Per Paul Krugman la guerra mondiale come eccezionale (e forse unico) mezzo per uscire dalla crisi epocale che ormai da diversi lustri stringe il Capitalismo occidentale nella morsa della crescita fiacca (anemica, anoressica, con cadute nella stagnazione conclamata) è diventata una vera e propria ossessione. E probabilmente è questa ossessione che realizza la sola intuizione intelligente che l’illustre economista americano è riuscito a concepire negli ultimi anni.
Naturalmente, e giustamente, l’ossessione di Krugman trova alimento nel Secondo macello imperialista, quello spacciato dai vincitori come Guerra di Liberazione: «Parlare a rotta di collo di come la tecnologia cambi tutto potrebbe sembrare innocuo. Invece, funge da elemento di distrazione da questioni più ordinarie e da pretesto per gestirle male. […] Se ripensiamo agli anni Trenta, scopriamo che persone autorevoli affermarono le stesse cose che si dicono adesso: il problema oggi non riguarda il ciclo economico; siamo alle prese con un cambiamento tecnologico radicale e con una forza lavoro priva delle competenze necessarie ad affrontare la nuova epoca. Poi, però, grazie alla Seconda guerra mondiale, ottenemmo la spinta della domanda di cui avevamo bisogno e i lavoratori che erano ritenuti privi di qualifiche si rivelarono utili per l’economia moderna. Eccomi qui a rievocare ancora una volta la storia. Possibile che io non capisca che oggi è tutto diverso? Capisco perché alla gente piace ripeterlo, ma non per questo diventa vero» (La Repubblica, 26 maggio 2015).
Certo, oggi è tutto diverso, da allora. D’altra parte, cambiamento e Capitalismo sono sinonimi. Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume capitalistico, tali sono i mutamenti che si verificano nella struttura sociale di questo regime mondiale, e tanta la rapidità con cui le sue trasformazioni sistemiche (economiche, tecnologiche, scientifiche, politiche, “esistenziali”) si realizzano. La natura rivoluzionaria (nell’accezione marxiana del concetto esposta nel Capitale) dell’attuale formazione storico-sociale è alla base delle false teorie che fioriscono sempre di nuovo intorno al cambiamento di natura del Capitalismo. Ora, se è vero che non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua capitalistica, è altrettanto vero che siamo immersi sempre nello stesso rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Ed è esattamente questo rapporto sociale che dà consistenza materiale all’ossessione di Krugman, che ne determina la maligna attualità.
La preparazione bellica iniziata nella seconda metà degli anni Trenta e la distruzione catastrofica realizzata dalla Seconda guerra mondiale non solo consentirono all’economia mondiale di uscire definitivamente fuori dal tunnel della Grande Crisi, ma generarono tutti i fattori indispensabili a una possente accumulazione capitalistica: distruzione di vecchio e nuovo capitale (industriale, commerciale, finanziario), formazione di un esercito industriale disciplinato e svalorizzato, creazione di mercati dalle enormi dimensioni e potenzialità, nuove tecnologie e nuove scoperte scientifiche da sfruttare in tempo di “pace”, e via di seguito. Per il saggio del profitto, che secondo il guerrafondaio di Treviri è il regolatore di ultima istanza dell’accumulazione capitalistica, si trattò di una vera e propria botta di vita; il rantolante e avvizzito Moloch poté rimettersi a correre come un fanciullo. Correva sulle macerie fumanti delle città e sui corpi straziati dei cadaveri, è vero; ma questo è solo un dettaglio – fino a un certo punto però, anche ragionando in termini strettamente “economici”.
Alla fine degli anni Sessanta, grossomodo, può dirsi chiuso, o in via di rapido esaurimento, l’eccezionale periodo di accumulazione seguito alla guerra. La crisi economica internazionale dei primi anni Settanta segna in qualche modo la fine “ufficiale” della spinta propulsiva generata dalla Seconda guerra mondiale, e per vedere tassi di crescita del PIL prossimi alle due cifre (8, 9%) il pianeta dovrà attendere il “decollo” capitalistico della Cina e degli altri Paesi capitalisticamente arretrati – molti dei quali si fregiavano del bizzarro titolo di “regime socialista”, per la felicità degli intellettualoni “marxisti” basati in Occidente, più che del popolo assoggettato alle delizie “socialiste”.
L’accelerazione nel processo di finanziarizzazione dell’economia e il rapido espandersi della cosiddetta «economia del debito» (in realtà il debito, in tutte le sue forme, è da sempre connesso intimamente allo sviluppo capitalistico, soprattutto da quando il capitale finanziario è diventato la forma dominante di capitale) hanno le loro radici più profonde e robuste nel declino del saggio del profitto che inizia a delinearsi in Occidente e in Giappone proprio alla fine degli anni Sessanta.
Scrive Krugman: «L’ottimismo sembrò giustificato quando nel 1995 la crescita della produttività decollò. Ecco di nuovo il progresso! Ecco di nuovo l’America, agli avamposti di quella rivoluzione. Poi, lungo la strada della rivoluzione tecnologica, accadde una cosa bizzarra: come abbiamo scoperto in seguito, non siamo tornati a un rapido progresso economico». Se con «rapido progresso economico» ci si riferisce, ad esempio, agli eccezionali ritmi di crescita fatti registrare dall’economia internazionale nel Secondo dopoguerra, è assurdo pensare che tempi “normali”, come quelli che, appunto, attraversiamo da almeno quattro decenni nelle aree capitalisticamente “mature” del pianeta, possano generare performance eccezionali. Anche l’attuale ripresa economica americana non sta esibendo cifre che possano far gridare al nuovo miracolo economico gli apologeti del Capitalismo, e anzi la formazione di nuove bolle speculative negli Stati Uniti testimoniano della precarietà di questa ripresa. La precarietà e la debolezza del ciclo espansivo è la “normalità” dell’accumulazione capitalistica dei nostri tempi, e la cosa apparirà sempre più chiara via via che Paesi un tempo «in via di sviluppo» come la Cina entreranno nella dimensione della piena maturità capitalistica.
Ormai sono numerosi gli economisti anglosassoni che parlano di secular stagnation, e che ne individuano i tratti più caratteristici e marcati nell’eurozona. Probabilmente si tratta, come appena detto, di un regime di “normalità” nel contesto della realtà capitalistica degli ultimi quarantacinque anni. In questo contesto 1) le rivoluzioni tecnologiche (per ciò che riguarda i mezzi di produzione, le materie prime, i materiali e le merci/servizi) e organizzative, che anche nel recente passato non sono mancate e che nel prossimo futuro non mancheranno di punteggiare la vita della Società-Mondo del XXI secolo; e 2) la svalorizzazione della capacità lavorativa (ottenuta anche grazie alla continua espansione del mercato del lavoro mondiale) non possono superare strutturalmente le magagne che si sono cristallizzate intorno al nucleo centrale dell’accumulazione capitalistica “allargata”, costituito dai meccanismi che rendono possibile la produzione di plusvalore nelle imprese industriali (materia prima di ogni forma di profitto e di rendite, comprese quelle finanziarie e speculative). Solo il tritolo della svalutazione selvaggia del capitale potrebbe, al punto in cui siamo, far saltare le incrostazioni che frenano lo stantuffo capitalistico, e non alludo a un tritolo solo metaforico, come sa bene Krugman. Due cose, a mio avviso, appaiono abbastanza chiare: 1) non è facile ottenere in tempi di “pace” quel salasso “valoriale” che già due volte ha permesso al Mostro di vivere una seconda giovinezza sulla pelle di milioni di individui (la guerra come sola igiene del mondo capitalistico?); 2 la competizione sistemica interimperialistica non può che acuirsi.
Scrive Vladimiro Giacché: «Una soluzione del tutto diversa troviamo in Marx: essa è compendiabile nell’esigenza di un superamento dell’attuale modo di produzione in uno superiore. Precisamente in questo senso Marx asserisce che le crisi per un verso sono “soluzioni” (ancorché “soltanto temporanee”) “delle contraddizioni esistenti” del modo di produzione capitalistico, “eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato”, ma d’altra parte sono un sintomo dell’inadeguatezza dell’attuale modo di produzione: “Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale”». Sottoscrivo! E aggiungo: un livello superiore di produzione sociale presuppone il superamento rivoluzionario della dimensione capitalistica, a prescindere dalla «forma fenomenica» contingente che assume il dominio del Capitale.
Questa precisazione apparirà più chiara leggendo la chiosa di Giacchè alle parole di Marx: «Negli ultimi decenni, in particolare dopo la fine dell’Unione Sovietica e delle “democrazie popolari” dell’Est europeo, la possibilità stessa di un “livello superiore di produzione sociale” è stata rifiutata quale astratto utopismo, tendenzialmente totalitario. È però la realtà stessa del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni a riproporre l’esigenza invocata da Marx. Oggi quella direzione alternativa, senza sognare un’impossibile fuga dal mercato mondiale (la sostanziale emarginazione dal quale fu decisiva per decretare l’insuccesso delle economie pianificate dell’Urss e dell’Est europeo), deve prevedere un ampliamento della sfera pubblica dell’economia e forme di socializzazione degli investimenti tali da condurre a una forma di economia mista in cui le scelte strategiche di sviluppo siano sottratte alla logica del profitto privato». Perché, il profitto pubblico è umanamente più accettabile? Scriveva Marx: «Là dove lo Stato stesso è produttore capitalista, il suo prodotto è merce e possiede perciò il carattere specifico di ogni altra merce» (*). È appena il caso i di ricordare qui che per il mangia crauti di Treviri il carattere specifico di ogni merce consiste nell’essere sostanza di valore generata attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato. È la logica dello sfruttamento e del dominio (due modi diversi di chiamare la stessa cosa), immanente al concetto stesso di Capitale (“privato”, “statale” o “comunale” che sia), che l’autentico anticapitalista (e quindi non mi riferisco ai cultori sinistrorsi dell’Articolo 1 della Costituzione Italiana) deve mettere radicalmente in discussione, a partire dal terreno economico-rivendicativo.
Per un verso Giacché non dice l’essenziale, e cioè che, lungi dall’essere stato «un livello superiore di produzione sociale», il cosiddetto «socialismo reale» non fu che un Capitalismo di Stato pieno di magagne strutturali (le stesse che alla fine ne decreteranno la miserabile fine), e per altro verso egli ripropone il vecchio statalismo in salsa neosocialista, non senza un ammiccamento al «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi», il quale non avrebbe commesso l’imperdonabile errore a suo tempo praticato dalle «economie pianificate dell’Urss e dell’Est europeo». Con questo egli si dimostra coerente con la tradizione della sinistra storica italiana, da Togliatti in poi. Anche il vezzo di citare Marx per veicolare punti di vista ultrareazionari, ossia interni alla continuità del dominio capitalistico (tipo: battersi per distruggere non il Capitalismo tout court: dalla Germania della Merkel alla Grecia di Tsipras, dagli Stati Uniti di Obama alla Cina di Xi Jinping, ma l’«attuale cornice istituzionale europea») è tipico dell’intellettuale “comunista” Made in Italy.
Già mi par di sentire la solita obiezione “antisettaria” e rigorosamente “dialettica”: «Ma spezzare l’attuale cornice istituzionale europea e farla finita con la moneta unica europea non sono che passaggi, momenti transitori di una strategia rivoluzionaria di più largo respiro». Scusate ma sono decenni che respiro queste perle “antisettarie” e rigorosamente “dialettiche”, delle quali, a quanto sembra, la causa dell’emancipazione universale non si è giovata nemmeno un po’.
* K. Marx, Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner, in Scritti inediti di economia politica, p. 177, Editori Riuniti, 1963.
Aggiunta del 30 maggio 2015 *
Ho appena finito di ascoltare su Radio Radicale un interessante dibattito fra Serge Latouche, il celebre teorico della decrescita come sola via di salvezza per un’umanità (leggi anche: per un Capitalismo) sempre più avvitata nel circolo vizioso dell’autodistruzione, e Bernardo Bortolotti, economista bocconiano “mainstream” da qualche anno in crisi di identità: «Oggi la crescita economica si risolve in una spaventosa crescita dell’ineguaglianza». Oggi! Insomma, Thomas Piketty continua a fare tendenza.
Titolo del dibattito, tenutosi il 12 maggio nell’ambito del Bergamo Festival, CRESCERE O NON CRESCERE? Le sfide del mercato globale e il senso umano dell’economia. Mettere insieme mercato mondiale e “senso umano”: che cosa bizzarra! Diciamo…
Ebbene, a un certo punto l’economista italiano ha proferito le parole che seguono: «Naturalmente la guerra è qualcosa di mostruoso. Tuttavia, la devastazione prodotta dalla guerra ha anche un aspetto positivo. Le condizioni eccezionali degli anni Cinquanta sono anche dovute alla devastazione di una guerra mondiale, che livella sempre, distrugge patrimoni e crea scompigli negli asset. E così in Europa tra il 1945 e il 1975 abbiamo avuto trent’anni di crescita». Questo sempre a proposito della svalutazione e distruzione accelerata e radicale di tutti i valori come balsamo spalmato su un saggio del profitto sofferente e come poderoso ricostituente dei fattori di profittabilità capitalistica. Di qui, la nota ossessione di Krugman.
* Nella foto le Trümmerfrauen, le donne (tedesche) delle macerie. Scriveva Lotta Lundberg lo scorso 8 maggio su Svenska Dagbladet (Stoccolma):
«Questo fine settimana si commemorerà la fine della guerra. Moralmente e materialmente nel 1945 il mondo era devastato. Non c’era nessuno che non si fosse sporcato le mani di sangue. Per l’Europa era scoccata l’ora zero.
A pochi piace ricordare di aver fatto compromessi in relazione ai valori nei quali credevano. Penso alle Trümmerfrauen. Mi riferisco alle donne che, al termine della guerra, andarono sui cumuli di macerie e ceneri e ripulirono le rovine. Le donne che a mani nude separavano le pietre in secchi diversi, che sollevavano le macerie , pulirono, dragarono, strapparono. No, non c’erano le ruspe: quelle arrivarono soltanto all’inizio degli anni Cinquanta. No, non c’erano gli uomini: quelli o erano morti o erano prigionieri di guerra, mutilati, alcolizzati, traumatizzati. […]
Che cosa sono dunque le Trümmerfrauen: vincitrici, vittime o eroine? Una cosa è certa: furono prede. Quando arrivarono i liberatori, ogni cosa divenne proprietà delle potenze occupanti. Tutta Berlino fu trasformata in un bordello a cielo aperto. Il libro Quando vennero i soldati di Miriam Gebhardt, pubblicato di recente, toglie qualsiasi illusione in merito: i soldati russi stuprarono. L’orgoglio tedesco doveva essere estirpato da tutte le donne tedesche con l’arma più patriarcale che esista: la violenza sessuale».