LA FIOM È PARTE DEL PROBLEMA…

Più che di carattere sindacale, quella romana di venerdì scorso è stata soprattutto una manifestazione dagli evidenti connotati politici. E fin qui nulla da eccepire, anche in considerazione del fatto che la politicità dell’«azione economica» è, come dire?, nelle cose, ossia nella dialettica del conflitto sociale, il quale non può essere mai confinato dentro limiti netti e invalicabili. Questo a causa della dimensione unitaria e totalitaria (totalizzante) del dominio sociale capitalistico, la cui radice affiora in ogni tipo di controversia sociale, e persino “personale”. Come dicevano i miei nonni, «ogni lotta economica è una lotta politica». Ma come si declina nel merito questo assunto?

Storia e Giustizialismo di classe...

Come i più attenti osservatori della politica italiana hanno fatto rilevare, con la manifestazione del 9 marzo è andato in scena l’ennesimo scontro tutto interno alla «sinistra» del Paese, dilaniata come sempre in fazioni che non riescono mai a trovare un denominatore comune attorno a cui costruire un progetto unitario. Le fallimentari esperienze governative centrosinistrorse (a proposito: centrosinistra si deve scrivere col «trattino» o «senza trattino»: è un dubbio che ancora mi angoscia!) degli anni Novanta e del 2006 sono lì a testimoniarlo, checché ne dicano i simpatici personaggi della «foto di Vasto».

C’è feeling!

Da quando il Pci è andato a sgualdrine (Silvio, contieniti, è una metafora: lascia stare la falce e il martello!), le diverse anime del «popolo di sinistra» vagano senza requie sulla scena della politica italiana prive di un unico «centro di gravità permanente», e ciò le porta non di rado, anzi sempre più spesso, a scontrarsi l’una con l’altra, indebolendo di fatto il cosiddetto fronte progressista. Una volta la tradizione togliattiana (filosovietica) del Pci, la sua opposizione «di principio» alla DC e agli Stati Uniti, i forti interessi economici che gli derivavano dalla sua intima collusione con il Capitalismo di Stato in salsa cattostalinista e con le «Cooperative Rosse»: per decenni tutto ciò è servito  da collante per le diverse correnti del «comunismo italiano», anche per quell’area di “dissenso” che gli orbitava intorno, “criticamente”, ma sempre ossequiosa della «vecchia e gloriosa storia del Partito Comunista Italiano». In fondo, anche il sequestro di Aldo Moro rispose a questa “dialettica” interna alla «Sinistra Italiana». Scomparso il vecchio mondo uscito dalla Seconda Carneficina Mondiale, quelle correnti si sono autonomizzate, e da quel momento si è assistito, per un verso  a un continuo tentativo di mettere insieme i cocci del vaso andato in frantumi, e per altro verso a uno scontro fra gli stessi cocci, il cui significato si può, gramscianamente, ricondurre al concetto di «egemonia»: quale corrente del vecchio Pci deve dettare la linea politico-culturale alla «Sinistra»? La deflagrazione delle correnti democristiane, finite in ogni parte dell’agone politico, ha ulteriormente complicato il quadro di questa «lotta per l’egemonia».

La FIOM di Landini ha “oggettivamente” assunto la funzione di polo di aggregazione per una non piccola area della «sinistra-sinistra» e per spezzoni dello stesso centrosinistra (dipietristi e «sinistra del PD»). Lo stesso scontro sull’Art. 18 dev’essere sussunto, per l’essenziale, sotto la chiave di lettura da me (ma anche dai più smaliziati analisti politici del Bel Paese) appena proposta.

Quanto reazionario sia il punto di vista del segretario della FIOM lo testimonia, tra l’altro, il punto uno della sua piattaforma politico-sindacale: «La Costituzione deve rientrare in fabbrica». Con ciò la parte più “antagonista” del sindacalismo collaborazionista ribadisce la propria sudditanza allo Stato capitalistico in guisa democratica, il quale sanzione all’Art. 1 della sua Costituzione quello che l’uomo con la barba ha sempre denunciato: la società borghese si fonda sul lavoro salariato, ossia sullo sfruttamento delle capacità lavorative di chi è costretto a vivere di salario. Che oggi per milioni di persone il salario, anche ridotto all’osso, appaia alla stregua di un miraggio, ciò non solo non cambia i termini della verità, ma piuttosto li rafforza e li rende più cinici. Per questo dal mio – scabroso? – punto di vista, più che della soluzione, la FIOM fa parte del problema che attesta l’attuale impotenza sociale dei lavoratori.

«DESTRA» O «SINISTRA»? SOTTO. MOLTO SOTTO!

Dopo aver letto il mio post sull’ultradecennale politica collaborazionista della Cgil, un amico su Facebook mi ha scritto quanto segue:

«Non sono proprio sicuro che si possa liquidare 50 di storia del movimento operaio nel modo descritto nell’articolo. Non ci trovo niente di nuovo, né di proficuo, nell’attaccare “da sinistra” il PCI, il sindacato, Togliatti etc.».

Ecco la mia risposta, che pubblico anche sul Blog per far comprendere meglio il mio punto di vista sulla «sinistra» italiana:

Una storia abbastanza oscura

Non ho inteso «liquidare 50 anni di storia del movimento operaio», nel senso che ciò che tu definisci Movimento Operaio io l’ho sempre (almeno dal 1978: sì, sono “diversamente giovane”…) considerato parte integrante della storia e della prassi capitalistica, non anticapitalistica. In questo senso è sbagliato dire che faccio una critica «”da sinistra”», con o senza le virgolette. Se vogliamo usare vecchi ma ancora fecondi concetti (basta non usarli ideologicamente o per sentito dire, e men che meno «a pappagallo»), diciamo che la mia critica è «di classe», ossia elaborata a partire dal punto di vista critico-radicale che inchioda tanto la «sinistra», quanto la «destra» borghese – nell’accezione storico-critica, non sociologica, del termine.

D’altra parte, definire di «sinistra» (sempre borghese) l’azione politica del PCI da Togliatti in poi (senza ovviamente dimenticare l’adesione di Gramsci al nuovo corso stalinista(*): «la verità è rivoluzionaria», diceva Quello, prima di finire mummificato), anche su questo si possono esprimere seri e fondati dubbi. Basta pensare alla vera e propria idolatria statalista del togliattismo (versione italica dello stalinismo, come il maoismo lo fu per quella cinese), che lo rendeva più simile al Fascismo che alla tradizione “libertaria” del riformismo. Non a caso molti ex militanti e dirigenti fascistissimi finiranno, dopo aver sostituito la camicia nera con quella rossa, il teschio sepolcrale con la falce e martello (a dimostrazione che l’abito non fa il monaco), nel PCI, sentendosi perfettamente a casa loro, mentre pochissimi prenderanno la strada che portava al PSI. E non a caso molti militanti di «sinistra» oggi simpatizzano per Tonino “Manette” di Pietro e per il Fascio Quotidiano. Che dire poi, di quotidiani che si dicono «Comunisti» (vedi Il Manifesto e Liberazione), e che implorano lo Stato Capitalistico (Carletto Marx, non ridere!) di salvarli dal fallimento editoriale? Il defunto Montanelli parlava di Togliatti nei termini di un «rivoluzionario parastatale»: ecco, appunto! Di qui peraltro si evince la maggiore intelligenza storico-politica degli esponenti della «destra» borghese, i quali almeno non hanno mai preteso di parlare in nome del «Comunismo» e del «Movimento Operaio».

Ecco perché da tempo non mi definisco più «comunista» o «marxista»: per non collaborare anch’io all’inflazione di parole svilite, corrotte e private del loro autentico significato fino al parossismo (in Cina non c’è  forse il «Socialismo di Mercato»? e nella Corea del Nord non c’è «l’ultima dittatura comunista»? e Marco Rizzo non è «il più comunista degli italiani»?). Ho preso le distanze dal nome della cosa per meglio capirne e sviscerarne il concetto: per questo forse troverai strana o ambigua, o calata da un altro pianeta, questa mia riflessione. E non a torto. Infatti, rispetto alla «Sinistra», anche a quella più «estrema», sono un vero e proprio Alieno. Se mi vuoi far visita, mi trovi nella prospettiva chiamata PUNTO DI VISTA UMANO. Non cercarmi né a «sinistra» né a «destra», ma in basso, molto in profondità. Lì mi troverai, intento a rosicchiare le radici del Dominio Sociale Capitalistico. Non riuscirò a spezzarle, è chiaro; ma che goduria provarci!

***

NOTA:

(*) Difficile, se non impossibile, rintracciare anche solo un barlume di verità nella storiografia ufficiale scritta dagli intellettuali «organici» al PCI. Come scriveva Angelo Tasca, «Gli storici del partito non si lasciano scappare una verità neanche per sbaglio» (I primi dieci anni del PCI, p. 131, Laterza, 1971). Per quanto riguarda Gramsci, ecco cosa scriveva il gramsciano Paolo Spriano nella sua “classica” opera sulla storia del PCI: «L’unico riferimento a Stalin che contengano i quaderni suona appoggio di massima per lui nella controversia con Trockij. Sostanzialmente né in questi anni né dopo emerge un dissenso di Gramsci dagli orientamenti o meglio dallo sviluppo storico del movimento comunista quale concretamente si manifesta in URSS e nell’internazionale, qualcosa che muti la scelta di fondo a favore della maggioranza del PCI russo operata nel 1926» (Storia del PCI,IV, p. 275, L’Unità Einaudi ed., 1990).  Certo, se poi si vuol dire che il leader sardo si compromise con lo stalinismo meno di Togliatti, si può sostenerlo, a patto che non si dimentichi che il primo si trovò nelle patrie galere fin da 1926, e il secondo a Mosca, alle dirette dipendenze di Baffone, che ne fece un «comunista» più realista del re, più stalinista di Stalin. Non pochi comunisti italiani scappati in Russia negli anni Venti, e refrattari allo stalinismo trionfante, ne faranno la dura esperienza. Nei gulag siberiani, per lo più. Passare dalla mitologia alla storia significa mettersi nelle condizioni di comprendere meglio il presente.

IL COLLABORAZIONISMO DELLA CGIL. DA DI VITTORIO ALLA CAMUSSO

Giorgio Primo.

Il rituale discorso presidenziale di fine anno alla Nazione ha colpito un bersaglio preciso: la CGIL e la fazione (largamente maggioritaria) del PD che si riconosce nella tradizione del PCI e del “glorioso” sindacato di sinistra. Napolitano non avrebbe potuto essere più chiaro: il sindacato deve ritrovare lo spirito di costruttiva collaborazione che caratterizzò l’azione politico-sindacale di Di Vittorio e di Luciano Lama. Naturalmente il Presidentissimo non nega la natura nazionalcollaborativa della CGIL della Camusso, ma punta piuttosto i riflettori sulla necessità di mutarne la prassi collaborativa, adeguandola ai tempi.

Su Europa di oggi Franco Marini, l’ex segretario della Cisl, ha puntellato la posizione «riformista» del Presidentissimo: il vecchio modo di «fare sindacato» andava bene nel mondo di ieri, non in quello altamente dinamico, competitivo e pieno di incognite di oggi. Stessi concetti ha espresso nei giorni scorsi e ancora oggi il direttore del Riformista Emanuele Macaluso, il quale ha fin troppo facile gioco con l’arrampicatore sugli specchi Landini, che un minuto dopo il discorso quirinalizio di capodanno si è affrettato a dire che «le parole di Napolitano non vanno strumentalizzate». Infatti: basta ascoltarle, e si capisce bene chi Giorgio Primo intendeva colpire. «Dice Landini: “Negli anni Cinquanta dovevi avere un impiego per alzarti oltre la soglia della povertà, oggi puoi essere povero anche lavorando. In quei tempi richiamati come esempio di eroica povertà la situazione sociale era meno drammatica”. Come si fa a dire che negli anni Cinquanta la situazione sociale era meno drammatica di oggi? Nella città di Landini, Reggio Emilia, la lotta contro la chiusura delle Reggiane si concluse con cinque operai fucilati. In quegli anni non c’era cassa integrazione, c’era solo la disoccupazione. Nel Sud furono uccisi braccianti e contadini che lottavano per il lavoro e la terra e, dopo quel gran movimento, l’Italia conobbe un’emigrazione biblica, dal Sud al Nord d’Italia e verso l’Europa. Nessuno dubita, almeno lo spero, che oggi in Italia si presenti un’inedita e grave questione sociale che mette in discussione il lavoro e il domani dei giovani. Ma dire, come fa Landini, che la situazione negli anni Cinquanta era meno drammatica di oggi, significa non avere una visione storica dei problemi di oggi e di ieri» (Il Riformista, 4 gennaio 2012). Non c’è dubbio alcuno. È tipico dei nipoti di Togliatti e dei figli di Berlinguer di dipingere l’Italia post fascista, fino all’avvento del «famigerato craxismo», nei termini dell’idillio politico-sociale: «In quegli anni i lavoratori esercitavano una forte egemonia su tutta la società italiana». Una leggenda metropolitana dura a morire.

Il vecchio leader siciliano del PCI invita la Cgil non a cambiare pelle, ma a ritrovare anzi l’intelligenza politica che dopo la seconda guerra mondiale consentì a quel sindacato di recitare un ruolo attivo e proposito nella società italiana, diventandone un fattore di innovazione e di sviluppo. Bisogna insomma cambiare strategia di collaborazione, adeguandola ai tempi. E bisogna farlo urgentemente, affinché dall’attuale crisi economica si esca «da sinistra», e non da «destra».

Naturalmente l’esempio per tutti i «riformisti» del Bel Paese è il Sindacato Tedesco, forte e legittimato perché serve il Capitale nel modo più consono alla «locomotiva tedesca», peraltro libera dai pesanti vagoni del debito sovrano che rallentano la marcia dei «Paesi Fratelli» dell’Unione Europea. «Quando in Germania il sindacato accettava di lavorare di più per salvare le aziende e senza aumentare gli stipendi o di non farsi pagare gli stipendi per uno o due mesi, i sindacati italiani urlavano che qui non era applicabile la stessa politica. Ora l’occupazione è al massimo storico in Germania, mentre in Italia è la disoccupazione a volare. A Roma, i sindacati sono di nuovo in piazza a dire che non vogliono venire a patti e intanto hanno perso sulla Fiat» (Ha vinto il sindacato tedesco, da Stay Behind, 3 gennaio 2012). Ha vinto il Capitale Tedesco, con annesso Sindacato dei Lavoratori, il quale, se non ha una matrice anticapitalistica, è un fattore importante nell’accumulazione capitalistica, ossia nella competitività delle aziende e del Sistema Paese. Dicono i sindacalisti italiani: «Noi vorremmo praticare la linea sindacale dei colleghi tedeschi, ma non abbiamo il loro stesso peso nelle scelte aziendali. Come loro, anche noi vorremmo sederci nei Consigli di Amministrazione delle imprese!» Ecco di che si tratta. Il Sindacato Italiano lamenta un difetto di collaborazione: non sono messi nelle condizioni di servire al meglio il Capitale e il Paese! E questa è l’altra faccia della medaglia che mostra la relativa arretratezza del capitalismo italico.

In effetti, la Fiom di Landini non rappresenta affatto un «sindacato di classe», come sostengono alcuni commentatori politici di “destra” e di “sinistra”, quanto piuttosto «un passato che non vuole passare», ossia la vecchia «concertazione» tripartitica (Stato, Confindustria, Sindacato) che ha gestito la politica del lavoro e del Welfare nel corso di oltre cinquant’anni, e che ricalcava lo schema corporativo del ventennio fascista. Il segretario del sindacato dei metalmeccanici dà insomma voce alla preoccupazione dei tre sindacati nazionali di perdere il ruolo politico che hanno avuto in passato, servendo al meglio soprattutto gli interessi del grande capitale, molto “compromesso” con il denaro pubblico (commesse pubbliche, finanziamenti statali a fondo perduto, Cassa Integrazione, ecc.). In un certo senso la Fiom è un fossile vivente, sopravvissuto alla cosiddetta Prima Repubblica, quella «fondata sul lavoro» (come del resto ogni altro regime capitalistico passato, presente e futuro, dalla Cina agli Stati Uniti), ma non è detto che questa organizzazione non possa ancora recitare un ruolo importante, anche in chiave direttamente politica. E pure di questo la “pasionaria” Camusso e il salumiere Bersani devono prendere atto nel loro difficile slalom progressista.

Dal lato padronale l’iniziativa «eversiva» di Marchionne ha messo all’ordine del giorno una «mutazione genetica» nelle relazioni tra capitale e lavoro, e non a caso Mario Monti lo ha in forte simpatia, anche se adesso non può più esternarla apertamente, questa simpatia, per salvare le apparenze progressiste dell’operazione antiberlusconiana. Quando Monti dice che bisogna mettere mano al mercato del lavoro e al Welfare, non per compiacere i tedeschi (dei quali comunque si sente un sorvegliato speciale, e non lo nasconde: anzi!), ma per rendere più moderno e produttivo il Sistema Paese, egli afferma l’ABC di una realistica politica economico-sociale, che politici, di «destra» e di «sinistra», e sindacalisti affettano di prendere col beneficio del dubbio solo per recitare dinanzi all’opinione pubblica il ruolo assegnatoli dal copione democratico.

«Collaborare al Bene Comune. Certo. Ma come?»

Scrive Sergio Romano a proposito di concertazione: «La concertazione è stata per molti anni il totem intoccabile della democrazia consociativa, la formula magica che avrebbe garantito al Paese la pace sociale. Per la verità vi sono stati momenti eccezionali (durante gli «anni di piombo» e il governo Ciampi del 1993, per esempio) in cui il metodo è servito a sbloccare situazioni pericolose. Ma abbiamo fatto troppa esperienza di concertazione, nel corso degli anni, per non conoscerne gli inconvenienti … Se abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e accumulato un enorme debito pubblico, lo dobbiamo anche alla concertazione. Oggi il denaro per le compensazioni è finito, i compromessi a spese dell’Erario non sono più possibili e i tempi non sono dettati da Bruxelles, ma dalla necessità di correggere il più rapidamente possibile, nell’interesse del Paese, gli errori commessi in passato. Il sindacato ha funzioni importanti e deve essere in condizione di esercitarle con la massima libertà. Ma tra queste funzioni non vi è quella di concorrere al governo del Paese» (Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2012). Dal punto di vista dell’interesse del Paese Sergio Romano ha ragione da vendere. Si tratta di vedere quale punto di mediazione troverà la dialettica tra vecchio e nuovo, nella quale la Cgil, Fiom compresa, gioca un ruolo molto importante. Un fatto è sicuro: i vecchi compromessi al ribasso (sempre dal punto di vista del «Bene Comune», sia chiaro) oggi hanno poca possibilità di successo.

IL REGIME DEL CAPITALE. DA MARX A MONTI

Lo confesso: ci sono libri che leggo solo per saziare il mio smisurato Ego. Infatti, al confronto col pensiero che li ispira, il mio, che pure non si distingue per intelligenza e originalità, appare come la feuerbachiana secrezione di un cervello geniale.  Anche mettendo sotto stretta vigilanza la magagna narcisistica di cui sopra, non c’è niente da fare: il confronto mi restituisce come un Gigante del Pensiero Sociale. So che a mia volta vengo usato per soddisfare l’altrui smisurato Ego, e non me ne lamento: chi con narcisismo colpisce…

E adesso cerchiamo di “quagliare”.

Mi sono approcciato al libro di Giorgio Cremaschi Il regime dei padroni. Da Berlusconi a Marchionne (Editori Riuniti, 2010) vinto da quell’insana brama, e devo dire che l’aspettativa non è andata delusa. Tutt’altro! Un esempio: «Duemila anni dopo Cristo … il profitto viene posto ai vertici della piramide sociale» (p. 63). Qualcuno avverta Cremaschi, che pure, in quanto sindacalista, certe cose dovrebbe pur saperle, che nell’ambito del capitalismo il profitto è stato sempre ben saldo al vertice «della piramide sociale». Centocinquant’anni dopo Marx, Cremaschi scopre, nella Maligna Repubblica di Berlusconi e di Marchionne, la seguente filiera del Capitale: «Se c’è guadagno, c’è l’impresa, se c’è l’impresa c’è il lavoro, se c’è il lavoro c’è il salario e forse ci sono anche i diritti». Che scandalo! Ma da che capitalismo è capitalismo, le cose stanno esattamente così, e non potrebbero stare diversamente, e aver fatto credere ai lavoratori che nell’ambito della società basata sul profitto il lavoro salariato può costringere il Capitale a derogare ai suoi vitali (nel senso proprio della parola) interessi, magari appoggiandosi alla paternalistica benevolenza del Leviatano (vedi alla voce Debito Pubblico!), è una delle tante balle ideologiche progressiste che nel corso di questo mezzo secolo hanno avvelenato la classe dei salariati.

Il Lavoro Morto stuzzica la viva capacità lavorativa. «Non sei merce, ma prezioso capitale umano! Vieni a me, col sorriso sulle labbra!»

Nel corso della sua diuturna lotta, peraltro non priva di valore, contro «l’ideologia liberista della fine del lavoro salariato», la quale nasconde dietro la menzogna del lavoro autonomo sempre più diffuso la realtà di un’espansione planetaria del lavoro salariato (anche nei paesi a capitalismo avanzato come gli Stati Uniti), il nostro dirigente sindacale fa un’altra sconvolgente scoperta: «La distribuzione capillare delle merci, il consumismo, diventa importante come e più della produzione, i grandi centri commerciali prendono il posto delle fabbriche» (p. 32). Cremaschi fa scoperte che, evidentemente, non capisce. Infatti, «il consumismo» è una creatura generata in primo luogo dal Capitale industriale, il quale non dorme la notte (oggi la tecnologia lo permette: basta dislocare il processo produttivo allargato ai quattro angoli del mondo) per escogitare sistemi (dal marketing, la vera scienza sociale dei nostri tempi, alla ricerca tecnologica, al finanziamento del consumo produttivo e privato, ecc.) in grado di forzare sempre di nuovo la capacità di acquisto della gente, ridotta al rango di merce organica che produce e consuma merci. Il corpo degli individui ad alta composizione organica del XXI secolo è diventato un campo di battaglia commerciale. Ma già nella prima metà degli anni Quaranta Adorno e Horkheimer, per fare un solo esempio, parlavano di «Industria Culturale». Per Adorno era già allora scontato che «tutti i prodotti culturali, anche quelli non conformistici, siano incorporati nel meccanismo distributivo del grande capitale, che un prodotto che non rechi l’imprimatur della fabbricazione di massa, non possa raggiungere, in pratica, un solo lettore, spettatore o ascoltatore» (T. W. Adorno, Minima Moralia, p. 249, Einaudi, 1994). Nell’anno di grazia 2010 Cremaschi scopre «l’industria culturale»: che lungimiranza!

Fino a qual segno Cremaschi non capisca il vero significato delle sue scoperte, lo dimostra il suo rapporto con il lavoro salariato: Merce o non Merce, questo è il problema! Diamo la parola al vecchio ubriacone di Treviri: «L’operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale appartiene il tempo dell’operaio … Dal punto di vista del capitalista il processo lavorativo è semplice consumo della merce forza-lavoro, da lui acquistata» (K. Marx, Il Capitale, I, p.219, Editori Riuniti, 1980). Il capitale ha come propria conditio sine qua non la natura mercificata (alienata, reificata e feticizzata) della capacità lavorativa. «Così Marx nell’Ottocento. La costituzione e il diritto del lavoro del dopoguerra antifascista si sono invece ripromessi, in certo senso, di smentire la teoria marxiana» (p. 38). Secondo Cremaschi questa «smentita» si vede soprattutto nell’Articolo 1 della Sacra Costituzione, là dove si afferma solennemente che la Repubblica democratica si fonda sul lavoro. Non c’è dubbio: sul lavoro salariato! Infatti, come sapeva lo «smentito» di Londra, la prassi del Capitale presuppone e crea sempre di nuovo il lavoro salariato; di più: è nello stesso concetto di Capitale che è radicato, sul piano storico e su quello sociale, il concetto di lavoro salariato.

Scrive Piero Ostellino: «Il lavoro è un diritto, ma ciò non toglie che esso rimanga, in economia di mercato, merce soggetta alla legge di domanda e offerta, generatrice (anche) di disoccupazione a seconda dell’andamento del ciclo economico» (Piero Ostellino, Il Corriere della Sera, 8 novembre 2011). Come sempre è dal «liberista selvaggio» che possiamo apprendere qualche brandello di verità intorno a questo mondo sussunto sotto le esigenze totalitarie dell’«economia di mercato». Analogo concetto ha espresso oggi su La Stampa Luca Ricolfi, il quale ha scritto che il nodo fondamentale da sciogliere nel nostro Paese è quello del costo dei fattori produttivi: «Produrre costa troppo», e ciò allontana i capitali nazionali e internazionali dalle attività produttive, le sole che possono innescare il superamento dall’attuale circolo vizioso che nel debito pubblico ha il suo fulcro. Per abbassare i costi di produzione, osserva giustamente Ricolfi, bisogna ristrutturare l’apparato industriale, l’organizzazione del lavoro, il sistema infrastrutturale e il Welfare, in modo da eliminare le magagne strutturali che impediscono al capitalismo italiano di sfruttare al meglio la capacità lavorativa.

Invece per l’ideologo Cremaschi, il «ritorno» del primato del profitto nei fatti economici rappresenta un retrocedere al capitalismo ottocentesco, se non addirittura al medioevo. Egli non riesce a concepire la normalità del comando capitalistico se non nei termini di un «fascismo aziendale». E sia! Ma allora «fascista» è l’intera società capitalistica, anche quella costituzionale e democratica che tanto piace al presidente della FIOM. A me sembra più corretto parlare di dominio totalitario dell’economia su tutto lo spazio esistenziale degli individui, ma non mi formalizzo: vada per fascismo sociale (democrazia parlamentare inclusa)! Marchionne si limita a fare il funzionario del Capitale nel nuovo scenario disegnato dall’ultima ondata di «globalizzazione capitalistica» (con l’ingresso nell’agone della competizione totale di Cina, India, Brasile, ecc.) e dalla crisi economica, la quale tra l’altro ha messo sotto stress la capacità dello Stato italiano di sostenere alla vecchia maniera l’economia del Paese. In un certo senso, con Marchionne finisce la Fiat corporativa sopravvissuta al fascismo, e quindi necessariamente il Sindacato corporativo e parastatale (CGIL in testa), che nel connubio tra grandi imprese e partecipazione statale ha trovato il suo più robusto sostegno, si sente mancare il terreno sotto i piedi.

«Il dovere della fedeltà, costi quel che costi, al capo dell’azienda e ai suoi principi è diventato la costituzione formale che ha sostituito in tanti luoghi di lavoro i principi della costituzione repubblicana» (G. Cremaschi, Ecco perché quello di Fiat è fascismo aziendale, Liberazione, 28 novembre 2011). Nient’affatto: trattasi di normale amministrazione capitalistica, tutelata dalla Costituzione Repubblicana e dal Diritto di questo Paese, nel quale, se non sbaglio, domina ancora quella che con pudore liberale Ostellino chiama «l’economia di mercato». In un suo libro di successo Fausto Bertinotti, teorico del «divorzio tra democrazia e mercato», si domanda: «Chi comanda qui?» Il Capitale, come sempre, come nei mitici – o famigerati – anni Sessanta e Settanta. L’ideologia «comunista» (in realtà statalista) di Bertinotti e Cremaschi è vecchia, anzi decrepita e maleodorante, perché esprime una congiuntura del capitalismo internazionale superata da almeno un trentennio. I tempi della politica e dell’ideologia in Italia sono di una lunghezza  esasperante, e anche questo si spiega con la complessa struttura sociale del Paese, diviso in almeno tre «aree capitalistiche»: Nord, Centro e Sud.

Anni ruggenti. Come gli attuali!

Come per ogni luogocomunista progressista che si rispetti, Cremaschi individua nel craxismo degli anni Ottanta «la svolta liberista internazionale che si impossessò della politica italiana» (p. 97). In realtà il «craxismo» rappresentò il tentativo, appoggiato soprattutto dalla parte più dinamica e competitiva del capitalismo italiano (quella che poi sosterrà la Lega e Forza Italia), di mettere «l’Azienda Italia» nelle condizioni di competere sul mercato internazionale venuto fuori dalla «Rivoluzione Liberista» promossa dal «binomio del Demonio» Reagan-Thatcher. Questo tandem «Controrivoluzionario» a sua volta fu necessitato soprattutto dall’irresistibile ascesa del capitalismo giapponese, che costrinse gli Stati Uniti e l’Inghilterra a ristrutturare il loro apparato industriale e finanziario, nonché il loro Welfare, ancora influenzato da sclerotiche prassi keynesiane. La pace e il consenso sociali hanno un costo che alla lunga diventa insopportabile: è la legge dell’accumulazione capitalistica, bellezza, e tu non puoi farci niente! Salvo «lotta di classe», beninteso! Solo in parte il «craxismo» riuscì a spezzare i «lacci e lacciuoli» dell’anchilosata struttura capitalistica italiana, e alla fine rimase schiacciato nel gioco «partitocratico» amministrato soprattutto dalla DC e dal PCI. Tutto questo non è affatto acqua passata, ma ci parla dell’attuale vicenda politico-sociale.

INDIGNARSI DI MENO, CAPIRE DI PIU’!

«Il capitalismo occidentale sta divorziando dalla democrazia, se si vuole salvare la seconda bisogna mettere in discussione il primo» (G. Cremaschi, Se il capitalismo divorzia dalla democrazia, Liberazione, 21 novembre 2011). Abbiamo capito: Cremaschi vuole meno capitalismo privato e più capitalismo di Stato, il quale rappresenta il solo orizzonte sociale e politico che i «comunisti italiani» (ossia i nipotini dello stalinismo italiano, da Gramsci in poi) riescono a concepire. Nel momento in cui il «Governo di responsabilità nazionale» ci chiede di versare lacrime e sangue sull’altare del supremo «Bene Comune» chiamato «Paese», faremmo cosa massimamente utile a noi stessi se abbandonassimo precipitosamente ogni illusione costituzionalista e democraticista, e organizzassimo i nostri interessi di salariati e di «classe media» sempre più declassata, almeno con la stessa «coscienza di classe» e con la stessa aggressività dimostrata dal «nuovo padronato» guidato da Marchionne e da Berlusconi. Pardon, da Monti. Meno indignazione e più «coscienza di classe», per favore!

IL BRUTTO DEL BELLO

Vidi per la prima volta Lucio Magri in un comizio molto “sinistrorso” che si tenne nel ’77 nella mia città. La cosa che subito mi colpì fu la grande bellezza di quest’uomo, soprattutto gli occhi e il coloro della pelle. Più tardi con gli amici, pardon: con i compagni, ironizzammo sull’ineguale distribuzione della bellezza nel capitalismo. Reso omaggio alla bellezza di Magri, e detto che la goccia di cicuta viene sempre a cadere su un vaso ricolmo di veleno (la politicizzazione della sua dipartita la lascio volentieri a Valentino Parlato, che non ha sciupato l’occasione per dire le solite fregnacce progressiste), veniamo, molto brevemente, al brutto.

Addavenì!

Il brutto è rappresentato dal pensiero politico di Magri, interamente radicato nella storia del «comunismo italiano», ossia nella versione italiana dello Stalinismo Internazionale. Non a caso nel suo ultimo saggio, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI(2009), egli ricostruisce, a ragione, la storia del PCI non a patire dal 1921, anno di nascita del PCd’I largamente egemonizzato dal gruppo di ex giovani socialisti che aveva in Amadeo Bordiga il suo leader, ma dalla cosiddetta «svolta di Salerno», che permise al PCI di costituire un fattore importante di coesione nazionale nel momento in cui il Paese fece uno dei suoi abituali e famigerati (per le altre Potenze) «giri di valzer», schierandosi con le Potenze Alleate. Scrivo «a ragione» perché nel 1921, pur con tutti i limiti teorici e politici, si diede effettivamente la possibilità di un Partito autenticamente comunista nel nostro Paese, mentre nel 1944 Palmiro Togliatti guidava un partito che di comunista aveva solo il nome. Tra l’altro, è anche in grazia di questa abissale discrepanza tra cosa e nome che preferisco non definirmi comunista: “comunista” era, invece, Lucio Magri. Chiudo la parentesi.

La continuazione della guerra imperialista con altri mezzi (la Resistenza) nel contesto delle nuove alleanze e dei nuovi equilibri internazionali postbellici stabiliti dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, ebbe nel «Partito nuovo» di Togliatti forse il suo più importante “coefficiente” politico-organizzativo. L’epopea resistenziale, non a caso coltivata soprattutto dal PCI e rivendicata da Magri come l’evento che fa del «comunismo italiano» un’esperienza originale nell’ambito del «Movimento Comunista Internazionale», cela il vero significato della cosiddetta «guerra di liberazione», la quale per un verso registrò il dato di fatto della strapotenza dei due imperialismi vincenti (USA e URSS; Inghilterra e Francia, di fatto, uscirono dal conflitto mondiale come Potenze sconfitte), e per altro verso rappresentò per l’Italia la sola via d’uscita per evitare un finale di partita quale toccò in sorte alla Germania e al Giappone.

Lucio Magri rimase sempre ancorato a una storia politica tutt’altro che comunista e rivoluzionaria, anche quando criticò «da sinistra» (da Pechino, per così dire) il PCI e l’Unione Sovietica, per fondare Il Manifesto. Il fatto che molti militanti del PCI abbiano dovuto aspettare i fatti polacchi e ungheresi degli anni Cinquanta per scoprire che in Unione Sovietica qualcosa fosse andato storto, la dice lunga sulla loro concezione del «comunismo». Ecco perché non si può accusare Magri di contraddizione rinfacciandogli la decisione di rientrare nel PCI dopo la morte di Berlinguer: chi si collocava a «sinistra» di questo Partito in fondo si limitava a rivendicare un «ritorno alle origini» (al «Genoma Gramsci», come lo chiamava Magri, e all’epopea «Nazional-Popolare» della Resistenza). Se non è zuppa, è pan bagnato!

SPETTRI DI BERLINGUER

A circa ventisette anni dalla sua morte, Enrico Berlinguer non smette di mietere suffragi nel seno del progressismo italiota. Ultimamente ne ha parlato in TV Bertinotti (nel programma In Onda, La7) osservando che il leader sardo era uno che «di comunismo se ne intendeva». E se lo dice lui bisogna credervi… L’acuirsi della crisi economico-sociale, con il necessario corollario di politiche tutte lacrime e sangue, e la diffusione in settori del progressismo italiano dell’ideologia decrescista, hanno fatto ritornare in auge il pensiero politico berlingueriano, a testimonianza dei tristi e confusi tempi che ci tocca vivere. Qui di seguito mi esercito in una breve spigolatura critica della famosa intervista che il capo del PCI rilasciò a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981 per La Repubblica. L’intenzione politica è piuttosto chiara e non merita ulteriori chiarimenti.

«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali».
Naturalmente il leader del PCI lasciava intendere che solo il suo partito non faceva parte di quella che Pannella chiamò, già nei primi anni Settanta del secolo scorso, «partitocrazia», proprio in riferimento al «bipolarismo imperfetto» DC-PCI. Non solo il PCI era coinvolto a pieno titolo nel «regime partitocratico», con una fortissima influenza sul capitalismo pubblico e privato (anche attraverso la CGIL e le cosiddette «cooperative rosse»), ma continuava a ricevere finanziamenti da parte dell’Unione Sovietica. Basta chiedere lumi a un tal Armando Cossutta. Insomma, il PCI di Berlinguer era, per così dire e ponendomi sullo stesso piano degli odierni manettari, un partito «diversamente corrotto», e la cosiddetta «questione morale» non fu che un suo maldestro tentativo di screditare la DC e il PSI (soprattutto quest’ultimo, a causa del forte e aggressivo «autonomismo» craxiano) nel momento in cui la dinamica politico-sociale italiana e internazionale rendeva palese l’obsolescenza della politica «comunista».

«Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività».
In termini marxiani si tratta di incrementare lo sfruttamento dei lavoratori, in modo da massimizzare l’estorsione del «plusvalore relativo», il quale è reso possibile dall’uso di più moderne tecnologie e dall’implementazione di una più razionale ed efficiente organizzazione del lavoro. A parità di orario di lavoro, o addirittura con un suo decremento, la singola unità produttiva crea più merci o parti di esse, e l’insieme del processo produttivo risulta più dinamico, più flessibile e più economico. Marx associava questa modalità di sfruttamento della capacità lavorativa all’epoca della sussunzione reale del lavoro al capitale, la quale sul piano della società nel suo complesso si declina nei termini di un totalitario dominio degli interessi economici, e in una sempre più crescente obliterazione dell’umano, ridotto allo status di residualità.

«Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli – come al solito – ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire».
La solita demagogia «populista»: per vendere meglio la politica dei sacrifici alle classi subalterne, bisogna accreditarsi ai loro occhi come i fustigatori dei «poteri forti» nonché nemici irriducibili di ladri, corrotti, mafiosi, piduisti e luogocomunismi vari. Sparare sul Quartier Generale per meglio attaccare le condizioni di vita e di lavoro dei salariati: una strategia che in ogni tempo e in ogni luogo ha fornito prova di grande efficacia.

«Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle».
Sessant’anni di stalinismo italiano, ossia di togliattismo. Tra i leader del cosiddetto «Comunismo Internazionale» Togliatti si distinse in zelo e intelligenza; egli fu il migliore esecutore della linea politica tesa a legittimare e a sostenere l’iniziativa imperialista della «Patria Sovietica» e a propagandarne l’ideologia di Stato (il cosiddetto «Marxismo-Leninismo», con rispetto parlando…). Dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 Togliatti non lesinò energie nell’opera di giustificazione, e sollecitò i «compagni italiani» a tentare di dialogare con la «corrente di sinistra» del Fascismo. In fondo si trattava di coordinare l’azione delle «Nazioni Proletarie» con l’obiettivo di tagliare le unghie alle «Nazioni demoplutocratiche», assetate di profitti e di sangue. A quel punto trotskisti, bordighisti e anarchici furono additati al proletariato italiano ed europeo come i nemici più pericolosi della «causa comunista». Quando l’Unione Sovietica fu costretta a cambiare cavallo sul terreno delle alleanze imperialistiche a causa del tradimento nazista, naturalmente anche il Partito di Togliatti si adeguò alla nuova situazione. Le «Potenze plutodemocratiche» di ieri diventeranno magicamente le «Nazioni Democratiche» con le quali i «comunisti» dovevano allearsi per sconfiggere il «mostro nazifascista». Il cinismo politico di Togliatti faceva impallidire qualsiasi teorico della più spregiudicata realpolitik. Naturalmente gli intellettuali del partito tiravano in ballo la dialettica hegeliana…

Il Partito di Berlinguer fu la continuazione di quella ultrareazionaria storia politica con altri mezzi e in circostanze nazionali e internazionali diverse (l’appartenenza dell’Italia al «Blocco Occidentale» sancita dagli accordi russo-americani depotenziarono il filosovietismo ). Stessa cosa può dirsi per gran parte dei movimenti politici (lottarmatisti compresi) che lo contestarono da «sinistra». La politica del PCI tesa a cercare un «compromesso» con la Democrazia Cristiana di Moro e Andreotti non segnò alcuna cesura di significato storico: infatti, di «Comunista» il Partito di Togliatti-Longo-Berlinguer aveva solo il nome. Di qui, la mia presa di distanza critica dal nome della cosa per poterne sviscerare meglio il concetto essenziale. Se Vendola, Bertinotti, Ferrero, Diliberto e compagni di simile fattura sono «comunisti», ebbene io non lo sono affatto!

«Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro».
Qui è ben sintetizzato il piano politico-economico di attacco ai lavoratori in vista di una ristrutturazione nella produzione e nel Welfare, in modo da innescare un nuovo circolo virtuoso nel processo capitalistico di accumulazione. Solo in parte questo piano fu attuato dai governi DC-PSI con la preziosa collaborazione della triplice sindacale. Oggi siamo nuovamente a questo punto.

Vediamo la copertura ideologica di quel piano: «Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani)».
Qui siamo al tradizionale «cattocomunismo» dei progressisti italiani, ovunque essi militino. Quando un «comunista» parla di «umanità», o di «socialismo» («Noi vogliamo costruire sul serio il socialismo») la mia mano cerca subito il lanciafiamme: è più forte di me! A Berlinguer piaceva tanto una società capitalistica moralmente sana («La diffusione della droga tra i giovani è uno dei segni più gravi della “civiltà dei consumi”»), esteticamente in bianco e nero (come la TV che difendeva, insieme a Ugo La Malfa, contro i «consumisti» che sostenevano il demoniaco media colorato) e poco incline ai «consumi privati superflui»: probabilmente egli rimase per tutta la vita legato al modello di «socialismo reale» basato sulla miseria sociale generalizzata (classe dominante esclusa, ovviamente). Per questo la critica che gli rivolgeva il «modernizzatore» Craxi penetrava come il coltello nel burro tra i «miglioristi», i quali avevano da tempo scelto tra il modello capitalistico «Sovietico» e quello «Occidentale». Ancora oggi in Italia c’è chi si sogna la «Terza Via», quello che ci dovrebbe condurre al Capitalismo equo e solidale, nonché ecosostenibile e bla, bla, bla, sciorinando il grigio e chimerico vocabolario dei decrescisti d’ogni risma e colore.

Ora che il Puttaniere Nero di Arcore ha detto che non pronuncerà mai, nemmeno sotto tortura, la parola «austerità», non c’è dubbio che le quotazioni di Enrico Berlinguer sono destinate a crescere nella Borsa Valori dei poveri di spirito e di pensiero. In tempi burrascosi come quelli che viviamo la classe dominante ha bisogno di punti fermi politico-ideologici seri (altro che Silvio!) su cui far leva nell’esercizio del suo dominio.