GIOCHI DI GUERRA ALL’OMBRA DEL PROFETA

«L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso» (Franco Battiato, Up Patriots To Arms).

Com’è noto, nella primavera del 1993 apparve l’articolo di Samuel Huntington, pubblicato su Foreign Affairs, sullo scontro tra le civiltà. Un articolo che, come si dice, fece epoca: «La mia tesi è che la fonte prima di conflitto in questo nuovo mondo non sarà né essenzialmente ideologica né essenzialmente economica.  Le grandi divisioni all’interno dell’umanità e la fonte di conflitto predominante avranno carattere culturale. Gli stati nazione resteranno i protagonisti più potenti degli affari mondiali ma i principali conflitti della politica globale avranno luogo tra nazioni e gruppi di civiltà diverse. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le faglie tra civiltà saranno i fronti di battaglia del futuro».

Finita la guerra fredda, sconfitto su tutti i fronti (economico, politico, scientifico, culturale) il Nemico fronteggiato nel corso di quasi mezzo secolo, gli Stati Uniti avevano bisogno di una nuova ideologia, o, per dirla con il Nichi nazionale, di una nuova «narrazione» sulla cui base incardinare la loro visione strategica adatta ai nuovi tempi, e Huntington cercò di rispondere a questa esigenza, peraltro in concorrenza con il teorico della fine della storia Francis Fukuyama. Gli eventi che seguirono parvero dargli ragione. Naturalmente alludo all’11 Settembre.

Scriveva Edward Said nel novembre del 2001, mentre le squadre di soccorso scavavano sotto le macerie ancora fumanti delle Twin  Towers alla – vana – ricerca di superstiti: «Viviamo momenti di tensione ma è meglio pensare in termini di comunità che detengono il potere e comunità che ne sono prive, di secolari politiche di raziocinio e ignoranza, e di principi universali di giustizia e ingiustizia, piuttosto che smarrirsi in astrazioni che possono essere fonte di soddisfazione momentanea ma producono scarsa auto-consapevolezza. La tesi dello “scontro di civiltà” è una trovata tipo “Guerra dei mondi”, più adatta a rafforzare un amor proprio diffidente che la conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo» (Più che di civiltà è scontro di ignoranze, La Repubblica, 1 novembre 2001).

Nella giusta critica della rozza, semplicistica e pericolosa tesi di Huntington l’intellettuale palestinese scomparso nel 2003 commise, a mio avviso, un grave errore di valutazione (di matrice illuministica, per così dire, come peraltro si ricava già dal titolo), che lo portò a «smarrirsi in astrazioni» altrettanto inconcludenti sotto il profilo storico e reazionarie sul piano dell’iniziativa politica. Per non «smarrirsi in astrazioni» sul terreno dei rapporti tra ciò che chiamiamo Occidente e Islam occorre prendere in considerazione concetti “forti” quali imperialismo, scontro interimperialistico, lotta fra fazioni capitalistiche, potenza e impotenza sociale, ecc.. Solo all’interno di questa costellazione concettuale le questioni culturali e “antropologiche”, che ovviamente esistono e che hanno una grande importanza sul piano della prassi e dell’analisi critica di essa, si riempiono di viva sostanza storica e sociale. Solo a partire dall’analisi delle grandi forze sociali che spingono, e spesse volte strattonano, il processo storico mondiale si  può costruire la «conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo».

I concetti appena evocati dovrebbero informare anche l’analisi di quanto sta accadendo in tutto il mondo musulmano dopo la diffusione del film «blasfemo» L’innocenza dei musulmani, giudicato dalle frange più radicali del fondamentalismo islamico «un altro capitolo nella guerra crociata contro le terre del Profeta». Lo stesso Mohamed Morsi, il presidente egiziano venuto in visita in Italia, nel cuore della Civiltà Cristiana, ha dichiarato senza peli sulla lingua che «il Profeta è una linea rossa invalicabile». Chi tocca il Profeta muore: questo continua a essere l’imperativo categorico che sovrasta la Comunità devota ad Allah, anche dopo la cosiddetta «primavera araba», ultima infatuazione degli intellettuali progressisti occidentali – «Il processo democratico continua, anche se lentamente e non senza problemi», ha scritto ad esempio Loretta Napoleoni nel suo libro Contagio: già, non senza problemi…

Siamo di fronte a un ennesimo episodio di scontro tra le civiltà? O stiamo assistendo all’esplodere di un vasto movimento antimperialista cementato da un’ideologia religiosa? Ovvero, per dirla con Edward Said, siamo dinanzi a «uno scontro di ignoranze», più che di civiltà? A mio avviso, nulla di tutto questo. Si tratta piuttosto di un ennesimo esempio di come le “moltitudini” prive di coscienza rimangano facilmente vittima delle ideologie più reazionarie e, quindi, degli interessi che fanno capo alle classi dominanti o solo ad alcune delle sue fazioni che oggi aspirano al potere in esclusiva, ovvero a strati sociali e a gruppi politico-ideologici che sognano un’impossibile ritorno indietro delle società musulmane.

A proposito di linea rossa, ieri il premier israeliano ha dichiarato ai media americani che «il programma nucleare iraniano deve rappresentare per il mondo libero una linea rossa invalicabile»: il Presidente degli Stati Uniti deve imparare la lezione cubana impartita da Kennedy ai russi. Il clima in Medioriente si arroventa, e il regime iraniano naturalmente ha gettato benzina sul fuoco della “blasfemia”: «L’Iran condanna con forza gli insulti alle figure sacre dell’Islam», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, che ha accusato Washington di alimentare «l’odio culturale e gli insulti alle figure sacre dell’Islam, destinati a scatenare una guerra contro l’Islam». Per capire quanto inadeguata sia una lettura in chiave astrattamente culturale delle tensioni che da oltre mezzo secolo travagliano quell’area del mondo, è sufficiente ricordare l’alleanza di fatto che si costituì tra Israele, Iran e Siria ai tempi della lunga guerra tra Iran e Iraq. Come sempre, anche allora ai palestinesi toccò in sorte il triste ruolo di merce di scambio tra potenze regionali assetate di petrolio e di potere. All’ombra del Profeta si bruciano i corpi e le coscienze delle moltitudini.

Come ho scritto in diversi articoli, nel mondo musulmano il Verbo del Profeta può essere usato, indifferentemente, per tutte le cause: per quella del “progresso” (ossia dello sviluppo capitalistico, non importa se di tipo “occidentale” o “autoctono”), come per quella della “conservazione”, e questo in assoluta analogia con quanto è accaduto nel resto del mondo nel corso dei secoli. Non è la religione presa in sé che favorisce o impedisce il processo sociale – colto in tutta la sua dimensione esistenziale: dall’economia alla psicologia degli individui, dai rapporti sociali alle relazioni fra uomo e donna, e via di seguito. Non è a partire dalla religione che possiamo ricostruire la storia passata e presente delle civiltà, mentre piuttosto è la prassi sociale, a cominciare dall’attività che crea e distribuisce la ricchezza sociale, che spiega non tanto la religione quanto le sue cangianti interpretazioni.

Permettetemi una correzione alla precedente tesi: per tutte le cause, tranne che per quella che sostiene l’emancipazione delle classi dominate e di tutta l’umanità: a questa altezza storica e sociale il Verbo del Profeta è inconsistente.

Non a caso prima ho parlato di “moltitudini” prive di coscienza, non semplicemente «ignoranti», ossia non illuminate dalla razionalità scientifica e dal pensiero laico. D’altra parte di questa coscienza di classe: coscienza della propria situazione sociale e delle eccezionali potenzialità storiche che in essa si celano, sono prive anche le classi dominate del resto del pianeta, e infatti anch’esse vanno appresso all’ideologia dominante e ai gruppi di potere che si contendono le fette più cospicue della ricchezza sociale. Atea o religiosa, la demagogia che si nutre del malessere sociale è ovunque in agguato, per sacrificare corpi e coscienze sull’altare del potere. C’è da sperare – e da lottare – che siano le faglie tra le classi sociali i fronti di battaglia del futuro. Ovunque.