LA MAGNA GRECIA…

Un contributo alla riflessione sulla Questione Meridionale da parte di un’antimeridionalista convinto. Ossia, come difenderci dalla politica lacrime e sangue del governo nazionale e transnazionale senza scadere nel solito vittimismo meridionalista e revanscista, nonché nella suggestiva ideologia del capro espiatorio: la colpa è del Nord, dei poteri forti, della Germania, del destino cinico e baro, dei meridionali traditori, soprattutto di quelli convintamente antimeridionalisti… Naturalmente parlo del meridionalismo come di una peculiare ideologia politica radicata nella storia di questo Paese, che ebbe, a giudizio di chi scrive, una ragion d’essere e una funzione critica solo agli inizi dell’epoca post Unitaria, per trasformarsi successivamente in uno strumento concettuale e politico obsoleto, nello stesso campo d’azione della borghesia meridionale, e del tutto incapace di creare coscienza nel seno delle classi subalterne del Mezzogiorno.

Nel 1960 un articolo di Vera Lutz pubblicato sul Mondo Economico (Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno) suscitò un vasto dibattito negli ambienti economici e politici del Paese intorno alla rancida Questione Meridionale. In quell’articolo l’autrice spostava i termini dell’annoso – e persino stucchevole, sotto diversi riguardi – problema dal tradizionale confronto tra il livello di sviluppo delle regioni del Nord e quello delle regioni del Sud, al rapporto tra il livello di sviluppo del Capitalismo italiano, considerato nella sua totalità nazionale, e quello degli altri paesi europei, nella prospettiva di una più accentuata integrazione dell’Italia nell’area capitalisticamente più forte del Vecchio Continente. Era l’epoca d’oro del boom economico internazionale (con le “tre tigri” sconfitte nella seconda guerra mondiale: Germania, Giappone e Italia, a fare da locomotive), basato soprattutto nel Bel Paese su uno sfruttamento assai intensivo della capacità lavorativa e su bassi livelli salariali, la cui lentissima dinamica ascendente incrocerà la curva discendente dell’espansione economica alla fine degli anni Sessanta.

Il mutamento concettuale suggerito dalla Lutz rappresentò nient’altro che una presa d’atto della reale dinamica del processo di sviluppo capitalistico italiano nel quadro del più generale sviluppo capitalistico europeo e mondiale, nel senso che esso andava a sottolineare le ragioni del sostegno politico al Nord industriale (anche attraverso una politica di migrazione interna tesa a portare in quell’area forza-lavoro a basso costo), capace di competere sul mercato internazionale, mentre affidava la soluzione definitiva dell’arretratezza del Mezzogiorno ai tempi lunghi di uno sviluppo che si estendesse a macchia d’olio dalle zone più forti alle regioni strutturalmente più deboli. Il “settentrionalismo” trovò allora il suo primo sdoganamento, dopo decenni di ipocrisie vetero- risorgimentali. La morte per così dire ufficiale del classico meridionalismo (d’accatto, vittimista, il più delle volte) può farsi risalire proprio agli inizi degli anni Sessanta.

Scriveva Domenico Novacco dieci anni dopo: «La questione meridionale non si sollevò mai al rango, che le competeva di pieno diritto, di nodo capitale per lo sviluppo equilibrato dell’intero paese. In effetti, due alternative sono in gioco: o il progresso equilibrato dell’intero paese entro gli istituti della democrazia, secondo il modello delle grandi società industrializzate o il ristagno dell’intero paese nel pantano del sottosviluppo. A meno che non venga addirittura a significare, terza infausta alternativa, l’anticamera del divorzio tra l’Italia dello sviluppo e l’Italia del sottosviluppo» (La questione meridionale ieri e oggi).

Altri quarant’anni sono trascorsi, e la «terza infausta alternativa» si sta ponendo all’ordine del giorno con una forza che lo stesso Novacco certamente non avrebbe potuto immaginare. Egli pose un problema reale, e cioè la necessità per il Capitalismo italiano di procedere lungo la strada di uno sviluppo complessivo, più organico e diffuso; uno sviluppo che finalmente investisse in maniera forte, penetrante e capillare anche le aree del Paese che non solo si trovavano tagliate fuori dal mercato europeo, ma che non riuscivano a ritagliarsi uno spazio competitivo nemmeno nell’area del bacino mediterraneo. Per questo oggi ascoltare Raffaele Lombardo giurare con sicula indignazione che «la Sicilia non è la Grecia» mi fa scompisciare dal ridere, letteralmente. In effetti, la bella isola non è la Grecia, è la Magna Grecia. Anche nel senso («qualunquista e antipolitico») di «è tutto un magna magna». Soprattutto in quel senso. Non bisogna essere scienziati della Bocconi, o demoniaci teorici del liberismo selvaggio, per conoscere il robusto legame che insiste tra assistenzialismo e sottosviluppo economico, obesità amministrativa e povertà relativa delle famiglie, quella denunciata ieri dall’Istat.

Il dualismo Nord/Sud sembrava già allora esser giunto al suo punto critico, e la nascita del fenomeno leghista nella seconda metà degli anni Ottanta ne fu in effetti il sintomo più evidente: la contraddizione socio-economica generò una contraddizione politica che tendeva a squassare l’assetto istituzionale venuto fuori dalla seconda guerra mondiale; di più: essa sembrava spingere lo stesso Stato nazionale oltre le forme impresse dal processo storico risorgimentale (alludo, naturalmente, alla «questione federalista»). Mentre negli altri paesi capitalisticamente avanzati le istanze di ammodernamento e di ristrutturazione del vecchio “Stato sociale“ hanno trovato, a partire dai primi anni Ottanta, una sponda nei tradizionali soggetti politici (i conservatori in Inghilterra, i repubblicani negli Stati Uniti, i neogollisti in Francia), l’Italia ha dovuto attendere la nascita di un soggetto politico “eversivo“ per conoscere la salutare (per il sistema-Paese, beninteso) «rivoluzione dei ceti produttivi».

Le due grandi “ondate“ di investimenti industriali, pubblici e privati, nel Mezzogiorno – la prima è del 1955 e la seconda del 1965 – non hanno intaccato, se non marginalmente, la natura dei rapporti economici tra Nord e Sud; rapporti che hanno visto il Mezzogiorno rappresentare per lo più un mercato privilegiato di sbocco per la produzione settentrionale, e un fornitore di forza-lavoro a buon mercato non solo per il settentrione, ma anche per altri paesi europei ed extraeuropei (con un ritorno in termini di rimesse al Paese d’origine tutt’altro che disprezzabile, sia dal punto di vista della bilancia dei pagamenti, sia dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica). In questo contesto lo Stato è stato chiamato continuamente a sussidiare i redditi delle popolazioni meridionali, soprattutto attraverso la spesa pubblica, che ha significato un’espansione nel Mezzogiorno del lavoro improduttivo, il quale non solo ha reso particolarmente esplosiva quella crisi del vecchio modello di “Stato sociale“ che pure si riscontra in tutti i paesi avanzati; ma ha ristretto pericolosamente la stessa base su cui può contare l’accumulazione, il solo processo che può sostenere l’intero sistema-Paese.

Come scriveva Otto Bauer a proposito della crisi economica europea degli anni Trenta, «le masse popolari delle regioni industriali depresse debbono essere mantenute a spese delle altre regioni» (Tra due guerre mondiali?); questo oggi sembra non essere più possibile, e come scrive il direttore del Tempo Mario Sechi il fenomeno leghista stava – e sta – tutto dentro queste contraddizioni. Ha un senso dire del leghismo quanto ebbe a dire nel 1924 il nittiano Finocchiaro Aprile, futuro capo del separatismo siciliano nel ‘43, a proposito del fascismo: «è l’esponente del capitalismo settentrionale», solo se si prende in considerazione il quadro complessivo che ho cercato di abbozzare. Se non fosse scivolata sulla buccia del noto scandalo, oggi la Lega avrebbe le vele gonfiate dal vento della crisi economica, perché le magagne che la spiegano si sono rafforzate. Altro che grillismo!

Fattori vecchi e nuovi, interni e internazionali, politici ed economici impongono al Paese la definizione di una nuova strategia, di una “nuova politica economica“ per il Mezzogiorno. Naturalmente anche nel nuovo contesto il dato di partenza caratterizzato dalla presenza di una forza-lavoro a buon mercato può costituire un eccellente volano per lo sviluppo di questa regione, e difatti a partire dagli anni Novanta i governi hanno rispolverato la teoria anglosassone delle «aree depresse», con annesse gabbie salariali volte a spingere i salari meridionali verso i minimi contrattuali (ma di fatto ancora più giù). Tuttavia, interessi consolidati di vario genere (economici, sindacali, politici, sociali in senso lato: di spesa pubblica improduttiva vivono centinaia di migliaia di persone) hanno finora impedito l’implementazione di questa strategia, la sola che può avere successo. D’altra parte, lo scenario entro cui tale strategia si colloca è ben diverso da quello precedente, caratterizzato dalla possibilità di una migrazione interna e internazionale delle popolazioni meridionali, e dalla possibilità per lo Stato di “drogare“ con la spesa pubblica il processo di accumulazione, attraverso prestiti a fondo perduto, “rottamazioni” e sussidi di diverse, e a volte bizzarre, tipologie. Se non altro perché la signora Germania dice nein!

E a ciò si deve naturalmente aggiungere l’entrata in grande stile nell’agone della competizione capitalistica mondiale di Paesi che possono contare su un costo del lavoro risibile se confrontato con quello italiano, o tedesco, o francese. L’imperialismo (inteso come esportazione di capitali, investimenti diretti e indiretti all’estero) è una strada che l’Italia ha imboccato con successo negli anni Novanta per contrastare la concorrenza dei paesi emergenti dell’Est asiatico e dell’America Latina. Nel 1996 Gad Lerner scriveva che «Intanto che a Roma il governo discute con sindacati e confindustria su come abbattere il 10-20% il costo del lavoro nelle zone ad alta disoccupazione, partono a migliaia i Tir carichi di macchinari industriali trasferiti in Slovacchia, Romania, Ucraina e Albania dove quel costo si abbatte al 90%» (La Stampa, 1/10/96). Un costo del lavoro abbattuto del 90%: capita l’antifona? Il Capitalismo italiano si vide “costretto” a trovare fuori dai confini geografici del Paese il suo nuovo Mezzogiorno. L’attuale successo delle aziende italiane nell’area balcanica e nel cosiddetto Est-europeo è un fenomeno fin troppo sottovalutato, in Italia.

MAFIA2.0

L'inquietante bellezza di Cosa Nostra

Qualche giorno fa ho postato su Facebook questa breve riflessione: «La sentenza della Cassazione su Marcello Dell’Utri (qui scatta il nitrito cavallino alla Frankenstein Junior) e la relativa indignazione del Popolo Giustizialista mi hanno insinuato un dubbio, dalla cui soluzione dipenderà la qualità del mio sabato. Eccolo: se uno propone l’idea, certo bizzarra, secondo la quale la Mafia non è che la continuazione del Dominio Sociale Capitalistico con altri mezzi (con «altri» fino a un certo punto: vedi il monopolio statale della violenza, ed Equitalia…), corre il rischio di incappare nel reato di Concorso esterno in associazione mafiosa? Prima di scrivere qualcosa sulla radice storico-sociale della Mafia, gradirei ricevere una risposta. Possibilmente non da Travaglio…».Come appare evidente, attraverso una domanda retorica, e prendendo spunto da una notizia di cronaca, ho cercato di introdurre una questione molto seria, sintetizzata nel concetto di mafia come continuazione del dominio sociale capitalistico con altri mezzi. Adesso cerco di sviluppare ulteriormente questo concetto, senza tuttavia esaurirne l’intera valenza storica e sociale. Offro solo qualche “spunto di riflessione”.

La lotta contro la mafia si configura, sul piano della storia e della prassi sociale di questo Paese, come il tentativo delle classi dominanti di rafforzare lo Stato in tutte le sue articolazioni istituzionali e regionali, nonché la stessa idea di Stato in quanto garante della civiltà, della pace sociale e del benessere generale. Sorta storicamente come strumento di repressione e di controllo sociale sussunto agli interessi dei grandi proprietari fondiari della Sicilia (soprattutto di quella Occidentale), la mafia seppe adeguarsi bene, e assai rapidamente, alla nuova realtà nazionale emersa all’indomani del 1861. Il «compromesso storico» fra gli interessi industriali del Nord e gli interessi agrari del Mezzogiorno, che sta alla base del nascente Stato Unitario, favorì non poco il processo di adattamento della mafia cui accennavo appena sopra, in apparenza secondo la celeberrima linea strategica sintetizzata nel Gattopardo: «Cambi tutto, affinché niente cambi!» Un falso cambiamento messo al servizio di una reale continuità.

Tuttavia, non bisogna dare eccessivamente peso alle parole che Tomasi di Lampedusa mise in bocca a Tancredi, diventate ben presto un luogo comune di grande successo, e una chiave di lettura dei fatti italiani fin troppo comoda, e per questo necessariamente infondata, o quantomeno assai angusta, incapace di cogliere la complessità. E l’Italia, com’è noto, è il regno della complessità! A cagione di un destino cinico e baro? No. A motivo della sua complessa struttura sociale, stratificata e “superfetata”, se mi è concesso scriverlo, all’inverosimile.

«Tieni le palle? E allora ce la puoi fare!»

In effetti, nonostante tutte le contraddizioni sociali e i limiti immanenti alle modalità della «Rivoluzione borghese italiana», anche la struttura sociale della Sicilia subì una trasformazione in senso capitalistico, resa peraltro inevitabile dal nuovo contesto nazionale e sovranazionale, e questo processo di modernizzazione non poteva non coinvolgere la stessa mafia, la cui esperienza (expertise) accumulata nel corso di parecchi decenni ebbe modo di trovare una nuova funzione. Il cambiamento di funzione di sopravvivenze precapitalistiche (in campo economico, culturale, politico, ecc.) è tipico nel Capitalismo in generale, e nel Capitalismo «ritardatario» in particolare (vedi anche la Germania, il Giappone e la Cina). L’autonomizzarsi della mafia; il suo farsi strumento al servizio, non di uno strato sociale particolare (latifondisti), ma di un processo economico generale, è stato reso possibile dal Capitalismo, ossia dal carattere astratto (universale) del denaro nell’ambito dei nuovi rapporti sociali borghesi.

La mafia si emancipa insomma dalla sua vecchia base rurale, e come un cancro andato in metastasi si espande, naturalmente e necessariamente, in tutto il corpo della struttura economica del Paese, secondo il principio capitalistico sintetizzabile in questa prescrizione: Va dove ti porta la brama del profitto! A mio avviso, nell’ambito del Capitalismo ogni obiezione di carattere etico-morale a questo principio può forse salvare qualche coscienza (ne dubito), ma certamente suona falsa all’orecchio che si sforza di intendere la verità per quella che è, non per come dovrebbe essere – sulla base di quale presupposto reale? Per questo il cancro che crea metastasi d’ogni genere è innanzitutto la società che fa degli uomini non-uomini assoggettati al cieco imperio degli interessi economici, chi come vittime, chi come carnefici.

Il segno, inequivocabile, dei nuovi tempi fu dato dalla circostanza per cui a reprimere il movimento dei Fasci Siciliani, ossia «le masse dei contadini poveri, analfabeti, e oppressi da secoli di dominazione baronale, che si avanzavano sulla scena della storia per rivendicare i diritti che erano propri» (F. Renda, I Fasci Siciliani, 1892-94), non fu la mafia, ma il governo liberale di Crispi. Il 3 gennaio 1894 il Consiglio dei Ministri decretò lo stato d’assedio nelle province siciliane. Quattro anni dopo, nel maggio del 1898, il generale Bava Beccaris ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco sul proletariato milanese in rivolta contro il carovita. Cento morti perfettamente legali.

«È il Capitalismo, picciotti!»

Con il cambiamento di funzione della mafia ci troviamo, dunque, nel pieno della «logica» e della prassi capitalistica, e l’esistenza di mafie nazionali in altre parti del mondo (Stati Uniti, Russia, Giappone, Cina) conferma la non eccezionalità del fenomeno di cui ci occupiamo. «C’è molto da imparare dagli atti dei maxiprocessi dei capi della mafia italiani … Man mano che l’esigenza di gestire finanziariamente la ricchezza e di investirla in modo ottimale rendeva necessario il ricorso a consulenti professionisti, i legami di sangue assumevano meno importanza. Il denaro riciclato veniva investito nell’edilizia e in imprese di servizi come lavanderie, agenzie di viaggi, garage e officine» (S. Strange, Denaro impazzito). Nel 1997 Susan  Strange calcolava in 400 miliardi di dollari l’anno il valore del denaro riciclato a livello mondiale dalle «organizzazioni criminali» attive in ogni parte del Pianeta. Non son mica bruscolini… E d’altra parte, come già sapevano gli antichi, il denaro ha la maligna – per gli onesti di cuore – prerogativa di non puzzare. Con circa 95 miliardi di euro di fatturato annuo, pari al 7 per cento circa del Pil, la «mafia siciliana SPA» si configura come la prima azienda del Paese. Questo ormai da parecchi anni. «Che scandalo!» Punti di vista…

Il permanere di consistenti sacche di arretratezza sociale nel Mezzogiorno ha permesso alle organizzazioni malavitose, specializzate nell’uso della violenza ai fini dell’accumulazione, di poter accedere sempre di nuovo a un vasto esercito di proletari e sottoproletari da gettare nella quotidiana guerra per la conquista del denaro. In quanto monopolista della violenza e sentinella armata del Diritto, lo Stato non può tollerare l’esistenza di associazioni private intenti a drenare ricchezza con mezzi violenti e illegali. Questo per un verso. Per altro verso, mentre getta un potente fascio di luce sulla natura miserabile della vigente società, la quale crea quei bisogni “molesti” che da sempre alimentano la mafia nella sua versione moderna (vedi i  sempre floridi mercati della prostituzione, della droga, delle scommesse clandestine, ecc.); al contempo il fenomeno in questione crea non pochi “scompensi” e disarmonie nel processo economico, la cui manifestazione più evidente e grave è registrata dal bassissimo tasso di investimenti locali, nazionali ed esteri nelle regioni del Paese che pure ne avrebbero più bisogno, anche in vista di una loro “bonifica” anticriminale. Come chi ha la bontà di seguirmi sa, giudico ridicolo e infondato ogni sforzo teso a discriminare fra «economia onesta» e «economia disonesta», perché la realtà conosce una sola economia, le cui molteplici «sfere» sono peraltro sempre più interconnesse, sul piano nazionale come su quello sovranazionale. Per me criminale è il Capitale tout court.

Dal 1861 in poi lo Stato ha cercato a più riprese di venire a capo del problema-mafia, usando soprattutto i tradizionali metodi coercitivi («La mafia ve la porto io come sopra un tavolo clinico, ed il corpo è già inciso dal mio bisturi», disse Mussolini ai tempi del prefetto Cesare Mori), com’è d’altra parte nella sua più intima natura. Ma che il nocciolo della questione non sia separabile dalla ristrutturazione complessiva del Capitalismo italiano, nell’accezione non meramente economicista della locuzione, lo si è sempre saputo, e lo hanno ribadito Mario Monti e angela Merkel nell’incontro di ieri, quando è giunto il momento di parlare di «sinergie economiche» fra i due Paesi, leader europei nel campo della manifattura. La Cancelliera ha fatto presente al Tecnico munito di bisturi («La spesa pubblica ve la porto io come sopra un tavolo clinico!») che l’Italia è certamente bella, ma che la burocrazia, la pressione fiscale, la mafia, l’assenza di moderne infrastrutture e via elencando le note magagne, non la rendono attraente sul piano capitalistico.

«È solo un contrattempo!»

L’arretratezza sistemica del Paese ha generato la mafia moderna, il lavoro nero e l’evasione fiscale: tre fenomeni che al contempo hanno sostenuto il processo di sviluppo del Bel Paese nel quadro appunto di quella relativa arretratezza cristallizzatosi nel corso di 150 anni. La politica ha sempre dovuto scendere a patti con questa complessa e contraddittoria dialettica, nella quale i punti di criticità venivano di fatto a fungere anche da punti di forza nella competizione capitalistica nazionale e internazionale (attraverso il basso costo dei «fattori produttivi») e nella stessa ridistribuzione della ricchezza sociale (non a caso si è parlato di un «Welfare della mafia»), ma aggravando ulteriormente il contesto sociale complessivo del Paese, costretto a una competitività “drogata”. Un circolo vizioso-virtuoso-vizioso la cui insostenibilità sistemica è stata una volta di più confermata dall’attuale crisi economica.

In risposta a un articolo di Roberto Saviano sulla Tav, Giancarlo Caselli, giudice di ferro, ha scritto che se è giusto denunciare le infiltrazioni malavitose e “castali”, non si possono tuttavia fermare i cantieri: «Così facendo non si determina una sostanziale rinuncia al controllo del territorio e dell’economia? Rinunciando alle opere per timore delle infiltrazioni mafiose si realizzerebbe una sorta di dismissione di ogni responsabilità politica ed economica. Vi sarebbe di fatto un’abdicazione rispetto a funzioni fondamentali dello Stato» (intervista di Meo Ponte a G. Caselli, La Repubblica.it, 7 marzo 2012). Qui si pone un problema che ovviamente non ha niente a che fare con l’umano, mentre ha molto a che fare con il processo di ammodernamento del Capitalismo italiano. Obiettivo più che legittimo, intendiamoci. L’importante è non confondere il Sacro con il profano.

«Bene così. Mi hai reso un bel servizio!»

A mio avviso tanto la mafia (e analoghi fenomeni sociali) che il dibattito sulla legalità appena esemplificato con il botta e risposta fra i due campioni del Progressismo italico, devono essere guardati dalla prospettiva storico-sociale che ho cercato di delineare, sebbene in forma sintetica e senza la  pretesa di aver saturato la “problematica”, la quale ha molti e significativi aspetti.

IL LEGHISMO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

«Il figliol prodigo è infine ritornato a casa dopo un lungo e tortuoso errare nel melmoso e insidioso Palazzo romano». Certamente questo avrà pensato il professor Miglio, già “teorico“ del movimento leghista, dopo aver udito pronunciare da Bossi, all’indomani delle elezioni politiche del 21 aprile ’96, la parola d’ordine della «secessione della Padania». Una parola d’ordine assolutamente coerente con i concetti e le prospettive politiche che il professore aveva da tempo elaborati e presentati, tradotti in “lumbard“ per il rude e «popolano» movimento leghista, al grande capo, del quale egli era stato l’eminenza grigia fino al giorno della caduta del governo Berlusconi. Cerchiamo di ricostruire, molto succintamente, il Miglio-pensiero sui problemi del federalismo e della secessione per poi entrare nel merito di una questione più generale che attiene la storia dello sviluppo capitalistico di questo paese. (1)

Mentre nella concezione del mondo risorgimentale, fascista e postfascista lo Stato e la Nazione vengono messi al centro della riflessione sui destini della storia umana, nel “miglismo“ il punto di partenza da cui muovere per giungere ad una corretta definizione della natura e del ruolo dello Stato nazionale si sostanzia nell’assunzione opposta, dal momento che per Miglio «lo Stato “nazionale“ è arrivato ormai alla conclusione della sua parabola storica»

Ciò che avrebbe messo in discussione questa vecchia – “ ottocentesca “ – forma storica è lo sviluppo impetuoso delle forze produttive verificatosi nell’ultimo mezzo secolo nelle principali aree capitalistiche del Vecchio Continente e del mondo.
«Nella vecchia logica dello Stato moderno si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia , la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale» (2)

In effetti, lo Stato nazionale moderno nasce in primo luogo per rispondere all’esigenza di unificazione del mercato lungo i confini di un’area geopolitica abbastanza omogenea per lingua, per tradizioni storiche, per interessi (primo fra tutti quello di coalizzarsi per resistere alle pressioni di un’altra e diversa area omogenea). Questo presupponeva l’abbattimento di tutte le barriere economiche, giuridiche e politiche che impedivano, o comunque ostacolavano grandemente, il realizzarsi di un’accumulazione capitalistica su scala “nazionale“. Venuta meno, in primo luogo in virtù dell’ulteriore sviluppo capitalistico, quella primaria necessità storica, ma non la forza propulsiva e attrattiva dell’economia (la quale si è piuttosto centuplicata), le linee di forza del processo di accumulazione tendono a far ruotare intorno a pochi centri geopolitici aree economiche omogenee, i cui confini (dinamici) attraversano diversi stati nazionali. Il fatto che la parte economicamente più sviluppata di un paese si senta attratta dall’insieme di paesi – o anche solo da aree regionali di essi – che gli sono più simili per struttura economica e per stratificazione sociale (e, in forza di ciò, per cultura); e che a ragione di ciò avverta come oppressivo il quadro di riferimento statuale-nazionale nel quale è inserita, non è affatto in contraddizione con la tendenza alla formazione di grandi sistemi multinazionali in competizioni tra loro, ma è anzi il portato delle stesse leggi dello sviluppo capitalistico che informa l’odierna globalizzazione dell’economia. Sotto questo aspetto, la formazione della piccola Padania non sarebbe affatto in contraddizione con l’esistenza della mostruosa “Triade“ (Europa, Americhe, Asia come sistemi multinazionali integrati e concorrenti). La dissoluzione dei vecchi equilibri internazionali ha semplicemente accelerato processi lungamente maturati nel tempo, oltre ad esserne stata la conseguenza più evidente, importante e gravida di conseguenze per il prossimi futuro.
La forza dell’economia, dice Miglio, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», agglomerati economici e sociali, cioè, che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali “ottocenteschi“. «Ecco la radice del neofederalismo – scrive Miglio – (…). È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato» (3)

Troviamo in queste frasi, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si coglie la consapevolezza del sentiero estremamente contraddittorio lungo il quale tali dinamiche sono costrette a muoversi e a misurarsi con la politica e la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica. Il professore saluta come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica – la cui massima espressione è quella che si esercita con l’uso dell’esercito -, ma sulla forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista» (4). Quest’ultima opinione ricalca esattamente il pensiero del tedesco Ernst Nolte, teorico del cosiddetto «revisionismo storico», secondo il quale non si deve aver paura della forza economica e politica della Germania perché essa se indubbiamente sente di poter giocare un ruolo importante per i destini del mondo, non nutre questa aspirazione in maniera esclusiva (e di fatti si pone alla testa dell’ unione economica e politica dell’Europa), e soprattutto non è più alla ricerca di una sua supremazia militare (5). Anche l’economista giapponese K. Ohmae ritiene che la morte dello Stato-nazione, e la sua sostituzione con lo «Stato-regione», avverrà spontaneamente, attraverso il libero dispiegamento dei mutamenti dell’economia mondiale che stanno ridisegnando la società-globale alle soglie del XXI secolo (6). Ci troviamo, insomma, di fronte a concezioni puerili e ingenue dello sviluppo capitalistico e delle sue molteplici conseguenze sociali e politiche; si individua, infatti, come fattore di armonia e di reciprocità nei rapporti tra i “cittadini“ e gli stati proprio il fattore fondamentale di ogni conflitto: la forza dell’economia.

Le tesi del professore ci introducono in una questione che puzza di muffa e che pertanto tratteremo in maniera assai sommaria, senza sviscerarne le origini economiche e sociali, giusto per aggiungere un altro tassello al mosaico della nostra concezione dello sviluppo capitalistico. Alludiamo alla cosiddetta «questione meridionale», la cui interpretazione più accreditata presso l’intellighenzia italiana si è saldata alla fine del secolo scorso con la tesi della «rivoluzione borghese interrotta», ovvero frenata, tradita, abortita, in una sola parola privata di quella radicalità sociale che aveva caratterizzato la rivoluzione inglese del XVII secolo e quella francese sul finire del XVIII secolo. Opinione, quest’ultima, del tutto legittima sul piano storiografico: come ebbe a scrivere Engels in una lettera a Turati del 26 gennaio 1894: «L’abile opportunismo della monarchia sabauda fece in modo che l’unificazione italiana dipendesse dalla politica internazionale. Gli antichi sentimenti repubblicani si trasformarono nel loro contrario e il Risorgimento politico dell’Italia perse completamente quel carattere ideale di un rinnovamento spirituale-morale di tutto il popolo che Mazzini aveva predicato, e si allontanò sempre di più da quei principi di giustizia sociale che furono l’onore e il vanto dei suoi precursori, di Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, di Carlo Pisacane. La borghesia italiana soffrì della sua stessa debolezza. L’esempio del rapido sviluppo delle nazioni vicine spinse agli estremi la sua cupidigia. Tuttavia lo sviluppo arretrato dell’agricoltura, il misero spiegamento della produzione capitalistica e l’arretratezza di tutta la vita economica concorrevano a far sì che per la borghesia il profitto si mantenesse basso sul terreno economico e la sfera del potere limitata nel terreno politico» (7).

Il portato sociale più vistoso e importante di questa mancata radicalità rivoluzionaria (simboleggiata dal ruolo preminente avuto da Cavour nel processo risorgimentale) fu senz’altro l’assenza, all’indomani dell’Unità, di una politica borghese tesa a riformare in profondità l’assetto dell’economia meridionale, dominato ancora dai grandi proprietari fondiari; scelta che diede vita a quel «blocco storico», caratterizzato dall’alleanza del grande capitale finanziario-industriale del Nord con i grandi proprietari terrieri del Sud, che impresse alla politica borghese nazionale nel suo complesso quei caratteri di moderatismo e di trasformismo assai noti e studiati. Com’è noto, solo negli anni ’50 di questo secolo fu varata una legge organica di riforma agraria; «ma le modalità della sua formulazione e della sua pratica attuazione, il momento storico in cui entrò in vigore (quando l’agricoltura dei paesi più avanzati aveva già avviato un’intensa opera di modernizzazione), nonché (…) l’esistenza di vaste estensioni di terreni marginali capaci di una resa ben povera, condussero alla formazione di una miriade di piccole proprietà di dimensione troppa esigua, arretrate e inefficienti, tanto è vero che di lì a poco iniziò un colossale e drammatico esodo dalle campagne che non può ancora dirsi terminato» (8).

Va detto, comunque, che quel «blocco storico» fu reso possibile dal terreno economico su cui l’Unità prese corpo, terreno che vedeva il Nord Italia assai più sviluppato rispetto al Mezzogiorno non solo dal punto di vista industriale, ma anche da quello agricolo, ovvero dal punto di vista che più riguardava quest’ultimo, essendo esso un’area del paese prevalentemente rurale, con grandi proprietà terriere (latifondi) divise in mille piccole gestioni (fittavoli o mezzadri). Il cospicuo risparmio meridionale si convertì in capitale, e abbandonò la sede d’origine, non solo per l’industria del Nord, ma anche per l’agricoltura del Nord, assai più moderna, produttiva, remunerativa e vicina agli importanti sbocchi del mercato europeo di quanto non lo fosse l’arretrata agricoltura del Sud. Né va dimenticato il fatto che dopo il grande movimento rivoluzionario del 1848, il quale aveva visto una parte consistente di masse proletarie dell’intero Vecchio Continente avanzare per la prima volta rivendicazioni sociali autonome rispetto al programma rivoluzionario borghese – con il proletariato parigino che insorge contro la borghesia -, la soluzione delle varie questioni nazionali ancora pendenti in Europa (e tra queste quella italiana e quella tedesca erano senz’altro le più importanti) fu di fatto affidata alle guerre tra gli stati, e ciò non poteva rimanere senza conseguenze sul carattere impresso alla nuova realtà statuale dalle classi dominanti italiane interessate alla formazione di uno Stato nazionale avente una estesa base territoriale. Solo cogliendo il contesto storico risorgimentale nel suo insieme è possibile collocare nel giusto posto il «blocco storico», rifuggendo da ogni sua interpretazione superficiale e ideologica.

Ma se quel giudizio storico sulla rivoluzione borghese «tradita» (che il meridionalismo salveminiano trasformò in un tormentone con la vocazione alla sconfitta) coglie indubbiamente nel segno, altrettanto non si può dire per la lettura complessiva del processo di unificazione politica ed economica del paese che a partire da esso ha preso corpo; ovvero per il giudizio sulla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Italia. Nelle analisi dei più autorevoli intellettuali italiani del Novecento (da Salvemini a Gramsci) la fotografia di un momento storico particolare funse da filo conduttore interpretativo di tutta la storia italiana post-unitaria, con implicazioni politiche assai deleterie per il movimento operaio di questo paese, dal momento che la propaganda sui compiti democratico-borghesi da portare – perennemente – a compimento farà capolino ogni volta che la società italiana attraverserà momenti di crisi di particolare acutezza (la storia italiana conosce molti «secondi risorgimenti»!), e non di rado ancora oggi intellettuali e politici fanno ricorso ai “miti risorgimentali“ per legittimare agli occhi delle masse questa o quella politica.

Vi è, poi, una lettura “marxista“ del gap fra Nord e Sud che stima irrecuperabile tale gap essendo esso considerato non il prodotto di una necessaria dinamica storica (fatta di intrecci economici, sociali, politici), ma il presupposto stesso della sopravvivenza – non solo della nascita e dello sviluppo – del capitalismo italiano. In una rivista di estrema sinistra – Vis-á-vis – si legge ad esempio quanto segue: «La seconda repubblica non farà che aggravare gli squilibri della prima, primo fra tutti il divario nord/sud: se questa divisione è il prodotto di una precisa dinamica che è quella del capitale che dappertutto si basa sul rapporto sviluppo/sottosviluppo, qualsiasi processo politico non potrà che prenderne atto, qualora rimanga nei limiti delle compatibilità esistenti (9)

Solo la rivoluzione comunista, insomma, può portare a soluzione l’annosa questione. Tesi, questa, non nuova. Già nel 1904 il socialista Ettore Ciccotti aveva espresso la convinzione che senza il passaggio al socialismo l’arretratezza delle regioni meridionali sarebbe rimasta tale e quale, forever: «È vano sperare risoluzione vera e completa della questione – egli scriveva – nel nostro ambiente economico. Il Mezzogiorno, più che tutto il resto d’Italia, soffre a un tempo delle sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo (…) Il suo destino perciò si decide dove si combatte la grande battaglia pel socialismo»(10). La posizione di Ciccotti certamente aveva una sua importanza politica, sia perché veniva ad attaccare le tesi liberiste, le quali affidavano la riduzione graduale del gap nei livelli produttivi tra le due grandi aree del paese al libero gioco delle forze economiche e sociali (tesi in parte ripresa da Luigi Einaudi nel ’60, quando si trattò di fare un primo bilancio dell’assai deludente intervento pubblico nel Mezzogiorno avviato negli anni Cinquanta, e che sta trovando nuovo lustro oggi, nel pieno della crisi generale del sistema-paese); e sia, soprattutto, perché cercava di sottrarre legittimità al nascente meridionalismo, il quale affogava la “questione sociale“ del Mezzogiorno in una indistinta – interclassista – rivoluzione democratica e morale tesa a ridare ossigeno alla sua vita economica, politica e civile. Quello di Ciccotti, insomma, si prospettava come un significativo contributo ad una lettura in chiave classista della «questione meridionale», e ancora oggi è giusto dire che le lotte delle classi subalterne delle regioni meridionali devono – dovrebbero! – essere viste ed inquadrate nel contesto della più generale lotta del proletariato italiano. Quello che non condividiamo è la concezione che vede il rapporto Nord-Sud nei termini di una realtà sostanzialmente fissa, immutabile, appunto perché Ciccotti lo lega indissolubilmente alla stessa sopravvivenza del capitalismo italiano (o internazionale). Noi non contestiamo la previsione contenuta in Vis-á-vis, né, ovviamente mettiamo in discussione l’esistenza di una «questione meridionale»: indubbiamente essa esiste, dal momento che il divario tra le due grandi aree del sistema-paese: quella delle regioni settentrionali, capitalisticamente assai sviluppate, e quella relativa alle regioni meridionale e alle due isole maggiori, i cui livelli di produttività e di competitività sono indiscutibilmente bassi (fatti salvi alcuni distretti pugliesi attivi sul versante dello sfruttamento dell’Albania) non solo nel corso dei centotrenta e passa anni che ci separano dall’Unità non ha conosciuto una riduzione, ma esso oggi appare come non mai foriero di terremoti politici impensabili fino a dieci anni fa. Contestiamo, invece, la concezione dello sviluppo capitalistico che irrigidisce l’analisi delle sue necessarie contraddizioni dentro uno schema che suppone sostanzialmente immutabile la storia capitalistica – e perciò politica – di un paese. Non dimentichiamo che ancora alla fine degli anni Settanta – di questo secolo! – l’Italia del Nord-Est, quella che oggi viene accreditata come l’area più dinamica del capitalismo italiano ed europeo, veniva considerata, insieme all’Italia centrale, una «formazione sociale periferica» del capitalismo italiano (11); né si può dire che il divario Nord-Sud si è presentato, nel corso dei decenni, sempre allo stesso modo, mentre è invece vero che esso ha seguito l’evoluzione del capitalismo italiano nel suo complesso, ed è stato influenzato dal tipo di intervento pubblico che i governi che si sono succeduti hanno implementato. Scriveva ad esempio vent’anni fa Domenico Novacco: «Il fatto che nel Sud, visto nel ’50 come area di redistribuzione di una popolazione fondamentalmente agricola e nel ’60 come area di innesto di forti concentrazioni industriali, si stia sviluppando invece nei nostri anni- fine anni Settanta – una società a prevalente carattere terziario, urbanizzata, sensibile a problemi e ad esigenze diverse da quelle a cui il precedente intervento -:pubblico – era stato finalizzato, comporta l’urgenza di un flessibile riadattamento dei criteri operativi e dei concetti con cui sono state progettate ed eseguite le opere di infrastruttura nel ventennio che ci stiamo lasciando alle spalle» (12).

La «questione meridionale», cioè, deve essere collocata nell’ambito del complessivo processo capitalistico di questo paese, e d’altra parte è stato così fin dalle origini dello Stato nazionale unitario, non fosse altro perché è stato grazie al drenaggio del risparmio che il Sud aveva accumulato (il Regno delle Due Sicilie nel 1860 poteva vantare, oltre che un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, segnalata da un debito pubblico ben saldo); è grazie alla forza-lavoro a basso costo che esso offriva alle industrie del Nord insieme a un privilegiato mercato di consumo per le loro merci, che il capitalismo italiano è riuscito a recuperare la distanza che al momento dell’Unità la separavano dagli altri capitalismi d’Europa e del mondo. Possibilità di sviluppo capitalistico che il Mezzogiorno in parte continua ad offrire in questo fine millennio. Questa consapevolezza si è fatta strada, a partire dagli anni Sessanta, anche nel mondo scientifico ufficiale; vasta eco, ad esempio, suscitò un articolo di Vera Lutz pubblicato sul Mondo Economico del ’60, intitolato Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia, con il quale l’autrice spostava i termini della questione dal tradizionale confronto tra il livello di sviluppo delle regioni del Nord e il livello di sviluppo delle regioni del Sud, al rapporto tra il livello di sviluppo del capitalismo italiano e quello degli altri paesi europei, nella prospettiva di una più accentuata integrazione del paese nell’ambito dell’Europa capitalisticamente forte. Questo mutamento concettuale rappresentò nient’altro che una presa d’atto della reale dinamica del processo di sviluppo capitalistico italiano nel quadro del più generale sviluppo capitalistico europeo e mondiale, nel senso che sottolineava le ragioni del sostegno al Nord del paese (anche attraverso una politica di migrazione interna tesa a portare in quell’area forza-lavoro a basso costo), capace di competere sul mercato internazionale, mentre affidava la soluzione definitiva dell’arretratezza del Mezzogiorno ai «tempi lunghi» di uno sviluppo che si estendesse a macchia d’olio dalle zone più forti e più vicine al mercato internazionale, alle regioni più deboli e più distanti da quest’ultimo (anche dal punto di vista geografico). La morte, per così dire, “ufficiale“ del meridionalismo può farsi risalire proprio agli inizi degli anni Sessanta.

Scriveva ancora Novacco: «La questione meridionale non si sollevò mai al rango, che le competeva di pieno diritto, di nodo capitale per lo sviluppo equilibrato dell’intero paese (…). In effetti due alternative sono in gioco: o il progresso equilibrato dell’intero paese entro gli istituti della democrazia, secondo il modello delle grandi società industrializzate o il ristagno dell’intero paese nel pantano del sottosviluppo (…) A meno che non venga addirittura a significare, terza infausta alternativa, l’anticamera del divorzio tra l’Italia dello sviluppo e l’Italia del sottosviluppo (13).

Vent’anni dopo, la «terza infausta alternativa» si sta ponendo all’ordine del giorno con una forza che lo stesso Novacco certamente non avrebbe potuto immaginare, anche perché lo scivolamento nel «pantano del sottosviluppo» è da sempre una delle ipotesi, per così dire, più in voga nel dibattito sulla «questione meridionale»; una ipotesi del tutto infondata, dal momento che il capitalismo italiano storicamente è venuto a collocarsi nell’area forte del capitalismo mondiale, nonostante le molteplici “magagne“ che ne hanno caratterizzato lo sviluppo. Novacco ha però posto un problema reale, e cioè la necessità per il capitalismo italiano di procedere lungo la strada di uno sviluppo complessivo, più organico e diffuso; uno sviluppo che finalmente investa in maniera forte anche le aree del paese che oggi si trovano tagliate fuori non solo dal mercato europeo, ma che non riescono a ritagliarsi uno spazio nemmeno nell’area del bacino mediterraneo. Il dualismo Nord/Sud sembra esser giunto al suo punto critico, e la nascita del fenomeno leghista ne è il sintomo più evidente: la contraddizione socio-economica ha generato una contraddizione politica che ha squassato l’assetto istituzionale venuto fuori dalla seconda guerra mondiale; di più: essa sembra spingere lo stesso Stato nazionale oltre le forme impresse dal processo storico risorgimentale (alludiamo, naturalmente, alla «questione federalista»). Mentre negli altri paesi capitalisticamente avanzati le istanze di ammodernamento e di ristrutturazione del vecchio “Stato sociale“ hanno trovato, a partire dai primi anni Ottanta, una sponda nei tradizionali soggetti politici (i conservatori in Inghilterra, i repubblicani negli Stati Uniti, i neogollisti in Francia), l’Italia ha dovuto attendere la nascita di un soggetto politico “eversivo“ per conoscere la salutare (per il sistema-paese, è chiaro) “rivoluzione dei ceti produttivi“. Ma la Lega e la “rivoluzione dei ceti produttivi“ non nascono spontaneamente: alle loro spalle si staglia il lungo lavoro svolto dal PSI craxiano, rimasto vittima degli stessi processi economici, politici e istituzionali che esso aveva contribuito a mettere in moto scontando una feroce opposizione anche da parte di coloro che oggi ne hanno raccolto il testimone. Le necessità dello sviluppo capitalistico costringono la politica borghese a continui paradossi!

Le due grandi “ondate“ di investimenti industriali, pubblici e privati, nel Mezzogiorno – la prima è del 1955 e la seconda del 1965 – non hanno intaccato, se non marginalmente, la natura dei rapporti economici tra Nord e Sud; rapporti che, come già ricordato, hanno visto il Mezzogiorno rappresentare per lo più un mercato privilegiato di sbocco per la produzione settentrionale, e un fornitore di forza-lavoro a buon mercato non solo per il settentrione, ma anche per altri paesi europei ed extraeuropei (con un ritorno in termini di rimesse al paese d’origine tutt’altro che disprezzabile, sia dal punto di vista della bilancia dei pagamenti, sia dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica). In questo contesto lo Stato è stato chiamato continuamente a sussidiare i redditi delle popolazioni meridionali, soprattutto attraverso la spesa pubblica, che ha significato un’espansione nel Mezzogiorno del lavoro improduttivo, il quale non solo ha reso particolarmente esplosiva quella crisi del vecchio modello di “Stato sociale“ che pure si riscontra in tutti i paesi avanzati; ma ha ristretto pericolosamente la stessa base su cui può contare l’accumulazione, il solo processo che può sostenere l’intero sistema-paese. Come scriveva Otto Bauer a proposito della crisi economica europea degli anni Trenta, «le masse popolari delle regioni industriali depresse debbono essere mantenute a spese delle altre regioni.»; questo oggi sembra non essere più possibile, e il fenomeno leghista sta tutto dentro queste contraddizioni.

Fattori vecchi e nuovi; interni e internazionali; politici ed economici impongono al paese la definizione di una nuova strategia, di una “nuova politica economica“ per il Mezzogiorno. Naturalmente anche nel nuovo contesto il dato di partenza caratterizzato dalla presenza di una forza-lavoro a buon mercato può costituire un eccellente volano per lo sviluppo di quell’area, e di fatti in questo decennio i governi stanno rispolverando la vecchia teoria anglosassone delle «aree depresse», con annesse “gabbie salariali“ volte a spingere i salari meridionali verso i minimi contrattuali (ma di fatto ancora più giù). Ma lo scenario entro cui tale volano si colloca e può agire è ben diverso da quello precedente, caratterizzato dalla possibilità di una migrazione interna e internazionale delle popolazioni meridionali, e dalla possibilità per lo Stato di “drogare“ con la spesa pubblica il processo di accumulazione. E a ciò si deve aggiungere l’entrata in grande stile nell’agone della competizione capitalistica mondiale di paesi che possono contare su un costo del lavoro risibile se confrontato con quello italiano o tedesco, o francese. L’imperialismo sembra essere una strada che l’Italia può imboccare con successo per contrastare la concorrenza dei paesi emergenti dell’Est asiatico e dell’America Latina, e non a caso. Agli inizi degli anni Novanta l’Istituto di Studio per lo Sviluppo Economico individuava nell’Albania una grande opportunità per lo sviluppo del Mezzogiorno: «In definitiva il commercio estero albanese ha un forte orientamento regionale, specie nella sua componente esportativa. L’Italia (e il Mezzogiorno in particolare) è un partner di sicuro rilievo, così come l’Albania è interessante quale potenziale trampolino verso il mercato “regionale“» (14). Nel solo triennio 88-91 la quota del Mezzogiorno sul totale nazionale è variata dall’11 al 50% per le importazioni dall’Albania e dal 9,8 al 33,4% per le esportazioni verso l’Albania (dati ISVE).Non è certo privo di significato il fatto che l’Italia abbia presentato come suo primo contributo alla realizzazione di una grande rete trans-europea il progetto per la costruzione dell’autostrada Bari-Brindisi-Otranto, per un costo indicativo di 1000 milioni di Ecu.

Secondo Gad Lerner «L’Albania è la nuova frontiera dell’economia italiana (…), destinata a modificare i connotati al capitalismo italiano» (15). Ma non è solo Tirana a cadere sotto l’influenza del capitale italiano: 9300 miliardi di investimenti esteri ufficialmente censiti hanno interessato nel corso del 1995 altre aree deboli del Vecchio Continente. «Intanto che a Roma il governo discute con sindacati e confindustria su come abbattere il 10-20% il costo del lavoro – scrive Lerner – nelle zone ad alta disoccupazione, partono a migliaia i Tir carichi di macchinari industriali trasferiti in Slovacchia, Romania, Ucraina e Albania dove quel costo si abbatte al 90%» (16). Il capitalismo italiano è costretto a trovare fuori dai confini geografici del paese il suo nuovo Mezzogiorno.

Per questo è ridicolo dire del leghismo quanto disse nel 1924 il nittiano Finocchiaro Aprile, futuro capo del separatismo siciliano nel ’43, a proposito del fascismo: «è l’esponente del capitalismo settentrionale», senza prendere in considerazione il quadro complessivo che abbiamo cercato di abbozzare. Ed è altrettanto ridicolo sia pensare che risolta in qualche modo la «questione meridionale», il capitalismo italiano cesserà di essere una realtà sociale contraddittoria, dal momento che la contraddizione fondamentale capitale-lavoro non solo non verrà eliminata, ma verrà posta su un piano più alto; sia pensare che una simile soluzione non è affatto possibile nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Come scrive Nicolò De Vecchi, sintetizzando il concetto marxiano di crisi economica, «la produzione capitalistica non si svolge per meccaniche trasformazioni di “disarmonie“ in armonie (proporzionalità tra i settori ecc.), ma in condizioni di continui mutamenti delle forze produttive (…) Il capitale, valorizzandosi, non elimina, ma “supera la continua sproporzione“ tra le produzioni settoriali, in quanto provoca lo sviluppo delle forze produttive là dove la sproporzione si manifesta» (17). Noi rivendichiamo questo tipo di concezione dello sviluppo capitalistico, al cui centro è posto il processo di valorizzazione del capitale, rispetto al quale nulla – tranne il sistema dello sfruttamento della forza-lavoro! – è immutabile.

Certamente noi non attribuiamo la nascita dell’imperialismo moderno solamente o meccanicamente all’esigenza dei paesi capitalisticamente avanzati di liberarsi del surplus di capitale che li soffoca, attraverso la loro esportazione laddove l’investimento appare più redditizio. Sappiamo che al suo sviluppo concorrono diversi fenomeni di vario ordine: economici, politici, sociali, ideologici.

I rapporti che si sono instaurati dal ’92 in poi tra lo Stato italiano e quello – fatiscente – dell’Albania, sono un esempio di come l’imperialismo sia innanzitutto un fenomeno oggettivo complesso che reclama adeguate iniziative politiche. Ma è fuor di dubbio che le esigenze mutevoli e molteplici del capitale giocano nella sua genesi e nel suo concreto manifestarsi un ruolo assolutamente determinante. Indagare le forme particolari in cui tutti i fattori dell’imperialismo agiscono e si adeguano alle nuove condizioni dello sviluppo capitalistico è un compito tanto difficile quanto prezioso.

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NOTE

1. Ex uno Plures, su Limes 4/93.

2. Ivi.

3. Ivi.

4. Ivi.

5. E. Nolte, Intervista sulla questione tedesca.

6. K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali.

7. cit. in E. Ragionieri, Il marxismo e l’Internazionale.

8. Romano, I fattori della produzione, in AA.VV., Storia dell’economia italiana, III.

9. Vis-á-vis, autunno ’93.

10. E. Ciccotti, Sulla questione meridionale – Scritti e discorsi.

11. Bagnasco, Le tre Italie.

12. D. Novacco, La questione meridionale ieri e oggi.

13 Ivi.

14. ISVE, Il Mezzogiorno nel processo di internalizzazione.

15. La Stampa, 1/10/96.

16. Ivi.

17. N. De Vecchi, Crisi.