NEL PACIFICO MONDO DEL QUARTO REICH

merkel-dollari-139122Per Carlo Jean l’esito della Guerra Fredda, con l’unificazione tedesca, «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (Manuale di geopolitica, p. 153, Laterza, 2003). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile, e certamente non auspicabile.

Scrive uno sconsolato e patriotticamente risentito Vittorio Feltri: «Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea, esso riappare all’orizzonte. Quell’egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata “pacificamente” conseguita con l’arma economica» (Il Giornale, 5 settembre 2014). In effetti, dopo il catastrofico esito delle due guerre mondiali, la competizione puramente economica si è rivelata essere il terreno ideale per la rinascita della potenza tedesca; la Germania (ma lo stesso discorso vale per il Giappone e, in parte, per l’Italia) è riuscita addirittura a trarre molti benefici dalla sua condizione di nazione militarmente impotente: basti pensare al risparmio che ne è derivato in termini di spesa militare, cosa che, fra l’altro, ha consentito ai governi tedeschi di supportare una generosa politica di Welfare, e al suo basso profilo politico messo al servizio di una eccellente strategia di penetrazione economica praticamente ovunque nel mondo.  Il “pacifismo”, insomma, come aggressivo strumento di espansione imperialistica.

Qui è solo il caso di accennare alla mia concezione del fenomeno Imperialismo: esso è nella sua essenza, in radice, un fenomeno sociale di natura economica. E siccome “in natura” non esistono fenomeni e processi sociali puramente economici, l’Imperialismo genera necessariamente “sovrastrutture” politico-istituzionali e ideologie idonee a supportarne l’esistenza e l’espansione – d’altra parte non è concepibile l’esistenza del Capitalismo, soprattutto nella sua «fase imperialistica», senza la sua continua espansione. A mio avviso sbaglia gravemente chi pensa di individuare una contraddizione tra l’asserita natura “pacifica” della politica estera tedesca nel Secondo dopoguerra e la natura imperialista della sua prassi sistemica. Lo straordinario successo della Germania attesta la maligna vitalità dell’Imperialismo (colto nella sua dimensione planetaria), che i più associano, sbagliando appunto, quasi esclusivamente alla prassi militare delle grandi potenze.

merk mondAncora Carlo Jean: «Come aveva intuito Montesquieu e confermato Clausewitz, la supremazia economica e la volontà di conquista comportano necessariamente una politica di pace. I conquistatori sono sempre pacifici: vorrebbero occupare spazio senza sparare un colpo. Chi inizia la guerra è il difensore, che non accetta di essere conquistato. Il ricorso alla violenza rivela di per se stesso una condizione d’inferiorità economica, che si cerca di modificare ricorrendo alla rischiosa opzione bellica. Le due guerre mondiali sono frutto del tentativo della Germania di imporre alla Gran Bretagna il riconoscimento di un’effettiva situazione di parità economica, nella considerazione – nient’affatto irrazionale – che, in mancanza di parità, la stessa Germania avrebbe cessato di esistere come soggetto politico unitario e sovrano. Analoghe furono le ragioni dell’aggressione giapponese contro gli Stati Uniti» (p. 152). Non c’è dubbio che allora si scontrarono due potenti, contrapposti e legittimi (sul terreno del diritto borghese nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico) interessi: da una parte l’interesse di Francia, Inghilterra e Stati Uniti di mantenere il vecchio assetto geopolitico e geoeconomico del pianeta, e dall’altra l’interesse di Germania, Giappone e Italia, le nazioni capitalisticamente “ritardatarie”, di mettere in discussione questo stesso assetto, che evidentemente entrava in conflitto con le loro sacrosante ambizioni di potenza. Anche l’Unione Sovietica di Stalin va rubricata nel secondo gruppo, quello delle potenze che rivendicano un “posto al sole”, che cercano di uscire dal cono d’ombra generato dalle vecchie metropoli del Capitalismo mondiale.

Oggi il quadro mondiale della bilancia del Potere mondiale e delle relazioni internazionali fra le nazioni è mutato così profondamente, che è la Germania che può concedersi il lusso strategico di una politica “pacifista” focalizzata sulla competizione economica. «L’unificazione dell’Europa e l’allargamento a Est hanno rafforzato ulteriormente la posizione della Germania e le hanno consentito di imporre agli altri partner le sue regole, fondate sulla rigida stabilità monetaria e sulla lotta all’inflazione, tanto più che con il Trattato di Maastricht la Francia ha subordinato ogni altro programma a quello di agganciare il più strettamente possibile la Germania all’Europa. […] Dopo il crollo del Muro, l’Est europeo non solo non intende più essere protetto contro una minaccia tedesca, ma aspira a unirsi quanto più possibile alla Germania, per riceverne aiuti economici e stabilità politica. È casomai la Germania che resiste oggi a tale assorbimento, per il quale teme di pagare un prezzo eccessivo. Non è escluso che tale politica di basso profilo sia volta proprio a superare ogni residua preoccupazione nei riguardi di un ritorno tedesco a sogni di potenza. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia efficace» (p. 301). Questo Jean lo scriveva nel 2003. Nel frattempo i fatti (basti pensare alla crisi ucraina) hanno confermato pienamente questa «strategia efficace».

Il ruolo della Francia come “marcatore stretto” della Germania nel processo di unificazione europea è universalmente riconosciuto. Scrive ad esempio Robert Gilpin: «Al di là dei vantaggi economici del mercato unico, alla Francia interessa mantenere un certo margine di controllo sulla potente Germania riunificata» (Le insidie del capitalismo globale, p.190, Bocconi, 2001). Anche il “falco” Robert Kagan la pensa allo stesso modo: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). Soprattutto Paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Italia (insomma, il fronte meridionale dell’Unione europea, quello che trova scandaloso il fatto che i tedeschi non intendono pagare i debiti fatti dagli altri, magari per acquistare il made in Germany) stanno facendo i conti con questa «grande conquista europea». Soprattutto per le classi subalterne del Mezzogiorno d’Europa il «sogno europeo» è diventato presto un vero incubo.

In realtà, la stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado, anche se solo fino a un certo punto, la camicia di forza “europeista”, e le ragioni si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi di “proporzioni bibliche” nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e, soprattutto, del suo invidiato (soprattutto dai cugini francesi) corpo sociale. Credo che la «strategia efficace» di cui parla Jean si sia data in gran parte oggettivamente, in forza della pressione sistemica generata dalla potente caldaia capitalistica tedesca, la cui efficienza balza agli occhi tanto più sorprendentemente non appena la si confronta con la malridotta caldaia francese. Lo scialbo Hollande non potrebbe incarnare meglio la crisi sistemica che da anni travaglia la società francese.

draghi-merkel-renzi-hollande-583845«L’Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l’Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una “guerra civile europea”» (V. Feltri). Nella realtà delle cose, ossia prescindendo dalla fumosa ideologia europeista (come quella che non smette di vendere Barbara Spinelli, tanto per intenderci), l’Unione europea è il frutto di diversi e a volte fra loro contrastanti interessi facenti capo ai Paesi coinvolti nel “miracoloso” progetto. Sull’esigenza di tenere in stretta osservazione la Germania abbiamo già detto. Rimane da menzionare l’esigenza, sentita a diverso grado da tutti i Paesi dell’Unione, di creare un polo imperialistico (economico, politico, militare) alternativo a quelli già esistenti. Fare “massa critica” soprattutto sul terreno della competizione economico-finanziaria con gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina: è, questo, un vitale interesse che tocca tutti i Paesi dell’Unione. Il problema posto dalla dinamica sociale colta nella sua dimensione continentale è il seguente: questo polo europeo, nella misura in cui non può prescindere dalla potenza sistemica della Germania, può non essere egemonizzato da questo Paese?  La risposta giusta è sulla bocca di tutti (tranne che su quella della Spinelli e degli altri europeisti “utopisti”).

Quando a Paesi come la Francia e l’Italia Mario Draghi promette maggiore flessibilità sul terreno delle politiche di austerity in cambio di «vere e credibili riforme strutturali», di fatto egli porta acqua al mulino di Berlino, perché quelle «riforme» non possono non convergere, almeno tendenzialmente, verso il modello sociale offerto dalla Germania. In un articolo del Financial Times (31 agosto 2014) il teutonico Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha proposto, in risposta al Presidente della BCE, la creazione di un commissario europeo con diritto di veto sulle finanziarie dei 18 paesi della zona euro. Un gioco di squadra fra “poliziotto buono” e “poliziotto cattivo”?

Intanto questa estate Cristofaro Sola dava «il benvenuto al Quarto Reich»: «Una Gran Bretagna, trascinata per la collottola al tavolo europeo, che mostra crescente distacco per ciò che si decide sul continente, e la Francia di Hollande, il piccolo Pétain, supina, se possibile più di quella di Sarkozy, alla volontà dell’oltre Reno. In questo clima surreale appare chiaro che Berlino intenda occupare lo spazio che altri hanno deciso di lasciare libero. E lo fa con la supponenza del più forte. Giambattista Vico parla di “corsi e ricorsi” storici. Sarebbe molto sgradevole se, domani, ci svegliassimo tutti, senza averlo deciso e senza neppure averlo saputo prima, in un nuovo Reich, diversissimo dai precedenti, ma pur sempre Reich. Il Quarto» (L’opinione, 15 luglio 2014). Hollande come «piccolo Pétain» non è male, anche perché l’immagine rimanda a una pagina particolarmente imbarazzante della storia francese («il regime del disonore» di Vichy) che illustra bene l’ambivalente rapporto che da sempre lega Francia e Germania. Più che di vichiani «corsi e ricorsi» della storia, parlerei piuttosto del “naturale” corso della competizione capitalistica mondiale, con le sue necessarie ricadute nel cuore del Vecchio Continente.

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L’EUROPA CHE PIACE AI PASSATISTI

«Ci sono ancora inglesi che ricordano l’impero, francesi che anelano alla gloire, tedeschi che aspirano a un posto al sole. Per il momento questi impulsi sono incanalati quasi interamente nel grande progetto europeo, ma poterebbero anche trovare espressioni più tradizionali» (Robert Kagan, Paradiso e Potere).

L’Europa «bancocentrica» e «prussiana» uscita dall’ultimo vertice di Bruxelles non piace per nulla a Paolo Ferrero, il simpatico capo dei rifondatori dello Statalismo. Vediamo perché: «Il vertice europeo si è concluso con la piena vittoria della Cancelliera Merkel. Nella nottata di venerdì è stato deciso un vero e proprio Colpo di Stato Monetario e così l’ordine di Berlino regna in Europa! Non ci sono termini abbastanza forti per descrivere l’impasto di ideologismo neoliberista, di egoismo pantedesco e di vera e propria stupidaggine che informano quanto deciso in sede europea». La vittoria della Cancelliera di Ferro è sotto gli occhi di tutti: ma il film poteva avere un altro finale? Se oggi la cosiddetta Unione Europea è quella che è sempre stata, ossia una coalizione di Paesi capitalistici che per un verso hanno cercato di fare «massa critica» sul piano economico e su quello politico nei confronti degli altri sistemi capitalistici (Stati Uniti, in primis, e poi Giappone e Cina), e per altro verso non hanno mai smesso di tirare acqua al proprio nazionalistico mulino e di marcarsi reciprocamente (vedi la decennale strategia anglofrancese nei confronti della Germania); se questo è vero, e lo è a onta di tutte le illusioni europeiste, che senso ha versare calde lacrime sull’«egoismo pantedesco»? Può avere solo il senso di una grande indigenza concettuale e politica, oltre che di una piena accettazione della vigente società capitalistica.

Cosa peraltro dimostrata da quest’altro passo: «Con questo accordo, viene demolita l’Europa del welfare, l’Europa dei diritti sociali e civili, l’Europa che ha conosciuto nel protagonismo dei lavoratori e dei sindacati il proprio tratto distintivo. Il modello europeo, appunto».  Come se «il modello europeo» non fosse sempre stato il modello capitalistico dei Paesi europei. Ma come tutti i cosiddetti “comunisti” italiani Ferrero è un passatista, uno a cui piace molto il capitalismo «partecipato» dallo Stato di una volta, nel cui seno il «Grande Partito Comunista» e la CGIL si spartivano il potere reale con la Democrazia Cristiana e la Confindustria. Ecco perché i “comunisti” politici e sindacali si sono sempre opposti alla ristrutturazione del Sistema Capitalistico Italiano, ossia per non perdere il potere materiale, politico e ideologico costruito in decenni di zelante servizio alla Patria «nata dalla Resistenza». L’Europa è sempre stata «l’Europa dei padroni» (come l’Italia è sempre stata «l’Italia dei padroni»: dalla FIAT di Agnelli a quella dell’Amerikano Marchionne, con o senza mitico Art. 1 della Costituzione), e nella lotta tra padroni vince sempre quello più forte. Su questo Blog ho scritto più volte una cosa che solo gli ammalati di ideologia non capiscono: l’Unione Europea o sarà costruita sul modello tedesco, o si sfascerà, ovvero continuerà a sopravvivere chissà per quanto tempo ancora nelle attuali condizioni anemiche e conflittuali, sperando che qualcuno le tolga le castagne dal fuoco attraverso una bella eutanasia. Ma nella storia i trapassi sono sempre dolorosi.

Scriveva Ugo La Malfa nel 1969, nella Prefazione a un saggio che, come si dice, fece epoca (La sfida americana, di J.-J. Servan-Schreiber): «L’Europa delle patrie comincia a vacillare [ma] senza aggiungere alla condizione esistente un potere federale, le istituzioni europee sinora create, a partire dal Mercato Comune, non si potranno sottrarre al destino di un inevitabile declino». Ma la genesi del potere federale presuppone storicamente un centro motore attorno a cui le parti si federano, “liberamente” o sotto la pressione della Potenza egemone. Negli Stati Uniti questa funzione centripeta fu assolta dal Nord capitalistico, in Italia dal Piemonte, in Germania dalla Prussia. Oggi dovrebbe essere il turno della Germania, e non a caso Mario Draghi, Presidente della BCE e «il più tedesco degli europei», ama citare Alexander Hamilton, il teorico del Federalismo: «equilibrio di bilancio tra gli Stati federali e pareggio di bilancio», questa è la ricetta giusta per un’unione federale di grande durata.

Peraltro la Germania negli ultimi vent’anni non si è limitata ad assorbire in un tempo eccezionalmente breve e con un costo sociale abbastanza contenuto, l’ex Germania dell’Est; non ha solo praticato un’oculata politica del debito pubblico, ma ha soprattutto realizzato le condizioni per una profonda ristrutturazione organizzativa e tecnologica delle imprese tedesche. Questa politica di largo respiro, che ha coinvolto anche i Sindacati tedeschi «più responsabili» (cioè tutti!), permette alla Germania di vincere l’attuale guerra economica e politica che ha come teatro principale il Vecchio Continente. Senza potenza economica non c’è velleità che tenga, e questo il sempre più napoleonico inquilino dell’Eliseo lo sa bene. Scriveva Gianfranco Miglio, il teorico del federalismo italiano in salsa leghista, nel ‘93: «L’Europa di domani avrà tutt’altro aspetto. Sarà plasmata dai rapporti economici, l’unica parte vitale della costruzione europea» (G. Miglio, Ex uno plures, in Limes, n. 4/93). Qui c’è molto più «materialismo storico» di quanto Ferrero abbia mai sfornato in tutta la sua vita. E questo non è affatto un paradosso.

Scriveva Luigi Vittorio Ferraris nel ’93: «Maastricht è stato l’epilogo del passato, non la visione del futuro. È stato un errore. Si è fatto Maastricht per imbrigliare la Germania» (Progetti per un Continente, Limes, n. 4/93). Lo stesso concetto si trova in un saggio di Robert Kagan del 2003: «Le “ambizioni germaniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (R. Kagan, Paradiso e Potere, p. 62, Mondadori, 2003). Tuttavia, avvertiva Kagan, il «miracolo di portata storica: il leone tedesco coricato accanto all’agnello francese», è tutt’altro che definitivo, semplicemente perché la «Germania è ancora troppo grande per il continente europeo». Di qui, l’eterna «Questione Tedesca», che è innanzi tutto una questione di potenza capitalistica, di rapporti di forza all’interno del Vecchio Continente, ma non solo.

Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy, l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: «Travail, Famille, Patrie» (R. Paxton, Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore,1999). Come ricorda Willy Brandt (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra), «Al suo ritorno, il generale De Gaulle dichiarò che se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, p. 108, Editori Riuniti, 1987). A dimostrazione che quello di saltare in men che non si dica sul carro dei vincitori non è un vizio di esclusiva pertinenza italiana, anche se è nel Bel Paese che vi si trovano gli esempi più clamorosi e persino i teorici. Questo per dire che la via tedesca alla «modernizzazione» è, nell’Europa capitalistica, quella storicamente più attraente e realistica.

Insomma, «l’Europa dei lavoratori» è esistita solo nella bizzarra testa di Ferrero. Prendersela con «le politiche neoliberiste di Maastricht» o con la «destra prussiana» (sic!), ovvero con una non meglio specificata «Super Potenza Anonima dei Mercati», come fa Gad  Lerner (La Repubblica, 11 dicembre 2011), significa accreditare presso i lavoratori l’idea che può esservi una società capitalistica a misura di lavoratori e di pensionati, che poi per i rifondatori dello Statalismo sarebbe la società italiana dei vecchi tempi, quella del «compromesso storico» permanente, la quale, peraltro, ha fatto incancrenire vecchi problemi (come il gap Nord-Sud) e ne ha prodotti di nuovi (un settore statale obeso, sclerotico e ultra parassitario, ad esempio).

A proposito della SPAM di Gad Lerner! Lanfranco Pace, che di certe idee malsane s’intende, ha insinuato il dubbio che «Quando le Bierre raccontavano il dominio impersonale di tecnici e capitale internazionale» non raccontassero solo sciocchezze. Naturalmente Pace allude al fantomatico Stato Imperialista delle Multinazionali teorizzato (grossa parola, nevvero?) dalle Brigate Rosse negli anni Settanta. «Sarà perché viviamo sotto il dominio pieno e incontrollato di Lady Spread e della signora Merkel. Sarà perché siamo estenuati dal bombardamento quotidiano di acronimi, Fed e Efsf e Fmi e Bce e EBA e S&P, fatti apposta per rendere impersonale la decisione, diluire la responsabilità e propagare ansia. Continuavo a ripetermi, ma vuoi vedere che a conti fatti avevano ragione loro? I pazzi, gli schematici, i dogmatici?» (L. Pace, Lo SIM e lo Spread: vuoi vedere che a conti fatti avevano ragione loro?, Il Foglio, 9 dicembre 2011). Ora, quanto le BR fossero completamente incapaci di comprendere la reale dinamica capitalistica lo testimonia la loro azione più eclatante: il rapimento di Aldo Moro. L’idea rozza e infantile che esista una grande mano che muove a suo piacimento i burattini della politica non coglie la natura altamente complessa e conflittuale del capitalismo nella sua fase imperialistica. Peraltro le BR individuarono negli Stati uniti la testa della Grande Piovra Mondiale, e questo proprio mentre i loro cosiddetti alleati (Germania e Giappone, in primo luogo), o «servi sciocchi» (nell’ideologica prospettiva delle Bierre), attaccavano la base materiale dell’Imperialismo americano: la sua economia. Ma è il momento di chiudere.

L’attuale impotenza sociale e politica dei lavoratori italiani si spiega soprattutto, non con «l’ideologia neoliberista», ma con decenni di prassi progressista ossequiosa nei confronti della Repubblica Democratica «nata dalla Resistenza». Oggi che la crisi svalorizza salari e pensioni, e crea precariato e disoccupazione le sirene populiste e demagogiche, di «sinistra» e di «destra», hanno maggiori possibilità di successo. Le prime vittime del loro canto menzognero sono, come sempre, le persone più sensibili e vogliose «di far qualcosa, qui e subito!» Per questo la costruzione di un soggetto politico autonomo delle classi subalterne, e di tutti coloro a cui la sola idea del «capitalismo dal volto umano» (ossia statalista!) fa  venire il voltastomaco, diventa sempre più attuale e urgente.

LA POTENZA FATALE DELLA GERMANIA. La Questione Tedesca come Questione Europea

«La Germania è uscita dalla crisi più forte di quando ne è entrata e anche l’Europa deve uscirne più forte». Così parlò Angela Merkel. La Cancelliera esprime qui un fatto e un auspicio, il quale peraltro ha il non vago aspetto di una mera clausola di stile. Ecco declinata la perenne Questione Tedesca nei nostri agitati tempi.

La Questione Tedesca del secondo dopoguerra inizia il 7 maggio 1945, anno in cui le Potenze Alleate sanzionarono la capitolazione di quel che residuava del possente esercito tedesco. Il confronto politico-militare Est-Ovest mise per alcuni anni in ombra quell’esplosivo problema, ma non poteva eliminarlo, semplicemente perché le sue radici coincidevano e coincidono con l’essenza ontologica, per dirla filosoficamente, della Germania: con la sua storia, con la sua struttura sociale, con la sua collocazione geopolitica. La Germania è un problema, suo malgrado!


Assai precocemente la potenza sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, ideologica, psicologica) della Germania è diventata, per lo stesso Paese collocato al centro del Vecchio Continente, una sorta di maledizione. Nata piuttosto in ritardo come compatta entità nazionale (in questo molto simile all’Italia e al Giappone, non a caso suoi amici di sventura nell’ultima guerra mondiale), essa si trovò a dispiegare il proprio enorme potenziale economico-sociale all’interno di un mondo già da molto tempo presidiato dalle vecchie potenze coloniali, le quali ovviamente mal sopportavano le pretese imperialistiche dell’ultima arrivata. La rivendicazione tedesca di un posto al sole nel salotto buono delle potenze imperialistiche minava alla base lo status quo geopolitico e geoeconomico (approvvigionamento di materie prime e investimenti di capitali) costruito nel corso di molti decenni soprattutto dall’Inghilterra e dalla Francia. Di qui, il tratto oggettivamente aggressivo assunto dalla politica estera tedesca già subito dopo la proclamazione del Reich nel 1871, e mantenuto, tra alti e bassi, fino al 1945.

Quando, nel 1956, un referendum popolare rigettò l’accordo franco-tedesco del 1954 per la Saar, che prevedeva l’autonomia di quell’importante bacino siderurgico-minerario-industriale sotto il controllo della CEE (ossia, di fatto, della Francia), la Questione Tedesca postbellica fece un primo, grande salto di qualità, e mise bene in luce la natura tutt’altro che pacifica del «rapporto privilegiato» che unisce finora quei due pilastri della Comunità Europea. A prima vista il rapporto tra Germania e Francia, così centrale nel sistema delle relazioni tra gli Stati europei, sembra un rapporto tra potenze di pari status, ma a ben guardare si tratta di un rapporto tra una forza e una debolezza. Scrive Gian Enrico Rusconi: «Per il suo peso oggettivo, economico e politico, la Germania ha una posizione decisiva in Europa. E’ di fatto la nazione egemone dell’Unione anche se cautelativamente e dimostrativamente si appoggia alla Francia dando informalmente vita al cosiddetto “direttorio”» (La Stampa, 27 Ottobre 2011).

Per un verso la Francia ha “marcato” da molto vicino La Germania, facendo valere quella superiorità politico-militare che le deriva dall’esito della Seconda Guerra mondiale; e per altro verso ha cercato di usare la potenza economica tedesca per dare surrettiziamente massa critica strutturale alla sua tradizionale politica estera molto velleitaria. L’Inghilterra non poteva che sostenere questa politica antitedesca. Tuttavia, all’ombra della politica estera e militare delle potenze vittoriose, la potenza sconfitta non ha smesso di crescere, dando nei fatti più di una lezione di dialettica materialistica. Naturalmente a chi sa intenderla.

È nei primi anni ottanta del secolo scorso che in Germania si inizia a parlare senza reticenze e sensi di colpa di «nuovo patriottismo»; si prende cioè coscienza del fatto che il Paese ha degli interessi strategici da difendere, i quali non necessariamente coincidono con quelli degli Stati Uniti. Nella misura in cui l’Unione Sovietica mostra tutta la sua debolezza strutturale e la potenza capitalistica americana subisce i contraccolpi dell’ascesa economica della Germania e del Giappone, si aprono per la classe dominante tedesca nuove opportunità sia sul piano della competizione economica, sia su quello dell’iniziativa politica. Due piani peraltro strettamente legati l’uno all’altro. La cosiddetta Ostpolitik nei confronti dei paesi oltrecortina segnala il nuovo dinamismo politico tedesco. Washington osteggiò questa politica perché sintomatica di una pericolosa tendenza neutralista che oggettivamente avrebbe fatto il gioco di Mosca. In realtà l’Ostpolitik fece solo gli interessi di Bonn, e poi di Berlino. Come scrisse la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 21 settembre 1982, «Le cause di tutta una serie di punti discordanti fra Washington e Bonn derivano direttamente dalle trasformazioni che sono avvenute dai tempi in cui la Repubblica federale di Germania veniva considerata un “anello modello” e gli Stati Uniti erano la potenza guida accettata da tutto il mondo occidentale». Erano.

Mitterrand e Helmut Kohl nel 1987

Alla vigilia dell’Unificazione Tedesca Mitterrand evocò la possibilità di una terza guerra mondiale, per prevenire la quale occorreva realizzare un asse franco-russo-britannico in grado di contenere la straripante potenza germanica. Un ex ministro degli esteri francese, il gollista Michel Jobert, si disse indignato per come la Germania usasse la propria potenza economica «per ricomprare la sua unità nazionale». Già Andreotti nel 1984 aveva sentenziato, con la solita italica sicumera: «Esistono due Stati tedeschi e due devono restare». Quando alla fine il muro di Berlino cadde (anche sulle teste indigenti degli irriducibili filosovietici) il longevo statista del Bel Paese se ne uscì con un tranquillizzante «l’equilibrio politico mondiale non subirà grossi traumi». Nell’aprile del 1988 Die Zeit, interpretando gli umori antitedeschi delle classi dirigenti europee, scrisse: «È raro incontrare una franchezza come quella dimostrata a suo tempo dal francese Mauriac, con la celebre frase: “Io amo la Germania al punto da essere contento che ne esistano due”». Evidentemente due sole non bastano…

Thomas Mann nel 1929

Una volta Thomas Mann invitò gli studenti di Amburgo a battersi «non per un’Europa tedesca, ma per una Germania europea». Nonostante i tedeschi abbiano fatto di tutto per onorare l’appello del grande scrittore, sotto i nostri occhi si sta consumando il fallimento dell’illusione europeista. L’Europa o sarà tedesca o non sarà! «Il sogno europeista come emancipazione dall’incubo nazista» è svanito dinanzi alla prima seria difficoltà: «La Germania tedesca è altrettanto legittima della Francia francese, dell’Italia italiana. È normale. Non è normale che tedeschi, francesi, italiani e altri europei, paralizzati dalla crisi, continuino a non decidere. Alla fine saranno i fatti a decidere» (La Germania nella crisi europea, editoriale di Limes, 4-2011). Sono sempre «i fatti» a decidere; la politica può assecondarli più o meno bene, può legittimarli, e può sperare di orientarli per il verso giusto (che è sempre quello favorevole alle classi dominanti di un Paese), ma non può produrli a partire da astratte idealità. L’Europa tedesca si sta imponendo alle spalle degli stessi tedeschi, i quali da sempre vivono con una certa inquietudine la potenza «oggettiva» della loro patria, fonte di straordinarie imprese ma anche causa di dolorosissime sciagure. Alla Germania calza a pennello la frase: «Scusate se esisto!»

«La Germania – scrive Rusconi – si fa carico di far uscire l’Unione europea dalla crisi attuale a condizione che la politica monetaria e finanziaria degli Stati membri si rimodelli secondo criteri e norme che sono promosse sostanzialmente dalla Germania stessa. Angela Merkel interpreta perfettamente questa strategia che è insieme di intransigenza e di opera di convincimento, di attesa e di azione di logoramento. E’ la nuova formula dell’egemonia tedesca». Non c’è dubbio. Siamo alla vigilia del Quarto Reich tedesco?

EUROPEISMO E QUESTIONE TEDESCA

Dopo aver per tanti lustri invocato l’avvento degli Stati Uniti d’Europa, con il relativo superamento dei vecchi Stati nazionali, colpevoli di aver annegato nel sangue il «secolo breve», oggi, dinanzi al proditorio diktat franco-tedesco, non pochi italici «europeisti convinti» masticano amaro e denunciano un’insopportabile lesa maestà nazionale. «Ma qui si vuol commissariare il Paese!»

Le anime belle (è solo un’immagine retorica, si capisce) dell’Europeismo scoprono con orrore il fondamento reale, non ideologico, del cosiddetto «sogno europeo»: è la Germania che tiene stretto nelle sue mani il destino del Vecchio Continente. Oggi come ieri, dal Kaiser Guglielmo II («Politica mondiale come compito, potenza mondiale come obiettivo, flotta come strumento») ad Angela Merker, passando ovviamente per i buffi baffi del noto pittore austriaco.

Siamo ancora alla Wille zur Macht? Non c’è dubbio. Naturalmente mutatis mutandis e senza scivolare in assurde concezioni metapolitiche. Scriveva Ernst Nolte nel 1993, con ogni evidenza per tranquillizzare gli europei timorosi della nuova ascesa tedesca dopo l’unificazione del Paese: «Bisogna distinguere tra potenza politica e influsso economico. L’influsso che si fonda su un potere economico può risultare vantaggioso anche per chi è più debole. In conclusione, non vi è ragione di temere un predominio politico tedesco in Europa» (Intervista sulla Questione tedesca, Laterza, 1993). Ma è possibile separare la «sfera politica» da quella economica? Ovviamente no, e alla fine, presto o tardi, in modo più o meno contraddittorio e doloroso, l’economico deve necessariamente riflettersi sul politico, anche a dispetto degli stessi attori che in astratto avrebbero l’interesse a non immergersi più di tanto nella complessa e rischiosa (e proprio la Germania ne sa qualcosa!) dimensione politica.

20 millionen Mark (1923)

La crisi economica ha reso evidente ciò che gli analisti politici ed economici seri del Vecchio Continente hanno sempre saputo (ma non sempre dichiarato, per un certo scrupolo politically correct): l’Unione Europea, se vuole riempirsi di reali contenuti storici, deve quanto più avvicinarsi al «modello tedesco», il quale rimane ancora il modello capitalistico egemone in Europa. Lungi dall’essere venuta meno, la tradizionale area del Deutsche Mark si è piuttosto allargata, di fatto, a cagione di una pressione meramente economica.

Il gran Stemma di Sua Maestà l'Imperatore tedesco (1871-1918)

Dietro una Moneta c’è un Tesoro, e dietro questo deve esserci un Sovrano (non 17!), con tanto di spada. Ogni altra considerazione intorno agli Stati Uniti d’Europa non radicata in questa reale dimensione storico-sociale è pura risciacquatura ideologica buona per dissetare l’anelito «ultraeuropeista» alla Emma Bonino, con rispetto parlando…

La Francia cerca di far valere il suo peso politico (struttura militare compresa, è chiaro) per controllare da presso la potenza sistemica dei «mangia patate», la cui economia è floridamente cresciuta all’ombra dei missili statunitensi e della stessa grandeur gallica, peraltro sempre più pallida e risibile. L’Asse franco-tedesco ha nel corso degli anni espresso tutte le ambiguità e tutte le contraddizioni insite nel «progetto europeista» venuto fuori dalla Seconda guerra mondiale, come ulteriore ratifica dell’epocale sconfitta tedesca. La recente vicenda libica ha messo bene in luce il diverso approccio “europeista” dei due Paesi leader dell’Unione.

Scriveva Ernesto Bertarelli nel 1915, mentre in Europa infuriava la tempesta bellica: «L’antipatico sciovinismo francese, che offende più di quanto non minaccia, pare ben dolce di miele e remissivo di vertebre nei confronti col testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» (Il pensiero scientifico tedesco, la civiltà e la guerra, Trevis Editore, 1916). Bisogna ricordare che allora i «cugini francesi» erano nostri alleati nella lotta contro il «Barbaro Teutonico». Eppure, quella denuncia del «testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» in qualche modo illumina l’aspetto oggettivo della tragedia tedesca, la quale non può non essere al contempo tragedia europea: la forza strutturale del capitalismo tedesco.

Più che in altri Paesi, la politica – interna ed estera – della Germania è il prolungamento della sua prassi economica, la quale ruota intorno a questa Sacra Trinità: produttività industriale soprattutto in vista delle esportazioni, salute finanziaria, stabilità monetaria. L’europeismo dei tedeschi e dei loro “fratelli” europei deve fare i conti con quel vero e proprio imperativo categorico economico-sociale.

Intanto la «scettica» Inghilterra, immersa come e forse più degli altri partner europei nella crisi economica, mostra quel fondo violento e disumano della Civiltà borghese che nemmeno la sempre più rancida ideologia multirazziale e multiculturale è in grado di celare. Ma la cieca violenza degli ultimi ne attesta anche l’attuale impotenza politica.

Insomma, il «commissariamento» dei Paesi europei più esposti all’ira dei «mercati» da parte della Germania (con l’eventuale copertura politica offerta, più o meno obtorto collo, più o meno opportunisticamente, dalla Francia) non ha nulla a che fare con la «Volontà di Potenza», ideologicamente concepita, o con la «Dignità Nazionale» di questo o quel Paese, mentre ha molto a che vedere con la reale dinamica capitalistica (in un’accezione non meramente economicista del concetto) del Vecchio Continente. Chi vuol capire questi tempi agitati, e non vuole rimanere impigliato nelle miserabili diatribe fra «euroentusiasti» ed «euroscettici» a mio avviso farebbe bene a puntare i riflettori della critica sul processo sociale sovranazionale che ho cercato di tratteggiare brevemente.

L’UNIONE EUROPEA NON È CHE UN’ESPRESSIONE GEOGRAFICA! (LA GERMANIA NO)

Per quanto paradossale possa sembrare, la stessa Germania vive con una certa angoscia la propria intrinseca, strutturale potenza economica (e, più in generale, sociale tout court), perché più di una volta nella sua storia ne ha saggiato le dure conseguenze. Anche per questo la leadership di quel Paese ha cercato nell’europeismo una sorta di Super-Io transnazionale che tenesse al guinzaglio le sue “naturali” pulsioni espansionistiche. Ma l’oggettività delle cose ha una sua logica che non è facile imbrigliare.

L’attuale crisi internazionale conferma plasticamente ciò che in molti hanno sempre pensato: l’Unione Europea è un mito fabbricato dalla leadership politica, economica e culturale del Vecchio Continente. Ovvero, detto in termini più “dialettici”, la sua esistenza è garantita dagli interessi che i diversi Paesi che la compongono vi trovano: se vengono meno questi interessi nazionali l’Unione Europea come entità politica non ha alcuna ragione di esistere.

All’ombra dell’ideologia europeista non hanno smesso un solo minuto di marciare i vecchi interessi degli Stati Nazionali, i cui confini sistemici (politici, istituzionali, economici, ideologici) hanno resistito alla pressione della globalizzazione capitalistica e, per certi importanti aspetti, si sono rafforzati proprio grazie ad essa. La crisi economica iniziata alla fine del 2007 ha dimostrato ciò che tutti, in alto bordo, hanno sempre saputo, ma che hanno taciuto, per salvare le apparenze (che in politica contano, eccome) e per non finire nella categoria politicamente scorretta e poco trend degli «euroscettici». Vale a dire, che il destino dell’Unione Europea, in quanto entità politica non ectoplasmatica, è saldamente nelle mani, come sempre, oggi più che mai, della Germania. Soprattutto la Grecia, la Spagna e il Portogallo hanno scoperto con orrore che la moneta comune europea in realtà non è che il Teutonico Marco con altri mezzi. La controfigura della divisa tedesca, il cui cuore non smette di pulsare (soprattutto nell’Europa Centrale), ha i capelli biondi e gli occhi azzurri, per non dispiacere l’esigente – con molte ragioni, bisogna riconoscerlo – contribuente tedesco.

Stigmatizzando «l’ipoteca tedesca sull’euro», Francesco Giavazzi lamentava, qualche mese fa, l’antipatica circostanza per cui «La Merkel decide anche per noi: la posta in gioco sono le condizioni che la Germania chiede per salvare l’unione monetaria. Il futuro dell’euro si deciderà nel Consiglio europeo del 24 marzo» (Il Corriere della Sera, 29 Gennaio 2011). Fino a quel giorno continuerò ad avere gli incubi: sogno tutte le notti la Merkel dagli occhi azzurri che mi fa il berlusconiano cucù!

Commentando una notizia sfuggita all’attenzione del «grande pubblico» (peraltro distratto dalle vicende erotiche del Premier), Paolo Valentino proietta l’incubo tedesco su una dimensione mondiale, e non a torto: «Non sarà un nuovo giorno dell’infamia, come quello di Pearl Harbour. Ma la conquista del New York Stock Exchange da parte della Borsa di Francoforte è uno di quei passaggi dove la storia si diletta a concentrare simbolismi, ironie e metafore. Stiamo assistendo a una pacifica rivincita, 65 anni dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale» (Corriere della Sera, 16 Febbraio 2011). Qualcuno avverta il bravo giornalista che non esistono rivincite pacifiche, tanto più quando esse evocano scenari bellici. Anche perché i conflitti tra le Nazioni nascono in primo luogo sul terreno della “pacifica” competizione economica.

Lo stesso Valentino cita un’affermazione di pura marca Tedesca confezionata dal Der Spiegel: «I Tedeschi vogliono in futuro dominare il mercato mondiale». Siamo al Welt-Volk, al popolo che ha una missione di portata storica mondiale da compiere. Inascoltato, il «revisionista storico» Ernst Nolte ha ripetuto questo concetto in tutte le salse, precisando che «non vi è ragione di temere un predominio politico tedesco in Europa causato dalla potenza economica della Germania» (Intervista sulla questione tedesca, 1993, Laterza). E invece bisogna proprio temerlo, perché la potenza politica (inclusa la sua manifestazione militarista) si radica, in primo luogo, sulla potenza economica: questo è l’autentico significato dell’imperialismo, concetto che i teorici dell’Impero non capiranno mai.

Per quanto paradossale possa sembrare, la stessa Germania vive con una certa angoscia la propria intrinseca, strutturale potenza economica (e, più in genare, sociale tout court), perché più di una volta nella sua storia ne ha saggiato le dure conseguenze. Anche per questo la leadership di quel Paese ha cercato nell’europeismo una sorta di Super-Io transnazionale che tenesse al guinzaglio le sue “naturali” pulsioni espansionistiche. Ma l’oggettività delle cose ha una sua logica che non è facile imbrigliare.

Nella vicenda della crisi libica abbiamo addirittura assistito al tentativo orchestrato dalla Francia e dall’Inghilterra di far fuori i cospicui interessi italiani sul suolo africano, per sostituirli con i loro: altro che «concertazione europea»! L’Italia sta giocando di sponda con la Germania per rintuzzare il proditorio tentativo, e per adesso sembra che l’intelligente azione diplomatica italo-tedesca stia riscuotendo un certo successo. Ma contro i cinesi non si potrà fare molto!

Scriveva Jeremy Rifkin qualche anno fa: «Il sogno europeo è il tentativo di creare una nuova storia […] Il nuovo sogno europeo è potente perché osa suggerire una nuova storia […] Mi auguro che la nostra fiducia non vada delusa» (Il sogno europeo, 2004, Mondadori). Luogocomunisticamente, lo Scienziato Sociale di successo metteva a confronto il «declinante sogno americano» (il progressista Obama, allora, era sì sotto i riflettori, ma per abbronzarsi, in vista delle elezioni presidenziali di qualche anno dopo) con il «nascente sogno europeo, un sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata». Detto che «il sogno europeo» è sempre stato, dal punto di vista umano, un incubo, mi chiedo se si può essere ammalati di ideologia a tal segno da non riuscire a vedere la macroscopica dinamica dei processi sociali? Evidentemente sì. E Rifkin non è certo il più cattivo tra gli Scienziati Sociali in circolazione…