato di pochi detentori di capitale e di molti venditori di mera capacità lavorativa, non certo felici di creare tanta ricchezza sociale in cambio di un salario, che rimane miserabile in ogni circostanza, anche in quella più favorevole ai lavoratori. Insomma, appresi che non esiste un astratto e astorico lavoro, bensì un lavoro sempre connotato in termini storici e sociali. Scoprii che il lavoro tanto celebrato nella Costituzione «più bella del mondo» non è che il “marxiano” lavoro salariato, il lavoro dei moderni schiavi, sul cui sfruttamento si fonda il potere sociale mondiale del Capitale anche nel XXI secolo. Anzi, oggi molto più che ai tempi di Marx, la cui visione mondiale apparve allora ai più un tantino esagerata.

Ecco perché mi sono messo a ridere quando ho letto la frase che segue: «Ogni volta che il lavoro è stato messo al centro, che sia stato da San Benedetto, da Calvino o dalle costituzioni ne è sempre seguita una fase di progresso civile ed economico e di conquiste di libertà». Come se mettere al centro il lavoro (salariato) non equivalesse a mettere al centro il rapporto sociale che lo rende possibile per la maledizione dei senza riserve e la gioia per chi sa trarre gioia dal loro sfruttamento! Mettere al centro il lavoro (salariato) significa confermare la vigente prassi capitalistica, i cui lamentati “lati cattivi” sono necessari esattamente come i suoi lodati “lati positivi”. Parlare dei “lati buoni” e dei “lati cattivi” dello sviluppo tecnologico (che rende sempre più produttivo il lavoro) e della globalizzazione (con l’ingresso nel mercato mondiale di nuovi competitori capitalistici di grandi dimensioni: Cina, India, Brasile, ecc.) significa non comprendere la natura del Capitalismo, il quale non conosce “lati” ma processi sociali assoggettati alla sempre più stringente e totalitaria logica del profitto. Ed è proprio sulla natura socialmente totalitaria del Capitalismo del XXI secolo che dovremmo riflettere, anziché versare lacrime, come fa anche Panara, sulla perduta sovranità della politica a vantaggio delle «forze del mercato» che metterebbe a repentaglio le conquiste democratiche degli ultimi cinquant’anni.

Alle spalle degli apologeti della Santissima Costituzione, l’Art 1 dice la verità sul cattivo mondo che ci ospita. Come ho scritto altre volte, trattandosi non di generico lavoro ma di lavoro salariato, il quale presuppone e pone ogni giorno che il buon Dio manda in terra la società dominata dal Capitale, la società sequestrata nella dimensione strutturata dalla ricerca del massimo profitto; trattandosi di questo e di nient’altro la precarizzazione del lavoro e la disoccupazione non solo non contraddicono quell’articolo assurto a mito, la cui pregnanza ideologica in senso ultrareazionario deve necessariamente sfuggire ai progressisti d’ogni tendenza politica, ma piuttosto lo confermano nel modo più puntuale. L’Art. 1 è così vero da rasentare il cinismo.

Il lavoro che Panara vuole mettere al centro dell’interesse generale è precisamente quello che rende radicalmente disumana questa società, al contrario di quanto pensava a suo tempo il socialdemocratico Giuseppe Saragat.

A pagina 13 del saggio ho letto una considerazione di stampo per così dire malthusiano che mi ha fatto molto riflettere: «Dopo la fine della peste nera nel 1347 i salari reali salirono rapidamente, perché il male aveva falcidiato la popolazione e i pochi sopravvissuti erano diventati assai più preziosi di prima nelle botteghe e nei campi». Subito mi è balenata alla mente l’intervista rilasciata a Le Nouvel Observateur questo inverno da Thomas Piketty, il celebratissimo autore de Il Capitale nel XXI secolo: «Nel XX secolo sono state le guerre a fare tabula rasa del passato e a dare temporaneamente l’illusione di una diminuzione strutturale delle disuguaglianze e un superamento del capitalismo». Diciamo che le guerre mondiali hanno molto a che fare con il modo capitalistico di produrre e distribuire la ricchezza sociale. Soprattutto la Seconda carneficina mondiale, con la sua gigantesca opera di svalorizzazione e di distruzione del capitale in ogni sua fenomenologia (compresa quella “umana”, ovviamente), rese possibile il definitivo superamento della lunga e micidiale crisi economica iniziata formalmente nel ’29 e il più lungo e “tonificante” ciclo espansivo che la storia recente del capitalismo conosca. Una “bella” guerra mondiale sarebbe anche oggi un rimedio radicale, un vero e proprio toccasana, forse la sola “manovra economica” in grado di rilanciare in Occidente e in Giappone l’accumulazione in grande stile, e non c’è serio economista in giro per il capitalistico mondo che non lo faccia intuire con battute, metafore e paradossi. La «malattia», per dirla con Panara, è grave, e bisogna aggredirla con rimedi adeguati, altrettanto gravi.

Ancora Piketty: «Affinché il XXI secolo inventi un superamento contemporaneamente più pacifico e più duraturo è urgente ripensare il capitalismo dalle fondamenta, serenamente e radicalmente, e costruire una amministrazione pubblica adatta al capitalismo globalizzato del nostro tempo». Qui siamo alle solite “utopie” riformiste che, «serenamente e radicalmente», bisogna trattare alla stregua di intoccabili sostanze escrementizie. Chiudo la breve parentesi.

La “malattia” dell’Occidente e del mondo intero si chiama Capitalismo, una formazione storico-sociale radicata sullo sfruttamento sempre più intensivo e scientifico del cosiddetto capitale umano, quello che tutti vorrebbero «mettere al centro» con uno zelo che può compiacere solo il Demonio, la cui attiva – e non metaforica – presenza nel mondo il Papa Rivoluzionario denuncia ogni giorno, per la gioia degli “Atei Devoti” come Giuliano Ferrara.

ninja-gdbbf-305522A proposito di “capitale umano”, di radici sociali del Male e di Santissimo Padre! In una intervista rilasciata in esclusiva a La Vanguardia, ripresa dall’Osservatore Romano di ieri, Papa Francesco è tornato a lamentare la realtà di un mondo che ha messo al centro non l’uomo ma il Dio denaro «le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro». Richiesto di commentare la tesi secondo la quale l’attuale Papa sarebbe un rivoluzionario, il Vicario del Padre Eterno ha risposto in termini molto “marxisti”: «Per me la grande rivoluzione è andare alle radici, riconoscerle e vedere quello che queste radici hanno da dire al giorno d’oggi. Non c’è contraddizione tra essere rivoluzionario e andare alle radici». Non c’è dubbio. Solo il rivoluzionario si sforza di cogliere l’essenza di una società, che sta nei suoi rapporti sociali. Per Marx «Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel). E siccome l’uomo è la sua prassi sociale, ne ricavo l’urgenza di umanizzare questa prassi, e così accontentare anche il buon Francesco: mettere al centro di tutto l’uomo – in quanto uomo.

Leggi anche Marx, Keynes e Carlo Formenti