L’OSSESSIONE DI KRUGMAN PER LA GUERRA

immagine_all-ovest-niente-di-nuovo_26202Per Paul Krugman la guerra mondiale come eccezionale (e forse unico) mezzo per uscire dalla crisi epocale che ormai da diversi lustri stringe il Capitalismo occidentale nella morsa della crescita fiacca (anemica, anoressica, con cadute nella stagnazione conclamata) è diventata una vera e propria ossessione. E probabilmente è questa ossessione che realizza la sola intuizione intelligente che l’illustre economista americano è riuscito a concepire negli ultimi anni.

Naturalmente, e giustamente, l’ossessione di Krugman trova alimento nel Secondo macello imperialista, quello spacciato dai vincitori come Guerra di Liberazione: «Parlare a rotta di collo di come la tecnologia cambi tutto potrebbe sembrare innocuo. Invece, funge da elemento di distrazione da questioni più ordinarie e da pretesto per gestirle male. […] Se ripensiamo agli anni Trenta, scopriamo che persone autorevoli affermarono le stesse cose che si dicono adesso: il problema oggi non riguarda il ciclo economico; siamo alle prese con un cambiamento tecnologico radicale e con una forza lavoro priva delle competenze necessarie ad affrontare la nuova epoca. Poi, però, grazie alla Seconda guerra mondiale, ottenemmo la spinta della domanda di cui avevamo bisogno e i lavoratori che erano ritenuti privi di qualifiche si rivelarono utili per l’economia moderna. Eccomi qui a rievocare ancora una volta la storia. Possibile che io non capisca che oggi è tutto diverso? Capisco perché alla gente piace ripeterlo, ma non per questo diventa vero» (La Repubblica, 26 maggio 2015).

Certo, oggi è tutto diverso, da allora. D’altra parte, cambiamento e Capitalismo sono sinonimi. Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume capitalistico, tali sono i mutamenti che si verificano nella struttura sociale di questo regime mondiale, e tanta la rapidità con cui le sue trasformazioni sistemiche (economiche, tecnologiche, scientifiche, politiche, “esistenziali”) si realizzano. La natura rivoluzionaria  (nell’accezione marxiana del concetto esposta nel Capitale) dell’attuale formazione storico-sociale è alla base delle false teorie che fioriscono sempre di nuovo intorno al cambiamento di natura del Capitalismo. Ora, se è vero che non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua capitalistica, è altrettanto vero che siamo immersi sempre nello stesso rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Ed è esattamente questo rapporto sociale che dà consistenza materiale all’ossessione di Krugman, che ne determina la maligna attualità.

La preparazione bellica iniziata nella seconda metà degli anni Trenta e la distruzione catastrofica realizzata dalla Seconda guerra mondiale non solo consentirono all’economia mondiale di uscire definitivamente fuori dal tunnel della Grande Crisi, ma generarono tutti i fattori indispensabili a una possente accumulazione capitalistica: distruzione di vecchio e nuovo capitale (industriale, commerciale, finanziario), formazione di un esercito industriale disciplinato e svalorizzato, creazione di mercati dalle enormi dimensioni e potenzialità, nuove tecnologie e nuove scoperte scientifiche da sfruttare in tempo di “pace”, e via di seguito. Per il saggio del profitto, che secondo il guerrafondaio di Treviri è il regolatore di ultima istanza dell’accumulazione capitalistica, si trattò di una vera e propria botta di vita; il rantolante e avvizzito Moloch poté rimettersi a correre come un fanciullo. Correva sulle macerie fumanti delle città e sui corpi straziati dei cadaveri, è vero; ma questo è solo un dettaglio – fino a un certo punto però, anche ragionando in termini strettamente “economici”.

Alla fine degli anni Sessanta, grossomodo, può dirsi chiuso, o in via di rapido esaurimento, l’eccezionale periodo di accumulazione seguito alla guerra. La crisi economica internazionale dei primi anni Settanta segna in qualche modo la fine “ufficiale” della spinta propulsiva generata dalla Seconda guerra mondiale, e per vedere tassi di crescita del PIL prossimi alle due cifre (8, 9%) il pianeta dovrà attendere il “decollo” capitalistico della Cina e degli altri Paesi capitalisticamente arretrati – molti dei quali si fregiavano del bizzarro titolo di “regime socialista”, per la felicità degli intellettualoni “marxisti” basati in Occidente, più che del popolo assoggettato alle delizie “socialiste”.

L’accelerazione nel processo di finanziarizzazione dell’economia e il rapido espandersi della cosiddetta «economia del debito» (in realtà il debito, in tutte le sue forme, è da sempre connesso intimamente allo sviluppo capitalistico, soprattutto da quando il capitale finanziario è diventato la forma dominante di capitale) hanno le loro radici più profonde e robuste nel declino del saggio del profitto che inizia a delinearsi in Occidente e in Giappone proprio alla fine degli anni Sessanta.

Scrive Krugman: «L’ottimismo sembrò giustificato quando nel 1995 la crescita della produttività decollò. Ecco di nuovo il progresso! Ecco di nuovo l’America, agli avamposti di quella rivoluzione. Poi, lungo la strada della rivoluzione tecnologica, accadde una cosa bizzarra: come abbiamo scoperto in seguito, non siamo tornati a un rapido progresso economico». Se con «rapido progresso economico» ci si riferisce, ad esempio, agli eccezionali ritmi di crescita fatti registrare dall’economia internazionale nel Secondo dopoguerra, è assurdo pensare che tempi “normali”, come quelli che, appunto, attraversiamo da almeno quattro decenni nelle aree capitalisticamente “mature” del pianeta, possano generare performance eccezionali. Anche l’attuale ripresa economica americana non sta esibendo cifre che possano far gridare al nuovo miracolo economico gli apologeti del Capitalismo, e anzi la formazione di nuove bolle speculative negli Stati Uniti testimoniano della precarietà di questa ripresa. La precarietà e la debolezza del ciclo espansivo è la “normalità” dell’accumulazione capitalistica dei nostri tempi, e la cosa apparirà sempre più chiara via via che Paesi un tempo «in via di sviluppo» come la Cina entreranno nella dimensione della piena maturità capitalistica.

Ormai sono numerosi gli economisti anglosassoni che parlano di secular stagnation, e che ne individuano i tratti più caratteristici e marcati nell’eurozona. Probabilmente si tratta, come appena detto, di un regime di “normalità” nel contesto della realtà capitalistica degli ultimi quarantacinque anni. In questo contesto 1) le rivoluzioni tecnologiche (per ciò che riguarda i mezzi di produzione, le materie prime, i materiali e le merci/servizi) e organizzative, che anche nel recente passato non sono mancate e che nel prossimo futuro non mancheranno di punteggiare la vita della Società-Mondo del XXI secolo; e 2) la svalorizzazione della capacità lavorativa (ottenuta anche grazie alla continua espansione del mercato del lavoro mondiale) non possono superare strutturalmente le magagne che si sono cristallizzate intorno al nucleo centrale dell’accumulazione capitalistica “allargata”, costituito dai meccanismi che rendono possibile la produzione di plusvalore nelle imprese industriali (materia prima di ogni forma di profitto e di rendite, comprese quelle finanziarie e speculative). Solo il tritolo della svalutazione selvaggia del capitale potrebbe, al punto in cui siamo, far saltare le incrostazioni che frenano lo stantuffo capitalistico, e non alludo a un tritolo solo metaforico, come sa bene Krugman. Due cose, a mio avviso, appaiono abbastanza chiare: 1) non è facile ottenere in tempi di “pace” quel salasso “valoriale” che già due volte ha permesso al Mostro di vivere una seconda giovinezza sulla pelle di milioni di individui (la guerra come sola igiene del mondo capitalistico?); 2 la competizione sistemica interimperialistica non può che acuirsi.

Scrive Vladimiro Giacché: «Una soluzione del tutto diversa troviamo in Marx: essa è compendiabile nell’esigenza di un superamento dell’attuale modo di produzione in uno superiore. Precisamente in questo senso Marx asserisce che le crisi per un verso sono “soluzioni” (ancorché “soltanto temporanee”) “delle contraddizioni esistenti” del modo di produzione capitalistico, “eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato”, ma d’altra parte sono un sintomo dell’inadeguatezza dell’attuale modo di produzione: “Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale”». Sottoscrivo! E aggiungo: un livello superiore di produzione sociale presuppone il superamento rivoluzionario della dimensione capitalistica, a prescindere dalla «forma fenomenica» contingente che assume il dominio del Capitale.

Questa precisazione apparirà più chiara leggendo la chiosa di Giacchè alle parole di Marx: «Negli ultimi decenni, in particolare dopo la fine dell’Unione Sovietica e delle “democrazie popolari” dell’Est europeo, la possibilità stessa di un “livello superiore di produzione sociale” è  stata rifiutata quale astratto utopismo, tendenzialmente totalitario. È però la realtà stessa del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni a riproporre l’esigenza invocata da Marx. Oggi quella direzione alternativa, senza sognare un’impossibile fuga dal mercato mondiale (la sostanziale emarginazione dal quale fu decisiva per decretare l’insuccesso delle economie pianificate dell’Urss e dell’Est europeo), deve prevedere un ampliamento della sfera pubblica dell’economia e forme di socializzazione degli investimenti tali da condurre a una forma di economia mista in cui le scelte strategiche di sviluppo siano sottratte alla logica del profitto privato». Perché, il profitto pubblico è umanamente più accettabile? Scriveva Marx: «Là dove lo Stato stesso è produttore capitalista, il suo prodotto è merce e possiede perciò il carattere specifico di ogni altra merce» (*). È appena il caso i di ricordare qui che per il mangia crauti di Treviri il carattere specifico di ogni merce consiste nell’essere sostanza di valore generata attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato. È la logica dello sfruttamento e del dominio (due modi diversi di chiamare la stessa cosa), immanente al concetto stesso di Capitale (“privato”, “statale” o “comunale” che sia), che l’autentico anticapitalista (e quindi non mi riferisco ai cultori sinistrorsi dell’Articolo 1 della Costituzione Italiana) deve mettere radicalmente in discussione, a partire dal terreno economico-rivendicativo.

Per un verso Giacché non dice l’essenziale, e cioè che, lungi dall’essere stato «un livello superiore di produzione sociale», il cosiddetto «socialismo reale» non fu che un Capitalismo di Stato pieno di magagne strutturali (le stesse che alla fine ne decreteranno la miserabile fine), e per altro verso egli ripropone il vecchio statalismo in salsa neosocialista, non senza un ammiccamento al «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi», il quale non avrebbe commesso l’imperdonabile errore a suo tempo praticato dalle «economie pianificate dell’Urss e dell’Est europeo». Con questo egli si dimostra coerente con la tradizione della sinistra storica italiana, da Togliatti in poi. Anche il vezzo di citare Marx per veicolare punti di vista ultrareazionari, ossia interni alla continuità del dominio capitalistico (tipo: battersi per distruggere non il Capitalismo tout court: dalla Germania della Merkel alla Grecia di Tsipras, dagli Stati Uniti di Obama alla Cina di Xi Jinping, ma l’«attuale cornice istituzionale europea») è tipico dell’intellettuale “comunista” Made in Italy.

Già mi par di sentire la solita obiezione “antisettaria” e rigorosamente “dialettica”: «Ma spezzare l’attuale cornice istituzionale europea e farla finita con la moneta unica europea non sono che passaggi, momenti transitori di una strategia rivoluzionaria di più largo respiro». Scusate ma sono decenni che respiro queste perle “antisettarie” e rigorosamente “dialettiche”, delle quali, a quanto sembra, la causa dell’emancipazione universale non si è giovata nemmeno un po’.

* K. Marx, Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner, in Scritti inediti di economia politica, p. 177, Editori Riuniti, 1963.

trummerschutthalde

Aggiunta del 30 maggio 2015 *

Ho appena finito di ascoltare su Radio Radicale un interessante dibattito fra Serge Latouche, il celebre teorico della decrescita come sola via di salvezza per un’umanità (leggi anche: per un Capitalismo) sempre più avvitata nel circolo vizioso dell’autodistruzione, e Bernardo Bortolotti, economista bocconiano “mainstream” da qualche anno in crisi di identità: «Oggi la crescita economica si risolve in una spaventosa crescita dell’ineguaglianza». Oggi! Insomma, Thomas Piketty continua a fare tendenza.

Titolo del dibattito, tenutosi il 12 maggio nell’ambito del Bergamo Festival, CRESCERE O NON CRESCERE? Le sfide del mercato globale e il senso umano dell’economia. Mettere insieme mercato mondiale e “senso umano”: che cosa bizzarra! Diciamo…

Ebbene, a un certo punto l’economista italiano ha proferito le parole che seguono: «Naturalmente la guerra è qualcosa di mostruoso. Tuttavia, la devastazione prodotta dalla guerra ha anche un aspetto positivo. Le condizioni eccezionali degli anni Cinquanta sono anche dovute alla devastazione  di una guerra mondiale, che livella sempre,  distrugge patrimoni e crea scompigli negli asset. E così in Europa tra il 1945 e il 1975 abbiamo avuto trent’anni di crescita». Questo sempre a proposito della svalutazione e distruzione accelerata e radicale di tutti i valori come balsamo spalmato su un saggio del profitto sofferente e come poderoso ricostituente dei fattori di profittabilità capitalistica. Di qui, la nota ossessione di Krugman.

* Nella foto le Trümmerfrauen, le donne (tedesche) delle macerie. Scriveva Lotta Lundberg lo scorso 8 maggio su Svenska Dagbladet (Stoccolma):

«Questo fine settimana si commemorerà la fine della guerra. Moralmente e materialmente nel 1945 il mondo era devastato. Non c’era nessuno che non si fosse sporcato le mani di sangue. Per l’Europa era scoccata l’ora zero.

A pochi piace ricordare di aver fatto compromessi in relazione ai valori nei quali credevano. Penso alle Trümmerfrauen. Mi riferisco alle donne che, al termine della guerra, andarono sui cumuli di macerie e ceneri e ripulirono le rovine. Le donne che a mani nude separavano le pietre in secchi diversi, che sollevavano le macerie , pulirono, dragarono, strapparono. No, non c’erano le ruspe: quelle arrivarono soltanto all’inizio degli anni Cinquanta. No, non c’erano gli uomini: quelli o erano morti o erano prigionieri di guerra, mutilati, alcolizzati, traumatizzati. […]

Che cosa sono dunque le Trümmerfrauen: vincitrici, vittime o eroine? Una cosa è certa: furono prede. Quando arrivarono i liberatori, ogni cosa divenne proprietà delle potenze occupanti. Tutta Berlino fu trasformata in un bordello a cielo aperto. Il libro Quando vennero i soldati di Miriam Gebhardt, pubblicato di recente, toglie qualsiasi illusione in merito: i soldati russi stuprarono. L’orgoglio tedesco doveva essere estirpato da tutte le donne tedesche con l’arma più patriarcale che esista: la violenza sessuale».

PER UNA SANA E CONSAPEVOLE ECONOMIA DI MERCATO

ORELLI~1Da quando la virtù, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i più scellerati facevano qualcosa per il bene comune (B. de Mandeville, La favola delle api) [1].

Massimo Amato e Luca Fantacci si sono messi in testa (in realtà in numerosa compagnia: vedi i tanti sacerdoti del keynesismo in circolazione) di «salvare il mercato dal capitalismo».  Obiettivo davvero notevole, ma quanto fondato? A occhio, pochino. E sento già la caustica risatina del Moro di Treviri, il quale a suo tempo massaggiò perbene le schiene di non pochi economisti «triviali», soprattutto quelli in guisa progressista (tipo Proudhon), i quali non riuscivano a cogliere il rapporto sociale che fa del Capitalismo una sola compatta e inscindibile totalità economico-sociale.

In effetti, porre la distinzione, anche solo sul terreno puramente teorico, tra economia di mercato e Capitalismo significa non aver compreso nulla della vigente economia e della società che la presuppone sul piano storico e fattuale e che ne è il prodotto. Se una simile distinzione, questo vero e proprio non-senso storico ed economico, irritava «le vigliacchissime e solenni emorroidi» del comunista tedesco, il quale non finiva di ripetere che produzione e circolazione erano momenti diversi di uno stesso processo economico sottomesso alla bronzea legge del profitto, figuriamoci che cosa può accadere alla salute “intima” di un comunista basato nella società-mondo del XXI secolo, ossia nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto (a cominciare dal lavoro) e tutti («funzionari del capitale» compresi) al Capitale.

1_el-greco-cristo-scaccia-i-mercanti-dal-tempio11Detto per inciso, Amato e Fantacci rivendicano senza indugi la funzione sociale del Capitale, ma evidentemente non la comprendono, né capiscono la sua reale dinamica storica (con la formazione del sistema creditizio e finanziario, da Adam Smith ai nostri giorni), le sue immanenti e necessarie contraddizioni. Se così non fosse, i due non perorerebbero la ridicola causa di un Capitale senza Capitalismo, di un mercato delle merci senza il mercato finanziario (il quale è uno sviluppo del primo, necessariamente), di una globalizzazione buona (basata sulle merci e sul capitale produttivo: vedi alla voce investimenti diretti all’estero) senza globalizzazione cattiva (fatta di transazioni finanziarie e di speculazione), di una moneta quale «strumento cooperativo» senza quei rapporti sociali che hanno generato l’attuale (veramente se ne parla dagli inizi del XX secolo, e anche prima) dominio del capitale finanziario. «Il sistema monetario, nel suo sviluppo, suppone evidentemente già altri sviluppi generali» [2]. La connessione tra lo sviluppo del primo e gli «altri sviluppi generali» non appare a tutti con la stessa evidenza. Almeno questo è… evidente.

Come ho scritto in un recente post dedicato al sinistro Lafontaine, la stessa speculazione finanziaria, oggi come sempre, trova la sua spiegazione di ultima istanza nel meccanismo che crea sempre di nuovo la ricchezza sociale nell’attuale forma capitalistica. Alludo al saggio di accumulazione e al saggio medio del profitto, ossia alla loro più o meno brillante condizione di salute. Una grande parte della liquidità presente oggi sul mercato finanziario si riversa quotidianamente nella speculazione, alimentando nuove bolle, anziché dirigersi verso l’«economia reale», perché quella condizione rimane asfittica, non attraente, poco allettante per chi voglia fare profitti rapidi e pingui. Quando «il saggio d’interesse si abbassa notevolmente, per quanto possa salire il profitto», il mondo necessariamente assiste «alle più audaci speculazioni» [3].

Se il meccanismo economico considerato nel suo complesso non ripristina adeguate condizioni di profittabilità nell’«economia reale», non c’è “rivoluzione” del sistema creditizio che possa surrogare questa fondamentale condizione.

Scriveva sempre Marx: «Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del processo. Gli economisti che pretendono di spiegare le periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione assomigliano a quella scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la febbre come la vera causa di tutte le malattie» [4]. Questo processo appare oggi di più difficile comprensione anche a causa dell’andamento particolarmente asfittico e contraddittorio che ha caratterizzato l’accumulazione del capitale nei Paesi capitalisticamente più sviluppati dopo la chiusura dell’eccezionale fase postbellica. La «rivoluzione liberista» (Thatcher e Reagan), per un verso, e l’ascesa poderosa della finanza orientata alle attività speculative, per altro verso, vanno a mio avviso interpretate come risposte del Capitale alla situazione che si è venuta a determinare nell’economia mondiale dopo la crisi degli anni Settanta.

Per quanto riguarda la speculazione finanziaria degli ultimi trent’anni si deve dire che il denaro non è impazzito, per mutuare il titolo di un libro di Susan Strange scritto nel ‘98; esso ha piuttosto cercato linee di valorizzazione di minor resistenza, e questo conferma la maligna razionalità della legge del profitto. «Come ricorda sempre Keynes, “la sapienza del mondo insegna che è meglio per la propria reputazione fallire in maniera convenzionale piuttosto che avere successo in maniera non convenzionale”»[5]. Evidentemente insiste una differenza non trascurabile tra «la sapienza del mondo» come la immaginava Keynes e la sapienza del Capitale. Senza contare che, anche qui, porre la distinzione tra modi «convenzionali» e modi «non convenzionali» non ha alcun senso, perché i due modi sono intimamente connessi e si presuppongono e condizionano vicendevolmente. Ad esempio, l’evasione fiscale sarà pure una maniera «non convenzionale» per reggere la competizione e per evitare il fallimento, ma questa prassi è del tutto organica all’economia basata sul profitto, checché ne dicano le anime belle del Capitalismo etico, democratico e meritocratico.

Scriveva Henryk Grossmann alla vigilia della grande crisi economica del ’29: «Nonostante l’ottimismo di alcuni teorici borghesi, che credono che gli americani siano riusciti a risolvere il problema della crisi e a stabilizzare l’economia, molte indicazioni segnalano che ci stiamo avvicinando ad un livello di sovraccumulazione […] Il fenomeno dell’economia del 1927 è da scorgere nel fatto che l’industria e il commercio videro restringersi la loro produzione, calare il loro volume di scambio e ridurre i loro profitti» [6]. Al contempo il mondo assisteva a una «rabbiosa speculazione» sui terreni delle metropoli americane e sui valori azionari alla borsa di New York. Una febbre speculativa che ebbe un significato sintomatico che solo pochi riuscirono a decifrare.  «La situazione di strettezza dell’industria si mostra in un aumento di prestiti speculativi a fini borsistici e di rialzi dei corsi azionari […] Fondi enormi poterono affluire nei canali della speculazione di borsa a causa della facilità nel procurarsi denaro» (p. 515). Ecco perché la tesi keynesiana del 1936, ricordata da Amato e Fantacci per sostenere la causa di stringenti controlli sui movimenti di capitali (sulla scorta degli accordi di Bretton Wood del ‘44), secondo la quale «la liquidità è un feticcio, soprattutto perché compromette il sistema degli investimenti anche quando apparentemente tutto funzione» mostra di scambiare l’effetto con la causa. Proprio perché il sistema degli investimenti produttivi è compromesso la liquidità deve riversarsi nei canali della speculazione, attivando un circolo vizioso dal quale è difficile uscire prima dell’inevitabile disastro.

elgrecopurificazionedeltempioroma15711576Negli anni Ottanta non è venuto fuori un nuovo Capitalismo, in molti e fondamentali aspetti del tutto estraneo alle leggi di sviluppo che informavano quello precedente – fonte di nostalgia per molti keynesiani; siamo piuttosto dinanzi a un’economia capitalistica che reagisce violentemente alla lunga – strutturale, almeno nel medio periodo – sofferenza del saggio medio del profitto, e che non ha ancora trovato il modo di ripristinare le condizioni “ottimali” per un’accumulazione in grande stile, simile a quella resa possibile dalla Seconda guerra mondiale. (E qui il lettore è autorizzato a gesti scaramantici). Applicare termini come «vecchio», «nuovo», «post» ecc. a una formazione storico-sociale che per vivere deve mutare continuamente volto non ha poi molto senso, mentre ha molto senso cercare di afferrarne l’essenza, che non ha fatto molti progressi dai tempi di Marx.

Licenziamenti, ristrutturazioni tecnologiche e organizzative, aumento della produttività, concentrazioni e fusioni capitalistiche, deprezzamento dei valori-capitali: questi e altri ancora sono i rimedi cui deve ricorrere il Capitale per ricostituire la redditività della produzione e ristabilire le basi per la ripresa del processo di accumulazione. È chiaro che sono i lavoratori le prime vittime di questo processo di risanamento capitalistico. «Si può ricordare, al riguardo, anche l’avvertimento di Keynes di non intaccare i salari nominali, ma di operare piuttosto, attraverso il salario reale, un necessario abbassamento del reddito degli operai […] Nella misura in cui la revisione keynesiana rimanda al di là della teoria classica, essa non rinvia a un futuro migliore, ma a un futuro fosco» [7]. Non c’è dubbio.

Scommetto che gli autori del saggio preso qui di mira, il quale peraltro si limita a ripetere concetti già esposti in un precedente libro del 2009 (Fine della finanza, da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne), non sono d’accordo con queste mie osservazioni critiche, né con l’impostazione (vetero-marxista?) dei problemi da essi posti meritoriamente sul tappeto. «Il punto è questo: faremo davvero fatica a immaginare alternative al contempo desiderabili e praticabili finchè non avremo imparato a misurare con precisione tutta la differenza che sussiste tra capitalismo ed economia di mercato» [8]. Una differenza «fantasmagorica» che può essere apprezzata solo da coloro – e sono in tanti, anche in ambito accademico – che fanno del mercato e della moneta mere tecnologie economiche che possono venir usate per il meglio o per il peggio, per una causa giusta ovvero per fini cattivi. Di qui, la necessità di spingere al potere una classe dirigente, nazionale e mondiale, politicamente illuminata ed eticamente responsabile.

CristoScacciaIMercanti1«Il capitalismo di fine XX e inizio XXI secolo ha potuto nutrirsi di una vecchia favoletta settecentesca che era già insipida ai suoi tempi, ma che oggi davvero sa di stantio. Ci riferiamo alla favola delle api di Mandeville. Il mito scientifico corrispondente si chiama “eterogenesi dei fini”, ossia: l’avidità è la fonte del benessere comune. Punto. E dunque… via libera!» (p. 59). Ma davvero i due brillanti scienziati sociali credono che il Capitalismo possa nutrirsi di favolette più o meno insipide, stantie e ciniche? Suvvia! Mandeville, poi ripreso da Adam Smith, si limitò a dar conto di un complesso meccanismo sociale osservato dalla prospettiva dei ceti borghesi in ascesa. Non occorre essere materialisti storici per capire questo e non commettere l’imbarazzante errore di assumere come dato strutturale di partenza non la prassi economico-sociale di una peculiare epoca, ma l’ideologia che cerca di razionalizzarla a partire da specifici interessi di classe – e sempre fatta salva la buona fede del soggetto razionalizzante.

Tuttavia, diamo la parola a un materialista storico d’oc, anche per colpire la concezione feticistica del mercato e della moneta di Amato e Fantacci: «I prezzi sono antichi, e così lo scambio; ma sia la progressiva determinazione degli uni attraverso i costi di produzione, sia il predominio dell’altro su tutti i rapporti di produzione, sono pienamente sviluppati, e si sviluppano sempre più pienamente, soltanto nella società borghese. Ciò che Adam Smith, alla maniera tipica del XVIII secolo, pone nel periodo preistorico. Questa dipendenza reciproca si esprime nella necessità permanente dello scambio e nel valore di scambio quale mediatore universale. Gli economisti esprimono questo fatto nel modo seguente: ciascuno, perseguendo il suo interesse privato e soltanto il suo interesse privato, involontariamente e inconsapevolmente finisce col servire l’interesse privato di tutti, l’interesse generale […] Il punto vero e proprio sta piuttosto in questo, che l’interesse privato stesso è già un determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto nell’ambito delle condizioni che la società pone e con i mezzi che essa offre […] Si tratta di interessi privati; ma il suo contenuto, come la sua forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti» [9].

L’interesse privato è socialmente predeterminato. I nostri autori prendono sul serio le favolette apologetiche intorno al mondo hobbesiano (borghese) del bellum omnium contra omnes; Marx, ovviamente, no.

Anche Paolo Cacciari condivide la stessa passione per le favole: «In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale» [10]. Una bella rivoluzione culturale che metta al bando i cattivi economisti, e il gioco è fatto. «Volgersi indietro a quella pienezza originaria è altrettanto ridicolo quanto credere di dover rimanere fermi a questo completo svuotamento» [11]. In effetti, si tratta di uscire dalla dimensione capitalistica e di umanizzare l’intero spazio esistenziale degli individui, a cominciare naturalmente dalla prassi chiamata a produrre sempre di nuovo le condizioni materiali della loro vita. Per essere davvero “eudaimonica”, nell’accezione più profonda – classica – del concetto, senza alcuna concessione alle recenti mode ecologiste (Capitalismo “a chilometro zero”) e decresciste (Capitalismo morigerato e “felice”) che prefigurano il ritorno a una fase precedente (meno “selvaggia”) dello sviluppo capitalistico, la condizione esistenziale degli individui deve diventare semplicemente umana, cosa che, appunto, presuppone la soppressione del rapporto sociale capitalistico e della «sovrastruttura» politico-istituzionale a esso corrispondente – lo Stato (qualsiasi tipo di organizzazione statuale) deve tirare le cuoia, e con esso deve tramontare ogni forma di politica.

Come molti militanti della “causa umana”, Paolo Cacciari ha frainteso completamente l’esperienza del «socialismo reale», che per quanto mi riguarda va rubricata a pieno titolo nell’agenda nera del Capitalismo, alla voce reale Capitalismo (più o meno «di Stato»); egli quindi guarda con orrore a una rivoluzione sociale di “vecchia” concezione che miri a realizzare un progetto che considera già fallito ovunque nel modo: in Russia, in Cina, dappertutto. Io la penso in modo affatto diverso. Qui rinvio al mio post di qualche giorno fa su Paul Krugman.

Per quanto riguarda l’avidità messa sotto accusa da Amato e Fantacci si deve dire che è certamente vero che «La brama di arricchimento in quanto tale è impossibile senza denaro» (Marx); ma il denaro, nell’attuale configurazione storico-sociale, presuppone la brama di profitto, ossia l’economia capitalistica e i rapporti sociali ad essa corrispondenti. Infatti, «il denaro non esprime altro che un rapporto sociale». Di più: il denaro capitalistico presuppone, in ultima analisi, quel lavoro sociale medio, sfruttato sempre più scientificamente dal Capitale, che dà sostanza alla merce-denaro come equivalente universale delle merci.

Di qui la potenza smisurata del denaro («Ciascun individuo possiede il potere sociale nella sua tasca», osservava Marx), e la tendenza del Capitale in generale a travolgere ogni limite, ogni ostacolo che si frappone alla ricerca della massima valorizzazione per ogni suo investimento, non importa di quale natura esso sia, se azzardato nell’industria piuttosto che nella finanza, se produttivo di plusvalore primario ovvero orientato alla rendita e alla pura speculazione.  Questo smisurato appetito (immanente al concetto stesso di Capitale), che deve fare continuamente i conti con la ben più limitata fonte della ricchezza basica in regime capitalistico (la quale trae alimento dallo sfruttamento intensivo del “capitale umano”), ha indotto molti teorici del Finanzcapitalismo a organizzare il funerale della legge del valore elaborata dagli economisti classaci. Un funerale che appare quantomeno in anticipo sui tempi, come dimostra l’attuale crisi economica, la quale svela la dialettica, abbozzata appena sopra, tra la smisuratezza della brama di profitto e i limiti della ricchezza capitalistica, inchiodata «in ultima analisi» al rapporto di dominio e sfruttamento capitale-lavoro. Un rapporto sociale che soprattutto dalla prospettiva di chi intende fare denaro per mezzo di denaro, saltando la faticosa e poco attraente mediazione “lavorativa”, deve apparire davvero triviale e storicamente superato, obsoleto oltre ogni… limite.

gesucaravaggioSe i nostri due amici cultori di Keynes condannano l’economia sottomessa all’avidità sconfinata di privati eticamente riprovevoli, pure non condividono «l’infantilismo politico» fondato sul presupposto «che dalle buone intenzioni non possa che nascere il bene». Di qui, la ricerca della solita – chimerica – terza via, la quale si sostanzia in una transizione dal Capitalismo, ormai sottomesso ai demoni della finanza speculativa, all’economia di mercato, a una prassi economica, cioè, che ristabilisca un rapporto con la produzione e la circolazione delle merci. «Se il capitalismo è un’economia di mercato con un mercato di troppo, il mercato finanziario, l’economia di mercato diviene propriamente ciò che è auspicabile che sia, ossia un luogo di competizione sulla base dell’efficienza dei vantaggi comparati, se solo è temperata da una finanza cooperativa» [12]. Quasi mi commuovo dinanzi a questa scientifica – proudhoniana, avrebbe aggiunto il trincatore tedesco – genialata che vorrebbe portare le lancette della storia del Capitalismo indietro di oltre un secolo, per introdurvi, sulla scorta delle esperienze acquisite, quei correttivi in grado di conferirvi un più alto tasso di razionalità ed eticità. La commozione dilaga quando leggo la poesia economica dedicata alla soluzione finalmente scoperta (la moneta locale): «Una moneta è uno strumento cooperativo […] La moneta quale la conosciamo, la moneta capitalistica, è una moneta che ammutolisce e riduce al silenzio e all’incomunicabilità» (p. 188). Si sentiva davvero il bisogno di una moneta dal volto umano! La concezione feticistico-romantica (piccolo borghese) in fatto di denaro dei nostri amici trova una mia più puntuale critica nel post Denaro-Denaro-Denaro: feticismo al cubo, e nel breve saggio La Cosa ha il Diavolo in corpo!

Abbastanza retoricamente Marx pose ai suoi tempi la seguente domanda: «È possibile rivoluzionare i rapporti di produzione esistenti e i rapporti di distribuzione ad essi corrispondenti mediante una trasformazione dello strumento di circolazione?» [13]. Dopo aver ricordato, «per inciso», ai riformatori del sistema creditizio del tempo che «Il crédit gratuit è soltanto una timida e ipocrita forma piccolo-borghese» (p. 53), egli concluse che «ai mali della società borghese non si rimedia mediante trasformazioni bancarie o mediante la fondazione di un razionale “sistema monetario”» (p. 67). Fin qui mi pare che i fatti gli abbiano dato ragione.

Cancellare la finanza “cattiva” e tornare a un sistema che si basi sull’economia reale, sulla produzione e sullo scambio di beni effettivi secondo i retti principi proposti da Keynes a Bretton Woods: un programma che secondo i nostri scienziati merita i sacrifici che indubbiamente bisogna fare per implementarlo. «Se è in nome del programma conservatore del ritorno [?] al capitalismo non si vede bene perché bisognerebbe sacrificarsi. Se è in nome del progetto di costruzione di un’economia che sappia distinguere tra ciò di cui c’è mercato e ciò di cui non deve esserci mercato, allora non si vede bene perché non farlo. Anzi, quando si comincia?». Già, quando si comincia? Checché ne possa pensare il lettore, personalmente non vedo l’ora di sacrificarmi sull’altare di una sana e consapevole economia di mercato.

[1] B. de Mandeville, La favola delle api, p. 15, Grande Antologia Filosofica, Marzorati, 1968.
[2] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, La Nuova Italia, p. 106.
[3] K. Marx, Storia delle teorie economiche, p. 546, II, Einaudi, 1955.
[4] K. Marx, Il Capitalismo e la crisi, a cura di V. Giacché, p. 70, DeriveApprodi, 2009.
[5] M. Amato, L. Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo, p. 84, Donzelli, 2012.
[6] Il crollo del capitalismo, pp. 514, Jaca Book, 1977.
[7] Friedrich Pollock, La revisione keynesiana del liberismo economico, 1936, in Teoria e prassi dell’economia di piano, p. 198, De Donato, 1973.
[8] M. Amato, L. Fantacci, Come salvare…, p. 58.
[9] K. Marx, Lineamenti, I, pp. 96-97.
[10] P. Cacciari, La fine dell’età dell’abbondanza, Sbilanciamoci, 28 giugno 2013.
[11] K. Marx, Lineamenti, I, p. 104.
[12] M. Amato, L. Fantacci, Come salvare…, p. 59.
[13] K. Marx, Lineamenti, I, p. 52.

KRUGMAN, IL «SOCIALISMO REALE» E IL TRIONFO DEL CAPITALISMO

stalinHo letto l’edizione «aggiornata» del saggio di Paul Krugman sul Ritorno dell’economia della depressione pubblicato per la prima volta nel 1999 (Garzanti), dopo le crisi finanziarie che sconvolsero diverse economie dislocate un po’ su tutto il globo: dall’Asia all’America Latina, passando per la Russia. Avevo letto quell’interessante edizione, rispetto alla quale la nuova (Garzanti, 2009) non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo, e piuttosto conferma la lettura post-keynesiana (o «liberal», come preferisce definirla l’autore) delle crisi passate, presenti e future. Per l’economista di successo la crisi internazionale partita alla fine del 2007 dagli Stati Uniti nasce, «come negli anni Trenta», dal sistema finanziario per abbattersi successivamente sull’«economia reale», provocando gravi sconvolgimenti in tutta la struttura sociale.  Tesi ribadita anche nel saggio La coscienza di un liberal (Laterza, 2009), un vero e proprio manifesto per «un nuovo New Deal». Com’è noto, il Presidente Obama ha fatto di tutto per deludere le aspettative del guru economico.

Sembra che i nessi interni che legano inscindibilmente il sistema finanziario alla cosiddetta «economia reale», alla cui sfera occorre peraltro ricondurre, «in ultima istanza», i fenomeni – speculazione compresa – che hanno fatto di quel sistema il Moloch che conosciamo, continuano a rimanergli per l’essenziale ignoti, nonostante il Nobel agguantato nel 2008. Ho sempre pensato che la comprensione dell’essenza storica e sociale del Capitalismo è troppo importante perché sia lasciata nelle mani degli scienziati sociali, e che solo la coscienza – «di classe» – è in grado di afferrare la cosa alle radici.  Ma non è su questo aspetto “dottrinario” che intendo adesso fermare brevemente la mia attenzione.

Ciò che nuovamente mi ha colpito leggendo il saggio del 1999 sono le pagine iniziali dedicate al «trionfo del capitalismo», le quali a mio avviso rendono giustizia, per così dire, al mio modesto lavoro teso a fare chiarezza sul significato del «socialismo reale» e del “comunismo” di matrice stalinista.

Per il premio Nobel «L’evento politico fondamentale degli anni Novanta» è stato infatti «il crollo del socialismo, considerato non soltanto come ideologia dominante, ma come ideale in grado di far muovere la mente degli uomini». Qui si coglie in pieno la tragedia rappresentata dallo stalinismo, in tutte le sue varianti nazionali (maoismo compreso), il cui miserabile fallimento ha annichilito l’idea stessa di emancipazione rivoluzionaria, di affrancamento dell’uomo da ogni forma di oppressione sociale. Il «socialismo reale» ha confermato in pieno la tesi di Churchill secondo la quale il Capitalismo fa certamente schifo, ma rimane pur sempre il miglior sistema sociale inventato dagli uomini.

Che servizio senza pari ha reso il «socialismo reale» al Capitalismo mondiale! Particolarmente odioso mi è apparso il tentativo di molti ex o post “comunisti” dalla lunga coda di paglia di dimostrare che, nonostante tutto, anche il Capitalismo non se la passava poi così bene: «l’ha detto persino Wojtyla!» Ricordo che questo fu il risibile mantra dei rifondatori dello statalismo guidati da un certo Fausto Bertinotti.

Di qui, il mio sforzo teso a dimostrare come il cosiddetto «socialismo reale», non importa se con «caratteristiche» cinesi, coreane, russe, jugoslave, albanesi, cubane, emiliane, ecc., non sia in realtà stato altro che un capitolo particolarmente escrementizio del Libro Nero del Capitalismo mondiale. Un Capitalismo di Stato (peraltro nemmeno con tutte le carte in regola: vedi, ad esempio, il ruolo che la cosiddetta «economia informale», cioè privata, ha giocato nell’economia russa) e un Imperialismo (vedi l’Unione Sovietica) spacciati per “socialismo” e “internazionalismo proletario”: una fantasmagorica balla speculativa che non smette di pesare sull’attualità, come dimostra l’esemplare citazione attinta dal libro di Krugman.

Il plus di ripugnanza va appunto ricercato nell’ideologia posta al servizio del reale Capitalismo dei paesi cosiddetti socialisti. Di questo fondamentale acquisto teorico e politico sono debitore a quei pochi comunisti europei che già negli anni Venti del secolo scorso seppero denunciare davanti al proletariato mondiale il ripiegamento controrivoluzionario dell’Ottobre Sovietico, a causa dell’isolamento internazionale in cui venne a trovarsi la stremata Russia rivoluzionaria alla fine della guerra civile (*). Coraggio (non è facile nuotare controcorrente, soprattutto quando si è presi tra due fuochi: fascismo e stalinismo, nella fattispecie) e coscienza  di classe, insieme.

«La ragione per cui l’Unione Sovietica sia finita così all’improvviso, senza esplosione, ma con solo un leggero brontolio, va considerata uno dei grandi misteri dell’economia politica». Un “mistero” che tuttavia si spiega perfettamente alla luce della storia della moderna società russa. Mi permetto di citare alcuni passi di un mio opuscolo (A carte scoperte) scritto nel 1990, a macerie berlinesi ancora fumanti, dedicato appunto al crollo del «socialismo reale».

Archeologia politica…

Archeologia politica…

«[…] La perestrojka, ossia la politica delle riforme strutturali, non è un concetto nuovo in Unione Sovietica: di ristrutturazione dell’obsoleto apparato economico russo si iniziò infatti a parlare nella seconda metà degli anni sessanta, quando il gap che separava l’economia sovietica da quella dei paesi capitalistica menta più avanzati apparve in tutta la sua imbarazzante e problematica dimensione. D’altra parte, la forza gravitazionale esercitata sul blocco orientale da Paesi in forte espansione economica come Germania, Francia e Italia non ha smesso di crescere dal secondo dopoguerra in poi, mettendo l’Unione Sovietica nelle condizioni di dover compiere delle scelte sistemiche assai complesse e delicate.

Esperimenti di apertura economica furono tentati sia nel settore agricolo, in crisi praticamente da sempre, sia nel comparto industriale; timidi tentativi che tuttavia riscossero un certo successo. Si osservò, in particolare, che introducendo nuove tecnologie (importate dalla Germania e dall’Italia), organizzando con maggiore flessibilità il processo di produzione, licenziando la forza-lavoro in esubero e aumentando i salari dei lavoratori occupati cresceva tanto il volume della produzione agricola e industriale, quanto la produttività del lavoro per singolo addetto. Nei colcoz sottoposti a ristrutturazione, le rese agricole aumentarono in quantità e qualità, e al contempo gli agricoltori assunti in regime di libera contrattazione arrivarono a guadagnare in un anno un compenso pari a undici volte quello ottenuto dai contadini a salario fissato per legge.

Si capì allora che per risanare l’economia del Paese bisognava passare a una nuova fase dell’economia sovietica, caratterizzata da un forte dinamismo, da una marcata flessibilità e da una ben più alta produttività del lavoro rispetto alla fase precedente, che pure aveva consentito alla nazione un possente sviluppo capitalistico, teso soprattutto a sostenerne la struttura imperialistica. Le “riforme strutturali” dovevano innanzitutto spezzare il circolo vizioso fatto di bassa produttività, parassitismo politico-sociale e militarismo esasperato.

I costi di questa impresa apparvero però subito assai salati, e alla fine insostenibili nel contesto interno e internazionale d’allora, sia per le drammatiche conseguenza sociali (in un solo anno, 1966, di sperimentazione economica si persero migliaia di posti di lavoro e si contarono milioni di ore di lavoro bruciati in scioperi), e ciò in un Paese che non possedeva un’efficace strumentazione politica di gestione della conflittualità sociale, che non quella della brutale repressione; sia, soprattutto, perché le necessarie riforme economiche imponevano appunto misure altrettanto radicali nella sfera politico-istituzionale, cosa che avrebbe potuto mettere in moto analoghi processi nei Paesi “fratelli”, con esiti difficilmente immaginabili sul collante politico-ideologico del Patto di Varsavia.

[…] Le cause dei conflitti che a più riprese sono divampati tra l’Unione Sovietica e i suoi ex Paesi satelliti europei non vanno ricercate in una diversa concezione del “socialismo”, il quale, com’è noto, è stato imposto dalla prima ai secondi con la forza delle armi e con il tacito accordo degli Stati Uniti, sulla scorta di accordi ufficiali e segreti russo-americani intorno al nuovo ordine mondiale postbellico; esse vanno piuttosto ricercate soprattutto nell’opera di spoliazione economica di quei Paesi organizzata da Mosca e nella loro oppressione politica da parte della «Patria dei Soviet». D’altra parte, le condizioni di relativa miseria delle masse, dovuta anche all’azione parassitaria dell’URSS, e il regime totalitario venutosi a realizzare nei «Paesi fratelli» sul modello moscovita, fondendosi creavano una miscela esplosiva che a cadenze quasi regolari (Germania Est e Cecoslovacchia nel ’53, Ungheria nel ‘56, ancora Cecoslovacchia nel ’68, Polonia a più riprese) prendeva fuoco, generando pressioni d’urto in grado di colpire gravemente lo status quo interno e internazionale. Il punto di riferimento per quei Paesi non poteva che essere l’Occidente, il quale sembrava meglio realizzare, al contempo, le condizioni dello sviluppo economico e la gestione “ordinata” delle contraddizioni sociali.

[…] Commentando la caduta del Muro di Berlino, Antonio Giolitti, eletto nelle file del PCI come “indipendente”, ha fatto notare come in Unione Sovietica si sia parlato di “nuovo corso economico” già nel ’53: “Malenkov cercò di ribaltare la priorità attribuita all’industria pesante nell’economia sovietica. Ma la scelta del Cremlino privilegiò ancora una volta l’industria pesante, cioè l’opzione di grande potenza imperiale: un fatto determinante nella profonda crisi economica che sta oggi angosciando l’URSS” […] Si arriva così al drammatico rapporto sull’agricoltura russa presentato da Michail Gorbaciov al Plenum del CC del Partito-regime tenutosi nel 1989: “La situazione è talmente grave che la gente sta disertando la terra e abbandona i villaggi. In molte regioni la migrazione della popolazione rurale è a un livello critico […] Nella maggior parte delle regioni la fertilità della terra sta declinando. Larghe aree sono in preda alla desertificazione, all’erosione del vento e delle acque. Le terre con alte percentuali di acidità o di salinità si stanno espandendo […] Questa è la prova evidente che noi abbiamo un’economia dissipatrice con rovinose conseguenze sociali”. Chi attribuisce questo disastro, le cui cause vanno ricercate nella storia della Russia cosiddetta sovietica, ossia nelle concrete modalità di costruzione del Capitalismo (non del socialismo!) in Russia e nel suo ruolo di potenza mondiale; chi, dicevo, attribuisce quel disastro al fantomatico “complotto capitalista internazionale”, il cui agente russo sarebbe il “riformista” Gorbaciov, mostra di non aver capito nulla di quella storia».

caduta-muroInsomma, il crollo del «socialismo reale» non segnò affatto il «trionfo del capitalismo», secondo una lettura che purtroppo ancora oggi riscuote il quasi unanime consenso negli ambienti scientifici mondiali, quanto piuttosto il successo del Capitalismo e dell’Imperialismo di matrice occidentale (più il Giappone) nell’epoca della “guerra fredda”. L’edificio sovietico sembrò crollare improvvisamente perché le sue fondamenta erano già da tempo sconnesse, crepate e vuote di sostanza connettiva. Proprio per sottrarsi al “destino” sovietico la classe dirigente cinese decise, alla fine degli anni Settanta, con l’ascesa al vertice del regime cinese di Deng Xiaoping nel 1978 e dopo la «sconfitta interna dei maoisti radicali che volevano ricominciare la Rivoluzione culturale» (Krugman), di avviare la non più procrastinabile perestrojka «con caratteristiche cinesi», che ebbe nel massacro di Piazza Tienanmen del giugno 1989 un momento drammatico e decisivo. Se Mao, negli anni Cinquanta, aveva guardato al Capitalismo «con caratteristiche sovietiche» come modello di accumulazione accelerata e di passaggio alla modernità, salvo ricredersi abbastanza rapidamente, Deng studiò bene e cercò di implementare in Cina il modello sperimentato con successo a Singapore, a Taiwan, nella Corea del Sud. Sappiamo com’è andata.

«Probabilmente», scrive il Nostro liberal, «Deng non comprese del tutto quanto lontano avrebbe portato la strada indicata; certamente il resto del mondo ci mise un bel po’ per capire che un miliardo di persone si era tranquillamente lasciato alle spalle il marxismo». Veramente io continuo a non capirlo. Insomma, come ho fatto a non sapere che in Cina vivevano, almeno fino all’anno di grazia 1978, centinaia di milioni di marxisti? Mi ci sarei trasferito all’istante, si capisce. Un miliardo di marxisti più uno! Evidentemente un demoniaco complotto internazionale mi tenne allora all’oscuro di tutto, probabilmente per evitarmi il dolore della prossima secessione dal marxismo di un miliardo di cinesi, più qualche orfano occidentale di San Mao.

Sulla natura sociale (borghese) della rivoluzione maoista e sul reale significato della cosiddetta rivoluzione culturale rinvio al mio studio sulla Cina (Tutto sotto il cielo – del Capitalismo) scaricabile dal blog. Naturalmente i lettori avranno capito che per il sottoscritto il libro di Krugman è stato un mero espediente per ripetere concetti che a mio avviso non smettono di avere una notevole pregnanza teorica e politica.

* «Il proletariato rivoluzionario internazionale “ha dei debiti” verso il proletariato russo, e ciò rispetto ad un’infinità di cose: il proletariato russo ha mostrato i mezzi e i metodi che conducono alla conquista del potere politico e allo stesso tempo ha mostrato la struttura e l’organizzazione dello stato proletario: i Consigli dei lavoratori. Questo è il grande contributo, il successo della rivoluzione, il fatto di gran lunga più importante degli altri […] Oggi (dopo che il governo sovietico è passato dalla parte della borghesia) la Russia sovietica ha cessato la sua esistenza in quanto Russia dei Soviet» (Estratto da un manifesto della Kommunistische Arbeiter-Internationale, 1922). Chi avrà la pazienza di leggere il mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) apprezzerà forse una diversità di giudizio rispetto a quello appena riportato. Ciò che intendo mostrare qui è come già nel ’22 alcuni comunisti europei incominciassero a porsi seriamente il problema circa la tenuta rivoluzionaria della Russia Sovietica, rimasta isolata sul piano internazionale e nazionale – il piccolo scoglio proletario circondato dalla campagna russa e frustato dalle onde generate dall’incipiente e poi scatenata accumulazione capitalistica.

La gran parte dei “comunisti” un tempo devoti a Mosca – e in parte a Pechino – hanno dovuto aspettare le repressioni in Ungheria o in Cecoslovacchia, nonché, dulcis in fundo, la caduta di certi muri per sentenziare intorno all’«esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre». La tragedia a un polo, la squallida farsa al polo opposto.

ROBOTICA PROSSIMA VENTURA. LA TECNOSCIENZA DEL DOMINIO

Responsabile dello sviluppo fatale non è la razionalizzazione del mondo, ma l’irrazionalità di questa razionalizzazione. La tecnica possiede gli uomini non solo sul piano fisico, ma anche su quello spirituale. Come nella teoria economica si parla talvolta di un velo del denaro, così oggi si dovrebbe parlare del velo tecnico … Ma per rimediare a questo stato di cose non serve il ritorno alla cultura, che rimarrebbe comunque chimerico, bensì lo sforzo, sorretto dalla teoria, di porre la tecnica al servizio di fini realmente umani (Max Horkheimer, in Studi di filosofia della società).

alta composizione organicaRobert J. Gordon è da sempre un critico arcigno della New Economy, della quale ha messo in luce tutte le intrinseche debolezze ben prima che esplodessero le bolle speculative (vedi il crollo del Nasdaq nel 2000 e la successiva recessione) che si erano formate nel corso di quella prima ondata di «rivoluzione digitale» (1990-2000) che tanta euforia aveva generato soprattutto nel sistema finanziario statunitense, oltre che nella comunità scientifica anglosassone. L’economista della Northwestern University non solo mise in dubbio tutte le ottimistiche previsioni circa un illimitato e benefico progresso economico e sociale legato all’introduzione capillare della tecnologia digitale, ma attaccò il principale cavallo di battaglia della “filosofia” digitale: la crescita in progressione geometrica della produttività sistemica.

«Nel giugno 1999 Gordon pubblicò uno studio sugli aspetti specifici delle manipolazioni statistiche del governo [americano] dimostrando, cifre alla mano, che mentre l’industria stessa dei computer ha registrato un incremento di produttività notevole, “non c’è nessuna accelerazione della produttività nel 99% dell’economia al di fuori dei settori della produzione di hardware di computer”» (Solidarietà, anno VIII n. 2, giugno 2000). È quello che gli economisti critici della cosiddetta rivoluzione digitale chiamano il paradosso della produttività: «Gli effetti dell’epoca del computer si sentono dappertutto meno che nelle statistiche della produttività» (Robert Solov).

Non intendo qui entrare nel merito della questione, ma piuttosto introdurre questa riflessione di Paul Krugman: «Ci ho messo un po’ per elaborare l’ultimo e stimolante saggio di Bob Gordon dove si ipotizza che i giorni gloriosi della crescita economica sarebbero ormai alle nostre spalle. Non è molto diverso dalle cose che diceva prima, e in passato ho trovato molto convincenti le sue teorie. Oggi però mi sono convinto che il suo pessimismo tecnologico è sbagliato. (…) Gordon ipotizza poi che la terza rivoluzione industriale abbia ormai quasi del tutto esaurito la sua spinta propulsiva. È un bene che ci sia qualcuno che mette in discussione l’euforia tecnologica, ma ultimamente ho ragionato molto su questi argomenti e sono abbastanza convinto che Gordon si sbaglia: la rivoluzione tecnologica informatica ha appena cominciato a far sentire i suoi effetti» (Dai robot una nuova rivoluzione industriale, Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2013).

Krugman è convinto che la tesi del rendimento decrescente dei progressi tecnologici, di fatto sostenuta da Gordon, sia contraddetta dalla rivoluzione tecnologico-scientifica centrata sullo sviluppo di robot sempre più intelligenti, in grado di sostituire l’uomo in attività che oggi sono di suo esclusivo dominio. L’economista americano non esclude nemmeno esiti piuttosto infausti legati allo sviluppo di queste sempre più “intelligenti” tecnologie: «Alla fine la Skynet, quella di Terminator, deciderà di farci fuori tutti, ma questa è un’altra storia. In ogni caso sono argomenti di discussione interessanti». Talmente interessanti da indurmi a scrivere “di getto” la riflessione che segue, non più che appunti di lettura che riprendono temi che ho già trattato su questo blog e che mi piacerebbe riprendere e sviscerare meglio.

ninfa«”Risparmiate il braccio che fa girare la macina, o mugnaie e dormite tranquille! Che invano il gallo vi annunci il levarsi del giorno! Dao ha imposto alle ninfe il lavoro delle schiave ed ora eccole che saltellano allegramente sulla ruota ed ecco che l’asse messo in moto gira con i suoi raggi, facendo muovere la pesante pietra girevole. Viviamo la vita dei nostri padri ed oziosi godiamo dei doni che la dea ci concede”. Ahimé! gli ozi che il poeta pagano annunciava non sono venuti; la passione cieca, perversa ed omicida del lavoro trasforma la macchina lavoratrice in strumento di asservimento degli uomini liberi: la sua produttività li impoverisce» (Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, 1883).

I modi di produzione precapitalistici erano tecnologicamente asfittici soprattutto perché i rapporti sociali fondati sullo sfruttamento del lavoro schiavistico e servile rendevano di fatto inutile l’impiego nel processo lavorativo di macchine in grado di aumentare la produttività del lavoro, magari attraverso un suo risparmio. Lo sfruttamento intensivo della forza-lavoro si dava quindi necessariamente come un suo sfruttamento assoluto, fino all’esaurimento fisiologico della stessa risorsa “umana”. Quando questa risorsa si faceva scarsa, e non era possibile aumentarla nel breve termine, ad esempio attraverso una nuova caccia agli schiavi in territori “vergini” o militarmente assoggettati, lo Stato si vedeva costretto a legiferare intorno al buon uso degli schiavi e dei servi da parte delle classi dominanti, in modo che la preziosa risorsa non fosse impiegata “irrazionalmente” fino al suo completo esaurimento, cosa che a lungo termine avrebbe pregiudicato la stabilità dell’ordine sociale.

D’altra parte, anche la prima legislazione borghese sul lavoro non ebbe un significato diverso: il soggetto preposto alla continuità del dominio (lo Stato) si rese conto che senza una qualche regolamentazione legislativa, il prezioso «capitale umano» sfruttato a tutto vapore (è il caso di dirlo!) nel corso della prima rivoluzione industriale correva il rischio di esaurirsi abbastanza rapidamente, alla stregua di un giacimento minerario super sfruttato. Come disse Marx, lasciato al proprio istinto predatorio, il Capitale avrebbe spremuto fino all’ultima goccia il limone salariato senza dargli la possibilità di riprodursi e così continuare la triste razza dei nullatenenti. Sotto questo aspetto lo sviluppo del sindacalismo operaio sotto l’egida del diritto borghese ebbe anche questo preciso significato sociale che ben si armonizzava con gli interessi generali del dominio capitalistico.

Storicamente, il lavoro schiavistico e servile, l’abbondanza di capacità lavorativa e il suo basso prezzo hanno frenato, naturalmente sempre in termini relativi, il progresso tecnologico, proprio perché nelle società classiste questo progresso ha avuto come reale scopo lo sfruttamento del lavoro e il rafforzamento del dominio sociale dell’uomo sull’uomo, e non certo il benessere, la felicità e la libertà degli individui.

A differenza dei modi di produzione che l’hanno preceduto, il Capitalismo ha nella scienza e nella tecnologia due fondamentali strumenti di dominio e di sfruttamento. Qui lo sfruttamento intensivo del lavoro è realizzato appunto attraverso l’uso di macchinari capaci di esaltare la produttività oraria della forza-lavoro, ottenendo a parità di giornata lavorativa o addirittura con una giornata lavorativa più corta un maggiore plusvalore. Marx chiamò relativo questo plusvalore per distinguerlo da quello che il Capitale otteneva attraverso un prolungamento assoluto della giornata lavorativa, avendo come unico limite la fisiologia del corpo umano. La tecnologia consente invece di espandere, a parità di giornata lavorativa, il tempo durante il quale la capacità lavorativa produce il plusprodotto, ossia lo stock di prodotto che non trova alcun corrispettivo nel salario che il Capitale paga al lavoratore in cambio della sua prestazione. Per dirla marxianamente, la macchina (pensiamo ai moderni robot) consente di comprimere il tempo di lavoro necessario al lavoratore per produrre virtualmente i mezzi di sussistenza di cui ha bisogno per vivere (in realtà questi mezzi sono prodotti in altre fabbriche), e di allargare continuamente il tempo di lavoro non pagato dal Capitale. Rimane inteso che questa distinzione temporale, così ricca di significati filosofici, storici e sociali, e così pregna di conseguenze politiche (almeno in potenza!), ha un senso solo per chi desidera comprendere la radice del dominio sociale capitalistico per poterlo criticare sul piano della prassi e negare su quello della prassi, mentre non ne ha alcuno né per il Capitale né per l’economia politica che esso esprime.

Altissima composizione organica. Se Freud vuole...Aumentare la produttività sociale del lavoro significa, tra l’altro (e fondamentalmente), produrre in meno tempo i mezzi di sussistenza di cui sopra, ciò che realizza una svalorizzazione della merce-lavoro e la dialettica temporale di cui sopra. Forse non è inutile ricordare quanto sia preziosa la produzione di merci a basso costo made in China, e negli altri paradisi del capitalismo mondiale, nel quadro appena sommariamente schizzato. Quando ci occupiamo del processo di valorizzazione del Capitale di una fabbrica specifica, in realtà stiamo prendendo in considerazione non solo l’intera società di un singolo Paese, ma l’intero mondo, e non a caso Marx introdusse il fondamentale concetto di lavoro sociale medio o astratto, che è la chiave che apre al pensiero la comprensione del profitto, del denaro e dei «fantasmagorici» fenomeni che prendono corpo sul mercato, il luogo mistico per eccellenza. Risparmiare lavoro significa, nel Capitalismo, produrre più plusvalore (valore che eccede quello investito nella produzione) con un numero di lavoratori uguale o minore di prima, e la tendenza storica va proprio in direzione di questo virtuoso – per il Capitale, beninteso – risparmio che corrisponde a un aumento di produttività del lavoro. Questa tendenza incontra tuttavia due limiti, uno relativo, l’altro assoluto. Di che si tratta?

Il primo limite, quello relativo, prende corpo come “risvolto dialettico” dello stesso circolo virtuoso della produttività visto sopra. Infatti, è vero che concentrando tecnologia avanzata nel processo produttivo cresce la massa di plusvalore smunta alla vacca sacra salariata; ma è altrettanto vero che non sempre questa crescita riesce a controbilanciare la tendenza a cadere del saggio del profitto in grazia di un investimento sempre più cospicuo in termini appunto di tecnologia e di ricerca e sviluppo. Il saggio di sfruttamento della capacità lavorativa (in termini di valore è il rapporto tra profitti e salari) cresce senz’altro al crescere della composizione tecnologica del Capitale, ossia del rapporto tra macchina e lavoro vivo; ma questo saggio deve armonizzarsi col rendimento del capitale totale investito nella produzione, il quale trova espressione nel saggio del profitto, ossia nel rapporto tra il profitto e il capitale investito sia in lavoro vivo sia in lavoro morto – macchinari, materie prime, e così via. Capita sempre di nuovo la circostanza per cui la pur accresciuta massa di plusvalore si traduce in un saggio di profitto troppo piccolo per giustificare l’interesse del Capitale a continuare a investire. Non solo, ma si dà la possibilità che il saggio di accumulazione cresca al punto da drenare nel processo produttivo tutto o quasi tutto lo stock di profitti accantonati in precedenza.

Il processo di valorizzazione del Capitale entra in uno stato di sofferenza, che i funzionari del capitale cercano di superare ripristinando condizioni favorevoli all’investimento attraverso azioni idonee a mutare i rapporti tra lavoro vivo e lavoro morto. Ecco le opzioni possibili: licenziare il personale, comprime il livello dei salari, introdurre nuove macchine, razionalizzare il processo produttivo, cambiare l’organizzazione del lavoro e via di seguito. Naturalmente non è affatto detto che queste misure vengano prese tutte insieme. In generale, si tratta di agire sulle leve in grado di cambiare gli equilibri interni al processo di valorizzazione, per consentire al Capitale di ritrovare lo stretto sentiero della profittabilità. Ci si muove per tentativi successivi, confidando nell’esperienza e nella… buona sorte.

Quanto al limite assoluto della tendenza storica a sostituire lavoro vivo con lavoro morto attraverso tecnologie laborsaving, mi riferisco alla natura sociale della valorizzazione capitalistica, ossia al fatto che solo il lavoro vivo crea plusvalore, mentre il lavoro morto (o passato, ossia il lavoro cristallizzato nelle macchine, nelle materie prime ecc. “agite” dal lavoratore) non crea alcun plus di valore, e per il Capitale rappresenta un puro costo. La fabbrica totalmente robotizzata, del tutto netta di lavoro vivo, è concepibile sul piano scientifico e tecnologico, ma non su quello dei vigenti rapporti sociali, appunto perché lo sfruttamento della viva capacità lavorativa è la conditio sine qua non del Capitale, ne rappresenta la vitale quanto incresciosa necessità, della quale esso cerca continuamente di sbarazzarsi (ad esempio fuggendo nella finanza, dove appare possibile la miracolosa moltiplicazione della ricchezza sociale attraverso la mera circolazione di valori cartacei o elettronici), senza tuttavia riuscirvi mai. Semplicemente non può, dal momento che dallo “sfruttamento” dei robot non vien fuori alcun plus, analogamente alla moltiplicazione dei valori virtuali cartacei o elettronici. Certo, chi crede che sia possibile appiccicare, semplicemente e arbitrariamente, un x di profitto al prezzo di costo della merce può cullare l’utopia capitalistica di un lavoro produttivo condotto da sole macchine.

Com’è noto, presi nella morsa di scioperi “selvaggi”, suicidi in massa dei propri operai e, soprattutto, di una preoccupante crisi di profitti, la multinazionale Foxconn basata in Cina ha annunciato a fine 2011 la volontà di un massiccio impiego di robot nell’assemblaggio di iPhone e iPad. Secondo un esperto della fabbrica «seguendo la continua crescita della tecnologia robotica, il costo del robot potrà essere inferiore alla forza lavoro manuale dopo il 2014» (da Daily, 12 dicembre 2012). Qui scompare ogni distinzione qualitativa tra lavoro morto e lavoro vivo. Normale amministrazione, per così dire, e piuttosto sarebbe stato degno di nota il caso contrario!

foxconn-suicidio-apple-126384«Il sogno del Capitale – L’anno scorso il Ceo della Foxconn Terry Gou ha presentato un piano secondo il quale il numero degli attuali robot – 300 mila – arriverà a un milione entro il 2014. Il sogno che si avvera degli industriali alla ricerca del profitto, o semplicemente un’idea troppo ambiziosa che non ha alcun contatto con la realtà. Secondo una recente analisi del 21st Century Business Herrald, nel 2014 il costo del lavoro artificiale (prodotto cioè da macchine) sarà più basso di quello umano. Ed è quindi presumibile pensare che le intelligenze artificiali sbatteranno fuori dalla porta quelle umane. (…) Alla Foxconn non hanno fatto i conti con un altro problema. E se anche i robot si ribellassero?» (Marta serafini, Corriere della Sera.it, 27 settembre 2012). Qui davvero il feticismo tecnologico tocca vertici inarrivabili, a partire dalla ribellione dei robot. Il problema della Foxconn, tanto nel breve quanto nel lungo termine, non è la rivolta delle macchine, ma il saggio del profitto, il quale chiama in causa non lo “sfruttamento” delle «intelligenze artificiali» bensì lo sfruttamento sempre più intensivo (tecnologicamente avanzato) delle capacità lavorative. La suggestiva, e ormai inflazionata, idea della ribellione delle macchine forse vuole esorcizzare scenari sociali di altro genere…

Nel Capitalismo anche quello che allude alla possibile – e sempre più possibile – emancipazione dell’umanità da ogni forma di miseria e di sfruttamento ha la maligna predisposizione a congiurare contro questa stessa splendida promessa. Un esempio a suo modo “classico” ed emblematico: «Non è difficile prevedere un futuro in cui beni e servizi di ogni tipo vengano prodotti in quantità sufficiente per soddisfare i bisogni di tutta l’umanità, usando solo una frazione della manodopera disponibile sul pianeta. Questa possibilità è già stata dimostrata nel settore agricolo: è un dato di fatto che, oggi, negli Stati uniti sia occupato in agricoltura meno del 2,5% della forza lavoro; ma il potenziale, anche tecnologico, della produzione agricola americana supera di gran lunga il fabbisogno interno. Sfortunatamente, non avendo trovato un modo equo ed efficace per distribuire i frutti del successo dell’economia, gli Stati Uniti, come molti altri paesi del mondo, pagano gli agricoltori per non coltivare la terra o distruggere i raccolti» (Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, 2000, Mondadori). La politica agricola comunitaria europea risponde in larga parte a questa logica capitalistica di sostegno dei prezzi agricoli, ossia dei profitti. Il Leviatano sussidia la distruzione di materie prime alimentari per assecondare il Moloch capitalistico, che è poi la sfortuna di cui parla il bravo sociologo americano.

A ben considerare, i concetti di razionalità e irrazionalità, riferiti alla società in generale e alla prassi economica in particolare, acquistano un nuovo e più profondo significato solo se penetrati dal pensiero critico-radicale, il solo che fa valere in ogni discorso i diritti della possibilità della liberazione (da condizioni sociali disumane, e quindi intrinsecamente irrazionali) sull’attualità del dominio.

Guardando il mondo da questa prospettiva si comprende bene come il problema del rapporto tra mezzi tecnologici e fini sociali non si esaurisca nell’uso capitalistico della tecnologia, e quindi della scienza, ma come esso investa necessariamente e assai in profondità la stessa prassi scientifico-tecnologica, la quale non può non fare i conti con l’assetto disumano/umano della comunità. Per dirla volgarmente, non esiste una tecno-scienza buona per tutte le stagioni, salvo metterla al servizio di certi obiettivi sociali piuttosto che di altri. Il processo storico-sociale attesta come praticamente nulla è socialmente neutro, e men che meno possono esserlo, socialmente neutre, la tecnica e la scienza, ossia le due pietre miliari della prassi sociale umana. La stagione dell’uomo inaugurerà una nuova scienza e una nuova tecnologia. Sarebbe ozioso, oltre che teoricamente sbagliato, azzardare ipotesi “concrete” a tal proposito, col rischio di immaginare il possibile futuro proiettandovi sopra la cattiva contingenza; fondamentale è, piuttosto, afferrare la concretezza e la straordinaria e dirompente portata politica del discorso intorno all’assetto umano della comunità. In ogni caso, questa è la mia… Agenda!

640px-Terminator_004«La produttività del capitale consiste innanzi tutto nella coercizione al plusvalore» (K. Marx, Il Capitale, libro primo capitolo sesto inedito, Newton, 1976). A mio avviso, se non si prende in considerazione il fatto che la produzione capitalistica si dà in primo luogo 1. come produzione di valore di scambio (valore con incorporato plusvalore), e non di puri e semplici “prodotti e servizi”, e 2. come «produzione e riproduzione del rapporto di produzione specificamente capitalistico», si smarrisce il filo conduttore che può guidarci nella complessa trama dei fenomeni economico-sociali senza correre continuamente il rischio di scivolare nel feticismo della merce, del denaro e della tecnologia: vedi, ad esempio, «la Skynet, quella di Terminator» immaginata da Krugman.

LA FORMICA DISSE ALLA CICALA…

La crisi che scuote le fondamenta dell’Unione Europea può apparire il suicidio di un ambizioso progetto politico-sociale solo agli occhi di chi, come Paul Krugman, non ha capito la vera natura e il significato storico di quella “strana” creatura. Di qui tutte le infondate illusioni, oggi andate miseramente in fumo, dei progressisti del Vecchio Continente e delle élite d’oltre oceano.

Nel suo commovente Il sogno europeo (2004), Jeremy Rifkin portava come testimonianza della superiore civiltà degli europei, ideologicamente contrapposti ai declinanti americani, «i diritti degli animali» introdotti nell’UE con il trattato di Amsterdam del 2001. Soprattutto la Germania, scriveva Rifkin, si distingue in questa nuova sensibilità animalista che rompe con la cinica concezione meccanicista introdotta da Cartesio (sempre colpa del francese!): «Il governo tedesco incentiva gli allevatori a concedere a ogni animale 20 secondi al giorno di contatto con l’uomo e a dare loro due tre giocattoli, per impedire che diventino aggressivi fra loro. Questo studio sui maiali non è che un minimo assaggio di quanto sta accadendo nel nuovo campo della ricerca sulle emozioni e le capacità cognitive degli animali». Trattandosi di maiali la locuzione «minimo assaggio» appare quanto mai pertinente. Personalmente sono per un massimo assaggio, e per questo sarei disposto a dedicare 40 secondi del mio prezioso tempo ad addolcire la carne, pardon: la vita delle buone bestiole.

Gli europei sapranno mantenere le promesse di uno sviluppo economico più umano ed ecosostenibile «anche se l’economia mondiale precipitasse in una recessione profonda e prolungata o in una depressione globale?». Con questa domanda Rifkin chiudeva il suo saggio apologetico sul Sogno europeo. Otto anni dopo il suo sogno è diventato un incubo, e la Germania si ripresenta ai suoi occhi, non alla stregua della Nazione-guida di un Continente che vuole lasciarsi definitivamente alle spalle le mostruosità del XX secolo, bensì come la Potenza velleitaria e pericolosa di sempre.

Persino il vecchio Helmut Koll ha rimproverato alla Cancelliera di Ferro un atteggiamento troppo arrogante nei confronti dei partner europei, e le ha ricordato che quando la Germania ha voluto mettersi alla testa del processo storico ha fatto solo disastri. «Noi dobbiamo stare alla coda, non alla testa!» Più facile a dirsi che a farsi per la Potenza fatale. La superiorità capitalistica di un Paese genera una serie di conseguenze che possono venir moderate e imbrigliate, ma non del tutto depotenziate e addomesticate in grazia di una visione politica lungimirante e “pacifista”. La fine della «guerra fredda», l’unificazione tedesca, l’accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica e la crisi economica hanno portato la Germania là dove essa deve stare: alla testa del Vecchio Continente. Ci sarà l’annunciato disastro? Lo scopriremo solo vivendo.

Allora adesso balla!

Sul New York Times del 15 Aprile Krugman ha imputato soprattutto alla Germania la «folle politica suicida» che alla fine avrà nella morte dell’euro e della stessa Unione Europea la sua tragica ma coerente conclusione. Con ciò egli mostra di non comprendere fino a che punto per la Germania è importante la guerra economica e politica (sistemica, in una sola parola) in corso. La società tedesca non ha alcuna intenzione di trasferire parte della propria ricchezza verso il Mezzogiorno d’Europa impigliato nella trappola del debito sovrano. A meno che l’«aiuto fraterno» della formica teutonica alle cicale del Sud non abbia come contropartita una loro rapida e certa germanizzazione. «Rientrate nei miei ranghi!» Tutto il resto, compresa l’accusa di «moralismo» rivolta oggi ai tedeschi da un Giuliano Ferrara tifoso sfegatato delle tesi sostenute dal keynesiano Krugman, lascia il tempo che trova. Rimproverare alla Germania di essersi arricchita anche grazie al mercato che le cicale le hanno messo a disposizione, per un verso è puerile, nonché indice di un’abissale indigenza intellettuale e politica; e per altro verso è estremamente sintomatico dei tempi che si annunciano.

PER LA CRITICA DEL KEYNESISMO 2.0

R. J. Samuelson

Sul Washington Post dell’altro ieri Robert J. Samuelson ha sferrato l’ultimo attacco a Paul Krugman. La contesa tra i due pezzi grossi della Scienza Economica statunitense ruota intorno a questa scottante domanda: è possibile oggi negli Stati Uniti e in Europa una politica keynesiana, più o meno ortodossa, tesa a «stimolare» la crescita economica con la leva della spesa pubblica? Il primo risponde invariabilmente che quel tipo di politica non è più praticabile nel mondo globalizzato di oggi, nel quale peraltro si muovono Stati nazionali molto più grandi (anche in termini di Debito Sovrano) e complessi rispetto a quelli che si trovarono a fare i conti con la Grande Crisi del ’29. Plausibile negli anni Trenta del secolo scorso, oggi l’economia keynesiana merita la definitiva eclissi. «Se Keynes vivesse oggi, egli certamente riconoscerebbe i limiti delle politiche keynesiane» (Bye-bye, Keynes, W. P. del 19 Dicembre 2011).  Il secondo, altrettanto tenacemente, sostiene che solo una politica keynesiana può salvarci dalla spirale della recessione, la quale mena alla più cupa delle depressioni.

Su questo Blog ho più volte polemizzato con le posizioni, a volte espresse in modo davvero bizzarro – ma assai sintomatico: vedi Cercasi Alieni, disperatamente! – del premio Nobel per l’economia. Adesso pubblico un capitolo di un mio vecchio studio (scaricabile da questo Blog: Sviluppo e crisi nel capitalismo, II, 1997) per contribuire a far luce su un dibattito teorico e politico che ha un enorme rilievo nella vita di tutti noi, benché trovi spazio solo in alto loco.

J. M. Keynes

In generale, non critico tanto le teorie di John Maynard Keynes, il quale dopotutto fu un onesto militante del Capitale in un momento particolarmente travagliato della sua burrascosa – e sanguinosa – esistenza, nonché il becchino della vecchia teoria liberale del laissez-faire; quanto piuttosto le elucubrazioni dei suoi tardi epigoni attivi nel XXI secolo, soprattutto per l’odiosa ideologia statalista in salsa progressista che li anima, e che l’economista inglese almeno si risparmiò. Le pagine che seguono sono quindi anche un contributo alla critica del “keynesismo 2.0”.

Il circolo virtuoso-vizioso keynesiano

Secondo Keynes, e nel pieno della crisi economica mondiale dei primi anni Trenta secondo tutti gli economisti ovunque essi vivessero, lo Stato doveva salvare il capitalismo dalla follia di coloro che inseguivano il profitto a discapito degli interessi generali, ossia degli interessi degli stessi capitalisti privati. Lo Stato rispose alla bisogna, e il capitalismo si salvò. Tra l’altro, al di là della sempre verde ideologia del Bene Comune (che cela il Bene del Capitale in quanto rapporto sociale di dominio e di sfruttamento), qui viene in luce la funzione dello Stato come espressione degli interessi generali della classe dominante, funzione che non rare volte si traduce in un attacco del Leviatano a interessi particolari che fanno capo a quella stessa classe. Sacrificare fazioni borghesi sull’altare del «Bene Comune» è un esercizio che esalta lo Stato come riserva di ultima istanza dello status quo sociale.

Continua

LE ODIOSE ILLUSIONI DEGLI STATALISTI E DEI BANCAROTTISTI

A Fausto Bertinotti l’ultima esternazione del Presidentissimo Napolitano – il cui attivismo politico, sia detto en passant, fa impallidire il settennato del «picconatore» Cossiga – non è proprio andata giù. Anche nella sua qualità di prestigioso esponente del Partito Statalista Italiano (un soggetto politico molto “trasversale”: esso, infatti, raccoglie i suoi tristi militi tra ex stalinisti ed ex fascisti, tra neo berlingueriani e neo almirantiani), l’ex Presidente della Camera ha voluto bacchettare l’esortazione quirinalizia di Cernobbio a proposito del debito pubblico.

«Pareggio di bilancio significa sottomissione al diktat dei mercati», ha dichiarato il Rifondatore dello Statalismo; «con il pareggio di bilancio non ci sarebbe stato il New Deal». Soprattutto quando la crisi economica cavalca selvaggiamente sui verdi prati del capitalismo, gli ortodossi della «teologia del New Deal», per dirla con John K. Galbraith, salgono sul pulpito per magnificare la potenza salvifica dell’interventismo statale. Salvifica per il sistema capitalistico in quanto bronzea totalità sociale, beninteso.

Come si vede, presso gli statalisti italioti (ma non solo: vedi il marziano Paul Krugman) l’ultrareazionario mito del New Deal non vuole passare di moda, anche perché in effetti l’intervento dello stato nell’economia è una tendenza sociale oggettiva, soprattutto, appunto, nei momenti di acuta crisi economica, quando lo Stato (capitalistico) è chiamato a funzionare come garante di ultima istanza degli «interessi generali del Paese» (ossia delle classi dominanti, o solo delle sue fazioni vincenti).

Per una critica puntuale e approfondita della teoria keynesiana rimando al mio studio intitolato Sviluppo e crisi nel capitalismo. Il respiro dell’economia fondata sul profitto, II, (1996), soprattutto al capitolo Il circolo virtuoso-vizioso keynesiano. Qui me la cavo sostanzialmente con poche citazioni, per illustrare la vera natura del mito di cui sopra.

Scriveva Susan Strange: «Le politiche di tipo keynesiano o sono state inefficienti, come negli Stati Uniti con il New Deal, oppure sono state finalmente intraprese, come i Francia, Germania e Gran Bretagna, per prepararsi alla seconda guerra mondiale. La dimostrazione più eclatante della loro efficacia, tuttavia, si è avuta negli Stati uniti dopo Pearl Harbour. Nel giro di un anno, la maggior parte dei 13 milioni di disoccupati statunitensi aveva trovato un nuovo lavoro. Il governo aveva provveduto ad assicurare ai settori produttivi legati alla difesa credito prontamente disponibile. Addirittura alcuni settori, di fatto, erano stati nazionalizzati. Sotto il pungolo della guerra, l’”arsenale della democrazia” aveva dimostrato che cosa sapeva fare» (Denaro impazzito, 1998, p.134, Edizione di Comunità).

William Gropper, Construction of Dam, 1939

Prima carne da profitto e poi carne da macello, in vista di una nuova era di prosperità e di democrazia: è il capitalismo, bellezza! Di qui, la nostalgia di Krugman, espressa sotto forma di “provocazione” («ci vorrebbe una minaccia aliena, in modo da giustificare una potente politica di investimenti pubblici!»), per i bei tempi in cui gli Stati potevano ricorrere anche alla guerra mondiale «convenzionale» per superare una grave «congiuntura economica». Maledetta bomba atomica!

Occorre ricordare che nel 1933 Hitler licenziò Luther, presidente della Reichsbank, perché questi non volle appoggiare il piano “keynesiano” socialnazionalista che prevedeva una spesa pubblica praticamente illimitata, tesa ad assorbire la totalità della forza lavoro allora disoccupata. Il nuovo Presidente Hjalmar Schacht assicurò il führer che la Reichsbank avrebbe messo a disposizione dello Stato «Tutto quello che può servire finché la disoccupazione sia eliminata». Più tardi Hitler si vantò del modo perfido in cui liquidò il poco keynesiano Luther: «Quando si ha a che fare con gli esperti finanziari, che in fondo sono tutti bricconi, non vi è nessuna ragione per essere sinceri» (Conversazioni di Hitler a tavola, 1941-1942, p. 121, Longanesi, 1963). Così parla un vero keynesiano!

Scriveva Galbraith nel suo classico saggio sul Grande Crollo: «Dopo il Grande Crollo venne la Grande Depressione che durò, con alti e bassi di gravità, una decina d’anni. Fino al 1941 il valore in dollari della produzione rimase inferiore a quello del 929 … Nel 1938 una persona su cinque era ancora disoccupata» (Il Grande Crollo, 1954, p.186, Boringhieri, 1972). Poi, per la gioia di Krugman, venne la guerra, e il capitalismo americano poté superare definitivamente il Grande Crollo e preparare il giro di vite imperialistico che abbiamo visto all’opera per oltre mezzo secolo. Questo, tra l’altro, a testimonianza di come il «Crollo definitivo e inevitabile del Capitalismo» sia tutt’altro che ineluttabile: senza rivoluzione sociale crollano inevitabilmente solo le illusioni dei crollisti per fede. Certo, il 2012 può riservarci qualche sorpresina…

Il Presidente F. D. Roosevelt firma un provvedimento del New Deal

Ultima citazione: «Lo Stato ha avuto già la funzione di ostetrico nella prima fase del capitalismo, è stato poi messo da parte, e gli viene oggi nuovamente in aiuto in una situazione di sempre più grave difficoltà … L’affinità tra il procedimento logico keynesiano e le teorie autoritarie si potrebbero dimostrare ulteriormente sulla base di molti particolari … Nella misura in cui la revisione keynesiana rimanda al di là della teoria classica, essa non rinvia a un futuro migliore, ma a un futuro fosco» (F. Pollock, La revisione keynesiana del liberalismo economico, 1936, in Teoria e prassi dell’economia di piano, pp. 164-198, De Donato, 1973). Il fosco futuro ci introduce alla scottante questione del debito Sovrano.

Leggo da un volantino redatto dal Movimento Studentesco Catanese (la stella come logo è già «tutto un programma»: e non è affatto bello!): «Dobbiamo definitivamente rifiutarci di pagare il debito. Per alcune ragioni. La prima, banale, è che non possiamo permetterci di pagare, non al prezzo di rinunciare alla nostra dignità». Scusate il settarismo, ma la cosa mi suona ambigua: «Nostra dignità» in che senso? «Dignità» come Nazione? Come Paese? O come «lavoratori»? In ogni caso si naviga nel mare delle classi dominanti. Quanto la questione puzzi maledettamente – naturalmente alle spalle dei bancarottisti – lo testimonia quest’altra frase: «L’Islanda, ad esempio, attraverso un referendum, ha deciso di non pagare il debito pubblico». Qui il Potere Finanziario e il Contropotere Finanziario (dall’«alto» e dal «basso») stanno preparando alle classi dominate un «futuro fosco».

La questione del debito Sovrano assume per le classi subalterne una consistenza socialmente rivoluzionaria solo se entra in gioco il problema del potere politico (altro che referendum!), un evento che oggi appare assai remoto. Porre oggi una simile questione significa legarsi al carro delle classi dominanti (o solo di alcune fazioni in lotta contro le altre) e degli Stati (o coalizioni di Stati) che competono sul mercato globale. Significa, in altri termini, continuare a indebolire le capacità di risposta di chi vive di salario.

Certo, a chi ha un famelico bisogno di miti e di illusioni (ieri: dalla Russia di Stalin alla Cina di Mao, dalla Cuba di Castro e del Che al Nicaragua dei Sandinisti; oggi: dal Venezuela di Chávez alla «dignitosa» Islanda), non si può chiedere un serio sforzo di analisi e di riflessione intorno all’attuale crisi economico-sociale.

CERCASI ALIENI, DISPERATAMENTE!

«Sono già diversi anni che Roosevelt è stato giudicato malato di mente da un professore. Non solo, ma spinge all’isterismo tutto il suo paese, col suo modo di fare. Altrimenti come si spiega che a Chicago una trasmissione radiofonica dedicata ad un immaginario sbarco dei marziani sulla terra abbia potuto provocare un’ondata di panico tra persone ragionevoli?» (A. Hitler, Conversazioni di Hitler a tavola, Longanesi).

Ospite da Fareed Zakaria GPS (CNN) la scorsa domenica, l’economista progressista Paul Krugman, critico «da sinistra» delle misure economiche varate recentemente dal «traditore» Obama, se n’è uscito con una delle sue famose «stravaganze»: l’astuzia del debito pubblico esigerebbe un attacco alieno. Corollario implicito (perché politicamente scorrettissimo): purtroppo non ci sono più le guerre mondiali di una volta! Ci troviamo in presenza di una follia in diretta televisiva? Nemmeno per idea! Ma vediamo cos’ha detto l’illustre Scienziato Sociale:

«Se scoprissimo, diciamo, che gli alieni stessero progettando un attacco ed avessimo bisogno di una preparazione massiccia per contrastarne la minaccia, allora sul serio l’inflazione e il deficit del budget passerebbero in secondo piano e questa crisi finirebbe in 18 mesi. E se quindi scoprissimo, oops, che ci sbagliavamo, che non c’è nessun alieno, staremmo meglio»

«Sta dicendo che abbiamo bisogno di Orson Wells?», interrompe Rogoff.

«C’era un episodio di Ai Confini della Realtà come questo, in cui gli scienziati fingono una minaccia aliena per ottenere la pace mondiale», dice Krugman. «Beh, questa volta non ne abbiamo bisogno, ne abbiamo bisogno per avere qualche stimolo fiscale».

Quando nell’Angelo Nero ho scritto che: «Ormai tutti i più quotati scienziati del pensiero economico sono concordi nell’attribuire alla seconda guerra mondiale il punto di svolta decisivo che permise al mondo di superare la catastrofica crisi economica iniziata ufficialmente col crack borsistico di Wall Street, nell’ottobre 1929. Quella che un tempo era una verità che abitava solo in piccolissime nicchie di pensiero critico, oggi è diventata un luogo comune del Pensiero Scientifico. È la cifra dei pessimi tempi: il dominio può permettersi il lusso della verità!»

Ebbene queste righe si spiegano – anche – con questi passi, tratti da un saggio di Paul Krugman del ’99: «Negli Stati Uniti la Grande Depressione finì grazie a un ingente programma di lavori pubblici finanziati dal deficit, conosciuto sotto il nome di Seconda guerra mondiale» (Il ritorno dell’economia della depressione, Garzanti, 2001). Altro che «Guerra di Liberazione»! Altro che «Guerra Umanitaria»!

Un epigono di John Maynard Keynes non può non apprezzare quel gigantesco interventismo statale che soprattutto nella Germania di Hitler e nell’America di Roosevelt permise di assorbire la disoccupazione e di rilanciare i consumi (in primo luogo quelli industriali) soprattutto attraverso la preparazione della carneficina bellica. D’altra parte, la guerra procura in modo rapido e radicale quella distruzione e quella svalorizzazione del capitale che, come aveva capito Marx, rappresentano una delle principali «controtendenze» rispetto alla caduta del saggio del profitto, motore centrale e peculiare della crisi capitalistica. È il metodo di Procuste che sostiene sempre di nuovo, in guerra come nella cosiddetta pace, i presupposti del presente ordine sociale.

Scriveva Krugman: «La stravaganza ha uno scopo preciso: fa pensare a soluzioni originali, suggerendo che in realtà può esserci un modo sorprendentemente facile di risolvere almeno una parte dei problemi» (Il ritorno…). Non c’è dubbio, la minaccia aliena come giustificazione di misure keynesiane non manca di originalità. Già solo il fatto che si evochi, anche solo come battuta e paradosso, la necessità della catastrofe bellica per ottenere «qualche stimolo fiscale», la dice lunga su come siamo messi male, sul versante “umano”.

Keynes una volta disse che il naufragio della teoria liberale classica è da attribuirsi alla sua incapacità di spiegare il tragico paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza. Che nel 2011, nel momento in cui l’umanità non manca certo di mezzi tecno-scientifici per emanciparsi una buona volta dalla fatica, dal bisogno e da qualsivoglia preoccupazione economica, si ritorni a discutere intorno a quel falso paradosso (falso perché l’economia capitalistica si basa sulla ricerca del profitto, non sulla soddisfazione dei bisogni), ebbene ciò evoca davvero la necessità di «soluzioni originali». E non alludo agli Alieni.

Profilattico (1860)

Intanto il malthusiano Giovanni Sartori se la prende coi Sacri Palazzi Vaticani, rei di ostacolare una razionale politica demografica. La catastrofe sociale ed ecologica è imminente: il Pianeta morirà di fame, di sete e di caldo. Se prima non ci annienteranno gli Alieni, beninteso. «Che fare? Io dico che la crescita demografica va fermata ad ogni costo. Ma nessuno osa dirlo; l’argomento è proibito. Tutti o quasi tutti invocano la tecnologia e le sue scoperte. Ma non c’è tecnologia che basti e che ci salvi con dieci miliardi di viventi» (Corriere della Sera, 15 Agosto 2011). Il poverino ha pure ragione: la tecnologia non ci salverà! Forse gli Alieni…