È SCOPPIATA UNA NUOVA GUERRA FREDDA?

Povero Vladimir!

Povero Vladimir!

Ieri Le figaro scriveva che la politica dei fatti compiuti inaugurata da Putin in Crimea ha messo in moto un ingranaggio che ci porterà in una nuova Guerra Fredda. Nel suo articolo pubblicato dal The New York Times e ripreso domenica scorsa da Repubblica, Thomas L. Friedman, forse il maggior teorico della globalizzazione capitalistica ai tempi della dorata era clintoniana, sostiene invece che la crisi ucraina non sta affatto precipitando il mondo in una nuova Guerra Fredda. «Io non penso che la Guerra Fredda sia tornata: la situazione geopolitica corrente è molto più complessa di allora. E non penso nemmeno che la cautela del presidente Obama sia del tutto fuori luogo». Tendo a concordare con questa tesi, sebbene sulla scorta di un ragionamento alquanto diverso da quello che regge la riflessione geopolitica di Friedman, a partire dalla stessa definizione di Guerra Fredda. Cosa fu la cosiddetta Guerra Fredda?

Vediamo come risponde il noto opinion leader di Minneapolis: «La Guerra Fredda fu un evento unico, in cui si fronteggiavano due ideologie globali, due superpotenze globali, e ognuna delle due aveva dietro armi nucleari che potevano colpire in tutto il mondo e un’ampia rete di alleati. Il mondo era diviso in una scacchiera rossa e nera e l’identità di chi governava le singole caselle poteva avere ripercussioni sulla sicurezza, il benessere e il potere di ognuno dei due schieramenti. Era anche un gioco a somma zero, in cui ogni guadagno per l’Unione Sovietica e i suoi alleati era una perdita per l’Occidente e la Nato, e viceversa». Come si vede, nel definire il concetto di Guerra Fredda Friedman mette avanti lo scontro ideologico fra due sistemi sociali alternativi, cosa che indusse Fukuyama, per la verità un po’ troppo in anticipo sui tempi, a dichiarare la fine della storia allorché uno dei due poli maggiori della contesa interimperialistica (quello cosiddetto Sovietico) crollò miseramente, e con una rapidità che allora sorprese solo chi ignorava la disastrata condizione dell’economia russa.

Ovviamente non nego l’importanza di quello scontro, ma nella misura in cui rifletto sui processi sociali mondiali da una prospettiva critico-radicale, e non da una prospettiva geopolitica, ciò che mi sta a cuore è fare luce sulla natura di quello scontro, ossia demistificarne il senso e la reale portata. Per riprendere la metafora dei colori proposta da Friedman, la scacchiera mondiale ai tempi della Guerra Fredda offriva allo sguardo di chi non si era lasciato intruppare in uno dei due fronti imperialistici un solo colore: quello nero, nero-imperialismo, per così dire. E non, si badi bene, un imperialismo con caratteristiche comuniste contrapposto a un imperialismo con caratteristiche democratiche, come lascia supporre lo stesso Friedman, ma due imperialismi basati sullo stesso fondamento sociale: quello capitalistico, sebbene esso si manifestasse in due diversi modelli (quello sovietico-statalista  e quello americano-liberale) che esprimevano il diverso retaggio storico delle due Super Potenze.

obama-putin-266123D’altra parte non si può chiedere la comprensione di queste “sottigliezze dottrinarie” a uno che nel 1999 scriveva la perla storico-sociologica che segue: «Rivoluzionari come Marx, Engels, Lenin e Mussolini si fecero avanti e dichiararono che era possibile eliminare le spinte destabilizzanti e brutali del libero mercato, costruendo un mondo emancipato dal capitalismo borghese senza regole […] Le alternative centraliste e non democratiche che offrivano – comunismo, socialismo, fascismo – contribuirono a bloccare il processo di globalizzazione dal 1917, quando cominciarono a essere applicate nel mondo reale, al 1989» (Le radici del Futuro, Mondadori, 2000). Ma come si fa a scrivere queste… insensatezze! Marx, Engels, Lenin e Mussolini gettati nello stesso sacco (cosa che all’anima del Duce forse non dispiace affatto), il comunismo concepito alla stregua di un capitalismo pianificato, centralizzato, non democratico, a conduzione statale.  Fino a che punto si può sfidare l’intelligenza delle persone? Vero è che anche molti “comunisti” hanno coltivato – e continuano a coltivare – lo stesso miserabile concetto di “comunismo”, e non a caso oggi il sovranismo statalista di “destra” è del tutto sovrapponibile a quello di “sinistra”, legittimando peraltro l’epiteto di fasciostalinismo.

Né, ritornando alla tesi iniziale, si può dire che la Guerra Fredda fu «un gioco a somma zero», e difatti lo stesso Friedman ammette che a quel gioco «abbiamo vinto noi», cioè gli Stati Uniti e il fronte capitalistico-democratico che a essi faceva riferimento.  Questo schieramento dà corpo alla categoria di quei Paesi che «puntano a costruire rispetto e influenza attraverso la prosperità della loro popolazione». Friedman, che riprende le tesi geopolitiche di Michael Mandelbaum, include in questa virtuosa categoria anche i Paesi del Mercosur in Sudamerica e dell’Asean in Asia. «Queste nazioni sono consapevoli che la tendenza più importante del mondo odierno non è quella che porta verso una nuova Guerra Fredda, ma quella che porta verso una fusione tra globalizzazione e rivoluzione informatica». Si contrappone a questa sorta di Asse della Prosperità, l’Asse della Potenza: «Paesi come la Russia, l’Iran e la Corea del Nord, guidati da leader che puntano innanzitutto a costruire autorità, rispetto e influenza attraverso uno Stato potente. E avendo i primi due il petrolio e il terzo armi atomiche da barattare con rifornimenti alimentari, i loro leader possono sfidare il sistema globale e sopravvivere, se non addirittura prosperare, giocando al vecchio e tradizionale gioco della politica della forza per controllare la loro regione».

È interessante notare come questa dualistica contrapposizione tra Prosperità e Potenza ricalchi lo schema proposto da Robert Kagan nel suo Paradiso e potere (Mondadori, 2003) a proposito del rapporto Europa-USA: «L’Europa sta voltando le spalle al potere […] Sta entrando in un paradiso poststorico di pace e relativo benessere: la realizzazione della “pace perpetua” di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale la vera sicurezza, la difesa e l’affermazione dell’ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza». Colombe contro falchi, Kant versus Hobbes, Venere contro Marte. Naturalmente niente di tutto questo, a uno sguardo meno superficiale.

In realtà declinare la potenza e la forza di un Paese a partire dalla sua dimensione politico-militare è sbagliato, soprattutto nel contesto della società-mondo del XXI secolo, nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto e tutti al Moloch capitalistico. Il confronto tra grandi potenze mondiali è sempre un confronto tra sistemi capitalistici, e difatti gli Stati Uniti vinsero la Prima guerra mondiale, la Seconda e la Guerra Fredda semplicemente perché il Capitalismo americano mostrò di essere di gran lunga quello più forte rispetto ai suoi competitor, e  a tutti i livelli: da quello della produzione materiale a quello finanziario, da quello tecnologico a quello scientifico, da quello organizzativo a quello ideologico.  Di qui, lo sforzo americano teso a scongiurare la formazione di un potente polo capitalistico di dimensione continentale, a cominciare naturalmente dal Vecchio Continente (l’Europa a trazione tedesca, ieri come oggi), ma senza trascurare il “pericolo giallo”: ieri il Giappone, oggi la Cina. Come ho scritto altre volte, l’Unione Sovietica perse la Guerra Fredda innanzitutto su un terreno schiettamente capitalistico, e bastava mettere a confronto la struttura industriale americana con quella sovietica per capire che alla lunga il successo avrebbe certamente arriso agli americani: altro che gioco a somma zero!

La verità è che oggi Friedman esprime quella tendenza isolazionista che ogni tanto, soprattutto in tempi di crisi economica (o dopo dolorose esperienze: vedi Vietnam, Afghanistan, Iraq), fa capolino negli Stati Uniti, e che si scontra con la tendenza “internazionalista” o interventista.  Dalla fine del XIX secolo l’elaborazione della politica estera americana deve fare soprattutto i conti con le due direttrici oceaniche: guardare verso l’Atlantico e verso il Pacifico, al contempo. L’alternanza di politiche “isolazioniste” e politiche “internazionaliste” ha molto a che fare con questa tensione geopolitica, ossia col prevalere, mai però in termini assoluti, degli interessi atlantici (relazione America-Europa) piuttosto che di quelli legati alle relazioni economiche con l’area del Pacifico.

Obama3333-960x640Scrive Friedman nella sua qualità di avvocato difensore del Presedente Obama, accusato «ingiustamente» dai “falchi” a stelle e strisce di essere fin troppo timido «nel difendere i nostri interessi o i nostri amici»: «C’era [ai tempi della Guerra Fredda] la politica del “contenimento”, che ci diceva cosa dovevamo fare e che dovevamo farlo quasi a qualsiasi prezzo. Oggi chi contesta Obama dice che dovrebbe fare “qualcosa” sulla Siria. Lo capisco. Il caos che regna laggiù potrebbe finire per far sentire i suoi effetti nefasti anche da noi. Se esiste una politica in grado di risolvere la situazione siriana, o anche semplicemente di fermare le uccisioni in modo stabile e duraturo, a un costo sopportabile e che non vada a discapito di tutte le cose che dobbiamo fare qui in patria per garantire il nostro futuro, contate pure sul mio sostegno». Gli interessi degli Stati Uniti innanzitutto. Come sempre, del resto, ma nel modo adeguato al sempre più veloce, «liquido» e competitivo mondo post Guerra Fredda: «La guerra fredda ruotava intorno all’equazione massa-energia di Einstein: e = mc². La globalizzazione, invece, tende a gravitare intorno alla legge di Moore, la quale stabilisce che la capacità di elaborazione di un microchip raddoppia in un periodo compreso fra i diciotto e i ventiquattro mesi, mentre il costo si dimezza» (T. L. Friedman, Le radici del futuro). Personalmente tendo a dar credito alla legge di Marx, la quale spiega i processi sociali fondamentali che rigano il tutt’altro che liscio mondo di oggi a partire dalla ricerca del massimo profitto: nella sfera economica come in quella geopolitica. Anche la sfera delle cosiddette relazioni umane non mi sembra poi così estranea da questa maligna ricerca.

Michael Cohen della Century Foundation esprime bene l’attuale orientamento strategico degli Stati Uniti: «Quel che c’è di sbagliato [nelle analisi dei falchi antiobamiani] è il focus delle critiche. Il cuore del problema non è tanto come Obama deve rispondere ai russi ma perché […] La vera domanda è cosa sono disposti a fare gli altri. Non solo in Ucraina, ma anche in Siria, Medio Oriente e Iran. John F. Kennedy diceva: non domandatevi quello che l’America può fare per voi, piuttosto chiedetevi quello che voi potete fare per l’America. Adesso è il momento di chiarire cosa l’Europa è in grado di fare per se stessa. Troppe nazioni sono state al riparo dell’ombrello di sicurezza statunitense, in Europa e non solo» (Limes, 12 marzo 2014). È facile affettare pose da colomba kantiana al riparo del costoso apparato di sicurezza americano! Troppo comodo indossare i panni di Venere quando si può contare sui missili atomici intercontinentali dell’antipatico dio della guerra!

merkel-deutschlandtag-jungen-unionDa Le figaro a Libération, dal Times al Financial Times è tutto un grido di dolore: l’atto di forza putiniano fa strame del diritto internazionale! Come ho critto altrove, chi contrappone la forza al diritto mostra di possedere o una grande ignoranza dei fatti storici e del mondo in cui abbiamo la ventura di vivere, oppure una notevole dose di cinica ipocrisia. Nella politica in generale e nella politica estera in particolare il Diritto equivale a Forza, di più: il Diritto è Forza (materiale, politica, culturale, ideologica, psicologica, in una sola parola: sistemica)*. «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro “Stato di diritto”» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, La Nuova Italia, 1978).

Il diritto della Russia di annettere la Crimea con tutti i mezzi necessari è inscritto non solo nel retaggio storico dell’impero russo, dagli zar “neri” a quelli “rossi” e infine tricolori, ma in primo luogo nei suoi interessi nazionali. Il diritto di europei e americani di contrastare questa annessione è radicata sulla stessa base, risponde cioè alla stessa logica, la logica di Potenza. Ed è precisamente questa logica che bisogna demistificare, per far emergere la natura capitalistica della competizione interimperialistica nascosta dietro le solite menzogne ideologiche intorno al «diritto di autodeterminazione dei popoli», alla «libertà dei popoli», alla «pace», alla «democrazia», allo «Stato di diritto» e via discorrendo.

Tutti gli osservatori di politica internazionale oggi denunciano l’impotenza dell’Europa dinanzi alle velleità egemoniche della Russia: «L’Europa ha abdicato alla sua funzione di potenza benevola, e così ha tradito le generose aspettative degli ucraini. A Piazza Maidan si è versato sangue inutilmente». Insomma, si fa finta di non sapere che non esiste alcuna Europa, se non come mera espressione geografica, almeno dal punto di vista geopolitico. Esistono invece gli interessi della Germania, della Francia, dell’Inghilterra, della Polonia, dell’Italia e così via; interessi nazionali che non sempre entrano in reciproca sintonia sulle questioni di fondamentale importanza riguardanti l’assetto geopolitico e geoeconomico del Vecchio Continente e del pianeta.

Sul Financial Times Peter Spiegel invita i leader europei a superare la sindrome che ha condotto il Giappone all’attuale impasse sistemico: agire e considerarsi come un gigante economico e un nano politico. L’Europa deve ritornare a «pensare in modo strategico», e come sempre la chiave del problema si chiama Germania. Non c’è dubbio. La maledetta Questione Tedesca è più viva che mai.

* Da Il mondo è rotondo:

Come il grande Capitale domina e il più delle volte sfrutta, soprattutto attraverso strumenti tecnologici, quello medio e piccolo, analogamente le grandi potenze esercitano di fatto, e spesse volte anche di diritto (soprattutto alla fine di una guerra), il loro dominio sulle potenze medie e piccole come su ogni altra configurazione politico-istituzionale nazionale e transnazionale. È il diritto del più forte, certamente; quello che ha segnato la storia del Dominio sociale negli ultimi tremila anni. Come sanno bene i teorici del realismo geopolitico è la forza organizzata delle nazioni, che ha nello Stato la sua più puntuta espressione, che gioca un ruolo fondamentale nei rapporti tra gli Stati, che sono appunto rapporti di forza, di potenza, mentre la fumisteria della propaganda ideologica vi svolge una funzione assai modesta, esercitata soprattutto ai danni delle cosiddette opinioni pubbliche internazionali.

D’altra parte, il dominio delle grandi potenze ha sempre avuto un carattere relativo e tendenzialmente transitorio. Per un verso le nazioni assoggettate alla Potenza dominante, o soltanto egemone, fanno di tutto per tutelare nei limiti del possibile i loro peculiari interessi, e per ricavare dal particolare sistema di alleanze nel quale sono inserite il maggiore vantaggio possibile, il che spesse volte costringe la nazione collocata al centro di quel sistema a pagare un prezzo molto salato sull’altare della propria leadership. La storia dell’Alleanza imperialistica dominata dagli Stati Uniti è molto istruttiva a tal proposito. Questo per un verso. Per altro verso, l’ascesa e il declino, assoluto o solo relativo, delle grandi Potenze testimoniano del carattere dinamico dei rapporti di forza che vengono a stabilirsi tra le nazioni.

MALEDETTI TEDESCHI! La Germania accerchiata dagli “amici”

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Essendo la guerra lo stato normale dell’Europa era d’uopo che la Francia si garantisse, diminuendo il territorio e la potenza economica della Germania. Perciò la sola pace possibile era una pace cartaginese (L. Einaudi, Corriere della Sera, 15 febbraio 1920).

Prima l’ennesimo taglio dei tassi di cambio deciso da Mario Draghi, il nuovo idolo dei «Paesi periferici» (Francia declassata inclusa), poi la procedura di infrazione per il surplus delle partite correnti. Con una terminologia bellica tutt’atro che fuori luogo potremmo dire che i Paesi “amici” della Germania stanno tentando una manovra di accerchiamento ai suoi danni, per costringerla in una posizione dalla quale essa potrebbe venire fuori solo indebolendosi sul piano sistemico. Una manovra che a tutta prima appare  abbastanza azzardata e tutto sommato poco realistica.

L’ultima trovata degli “amici” di Berlino si chiama lotta al nazionalismo economico della Germania. Bruxelles, sulla scia di Washington, accusa il governo tedesco di non fare abbastanza per aiutare i partner dell’eurozona a uscire dalla crisi economica, innescando un circolo vizioso di portata globale. Si imputa al Capitalismo tedesco un eccesso di potenza economica, e si finge di prendere di mira il modello economico della Germania, basato sulle esportazioni e sui bassi salari, dalla prospettiva della costruzione di «una vera Federazione Europea». La Germania, sostengono i Paesi “amici”, non collabora alla riduzione degli squilibri economici (industriali e finanziari) regionali che indeboliscono l’edificio europeo, ma piuttosto fanno di tutto per accentuarli. «Dov’è finito lo spirito europeista della Germania?» La tanto osannata «economia sociale di mercato» tedesca sembra essere diventata di colpo una mostruosa macchina che semina disoccupazione, precarietà e miseria. «Più che all’Europa, la Germania di oggi sembra appartenere al mondo asiatico». L’ipocrisia degli “europeisti” in questi giorni sta toccando livelli prossimi al parossismo.

Il premier italiano ha colto l’occasione della «sculacciata alla culona» per esternare le solite banalità intorno alle responsabilità politiche che deriverebbero alla Germania dal suo ruolo di locomotiva europea. «Occorre un bilanciamento tra onori ed oneri». Pare che appresa la folgorante battuta lettiana la Merkel si sia prodotta in una teutonica risata che ha surclassato le sue risatine ai tempi di Berlusconi premier. Lo scialbo Hollande non sa che dire, talmente palese è la crisi sistemica nella quale versa la Francia, che trova una puntuale espressione anche nella personale débâcle politica del premier socialista. Solo un raid militare in Africa o in Medio Oriente potrebbe arrestare la sua inesorabile caduta di popolarità nei sondaggi.  Sempre che nel caso tutto fili liscio, beninteso.

imagesPersino un portoghese, che secondo la retorica antitedesca di questi giorni dovrebbe avere il dente particolarmente avvelenato con i tedeschi, è in grado di capire la magagna “europeista”: «Con il rischio di essere accusato di scarso patriottismo, non penso che la soluzione migliore passi attraverso un aumento delle spese in Germania. In primo luogo chi dovrebbe spendere di più: le imprese o lo stato? È difficile, se non impossibile, imporre alle imprese tedesche aumenti salariali che metterebbero in crisi la loro competitività» (A. Costa, Non prendiamocela con le esportazioni tedesche, Diário Ecónomico, 13 novembre 2013). Si pretende dai competitori che non piacciono perché troppo forti che essi gareggino con l’uso di un solo piede e di un solo braccio: troppo comodo, non vi pare?  Comunque sia, difficilmente la Germania accetterà di obbedire ai diktat di Washington e di Bruxelles. «Alcuni economisti sostengono che la riduzione dello squilibrio dovrebbe partire proprio dalla Germania che, a questo punto della storia, dovrebbe aumentare le importazioni verso i paesi dell’area valutaria in difficoltà oppure aumentare i propri salari […] Ma pare che la Germania non stia intraprendendo questa strada. Un recente sondaggio del Wall Street Journal, condotto su 19 blue-chip tedesche industriali attesta che queste stanno spingendo su un trend partito già da tempo: puntare su un mercato di sbocco alternativo a quello europeo, che finora è valso circa la metà del surplus commerciale» (Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2013).

Secondo quanto riporta oggi il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, anche il governo di grande coalizione tedesco in gestazione non prevede per il futuro dell’eurozona alcuna condivisione del debito. In particolare, il rifiuto degli eurobond e dei fondi di riscatto è dato per sicuro. Piegare il «nazionalismo economico tedesco» non sarà un’impresa facile.

Scrive Thilo Sarrazin, un progressista tedesco che non ama l’euro: «Si sente e si legge spesso la seguente opinione: poiché i paesi del Sud dell’eurozona, così propensi a importare, garantiscono attraverso la loro domanda moltissimi posti di lavoro in Germania, hanno quasi un diritto morale a ottenere dalla Germania anche i mezzi con cui pagare le esportazioni tedesche […] Malgrado la moneta comune, l’interscambio della Germania con l’eurozona si riduce. Paradossalmente una delle cause è proprio la valuta unica, che pure avrebbe dovuto favorire l’interscambio […] Evidentemente l’industria tedesca porta via dai Paesi del Sud Europa una parte delle attività che vi aveva esternalizzato, dato che quei Paesi sono diventati troppo cari, e aumenta la quota di esternalizzazione verso altre aree, per esempio la Cina» (T. Sarrazin, L’Europa non ha bisogno dell’euro, p. 41, Castelvecchio, 2012). D’altra parte, «L’unione monetaria europea richiede, per funzionare come si deve, che le economie reali e le società di tutti gli Stati membri si comportino, più o meno, secondo gli standard tedeschi. Si tratta di un’impresa mostruosamente ambiziosa e difficile, che molti Paesi toccati dalla crisi vedono, non del tutto a torto, come una forma di arroganza teutonica» (ivi, p. 195). Dal canto suo, la Germania concepisce se stessa come un «facile ostaggio di tutti coloro che, nell’ambito dell’eurozona, dovessero avere bisogno di aiuti economici per qualsiasi motivo». Di qui, per Sarrazin, l’urgenza di ripristinare un sano realismo nella politica estera dei più importanti Paesi del Vecchio Continente, cosa che dovrebbe consigliare ai leader di questi Paesi l’abbandono della moneta unica, almeno in questa fase. «La storia recente, non soltanto tedesca, ci insegna che l’idea che nel lungo periodo sia possibile sostenere un’unione economica e monetaria senza un’unione politica è un’assurdità» (ivi, pp. 6-7). E siccome oggi un’unione politica europea non può non assumere i connotati di una germanizzazione dell’Europa, e non certo di un’europeizzazione della Germania, sarebbe opportuno rimandare sine die la concretizzazione del «sogno europeista». Questo sempre secondo il realista Sarrazin.

illChecché ne pensino gli “idealisti” dell’Europa Federale, la Potenza, declinata in ogni modo possibile, gioca come e più di prima un ruolo centrale nei processi storici. Quando Umberto Eco sostiene che l’identità dell’Europa è il dialogo e la cultura, «niente che si possa cancellare malgrado una guerra» (L’Espresso), egli mostra tutti i limiti del pensiero progressista, il quale non riesce a fare i conti con la cattiva realtà di una società lacerata da conflitti d’ogni genere. La riscoperta della dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni anche nel cuore del Vecchio Continente ha spiazzato non pochi intellettuali progressisti, i quali faticano sempre più ad arrampicarsi sugli specchi del politicamente – e culturalmente – corretto.

Paul Krugman si è fatto portavoce degli interessi del fronte unico antitedesco: «I tedeschi sono sdegnati: sdegnati con il dipartimento del Tesoro Usa, che con il suo rapporto semestrale sulle politiche internazionali per l’economia e i tassi di cambio dice cose negative sugli effetti che le politiche macroeconomiche della Germania producono sull’economia mondiale. Esponenti del Governo di Berlino hanno dichiarato che le conclusioni del rapporto sono “incomprensibili”: una definizione un po’ strana, considerando che si tratta di considerazioni assolutamente ovvie. Normalmente ci si aspetterebbe che l’aggiustamento sia più o meno simmetrico, con i Paesi in surplus che riducono l’attivo e i Paesi in deficit che riducono il passivo. Ma la Germania non ha corretto la rotta e il miglioramento delle partite correnti nei Paesi della periferia dell’euro è avvenuto a scapito del resto del mondo. Pessima cosa. Siamo in una situazione mondiale di domanda inadeguata, con il paradosso della parsimonia (le persone risparmiano danneggiando l’economia) che la fa da padrone. Tenendo in piedi un’eccedenza nel saldo con l’estero sproporzionata, la Germania sta penalizzando crescita e occupazione a livello mondiale. Forse i tedeschi lo troveranno incomprensibile, ma è l’Abc della macroeconomia» (P. Krugman, Berlino danneggia l’economia globale, Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2013). Diciamo piuttosto che è l’Abc dell’economia politica keynesiana, la quale, com’è noto, è ossessionata dai meccanismi che regolano la domanda, senza peraltro comprendere l’essenza dell’economia capitalistica, la quale non è un’economia orientata verso il consumo, tanto meno quello “di massa”, ma verso il massimo profitto possibile.  Il sottoconsumismo d’ogni genere deve necessariamente rimanere impigliato nella fitta rete degli effetti, che i sottoconsumisti assumono puntualmente come cause.

Il saggio del profitto come reale regolatore dell’economia capitalistica è un concetto che ai keynesiani deve rimanere necessariamente estraneo, dal momento che la loro attenzione è tutta concentrata sui fenomeni che rigano la sfera della circolazione, da essi concepita come il fondamento dell’economia di mercato.  Di qui il loro disprezzo per le persone che «risparmiando danneggiano l’economia» perché sottrarrebbero al motore dell’«economia reale» il necessario carburante. L’intimo nesso che lega l’investimento di capitali al livello del saggio del profitto rimane escluso dall’orizzonte dei keynesiani; essi non hanno ancora compreso come la stessa quota di domanda generata dalla spesa pubblica dipenda, in ultima analisi, dal livello di redditività del capitale e dalla massa di capitale accumulato sulla scorta di questa redditività. Se la valorizzazione primaria del capitale (ossia la produzione del plusvalore nella sfera industriale) langue, è asfittica o è comunque tale da scoraggiare l’ampliamento della base produttiva ovvero la formazione di nuove iniziative imprenditoriali, la massa di liquidità monetaria messa a disposizione dal sistema creditizio non solo non genera nuovi investimenti produttivi, ma crea piuttosto i presupposti per nuove avventure speculative*.

In un post del 2012 (Scenari prossimi venturi) azzardavo l’«ipotesi politicamente scorretta» che segue: «Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai suoi partner? “Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!”. Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’Ue? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista (vedere l’editoriale di Barbara spinelli pubblicato ieri da Repubblica e l’editoriale di Marco D’Eramo sul Manifesto di oggi) ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni».

Una riflessione che a quanto pare trova oggi più d’una conferma. Lo ammetto: immaginare il peggio per il futuro dell’Unione europea non è impresa difficile.

Regina d'Europa...

Regina d’Europa…

Scrive Bernard Guetta: «La Commissione non sbaglia quando sostiene che la Germania dovrebbe riequilibrare la sua economia per non mettere in pericolo se stessa e il resto dell’Unione, di cui è la prima potenza economica. Come gli altri stati europei e diversi economisti, anche gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale sottolineano che il rilancio dell’economia mondiale deve passare necessariamente per la Germania, che si trova nella posizione ideale per favorirla perché può permettersi di aumentare i salari, i consumi e le importazioni» (Il cerchio si strige su Angela Merkel, Internazionale, 15 novembre 2013). Notare il necessariamente. La pressione che gli “amici” di Berlino stanno facendo sulla troppo (sic!) parsimoniosa, competitiva ed egoista Germania lascia immaginare una possibile ripresa in grande stile del nazionalismo politico tedesco. Mutatis mutandis, la Questione tedesca (che è una Questione Europea e mondiale) non smette di produrre storia.

imagesIntanto Barbara Spinelli continua a fare il «Processo alla Germania rimasta senza memoria»: «Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell’austerità puntarono tutto sulle esportazioni, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato a Hitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il ’33 nel ’32 e il 43,9 nel ’33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles: la Germania sopra ogni cosa» (La Repubblica, 15 novembre 2013). Un promemoria davvero coi fiocchi per gli “amici” teutonici. Della serie: Paese avvisato… Forse la Spinelli pensa, come Bismarck, che il tedesco non capisce e non può comprendere null’altro fuorché l’intimidazione. La sindrome di Cartagine è sempre in agguato.

*Scriveva Luigi Einaudi nel 1933 (Riforma Sociale) prendendo di mira il sottoconsumismo e la deriva psicologista di Keynes: «Normalmente, il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti […] Ma l’imprenditore opera, ossia rischia, quando vede la possibilità di un profitto […] Oggi il contatto non si opera perché l’imprenditore non spera profitti» (L. Einaudi, cit. tratta da Il mio piano non è quello di Keynes, p. 204, Rubettino, 2012).

LO SPETTRO DELLA POTENZA TEDESCA. Il punto sulla guerra in Europa

130315newstatesman«Uno spettro si aggira di nuovo per l’Europa: lo spettro della potenza tedesca». Così ha scritto, molto sobriamente, lo storico Brendan Simms sul settimanale New Statesman, dedicato all’annosa, quasi eterna, Questione Tedesca. In effetti, lo spettro della potenza tedesca non ha smesso mai di inquietare le nazioni europee, neanche all’indomani della tabula rasa del ’45 e la divisione geopolitica del Paese situato al centro del Vecchio Continente. Tant’è vero che, come osserva correttamente lo storico tedesco, l’Unione Europea è stata in larga misura concepita per controllare e marcare da vicino la potenza sistemica della Germania, e magari usarla in funzione antirussa e antiamericana.

Un Paese forte economicamente ma debole politicamente, e in più annichilito sul piano morale e psicologico a causa delle note vicende, sembrava costituire, per nazioni uscite dal massacro mondiale debilitate fin quasi al completo esaurimento, un’ultima chances per continuare a pesare sulla bilancia della competizione imperialistica mondiale.  Questo è stato vero soprattutto per la Francia, la cui tradizionale grandeur ha dovuto fare i conti con un declino sempre più accentuato del suo status di potenza capitalistica. L’Inghilterra, invece, è sempre stata più guardinga nei confronti di Berlino e del suo “asse” con Parigi, e più volte la Thatcher, nemica del politicamente corretto affettato nelle paludate stanze della diplomazia europea, non ha mancato di evocare dinanzi ai partner francesi la sindrome della mosca cocchiera. Non è Parigi che guida il cocchio!

«Non affrettiamo i tempi dell’unificazione politica e monetaria»: questo fu il mantra più ripetuto ai leaders europei dalla Lady di ferro non appena il processo di unificazione subì, dopo la caduta del muro di Berlino, una brusca accelerazione. Per Londra il legame preferenziale dell’Inghilterra con gli Stati Uniti è, oggi più di ieri, un cardine intangibile della sua politica estera, una vera e propria polizza di assicurazione strategica, la sua salvezza di ultima istanza.

Oggi, scrive Simms, la Germania «Sta scomodamente al centro di un’Ue che è stata concepita soprattutto per limitare la potenza tedesca ma che ha invece contribuito ad accrescerla»: eterogenesi dei fini, o dialettica del processo sociale che dir si voglia. E continua: «Errori di progettazione hanno involontariamente privato molti altri paesi europei della loro sovranità senza dar loro in cambio una leva democratica nel nuovo ordine». Non di «errori di progettazione» si tratta, ma di una guerra sistemica che continua, mutatis mutandis, ormai da oltre un secolo, e la cui posta in gioco è, oggi come ieri, l’egemonia nel Vecchio Continente. Né più né meno. Oggi come ieri si decide, mutatis mutandis, la scala gerarchica della potenza sistemica (capitalistica) tra i Paesi europei, i quali sono attraversati da due esigenze che non sempre entrano in armonia tra loro: difendere gli interessi nazionali e costruire insieme agli altri Paesi “fratelli” – o “cugini”: il grado di parentela è abbastanza variabile… – un blocco economico-sociale in grado di reggere l’urto della concorrenza totale degli altri blocchi mondiali, a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti e dalla Cina. Difendere e, allo stesso tempo, cedere sovranità su ogni versante della prassi nazionale: un’equazione per nulla facile.

Il nodo attorno a cui si aggrovigliano i più scottanti problemi europei è appunto sempre quello: la Questione Tedesca. Come usare e al contempo arginare la Potenza Sistemica (economica, scientifica, istituzionale, culturale: in una sola parola sociale) della Germania? Pensare la Questione Tedesca nei termini di una Questione Europea, e viceversa, è non solo fondato sul piano storico-sociale, ma è a mio avviso il solo modo adeguato di inquadrare il problema senza cadere nelle antinomie politico-ideologiche degli europeisti e dei sovranisti.

Il concetto chiave che attraversa la mia riflessione intorno alla crisi del progetto europeo è quello di Guerra Sistemica, in corso nel Vecchio Continente come momento di un’analoga Guerra che abbraccia l’intero pianeta. Le riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista ci offrono un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, insipienze politiche, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, i conti con la dimensione del conflitto tra i capitali e tra le nazioni rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia, la quale, com’è noto, se ne infischia degli auspici scritti sulla sabbia dei pii desideri.

BALLAMAN_greece-vs-germanySimms mette in guardia Berlino dall’ondata di «germanofobia politica e popolare» che rischia di abbattersi ancora una volta come uno tsunami sulla Germania, e Dominic Sandbrook, un altro storico, scrive sul Daily Mail che secondo un numero crescente di europei «per la terza volta in meno di cento anni la Germania sta cercando di prendere il controllo dell’Europa»: «Se i tedeschi continuano a imporre brutali ristrettezze economiche ai popoli d’Europa, le conseguenze in termini di alienazione sociale, dispute internazionali e ascesa dell’estremismo politico potrebbero essere drammatiche». Per gettare acqua sul fuoco l’ex presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker ha proposto sul Der Spiegel un tranquillizzante parallelo tra il 2013 e il 1913, l’anno che precedette lo scoppio della Grande Guerra.

Boldini1-153x300Mentre indosso il metaforico – per adesso – elmetto sale alla mia bocca un grido: Ridatemi almeno uno scampolo di belle époque!

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I DILEMMI DELLA «COALIZIONE DISTRIBUTIVA»

bersani-torino_jpg_415368877Dalle pagine del Corriere della Sera Antonio Polito (ieri) e Angelo Panebianco (oggi) hanno posto al centro della riflessione politica del Bel Paese la magagna regina, assai scabrosa da tematizzarsi nel corso di una campagna elettorale: «Ha scritto Lorenzo Bini Smaghi sul Financial Times che la parola mancante di questa campagna elettorale è quella cruciale: competitività. La nostra non è migliorata neanche dopo la crisi, nonostante la cura da cavallo della svalutazione interna: è infatti cresciuta meno che in Spagna e Irlanda, perfino meno che in Grecia» (Antonio Polito).

Se il sistema Paese non è competitivo sul terreno economico, non può certo sperare di esserlo su quello dell’azione politica, e ciò spiega il ruolo del tutto marginale che l’Italia sta giocando sui tavoli europei, dove peraltro si consuma l’ormai quotidiana lotta tra interessi nazionali diversi e persino contrapposti, a ulteriore conferma che, oggi come ieri, non esiste l’Europa, né quella sognata dai «padri costituenti europei» dopo la Seconda guerra mondiale, né quella architettata a tavolino negli anni Novanta dai tecnocrati basati a Bruxelles. Ciò che esiste è un agglomerato di Paesi accomunati da una sola impellente necessità: far fronte alla competizione sistemica (economica, finanziaria, scientifica, tecnologica, politica, militare) nella Società-Mondo del XXI secolo, dominata dai grandi blocchi capitalistici.

È del tutto logico, oltre che storicamente fondato, che questa necessità debba fare i conti, per un verso con gli interessi nazionali dei Paesi europei, e per altro verso con un fatto ineludibile: la supremazia sistemica della società capitalistica tedesca. Detto in altri termini, non si tratta di giungere a una “sintesi” politico-istituzionale sulla base di strutture sociali nazionali che si equivalgono e che in qualche modo si completano vicendevolmente, quanto di adeguare la comune esigenza di non scivolare nel baratro dell’irrilevanza al fatto incoercibile dell’ineguale sviluppo capitalistico in Europa.  Ecco perché da sempre la Questione Tedesca è la Questione Europea, e viceversa. Scriveva Galli Della Loggia nel remoto 1993: «Un equilibrio richiede una gerarchia. Senza un dominus non si costruisce nessun sistema stabile. Il dominus in Europa non può essere che la Germania» (Limes, 1-2 93). Dopo vent’anni il dibattito tra europeisti “tiepidi” ed europeisti “senza se e senza ma” è ancora inchiodato penosamente a questo punto cruciale.

Per non farsi fagocitare dagli altrui interessi nazionali il Bel Paese deve crescere in termini di produttività sistemica, e questo presuppone un secco attacco al parassitismo sociale che assorbe una fetta troppo cospicua di risorse finanziarie attraverso il drenaggio fiscale, il cui peso schiaccia l’accumulazione capitalistica, la sola in grado di generare ricchezza nell’attuale forma capitalistica. «Non ci sono più pasti gratuiti», scriveva ieri Polito; in realtà non ci sono mai stati, perché la “gratuità” ad un polo ha avuto come presupposto un esborso al polo opposto, magari mediato dallo Stato.  D’altra parte, lo scontro tra «formiche» e «cicale» ha una dimensione Continentale, come prova l’ultima «deludente» performance dell’Unione.

La nostra economia è ferma da vent’anni, scrive Panebianco, e le necessarie riforme strutturali sono state bloccate dalle «coalizioni redistributive», quelle che hanno privilegiato la distribuzione della ricchezza, mentre le «coalizioni produttive», interessate alla generazione della ricchezza, sono ancora troppo deboli, come da ultimo ha dimostrato il governo di Mario Monti, la cui spinta propulsiva pro-riforme si è esaurita subito. Naturalmente, continua Panebianco, a nessun politico sfugge l’esigenza di ristrutturare il Sistema-Paese, ma tutti hanno paura di innescare «conflitti incontrollabili». Ecco perché, conclude l’editorialista del Corriere, dobbiamo accettare di buon grado i vincoli europei, i quali ci salvano dai nostri stessi vizi. Se non cambiamo in fretta dovremo subire col sorriso sulle labbra diktat franco-tedeschi ancora più duri e stringenti: per Panebianco la “terza via” del perenne accomodamento “distributivo” ci porta dritti al fallimento, alla stregua di un «grande Belgio».

Intanto, la presenza alla Convention torinese dei progressisti europei dell’ex Cancelliere tedesco Schröder, autore della «più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck» (Paolo Valentino, Corriera della Sera del 31 maggio 2012) e sponsor di un governo Bersani-Monti, non lascia presagire nulla di buono per le classi subalterne chiamate tra qualche giorno a scegliere la frusta di turno.

BERLINO CONDUCE LE DANZE E SCRIVE LA MUSICA

Per Wolfgang Münchau la riunificazione tedesca è stata il «peccato originale» alla base dell’attuale crisi del progetto di unificazione europea.  «Grande appassionato di metafore, Kohl non mancava mai di parlarci delle due facce della stessa medaglia: l’unità della Germania e quella dell’Europa. La formula era intrigante ed è probabile che anche lui abbia voluto crederci. Ma purtroppo si è rivelata falsa. L’unità tedesca non è il rovescio dell’unità europea, ma piuttosto la sua antitesi» (Der Spiegel, 3 ottobre 2012). Se l’unità europea è vista dalla prospettiva del pensiero dominante in Europa, che è poi quello cha fa capo alle classi dominanti e ai gruppi dirigenti dei diversi Paesi del Vecchio Continente, non c’è dubbio che la lamentela di Münchau ha un qualche fondamento; ma non ne ha nessuno se facciamo riferimento al processo sociale reale che ha rigato nell’ultimo secolo il tessuto della storia europea. Mi riferisco innanzitutto alla Germania come potente centro gravitazionale dell’unificazione europea.

La Frankfurter Allgemeine del 27 luglio 1978 annunciava che il marco era diventato «il secondo attivo internazionale di riserva», e che «non è escluso che l’estero detenga già oggi più riserve in marchi che in lire sterline. Il marco sarebbe così diventato – involontariamente – la seconda moneta di riserva dopo il dollaro». I tedeschi quasi si scusavano («involontariamente») per il sorpasso fatto dal capitale finanziario tedesco ai danni della più blasonata potenza finanziaria inglese. Interessante è anche la mappa geo-finanziaria fornita dal quotidiano di Francoforte per descrivere l’area del marco: Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Norvegia e Austria, tutti Paesi che un tempo facevano capo allo spazio finanziario dominato dalla sterlina. Il successo finanziario della Germania naturalmente registrava un fatto «strutturale» di più ampia portata, dalle forti conseguenze politiche, ossia l’ascesa del capitalismo tedesco.

In effetti, alla fine degli anni Sessanta, cioè a conclusione del lungo ciclo espansivo post-bellico, la distanza sistemica fra Stati Uniti ed Europa si era di molto ridotta, ma attraverso una dinamica interna europea fortemente diseguale e disomogenea. Inghilterra e Germania Occidentale rappresentavano “plasticamente” i poli opposti di questa dinamica: la prima sempre più declinante, la seconda in continua, e sempre più rapida, ascesa. La Francia e l’Italia cercavano di ritagliarsi spazi di manovra oscillando, a volte assai contraddittoriamente, fra questi due poli, e sempre tenendo nella dovuta considerazione i rapporti di forza tra le due sponde dell’Atlantico. Gli Stati Uniti giocavano naturalmente sulle divisioni intereuropee, secondo la tradizionale strategia delle potenze dominanti (divide et impera), senza d’altra parte indebolire, per quanto possibile, la «relazione speciale» con l’Inghilterra, sempre in funzione antitedesca.

Già nella prima metà degli anni Settanta il «modello tedesco» si afferma come il solo motore in grado di trainare la locomotiva europea, e la leadership politica del Vecchio Continente è costretta a prenderne atto, facendo buon viso europeistico a cattiva sorte. Quando Romano Prodi scrisse, nel 1991 (Il capitalismo ben temperato), che «Dal punto di vista politico cresce sempre di più la paura (e il rischio) che la Germania utilizzi la propria forza e la propria diversità per mutare a suo favore gli squilibri ancora esistenti all’interno della comunità economica europea», egli per un verso espresse la più che fondata preoccupazione delle nazioni europee strutturalmente più deboli nei confronti del colosso tedesco, e per altro verso presentò una fotografia già vecchia e ingiallita.
Lungi dal contraddirsi e contrapporsi reciprocamente, espansionismo economico tedesco ed europeismo tedesco hanno rappresentato, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, le due facce di una stessa medaglia, la cui complessa natura si compendia nel tradizionale concetto di questione tedesca. L’unificazione dell’Europa sotto la spinta del possente apparato industriale, commerciale, finanziario,  tecnologico e scientifico tedesco è una tendenza oggettiva che può bensì essere ostacolata, rallentata e persino battuta militarmente, ma che non può venir sradicata definitivamente, come il «secolo breve» che ci sta alle spalle ha dimostrato ampiamente, e come stiamo sperimentando un’ennesima volta, non per colpa di qualcuno, bensì a cagione di processi sociali che hanno nella potenza dell’economia il loro più forte impulso.

Nel mondo venuto fuori dalla seconda carneficina mondiale il vecchio nazionalismo teutonico non aveva più alcun senso, nessuna presa materiale e psicologica, né un effettivo radicamento negli interessi nazionali della Germania sconfitta e squartata. L’orizzonte europeista si dà per la Germania, al contempo, come sanzione di una sconfitta e come prospettiva di una pronta riscossa. L’europeismo tedesco diventa col tempo, e necessariamente, l’involucro politico-ideologico dell’interesse nazionale tedesco, e questo ben prima dell’unificazione del Paese manu economica. L’unificazione tedesca giunge a coronamento di un processo materiale che persino alcune fazioni della stessa classe dominante tedesca hanno cercato di sabotare, e non certo per ragioni di idealismo.

Europeismo e libero scambismo sono stati negli ultimi cinquant’anni gli assi della politica internazionale della Germania, la cui economia è fortemente proiettata all’esterno, in direzione di tutti i mercati mondiali, anche se è stato nel mercato europeo che il capitale tedesco ha vinto le sue battaglie più importanti, a conferma del suo alto livello di centralizzazione e di concentrazione, due peculiari e fondamentali caratteristiche del moderno Imperialismo. (Non a caso nel già citato breve saggio di Prodi, si lamenta che «Il processo di concentrazione che si va attuando in Europa è profondamente asimmetrico», anche a causa della struttura proprietaria germanica, la quale «rende quasi impossibile l’acquisto di imprese di grandi dimensioni senza l’esplicito assenso dei proprietari e, si può dire, dei maggiori protagonisti del sistema economico germanico»).

La politica internazionale incentrata sul liberoscambismo è, com’è noto, quella che meglio si adatta agli interessi dei capitalismi forti e in rapida espansione: è stato il caso “classico” dell’Inghilterra, almeno dagli anni quaranta del XIX secolo in poi, del Giappone fino agli inizi degli anni Novanta del Secolo scorso, e della Cina dagli inizi degli anni Ottanta in poi. Non a caso, Inghilterra, Francia e Italia hanno cercato di colpire l’europeismo liberoscambista della Germania, teso a omogenizzare il diritto economico (commerciale, industriale, finanziario) dei Paesi europei, con politiche sovraniste e protezioniste: invano.

Insomma, non ha alcun senso contrapporre, come fa Münchau, unità europea e unità nazionale tedesca, lamentando un’unificazione fin troppo «precipitosa», ed è francamente ridicolo trovare nel “sognatore” Khol o nell’”irresponsabile” Merkel i capri espiatori di una crisi radicata in processi sociali di portata continentale e mondiale facilmente individuabili, a patto che si guardi la realtà per quella che è, ossia dominata dagli interessi economici, i quali hanno un “ricasco” politico molto più cogente di quanto sospettino i teorici del primato della politica. Sotto questo punto di vista, la campagna Ich will Europa (Io voglio l’Europa) sostenuta dal Cancelliere Angela Merkel e dal Presidente Joachim Gauck esprime bene la dialettica sociale che ho cercato di lumeggiare.

«Quando Parigi non c’è, Berlino conduce le danze», ha scritto ieri Libération polemizzando con lo scialbo Hollande. Il fatto è che, con o senza Parigi, il Capitale tedesco conduce sempre le danze, di più: scrive la musica che le altre capitali europee devono suonare. L’ultima sinfonia ha come titolo Fiscal Compact.

DAS VOLLENDETE GELDSYSTEM

«Ciascun individuo possiede il potere sociale nella sua tasca sotto forma di una cosa. Togliete alla cosa questo potere sociale, e dovrete dare questo potere immediatamente alla persona» (Dal manoscritto di Marx del 1851 Das vollendete Geldsystem – Il sistema monetario perfetto). Ma la «cosa» è un rapporto sociale.

La moneta unica europea ha una dialettica interna molto interessante. Per molti versi essa è una moneta sui generis, perché le manca il supporto della Sovranità. Battere moneta e dichiarare la guerra erano un tempo le due più importanti prerogative che definivano la Sovranità nazionale: spada e zecca. «Il denaro posto nella forma di mezzo di circolazione è moneta», e in questa guisa esso «perde il suo carattere universale, per assumerne uno nazionale, locale … Riceve un titolo politico e parla per così dire una lingua diversa nei diversi paesi» (K. Marx, Lineamenti, I, pp. 187-188, La Nuova Italia, 1978). Che lingua parla l’euro? L’esperanto? o la lingua matematizzata di Giuseppe Peano?

L’euro non ha dietro di sé nessuna Sovranità nazionale, né l’Unione Europea di cui essa è emanazione può considerarsi, nemmeno alla lontana, alla stregua di una entità politica di pari rango rispetto a quella statuale. Sappiamo che proprio intorno a questa grave anomalia si sono avviluppate le contraddizioni economiche e politiche che hanno messo in profonda crisi l’intera costruzione europea, o, più correttamente, l’idea che di essa si erano fatta gli europeisti. Questa anomalia per così dire cosmopolita essa ovviamente la condivide con la BCE, una banca a sua volta molto sui generis, «né carne né pesce», per dirla con i suoi moltissimi critici e detrattori. Non erroneamente si paragona la Banca Centrale Europea alla Federal Reserve, per sottolineare i limiti che derivano alla prima dalla sua inconsistenza politica, non essendo emanazione di uno Stato unitario, ancorché federale.Tuttavia, proprio questa sua “neutralità” politica, questa sua natura sovranazionale e apolide, ha fatto dell’euro per molti aspetti una moneta perfetta dal punto di vista della dinamica capitalistica, e non a caso è stata soprattutto la Germania, ossia la società capitalisticamente più forte dell’Unione, la prima nazione esportatrice d’Europa e tra le prime nazioni a livello mondiale, che alla lunga ha tratto i maggiori benefici dall’introduzione della moneta unica. Il denaro in quanto «equivalente universale di ogni cosa» è, per dirla con J. Steuart, «misura della potenza delle diverse nazioni».

Né, d’altra parte, i tedeschi avrebbero mai accettato l’euro se non avessero avuto la certezza, economica se non matematica, che da esso non sarebbero derivati problemi alla loro economia e alla loro compatta ed efficiente organizzazione sociale. Com’è noto, in fatto di moneta la Germania è sempre stata particolarmente sensibile, e solo dopo un attento esame della situazione e la sottoscrizione da parte dei partner europei di un trattato (firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993) che le offriva sufficienti garanzie essa ha rinunciato al marco. Non a cuor leggero. Rinunciato peraltro solo formalmente, perché il vecchio e prestigioso conio teutonico in realtà continua a vivere, sebbene in una dimensione spettrale, e tuttavia pronto a subentrare alla moneta unica in caso di catastrofe politico-finanziaria. Il marco è l’invisibile centro di gravità attorno a cui ruota la moneta unica, che se guardata in controluce lascia chiaramente intravedere il «segno di valore» basato a Berlino. Un marco “truccato”, perché svalutato, e proprio per questo quanto mai utile all’export tedesco. Insomma, un sistema monetario perfetto!

Non c’è giorno che passi senza che il gruppo di banchieri che fanno capo alla BundesBank e che siedono nel Consiglio direttivo della BCE non ricordi a Mario Draghi il peso specifico che ogni economia nazionale dell’eurozona ha nel determinare la struttura economico-finanziaria dell’Unione. Ancora ieri il temuto Presidente della Banca Centrale Tedesca ha ammonito “Super Mario” a non trasformare la BCE in una specie di spaccio per tossicodipendenti: se le cicale vogliono salvarsi devono fare sacrifici e trasformarsi in formiche, e abbandonare una volta per tutte l’idea che si possa vivere eternamente a debito. La “crisi d’astinenza” della Grecia può solo farle bene. La guerra non serve forse a selezionare i migliori? «E i più deboli?» Si arrangino come possono! Ad esempio, scatenando una micidiale guerra fra miserabili.
Prima dell’introduzione della moneta unica i Paesi meno competitivi potevano giocare col cambio, e le svalutazioni competitive di marca italiano hanno fatto scuola in tutto il Continente. Il livellamento generato dal cambio fisso tarato su un alto standard (quello rappresentato dal marco, c’è bisogno di specificarlo?) ha reso impraticabile il vizietto italiano, e costringe i Paesi dell’«Europa periferica» a puntare su un assai diverso modello di competizione sistemica: di qui l’attuale crisi del debito sovrano in Portogallo, Grecia, Spagna e Italia. Alla lunga i reali valori dei singoli Paesi dell’Unione, prima nascosti dietro una sempre più obesa e improduttiva spesa pubblica, sono emersi, inevitabilmente, con grande disappunto per quelli di loro che per almeno un decennio hanno vissuto molto al di sopra delle loro possibilità. La crisi economica ha semplicemente accelerato e reso drammatico un processo che comunque avrebbe prodotto i risultati che ci stanno dinanzi. Come sempre, alla fine i nodi devono venire al pettine, e la politica del buttare la palla avanti e indietro, in attesa di un fischio finale che tutti sperano non arrivi mai, se non nei keynesiani tempi lunghi, ha mostrato tutta la sua inconsistenza. La partita è davvero finita, e supplicare l’arbitro perché conceda ancora tempo supplementare è uno spettacolo penoso, di più: grottesco. «Non potete spendere più di quello che avete incassato!», grida la formica tedesca alle cicale, sorda a chi le fa notare che soprattutto le industrie e le banche tedesche si sono avvantaggiate della “viziosa” generosità delle cicale.

Chi usa quest’ultimo argomento in funzione antitedesca mostra tutta la sua grossolana ingenuità, la sua ignoranza intorno al funzionamento del sistema sociale capitalistico (non solo della sua «sfera economica»), oltre che la sua ottusità sovranista. Né ha molto senso “ricordare” alla Germania come in un passato non troppo remoto dalle sue parti il rapporto deficit pubblico-Pil non è stato sempre irreprensibile, anche perché essa avrebbe facile gioco nel ricordare ai critici poco credibili che il disallineamento dai noti e famigerati parametri è stato contingente e soprattutto virtuoso (sempre per la Germania!), ossia teso a creare nel Paese le premesse della lunga cavalcata competitiva che alla fine ha presentato il conto a tutti i concorrenti europei, a iniziare dall’Italia. Anche qui: c’è disavanzo e disavanzo, spesa pubblica (volta ad esempio al sostegno delle ristrutturazioni competitive delle imprese e del Welfare: è appunto il caso della Germania) e spesa pubblica (tesa ad esempio a mantenere in vita una struttura sociale largamente parassitaria: ci siamo capiti!).
La potente pompa capitalistica tedesca ha risucchiato enormi capitali dal resto dell’Europa attraverso un semplice salto di pressione sistemica. In effetti, più che sullo squilibrio fiscale, dovuto a reali o supposte diversità culturali e antropologiche fra l’ex area del marco e il Mezzogiorno europeo, l’attenzione dovrebbe piuttosto essere accesa sullo squilibrio commerciale, uno squilibrio delle partite correnti sorto sulla base dell’interscambio commerciale intracomunitario. Si calcola un surplus di 1300 miliardi accumulato in dieci anni, a partire dal primo gennaio 2002, anno di adozione formale della moneta unica nell’eurozona (secondo la Statistisches Bundesamt – Destatis, l’Istat tedesco). Al cospicuo surplus commerciale tedesco, di “livello cinese” (oltre il 5 per cento del Pil), ha fatto riscontro almeno negli ultimi dieci anni il deficit commerciale dei partner europei. Una buona parte di questo surplus commerciale è investita in titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona in deficit commerciale, e in tal modo il cerchio competitivo tedesco si chiude in un modo estremamente fruttuoso per la Germania e nel modo esattamente opposto per quasi tutti i Paesi suoi concorrenti dell’eurozona, che si ritrovano indeboliti tanto sotto il rispetto industriale, quanto dal punto di vista finanziario. La spoliazione economica di questi Paesi da parte del Capitale tedesco è quindi totale, e ciò, tra l’altro, conferma l’idea secondo la quale l’imperialismo è un fenomeno sociale immanente al Capitalismo altamente sviluppato.

Come sempre, a scanso di odiosi equivoci, tengo a precisare che nella rubrica Imperialismo colloco tutti i Paesi europei, grandi e piccoli, “carnefici” e “vittime”, la potente Germania come la mentecatta (capitalisticamente parlando, è chiaro) Grecia. Dalle mie parti il patriottismo (anche quello federale-europeo), il nazionalismo, il sovranismo e l’invidia per chi sulla scena appare il più forte stanno a zero. L’ineguaglianza nello sviluppo economico-sociale dei Paesi è, sulla base del Capitalismo mondiale, non un accidente o il frutto di politiche scientemente predatorie, ma un fenomeno fisiologico, il cui dispiegarsi peraltro cambia continuamente di forma, come dimostra l’ascesa nella competizione capitalistica globale di Paesi che fino a mezzo secolo fa arrancavano nelle ultime posizioni.

L’esistenza di una moneta unica nel contesto di un’area economica gravata da un cronico squilibrio commerciale impedisce quella dialettica valutaria (rivalutazione a un polo svalutazione al polo opposto) che un tempo “aggiustava” in qualche modo le cose fra i competitori europei, e ciò rende assai problematica l’esistenza dell’euro. «Il sistema produttivo tedesco, come un vero panzer, ha macinato nel campo dell’export risultati strepitosi nell’arco di un decennio, senza che vi sia mai stato un anno con un segno meno, salvo che con le più piccole Olanda, Irlanda, Slovacchia, paesi con i quali registra spesso dei deficit commerciali. Si tratta quindi di una superiorità strutturale nei confronti degli altri paesi comunitari, che consente di affermare in modo semplice e diretto, senza tema di essere smentiti, che a guadagnarci dal mercato unico e dall’euro c’è stato finora, in sostanza, un solo paese: la Germania» (Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace, Economia & finanza, Repubblica.it, 18 giugno 2012).

Lo squilibrio fiscale che si registra nell’eurozona è insomma in larga misura il riflesso di uno squilibrio sistemico ben più profondo, che ha nella cosiddetta economia reale il suo più importante centro di irradiazione. Inutile dire che chiedere alla Germania di diventare meno capitalisticamente virtuosa, magari attraverso generosi aumenti salariali e una frenata nella sua produzione orientata alle esportazioni, è come supplicare il campione centometrista di fare a meno di una gamba per rendere la corsa meno… sperequata. «Ora che l’Europa ha bisogno della Germania, ed in particolare del suo assenso verso i dibattuti Eurobond (o altri meccanismi simili), Berlino può riflettere sul fatto che vi sono buoni motivi per dimostrarsi riconoscente verso i propri partner europei, che hanno contribuito in maniera così determinante al suo benessere» (Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace). Più volte la Germania ha manifestato l’intenzione di «dimostrarsi riconoscente», ma a una precisa e imprescindibile condizione: avere la possibilità di controllare da vicino, da molto vicino, ogni singolo euro prodotto dal «lavoro tedesco» che va nella direzione dei Paesi bisognosi di “aiuto fraterno”. «Ma questo significa lasciarsi commissariare dalla Germania!» Si tratta, piuttosto, di trasformare in Diritto ciò che ormai è un fatto. Oppure, si salvi chi può!

La «Nazione europea» di cui parla Ernesto Galli della Loggia, «Cioè un’Europa che sia consapevole di tutto il suo passato, della portata e del significato dei valori e delle potenzialità di questo; che sia decisa a far valere gli uni e le altre nell’arena mondiale», non può che costituirsi intorno a un nucleo sistemico forte, che oggi fa perno sull’area germanica. Il «momento fondativo della politica, del “politico” in quanto riassunto di visione storica e d’intensità etica convergenti in un’appassionata determinazione», come egli scriveva sul Corriere della Sera del 20 agosto scorso, è una pura astrazione dottrinaria, un’illusione idealistica (speculare al «materialismo volgare» che giustamente Galli della Loggia ha rinfacciato ai tecnocrati alla Delors), se non trova il suo necessario radicamento sociale. E oggi il “sociale”, sul terreno delle relazioni intereuropee, parla il linguaggio della prassi economica. Chi odia l’idioma tedesco può sempre tapparsi le orecchie…

La donna più potente del pianeta.

«Quando arriveremo sull’orlo del precipizio, sono sicurissimo che apriremo gli occhi e ci salveremo tutti insieme», ha bofonchiato qualche giorno fa  Romano  Prodi a proposito del «sogno europeista». Giuliano Amato ha detto la stessa cosa, e in generale gli europeisti sono convinti che a un passo dal baratro la politica prenderà il sopravvento sulle «cieche leggi del mercato». E se stessimo già scavando sul fondo del baratro?

ECONOMIA E POTENZA DEGLI STATI

Nel post dello scorso giovedì, criticando la colossale fandonia di Barbara Spinelli sulla Germania (la ricerca della primazia economica come prerogativa dei soli tedeschi), facevo notare come la dimensione economica si collochi sempre più, e in misura sempre più imperativa e totalitaria, al cuore della prassi sociale, fino a penetrare la sostanza più intima degli individui, ridotti al rango di lavoratori (più o meno “manuali”, più o meno “intellettuali”), funzionari a diverso titolo del capitale, consumatori, clienti, contribuenti e, vista la stagione, comandati alle «sudate e meritate» ferie. Se, per riprendere la famosa tesi del materialismo volgare, l’uomo è ciò che mangia, non c’è dubbio che nel XXI secolo egli a malapena si distingue da una merce o da un codice fiscale.

Il Capitale ha una natura imperialista in questo senso peculiare, che per sopravvivere esso deve necessariamente sussumere sotto il suo Diritto, che si compendia nella bronzea legge del profitto, l’intero spazio esistenziale degli individui: non solo la produzione, non solo il mercato, non solo i luoghi del consumo, ma anche i corpi e le anime degli individui. Inutile dire che è nel denaro, nel demoniaco «equivalente universale», che questa natura espansiva e totalitaria trova la sua massima espressione, fino al punto da generare  la feticistica impressione di una sua “ontologica” autonomia esistenziale: per un verso esso appare alla stregua di cosa naturale, e per altro verso come mero strumento tecnico al servizio della società. La sua esistenza reale in quanto espressione del lavoro sociale mondiale, e quindi di peculiari rapporti sociali, è un “filosofema” che la prassi quotidiana sembra negare nel modo più evidente. Di qui, appunto, la sua dimensione feticistica, oggetto più consono alla cura dello psicoanalista e del teologo, che allo studio del rigoroso “scienziato sociale”.

La cosiddetta guerra fredda (molto “calda” ai confini dell’Impero) tenne celato il sordo conflitto economico che ebbe come protagonisti indiscussi i partener dell’Alleanza centrata sugli Stati Uniti. Venuto meno uno dei due poli dell’antagonismo (il Patto di Varsavia), il cemento politico-ideologico che aveva tenuto insieme il fronte del «Capitalismo liberale» si è progressivamente indebolito, lasciando venire a galla il fondale. Sotto questo aspetto si può senz’altro dire che gli americani avevano lo stesso interesse dei russi al mantenimento dello status quo interimperialistico generato dalla seconda guerra mondiale, tanto più  che i primi avevano potuto lucrare cospicui vantaggi economici in virtù della loro funzione di leader politici riconosciuti. Basti pensare alla svalutazione del dollaro agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e agli accordi del Plaza del settembre 1985, entrambi aventi peraltro come maggiore obiettivo il Giappone. Ma fare i conti senza l’oste, ossia senza tenere nella giusta considerazione il fondamento di ogni potenza passata, presente e futura, è una prassi che alla fine mostra tutti i suoi limiti.

Alla fine degli anni Ottanta, ossia alla vigilia dell’ennesima accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica, il quadro della contesa sistemica mondiale presentava questa situazione: la potenza “sovietica” perdente su tutti i fronti (da quello economico a quello tecnologico-scientifico, da quello politico-ideologico a quello militare) e in paurosa crisi; la potenza americana vincente ma in declino, il Giappone vincente e in poderosa ascesa in tutti i quadranti del globo (dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dal Sud-Est asiatico al Canada è un fiorire di imprese economiche attivate dal Capitale nipponico), la Germania trionfante, la Cina alle soglie di quel «grande balzo in avanti» che la proietterà al vertice del Capitalismo mondiale. Lungi dall’essersi dileguato, o indebolito, come avevano teorizzato gli apologeti della «buona e sostenibile globalizzazione», assai numerosi nel Vecchio Continente, il fondamento materiale dell’Imperialismo (il concetto più adeguato al termine globalizzazione) si è piuttosto rafforzato in una misura che, ad esempio, ha reso possibile eventi che un tempo postulavano dichiarazioni di guerra e movimento di eserciti: vedi, appunto, la miserabile dissoluzione del Patto di Varsavia e l’unificazione tedesca. La pressione dell’economia ha avuto ragione di ogni volontà politica, non secondo un processo deterministico, bensì sulla scorta di quella che potremmo chiamare dialettica della necessità: poste alcune importanti premesse le conseguenze insistono in un campo di possibilità piuttosto ristretto, e comunque ben definito sul piano storico-sociale. In questo senso, ad esempio, ho parlato della Germania come «Potenza fatale», ossia per rimarcare i fattori oggettivi della sua forza sistemica e, quindi, della sua necessaria funzione storica, soprattutto nel contesto europeo.

Scrive Christian Harbulot: «Le teorie economiche dominanti in Occidente non colgono il cambio di paradigma in corso: la conquista dei mercati come fattore di sviluppo e di potenza degli stati, l’economia come arma» (L’economia come arma, Limes 3-2012). Non vorrei passare per quello che la sa più lunga degli altri, ma non posso esimermi dal formulare l’antipatica domanda: ma dove sta «il cambio di paradigma»? Alcuni scoprono solo oggi ciò che l’ultrasecolare prassi capitalistica ha mostrato in ogni luogo del pianeta, e anziché rallegrarsi per la tardiva, quanto feconda, acquisizione sentono l’irresistibile bisogno di teorizzare «cambi di paradigma» che esistono solo nelle loro teste. Dopo aver giustamente criticato gli intellettuali europei, soprattutto quelli francesi, «riluttanti a riconoscere il peso riacquisto dai conflitti economici nelle relazioni internazionali», Harbulot scrive: «L’accrescimento di potenza attraverso l’espansione economica è il motore del dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile». Non c’è dubbio. Ma ciò non prova affatto un «cambio di paradigma», piuttosto conferma la natura eminentemente economica di un “vecchio” fenomeno sociale: l’Imperialismo, che alcuni teorici dell’Impero avevano trattato come un cane morto sulla scorta di una filosofia della storia fin troppo “postmoderna”. Tutti i dati forniti dal francese e tutti i fatti da lui accuratamente descritti, a cominciare dalla strategia del controllo preventivo dei mercati e delle materie prime, rientrano naturalmente nella rubrica dell’Imperialismo, e per rendersene conto basta compulsare anche solo rapidamente il classico libro di John Atkinson Hobson del 1902.

Con ciò voglio forse sostenere che il “nuovo” Imperialismo è identico a quello “vecchio”? Nemmeno per idea. Infatti, al confronto col primo il secondo impallidisce come un bambino che avesse visto l’Uomo Nero. Un secolo e passa di sviluppo capitalistico non è trascorso invano, e oggi l’Imperialismo ha quella natura esistenziale cui ho fatto cenno all’inizio. Ma il paradigma è sempre lo stesso: il Capitale come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento di ogni cosa esistente, a partire dagli individui. È la vitale ricerca del profitto che lo porta a inglobare nel proprio spazio tutti i momenti della totalità sociale: individui, materie prime, mercati, stati, nazioni, continenti: tutto.

Proprio per rispondere al «dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile», ma io aggiungo, in una prospettiva storica che guarda anche al passato, degli Stati Uniti e del Giappone, i paesi del Vecchio Continente hanno cercato nel corso di parecchi decenni di costruire un’area economica integrata, ma la crisi economica per un verso ha fatto esplodere le vecchie contraddizioni immanenti al progetto europeista (progetto imperialista al cento per cento), e per altro verso ha posto l’aut-aut che terrorizza tutte le nazioni europee, a cominciare dalla sovranista Francia: o si passa al livello successivo, ossia politico, del gioco, oppure il gioco finisce, con quali conseguenze è ancora da capire. I processi economici devono necessariamente avere delle conseguenze sul piano squisitamente politico, e l’attuale crisi del progetto europeista si colloca al centro di questa dirompente dialettica, la quale ha nella Germania il suo centro di irradiamento fondamentale.

Infatti, il passaggio al livello successivo, ossia politico, nella costruzione dell’Unione Europea presuppone un travaso di potenza fra le nazioni coinvolte nel progetto che deve necessariamente spostare l’asse geopolitico del continente verso la potenza sistemica più forte, ossia verso la Germania. Ancora una volta viene avanti l’economia «come fattore di sviluppo e di potenza degli stati». Ma anche come il più potente fattore di ristrutturazione (o rivoluzionamento) della società. Infatti, il processo di violenta “riforma sociale” che sta attraversando i paesi meno forti dell’eurozona (pensiamo alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e all’Italia), certamente va nella direzione della “convergenza europea”, e quindi si muove lungo le linee di forza generate dalla Germania; ma nella misura in cui tende a rendere più produttivo e flessibile il lavoro e a ridurre la spesa pubblica improduttiva essa va nella direzione voluta da ogni Capitale nazionale. In questo senso Monti ha ragione quando dice che ciò che va bene per l’integrazione europea va bene anche per il Paese, ossia per l’accumulazione capitalistica nazionale. Inutile dire che in questa “dialettica oggettiva”, che abbraccia tanto la dimensione sovranazionale quanto quella nazionale, a farne le spese sono soprattutto le classi subalterne, costrette a “scegliere” tra la brace europeista e la padella sovranista.

La forma giuridica (mercato nazionale o mercato sovranazionale) deve alla fine adeguarsi alla realtà economica (l’internalizzazione del Capitale e l’interdipendenza economica dei paesi e dei continenti), e questo adeguamento deve necessariamente generare conseguenze politico-istituzionali di più vasta e generale portata. La forbice temporale che si è aperta fra l’economia, sempre più veloce, e la politica, relativamente assai più lenta, ha creato quella tensione storico-sociale che stiamo avvertendo come crisi sistemica epocale. Non la sola Germania, come sostiene Barbara Spinelli, ma tutti i paesi europei sono stati posti dal processo sociale mondiale dinanzi a un drammatico bivio, foriero di gravi contraddizioni e di inquietanti (per le classi dominanti, beninteso) conflitti sociali. Ciò che nei secoli passati giocò a favore dell’Europa, ossia l’aggressiva competizione sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, religiosa) fra tante e relativamente piccole aree geosociali contigue e, poi, fra tante rissose entità nazionali, nel XXI secolo si mostra come potente fattore di debolezza e di degenerazione. Nella Società-mondo della nostra epoca piccolo non è più – posto che lo sia mai stato – sinonimo di bello.

Nel 2000 Robert Gilpin scriveva che «Un nuovo ordine politico ed economico si sta stabilendo in Europa; quale sarà la sua natura, non è ancora dato sapere» (Le insidie del capitalismo mondiale, Università Bocconi Editore). Dodici anni dopo questo «nuovo ordine» sembra assumere contorni meno evanescenti. Azzardare previsioni intorno agli esiti di quella che non pochi analisti politici ed economici definiscono guerra civile europea non mi sembra un esercizio particolarmente sensato. Ciò che conta non è scommettere su questa o quella soluzione (e, almeno per chi scrive, prendere parte a questo o a quel partito: quello federalista e quello sovranista), ma capire la natura della dialettica in corso. Certamente possiamo dire che, comunque vada, la natura del «nuovo ordine» avrà il marchio del Capitalismo e dell’Imperialismo, e che, come scriveva sempre Gilpin, «la Germania rimane l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea». Già sento le imprecazioni dei sovranisti…

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.

IL PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA (3)

Quando la Germania va bene, di solito sei mesi dopo i suoi soldati marciano per gli Champs Elysèes (Gerard Baker, Financial Times, 17 ottobre 2002).

L’assedio alla Germania si fa di giorno in giorno più stringente, e il cannoneggiamento politico-diplomatico del Paese si inasprisce anche sul fronte extraeuropeo. Bordate prima mai viste arrivano dagli Stati Uniti e dalla Cina, i cui governi devono vendere alle rispettive opinioni pubbliche il capro espiatorio che spieghi il rallentamento delle loro economie. «La crisi in Europa frena la nostra economia, e la responsabilità maggiore di questa crisi va addebitata alla Germania». Un discorso semplice semplice, alla portata di tutti, che ha trovato sul fronte europeo un consenso generale. Peccato che sia falso, almeno nella parte che attribuisce le responsabilità di “ultima istanza”.

Giusto per non perdere visibilità e dimostrare l’esistenza in vita della Francia, Hollande ha ricordato all’amico Obama che «la crisi economica è partita dagli Stati Uniti: non ci risulta che la Lehman Brothers fosse un Istituto finanziario europeo». Un minimo sindacale di grandeur celato sotto un sottilissimo strato di “spirito europeista”. Assai significativamente la Casa Bianca, spalleggiata dal Fondo Monetario Internazionale, ha “suggerito” agli europei di abbandonare il dogma rigorista del pareggio di bilancio e di «spendere a debito», illuminando così involontariamente la causa principale della bolla speculativa scoppiata in America nel 2008. Cosa che, tra l’altro, dimostra quanto sia infondata la distinzione tra «economia reale» e «economia finanziaria», due sfere necessariamente e inestricabilmente interconnesse. Che su questa intima relazione si dà la possibilità della più sfrenata e “immorale” speculazione, ebbene questo è un fatto che può turbare solo la coscienza dei buoni di cuore.

Scriveva ieri Antonio Polito: «Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l’una all’altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi»(Il Corriere della Sera, 5/06/2012). Già, tutti sono europeisti e solidali, con i soldi degli altri!

Giustamente Polito sostiene che nemmeno la Germania assiste a cuor leggero allo sfaldamento dell’eurozona, e che sarebbe pure disposta a fare qualche sacrificio per salvare paesi «irresponsabili e spendaccioni» come Grecia e Spagna; ma non a tutti i costi, non senza porre delle precise condizioni. Legittimamente. «Nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation . È impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi». È, questo, il punto nevralgico dell’attuale guerra europea. È, per dirla con Polito, «il rompicapo della Sovranità», il quale chiama in causa la germanizzazione dell’eurozona, ossia il convergere di tutti i partner provvisti della stessa moneta verso il modello sociale tedesco.

Mentre il popolo greco muore di fame Lei si diverte! Che cattivona!!

Senza la centralizzazione della politica monetaria e fiscale non ci sarà mai quella “comunitarizzazione del debito” richiesta a gran voce dai buoni di spirito della “solidarietà europea”, e la prima presuppone un travaso di potenza che farebbe pendere il Vecchio Continente dal lato della potenza egemone sul piano dell’economia e della demografia. Parlo della Germania, ovvio. E qui il nazionalismo delle «patrie europee» trova un eccezionale alimento. «Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse? Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c’è bisogno di ricordare che fu il “sovranista” popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l’Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe». È dai tempi del Trattato di Roma che la Francia «fiacca la costruzione dell’Europa e ne limita le ambizioni» ( J-J Servan-Schreiber, La sfida americana, 1969). Oggi tutti i quotidiani francesi unanimemente concordano su questo punto: è il sovranismo francese il vero ostacolo alla realizzazione di un’Europa federale. Il motivo è semplice, e ruota intorno al travaso di potenza cui accennavo sopra.

Detto di passata, e in sfregio alla ridicola grandeur dei cugini d’oltralpe, il «regime del disonore» di Vichy (1940-1944) trovò l’appoggio di chi allora in Francia riconobbe il dato di fatto richiamato da Polito: potenza tedesca e debolezza francese. «L’abuso delle buone cose – annotava Paul Valéry nei suoi diari nel giugno 1940 – ha portato la Francia alla sventura … Noi siamo vittime di ciò che siamo».

All’Europa unita e felice!

La lettura dei fatti data da Polito mette in ridicolo chi oggi contrappone il «vecchio sogno europeista dei padri fondatori» (Churchill, Jean Monnet, Adenauer, de Gaulle, De Gasperi), all’incubo del sempre più imminente crollo dell’edificio europeista generato dall’egoismo e dalla miopia degli attuali leader europei, a partire – naturalmente – da quelli tedeschi. Quale Europa emergerà dalla crisi, si chiede ad esempio Adriana Cerretelli: «Quella equilibrata e solidale delle origini, cui sarebbe facile delegare nuovi poteri, o quella del più forte che impera oggi?» (Il Sole 24 Ore, 5/06/2012). Ma il mito della vecchia e cara Europa dei «padri fondatori», diffuso soprattutto nell’opinione progressista del Vecchio Continente – con qualche diramazione statunitense: vedi Jeremy Rifkin e lo stesso Obama –, mostra tutta la sua inconsistenza ad un’analisi storica appena più seria, e soprattutto non viziata da pregiudizi ideologici. Cerco di dimostralo in tutti i post dedicati alla «Questione tedesca come Questione europea», ad esempio in Se deraglia la locomotiva tedesca.

Scrive la Cerretelli: « La grande Germania, dice Schmidt, sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner. Ormai guarda con beata indifferenza a sacrifici e risentimento dei greci, all’orgoglio ferito degli spagnoli in difficoltà, al sofferto sì degli irlandesi non per convinzione ma per paura di perdere i fondi Ue. Segue con fastidio, osservandole dall’alto in basso, le manovre della nuova Francia e dell’Italia per rimettere in moto la crescita europea. Nell’attesa, lucra allegramente sui guai altrui finanziandosi gratis sui mercati e facendo shopping europeo a prezzi di saldo. Se non cambia, questa Europa a una dimensione, tutta e solo tedesca, è destinata al collasso. Politico, economico, democratico. Alle rivolte popolari. C’è meno di un mese per convincere la Merkel ad ascoltare anche le ragioni altrui, a ritrovare un po’ di spirito europeo, una visione strategica del futuro. In breve, a evitare di far del male a sé e agli altri». Signori, la guerra è servita!

Detto en passant, George Soros è più ottimista: dà all’Europa altri tre, quattro mesi di vita. A meno che «la Germania non rinsavisca». La pressione politica e psicologica sui «maledetti crucchi» rischia di farsi parossistica, e certamente è dal ’45 che sulla Germania non si riversava un simile carico di ostilità e di imprecazioni. L’ex (?) stalinista greco Manolis Glezos, ieri eroe della resistenza antinazista e oggi eroe della resistenza antimerkel basata a piazza Syntagma, non smette di ricordare a «Frau Merkel» che la Germania «ci deve un sacco di soldi. Siamo l’unico Paese europeo a non essere stato risarcito dalla Germania per i danni di guerra: parliamo di centinaia di miliardi di euro» (intervista a Vittorio Zincone pubblicata su Sette del Corriere della Sera, 18/05/2012). Il vecchio Glezos conclude così la sua invettiva antinazista, pardon, antitedesca: «Prendano i loro soldi e vadano al diavolo». Un invito a nozze per Frau Merkel…

A proposito del concetto a me caro di «Germania come Potenza fatale»: «Qualche giorno fa non sono stato in grado di dare una risposta univoca a una domanda molto semplice: “Quando la Germania diventerà finalmente un Paese normale?” Ho risposto che in un futuro prossimo la Germania non diventerà un Paese “normale” a causa del nostro enorme e peculiare fardello storico e della posizione centrale e soverchiante che il nostro Paese occupa a livello demografico ed economico in un continente molto piccolo, ma articolato in una compagine variegata di Stati nazionali (Helmut Schmidt, Il Sole 24 Ore, 5/06/2006). Non è che «il passato non vuole passare», secondo il noto e abusato stilema. È che la storia continua. Semplicemente. La storia, non l’idea che i buoni di spirito si fanno di essa.

LA “PAZZA IDEA” DI SILVIO E LA GUERRA IN EUROPA

La «pazza idea» di Berlusconi non poteva cadere su un terreno migliore: l’ennesimo «venerdì nero», non solo in termini di caduta dei valori borsistici in tutte le piazze finanziarie del pianeta (salvo quelle basate a Oriente, peraltro rivitalizzate dal recente accordo tra Tokyo e Pechino in materia di libero scambio e di uso delle rispettive divise nazionali nelle transazioni economiche fra i due paesi, con le immaginabili negative ripercussioni sul dollaro e sull’euro); ma soprattutto in riferimento alla cosiddetta «economia reale».

Dagli Stati Uniti al Vecchio Continente il cavallo dell’accumulazione capitalistica arranca, boccheggia, sbava e dà dolorosissimi calci in quel posto a centinaia di migliaia di lavoratori. La disoccupazione cresce in tutto l’Occidente, anche se è solo nell’Eurozona (a eccezione della Germania) che essa cresce in termini assoluti. In questo fosco quadro la dichiarazione berlusconiana di ieri amplifica la sua pregnanza politica, nonostante gli avversari ne abbiano immediatamente messo in discussione il valore economico e politico ricorrendo alle solite invettive: «dalla bocca di Berlusconi non può venire fuori nulla di serio».

Ma l’ex Cavaliere Nero non se n’è dato per inteso, anche perché le sue parole non sono quasi mai dirette agli attori del «teatrino della politica», ma al «popolo». E il «popolo», in Grecia come in Italia, in Spagna come in Francia, oggi è arrabbiato con «la Germania della Merkel», accusata di ogni nequizia. Certo, oltre che con il «populismo», la «pazza idea» di Silvio si spiega anche con il regolamento di conti che lui sente di dover chiudere con la Cancelliera di ferro, protagonista di risatine che ancora ai suoi occhi gridano vendetta. Dopo l’arrogante Sarkozy lo sciupafemmine di Arcore vuole vedere rotolare nella polvere dell’insuccesso politico anche colei il cui fondoschiena è un affronto alla libido. Ipse dixit, sia chiaro.

Ciò che più mi ha colpito della dichiarazione di Berlusconi non è tanto la proposta «che la Banca d’Italia stampi euro oppure stampi la nostra moneta», né la richiesta di un mutamento di funzione della BCE, tale da farla «diventare il garante di ultima istanza del debito pubblico» (europeo), ovvero l’incitamento al governo italiano a contrattare a muso duro con la Germania le condizioni della nostra permanenza nell’eurozona, minacciando di «avere la forza di dire ‘ciao ciao euro’ e cioè uscire dall’euro restando nella Ue», tutte idee che ormai da anni circolano nel dibattito pubblico europeo. Detto per inciso, il mutamento di funzione della BCE, che fonda i discorsi intorno all’urgenza di emettere Eurobond e project bond, presuppone la cristallizzazione di una Sovranità politico-istituzionale nel cui seno il peso specifico della Germania sarebbe assai notevole, per ovvi (sistemici) motivi – che, detto en passant, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra guardano da sempre come il fumo negli occhi.

No, la frase berlusconiana a mio avviso di gran lunga più interessante, per il suo valore sintomatico che va oltre le stesse intenzioni dell’ex premier, è questa: «dire alla Germania di uscire lei dall’euro se non è d’accordo». Più che una minaccia – l’Italia oggi non è in grado di minacciare nessuno! –, sembra un suggerimento non richiesto a una corrente di opinione che in Germania si fa di giorno in giorno più forte.

Vedi Scenari prossimi venturi.

IL VOLTO “PACIFICO” DELLA GERMANIA TERRORIZZA L’OCCIDENTE

Un tempo la Germania inquietava i suoi concorrenti perché mostrava un’aggressività politico-militare davvero preoccupante. Beninteso, preoccupante per quelle nazioni che, giungendo per prime al vertice della piramide imperialistica intorno al limitare del XIX secolo, avevano trovato il modo di spartirsi in solitudine il vasto mondo, offrendo ai paesi ritardatari solo le briciole del ricco bottino. Il riferimento è naturalmente all’Inghilterra e alla Francia, ma anche agli Stati Uniti, se prendiamo in considerazione il quadrante orientale-Pacifico della mappa geopolitica: qui il ruolo del cattivo spettò al Giappone, ristretto in uno “spazio vitale” fin troppo esiguo per la sua straboccante forza sistemica. Chi ha interesse a spezzare lo status quo deve mostrare, magari obtorto collo, il volto più cattivo di cui è capace.

Oggi la Germania fa paura per il suo inquietante “pacifismo”. A differenza dei mass-media nostrani, distratti dagli ennesimi scandali e dalle insulse macchinazioni politiche in vista delle prossime scadenze elettorali, ai quotidiani e alle riviste politiche degli altri paesi occidentali non è invece sfuggito quello che è forse stato l’aspetto più significativo dell’ultimo summit della Nato (Chicago, 20-21 maggio): il processo alla Germania. Un processo ovattato, portato avanti con discrezione e guanti di velluto, come si conviene in un convegno fra “amici” e “alleati”; ma non per questo privo di durezze. Come diceva il filosofo (tedesco!), la verità sa essere brutale anche nei panni della più dimessa diplomazia.

Partendo dall’atteggiamento “omissivo” che ha caratterizzato la politica estera tedesca a proposito della questione libica, gli Stati Uniti, spalleggiati dagli altri “alleati”, hanno rinfacciato ai tedeschi un egoismo senza pari in ambito NATO: mentre crescono in potenza economica, essi non solo rifiutano di assumere le responsabilità politiche e militari che competono a un grande Paese, qual è diventata la Germania dopo la seconda guerra mondiale, e a fortiori dopo la fine della guerra fredda; ma addirittura mostrano di volersi ritrarre ancor di più dalle loro responsabilità internazionali, tagliando ad esempio la loro spesa militare.

Inutile dire che mentre irrita gli “alleati”, il disimpegno politico-militare dei tedeschi, formiche dell’Occidente, piace molto ai cinesi, formiche dell’Oriente. Fra formiche ci s’intende? Rimane il fatto che, ad esempio, la Germania «verso la fine del 2010, affiancata dalla Cina, ha cercato di bloccare sul nascere un’iniziativa americana proposta nel novembre dello stesso anno dal G20 per “riequilibrare” i rapporti con i paesi che basano la loro economia sulla crescita delle esportazioni» (Heather A. Conley, La Germania non crede più nell’America, 14/10/2011, Limes).

Il Primo Ministro polacco ha ripetuto che al suo Paese oggi spaventa più una Germania isolazionista, tutta focalizzata sull’economia, che una Germania forte sul piano politico-militare. Una Germania politicamente forte sulla base dell’attuale status quo che vede gli Stati Uniti saldamente al centro della NATO, è evidente. La Polonia teme l’attuale debolezza politica della Germania semplicemente perché essa potrebbe preludere a uno sviluppo autonomo dell’imperialismo tedesco, e certamente il Ministro della Difesa tedesco, volendo in qualche modo giustificare la reticenza del suo Paese in materia di spese militari, non ha rassicurato i polacchi affermando che «La Germania ha paura della sua stessa forza».

«Come ha osservato Stefan Kornelius, caposervizio agli Esteri della Süddeutsche Zeitung, la Germania assomiglia a “una nazione in catene da essa stessa forgiate”» (H. A. Conley, La Germania…). Questo, sia detto per inciso, a proposito della Germania come Potenza fatale, e in relazione alla radice sociale – eminentemente economica – dell’Imperialismo contemporaneo. Ancora una volta il “vecchio” concetto di Imperialismo si mostra assai più adeguato alla reale dinamica del processo sociale di quanto non sia il concetto “postmoderno” di Impero, a confronto del primo forse più suggestivo e più vendibile sul mercato delle ideologie, ma certamente non all’altezza del tempo.

«La carta mostra i legami economici della Germania con il resto del mondo. Berlino si pone non solo come potenza centrale d’Europa ma come fattore inaggirabile sulla scena globale. Il confine fra geoeconomia e geopolitica è sfumato» (Limes, 4/2011).

In verità l’accusa americana cui facevo cenno sopra non è nuova, anche se a partire dagli anni Settanta essa investì tutti gli alleati degli Stati Uniti, dall’Europa occidentale presa in blocco al Giappone, accusati appunto di ingrassare all’ombra del costosissimo – in tutti i sensi – ombrello politico-militare offerto “generosamente” dal Paese egemone. Perdenti sul piano politico-militare, la Germania e il Giappone non tardarono a prendersi la rivincita, anche sfruttando al meglio la propria condizione di paesi reietti che alla fine avevano “accettato” la resa incondizionata decisa nel ’43 a Casablanca da Roosevelt e da Churchill. (Detto di passata, la guerra mondiale durò altri due anni perché nessun Paese può accettare, senza impegnarsi in un corpo a corpo mortale col nemico, una resa incondizionata, salvo venir ridotti ai minimi termini, cosa che peraltro puntualmente avvenne. Sulla pelle delle classi dominate di tutto il pianeta).

La Germania è tutta concentrata sul proprio potenziale economico, e mentre prospera in un continente rovinato dalla crisi economica, essa non vuole impegnarsi seriamente in scelte politiche che necessariamente hanno un costo in termini finanziari. Eppure i tedeschi hanno tratto un grande beneficio dal sistema di alleanze cui sono parte integrante ormai da sessant’anni. È venuto il momento per la Germania di essere meno egoista e più generosa: essa deve pagare un prezzo adeguato alla sua dimensione di potenza economica, procedendo anche a un rapido riarmo, ovviamente nell’ambito della NATO e in stretta sinergia con i partners europei. Dinanzi a questo grave discorso «la diplomazia tedesca rimane silente», ha riconosciuto Der Spiegel. Un silenzio che mette i brividi.

SE DERAGLIA LA LOCOMOTIVA TEDESCA

L’intervista rilasciata sabato scorso dall’ex ministro degli esteri Joschka Fischer a Paolo Valentino per Il Correre della sera è interessante per più motivi. A iniziare da questo: i grandi processi sociali passano anche sopra la testa dei funzionari di altissimo livello delle classi dominanti. Ad altezza stratosferica. Possibile? Cerco di spiegarlo.

Dice Fischer: «Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l’integrazione d’Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo» (La Germania non affondi l’Europa, Il Corriere della sera, 26 maggio 2012). Lasciamo perdere l’adesione del tedesco all’ideologia che è uscita vincitrice dai due conflitti imperialistici del XX secolo, e che ha negli Stati Uniti d’America la sua più potente piattaforma di emissione – perché nel frattempo l’imperialismo rivale, quello sovietico, ha tirato le cuoia. La ragione parla sempre il linguaggio del vincitore, e non c’è dubbio che la Germania non ha titoli per usare il linguaggio dei propri diritti in quanto Potenza sistemica. Ma il linguaggio del processo sociale conosce solo la ragione della forza (economica, politica, militare, sociale tout court), e si fa sentire a dispetto di ogni ideologia, anche se non tutti riescono a comprenderne il reale significato. È appunto il caso di Fischer. Egli, ad esempio, non ha capito che l’europeismo tedesco è stato fin qui l’espressione della tendenza storica della Germania a diventare la potenza egemone del vecchio continente, espandendosi lungo tutte le direttrici geopolitiche: a est, a ovest, a nord e a sud.

Non a caso alla fine degli anni settanta, mentre la Germania perorava la causa del federalismo europeo, e lasciava trapelare l’urgenza di una costituzione europea, i paesi “fratelli” si mostravano riluttanti dinanzi a cotanto impeto europeista e rinverdivano il vecchio e putrido nazionalismo. «Il modello tedesco non può essere esportato», si mormorava nelle capitali europee timorose della straripante vitalità del Capitalismo teutonico. In questa manifestazione di sciovinismo naturalmente primeggiava la Francia, la cui ambigua strategia (appoggiare Bonn in funzione antinglese e antiamericana, ma anche appoggiare l’Inghilterra e gli Stati Uniti per indebolire e isolare la Germania) ha accompagnato la costruzione del «progetto europeo» a partire dagli anni Cinquanta. Già il progetto di un cartello franco-tedesco dell’acciaio e del carbone presentato nel maggio del ’50 dal Ministri degli esteri Francesi Schuman, passato alla storia come il primo passo verso la costruzione di un’Europa finalmente affrancato dallo spetro delle guerra, portava i segni di quell’ambiguità (infatti, furono soprattutto gli Stati Uniti a spingere avanti il «Piano Schuman», per questioni economiche e politiche), manifestazione di una potenza mondiale in declino che cerca di far quadrare i difficili conti nella contesa imperialistica globale.

Nella tendenza storica all’egemonia – se non al dominio – cui facevo cenno sopra la malvagità, la «grettezza antropologica» di un intero popolo, la cattiveria di alcuni specifici gruppi sociali o, men che meno, gli errori di strategia politica della classe dirigente del Paese in questione hanno un peso davvero  irrilevante, e usarli come griglia interpretativa sarebbe quanto mai sbagliato. Avrebbe il significato di accusare una caldaia (una grande caldaia) perché produce vapore, troppo vapore, o un treno perché usa quel vapore per correre. «La locomotiva tedesca corre troppo velocemente!» Ridicolo. D’altra parte, il vapore ha una naturale propensione a espandersi e a produrre ciò che la scienza e la tecnologia chiamano lavoro: pressione x volume (L = p x v, mi suggeriscono le povere reminiscenze scolastiche). E la potenza è definita come il lavoro eseguito da una macchina in un dato tempo. Penso che la metafora “positivista” attinta dalla termodinamica renda bene l’dea circa quella che altre volte ho definito la Potenza fatale della Germania. Questa “fatalità” è tutta inscritta nella storia della società tedesca, nella sua potenza sistemica (a partire dalla capacità lavorativa della sua straordinaria macchina economica) e nella sua collocazione geopolitica. Chi legge la fatalità come fatalismo è del tutto fuori pista.

Questa potenza sistemica, che da oltre un secolo dà sostanza alla «Questione Tedesca», è per gli stessi tedeschi fonte di continuo imbarazzo, oltre che di sciagure, e per tale ragione essi ne danno perlopiù una interpretazione falsa, ideologica, anche per venire incontro alle angosce mai sopite degli “amici”. Ecco, ad esempio,  come  Willy Brandt spiega il carattere aggressivo della nazione tedesca: «Ciò dipese dallo sviluppo storico della Germania, ad esempio dal fatto che la Germania è diventata uno stato nazionale molto tardi e non ebbe una borghesia consapevole, politicamente consapevole. Dal fatto, cioè, che la Germania non aveva fatto una rivoluzione borghese; durante il II reich, all’epoca di Bismarck, non ci fu nessuna alleanza innovatrice volta al superamento dello Stato feudale, ma solo un blocco reazionario composto dai latifondisti e dall’industria pesante» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Come una società di borghesi «politicamente inconsapevoli» e diretta da uno «Stato feudale» sia diventata, già negli anni Ottanta del XIX secolo, la locomotiva capitalistica del Vecchio Continente, nonché uno dei paesi più all’avanguardia dal punto di vista scientifico e tecnologico del mondo, rimane, a dar retta all’ex Cancelliere, un mistero.

D’altra parte, l’esigenza di uno «spazio vitale» all’interno del quale fare espandere il caldo e dinamico vapore tedesco è una chiave interpretativa difficile da maneggiare – ancorché corrispondente alla reale dinamica del processo sociale –, e basta ricordare i manifesti comparsi in Grecia contro la «Merkel nazista» per capire a cosa alludo. Detto di passata, lo schema adialettico proposto da Brandt è stato esteso al Giappone e, in parte, all’Italia, ossia ai paesi giunti in ritardo alla «fase borghese» del loro sviluppo. Per molti aspetti esso è applicato anche alla Cina. Come il vecchio modello politico-istituzionale possa radicalmente mutare di funzione nelle mutate circostanze storiche (vedi la Germania di Bismarck, il Giappone dell’epoca Meiji, e lo stesso atteggiamento «Imperiale-Celeste» di Mao Tse-tung) è cosa che non impressiona né disorienta il pensiero che non si appaga di ciò che offre allo sguardo la schiuma del processo storico-sociale.

Anche Toni Negri a proposito dell’attuale guerra europea propone uno schema che difetta di dialettica: «Avviene dunque che, se nel secondo dopo guerra la potenza americana ha sollecitato il processo di unificazione europea in esclusiva funzione antisovietica, quando l’Europa, dopo il 1989, comincia a costituirsi indipendentemente, sviluppa un’economia potente ed un modello sociale relativamente autonomo (cioè non totalmente dominato – economia “sociale” di mercato – dalla logica del profitto), impone la propria moneta e si presenta dunque come concorrente ed alternativa agli Usa sul mercato mondiale, allora gli americani (e il ceto finanziario globale) si schierano contro l’unità europea» (Dopo le elezioni francesi: riprendiamo il dibattito sull’Europa, Uninomade, 23/05/2012). La crisi del progetto federalista europeo come il convergere della «linea di Bismarck che Berlino sta imponendo» e degli interessi che fanno capo alle forze «neo liberiste» angloamericane e finanziarie. Sul pietoso «modello sociale relativamente autonomo» che tanto piace a Negri ho già scritto; qui intendo cogliere l’unilateralità del suo discorso, il quale non coglie la dimensione del conflitto sistemico nella sua totalità, e che taglia fuori ciò che per me costituisce il punto di gran lunga più significativo e foriero di sviluppi catastrofici: il conflitto economico-politico nel seno dell’alleanza imperialistica dominata dagli Stati Uniti, il quale, tra alti e bassi, non ha mai smesso di produrre effetti sull’intero scacchiere delle relazioni internazionali.

Insomma, non corrisponde al vero la rappresentazione dell’Europa come un compatto fronte antiamericano, semplicemente perché da sempre il «progetto europeo» ha avuto per i diversi partener dell’Unione differenti significati, confliggenti gli uni con gli altri per aspetti assai importanti, addirittura decisivi. La crisi economica ha solo reso evidente questo guazzabuglio di radicati e potenti interessi nazionali, e attribuire la responsabilità dello sfacelo alla sola «linea bismarckiana», o al complotto liberista-finanziario è quantomeno riduttivo. Il Male – mi pongo ovviamente dal punto di vista degli europeisti, progressisti o conservatori che siano – occorre innanzitutto cercarlo in casa, in Europa.

Una volta François Mauriac disse «amo la Germania tanto da volerne due», e alla vigilia dell’unificazione tedesca il vice-direttore dell’Istituto di Politica francese, D. Moïsi, dichiarò: «L’’Europa è stata costruita introno a un matrimonio di buon senso tra Francia e Germania, come prodotto di un delicato equilibrio degli squilibri, fra bomba atomica francese e marco tedesco». La crisi economica (con annesse crisi del debito Sovrano e bagarre intorno al Welfare europeo) ha di molto incrinato quel «delicato equilibrio degli squilibri», miserrima formula diplomatica che non può celare il fondo oscuro della «costruzione europea».

Ma ritorniamo, per concludere, a Joschka Fischer. «L’europeizzazione del debito. Il problema, qui la Germania ha ragione, è di evitare che poi le riforme strutturali per migliorare la competitività si fermino o vengano ammorbidite. Non si tratta di europeizzare l’intero debito, ci sono proposte interessanti sul tavolo … Rimango perplesso che Hollande, il nuovo presidente francese del quale apprezzo l’impegno per la crescita, voglia riportare a 60 anni l’età pensionabile … Ma il punto di fondo è che la Germania deve garantire con il suo potere economico e le sue risorse la sopravvivenza dell’Eurozona». Il linguaggio del processo sociale è così forte e persuasivo, che persino il progressista Verde non può fare a meno di veicolarlo. La Germania ha dunque ragione nel punto cruciale e dirimente della questione. Come la sopravvivenza dell’Eurozona affidata al «potere economico» della Germania non debba necessariamente, al di là delle buone o cattive intenzioni di qualcuno, tradursi in una germanizzazione di fatto – e magari domani anche di Diritto – dell’Europa, ebbene ciò il mio indigente pensiero non riuscirà mai  a capirlo.