SE NON CAMBIA STAGIONE. Riflessioni sul “caso” Tiziana Cantone.

Le tout nouveau testamentBoris mi ha fornito poco fa un compendio di come
la vede. È un profeta del tempo. Farà brutto ancora,
dice. Ci saranno ancora calamità, ancora morte,
disperazione. Non c’è il minimo indizio di cambiamento.
Il cancro del tempo ci divora. […] Non c’è scampo.
Non cambierà stagione (H. Miller, Tropico del cancro).

Io ho solo sedici anni, e il mondo non lo conosco
ancora bene, ma una cosa sola posso affermare con
sicurezza: se io sono pessimista, un adulto che non lo sia,
in questo mondo, è proprio un cretino
(H. Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo).

Quando ho saputo della squallida e tragica vicenda di Tiziana Cantone un solo concetto si è fatto fulmineamente strada nella mia testa, quello di violenza. Sì, la violenza sistemica (economica, politica, militare, psicologica) di cui ho tanto scritto in tutti questi anni. Certo, anche il concetto di Sistema mondiale del terrore, magari in una sua declinazione più particolare e puntuale (“microfisica”, per dirla con Foucault), è tutt’altro che fuori luogo rispetto alla fattispecie qui considerata. Almeno per come io “vivo” e approccio questo cattivo mondo. Siamo parti di un meccanismo sociale sempre più disumano e violento che potenzialmente potrebbe schiacciarci in ogni momento, ovunque noi siamo e qualsiasi cosa noi facciamo. Il disastro è sempre in agguato, sempre dietro l’angolo, e rimanere rinchiusi in casa per scongiurare la sciagura (mentre quella degli altri ci piace assai!) è solo un anticipo di morte. Morire da vivi è la cosa peggiore che possa capitarci.

Di più, e ancor più tragicamente: noi stessi siamo questo meccanismo, che lo vogliamo o no, che lo desideriamo o no, che ci piaccia o no. Viviamo in una trappola costruita da noi stessi, nostro malgrado: notate il maligno risvolto dialettico della cosa? Il nostro essere, di volta in volta, vittime e carnefici non ha tuttavia nulla a che fare con la libertà, con il libero arbitrio, con l’etica della responsabilità e con le altre sciocchezze ideologiche che ci raccontiamo per sentirci adulti e padroni del nostro destino, e che ovviamente il Sistema ha tutto l’interesse a propinarci fin dalla nascita. Ma non raccontiamoci frottole! Siamo artefici e vittime di un Sistema (sociale) che non controlliamo affatto per ciò che riguarda gli aspetti fondamentali della nostra esistenza, e che noi impariamo ad accettare come qualcosa di naturale semplicemente perché non vediamo alternative (o perché quelle che riusciamo a immaginare ci appaiono ancora più brutte della realtà presente), perché ci adeguiamo assai facilmente a quel che passa il convento, giustificando la nostra condizione e posizione nella società con mille e più “argomenti”: sono bravo, non sono bravo, sono fortunato, sono sfortunato (pardon: sfigato), sono amato, non sono amato, sono intelligente, brillante, socievole, bello; sono scemo, scialbo, insignificante, asociale, brutto…  Come se davvero ciò che ci capita dipendesse innanzitutto da noi! Come se non stessimo partecipando a uno spettacolo la cui trama è scritta da rapporti sociali e da prassi socialmente predeterminate che condizionano la nostra esistenza dalla culla alla bara.  I casi eccezionali non fanno che illuminare a giorno la normalità, ma noi abbassiamo lo sguardo, chiudiamo gli occhi, come quando una luce troppo forte li colpisce. Qualcuno sostiene addirittura che per adattarci all’oscurità dell’ambiente siamo diventati ciechi, come alcuni animali che hanno imparato a vivere immersi nell’oscurità del sottosuolo. D’altra parte, un signore che di evoluzione se ne intendeva, capì a suo tempo che non sopravvivono gli organismi più forti, ma quelli che si adattavano meglio alle sempre mutevoli sfide dell’ambiente esterno. E difatti, chi non è socialmente abile (il mal riuscito, il disadattato) rischia l’estinzione: è una verità elementare, questa, che sperimentiamo continuamente e che appunto razionalizziamo in modi diversi, secondo la nostra sensibilità, la nostra estrazione sociale, la nostra cultura, ecc. Quanto tempo e quanta energia psichica sprechiamo per razionalizzare l’irrazionale! Per fortuna la scienza non ci fa mancare qualche “aiutino”, un qualche supporto medico-farmacologico. Il Moloch non solo ci calpesta, ma ci vende anche tutto ciò che può essere utile a metterci in sesto, a farci tirare il fiato, e continuare la corsa. Un circolo davvero virtuoso: si tratta di capire virtuoso per chi, per che cosa.

«Ai nostri giorni – scriveva Horkheimer nei remotissimi anni Quaranta del secolo scorso –, il frenetico desiderio degli uomini di adattarsi a qualcosa che ha la forza di essere, ha condotto a una situazione di razionalità irrazionale. […] Il processo di adattamento oggi è diventato intenzionale e quindi totale. […] La sopravvivenza dell’individuo presuppone il suo adattamento alle esigenze del sistema che vuol perpetuare se stesso. L’uomo non ha più modo di sfuggire al sistema» (Eclisse della ragione). Diciamo pure che egli non si pone più nemmeno il problema. E aggiungiamo anche che il Male, che spesso ci si mostra in guisa banale, è sempre e necessariamente radicale.

Il meccanismo sociale ci ha messi in condizioni tali, che un errore di valutazione, apparentemente sciocco, una svista, uno scherzo, una debolezza, una distrazione, la follia di un secondo può costarci assai caro. Chi non ha sperimentato – ancora – la cosa, farebbe bene a dismettere l’aria da furbo, da intelligente, da sgamato, e a indossare un abito più sobrio, più consono alla situazione, la quale appare dominata dalla casualità: oggi è toccata a lui (o a lei), ma domani può toccare a te (o a me!), dopodomani chissà a chi. Sotto a chi tocca! Consideriamoci piuttosto dei fortunati, mentre la ruota della sventura continua a girare. La ruota gira anche per noi!

È verissimo: come singoli individui non controlliamo il Web, ma ne siamo piuttosto controllati dalla testa ai piedi; ma questo ci accade in generale, ossia se prendiamo in considerazione la società nel suo complesso. Sotto questo aspetto, gli “eccessi” della rete confermano l’essenza della nostra condizione sociale, una condizione che attesta appunto la nostra radicale impotenza sociale. Ma di questo ho parlato diffusamente in un recente post: La violenza (di classe) come essenza dello Stato.

Insomma, chi pensa che Tiziana Cantone, tutto sommato, “se la sia cercata” («È colpa sua, solamente sua», ha detto ad esempio Oliviero Toscani), a mio avviso non sa di che parla, letteralmente. «Non voglio insultarla», ha dichiarato il celebre fotografo, «ma è un po’ fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale? Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L’ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo. I cretini sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l’ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso» (La Zanzara, Radio 24). Dovevi pensarci prima! «Capisco, ma può un errore commesso in un momento di debolezza affettiva e psicologica costarmi quella gogna mediatica che mi ha procurato un infinito dolore, per fuggire dal quale sono stata costretta a rifugiarmi nell’oblio che non conosce ritorno?» Niente da fare: conoscevi le regole del gioco, non eri una sprovveduta, e le hai ampiamente usate, quelle regole, finchè non ne sei rimasta vittima tu stessa. Chi è causa del suo male… «Tutto questo mi devasta, la gente mi riconosce, non ho più futuro. Questa gogna mediatica alla quale, ora per ora, sono sottoposta, mi sta avvicinando al suicidio». Ma come, non sapevi che viviamo di comunicazione?! «Le parodie le devi saper accettare. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso». Come gran parte dell’opinione pubblica, l’esperto in comunicazione non coglie il lato mostruoso (disumano, irrazionale) della vicenda, ma si concentra sull’ingenuità, sulla leggerezza e sulla sprovvedutezza della vittima. Il riflettore della critica non è puntato su una società che produce a dosi industriali pulsioni violente, volgarità, «cretini», «amici del cazzo» e disumanità varia (*); no, la critica bastona chi alla fine non si è dimostrato forte abbastanza da reggere il gioco: «è un po’ fessa, una fessacchiotta». Posta la natura disumana della società, si tratta di adattarsi ad essa, non di metterla radicalmente in discussione: che infantile utopia! Roba da fessi, da fessacchiotti.

D’altra parte, chi ha fatto della comunicazione il proprio mestiere, come Toscani, sa bene come il marketing solletichi a dismisura il nostro narcisismo, promettendoci un mondo che ci promuove tutti al rango di “artisti”, o quantomeno di potenziali “vip”: non è forse vero che tutti ci sentiamo, di volta in volta, scrittori, attori, fotografi, pittori, cantanti, musicisti e solo Dio sa che altro ancora? A mio avviso sbaglia, e di molto, chi enfatizza l’aspetto tecnologico del problema, semplicemente perché la macchina “intelligente” è al servizio di precisi interessi sociali, economici (ricerca del profitto, come sempre) e biopolitici (controllo sempre più spinto degli individui). Foucault una volta parlava del carcere, del manicomio, dell’ospedale, della scuola, della fabbrica e della caserma nei termini di istituzioni totali, universi chiusi e riconoscibili preposti alla fabbricazione dei corpi e delle menti, ma anche al loro controllo e alla loro riparazione. Oggi quelle funzioni sono adempiute soprattutto da strutture diffuse, astratte, difficilmente localizzabili, e perciò stesso più potenti, più pervasive e più subdole di quanto non lo fossero mai state le istituzioni totali di una volta. Scrive Chiara Giaccardi: «Viviamo di fatto come in un palazzo di vetro, dove tutti vedono tutti» (Avvenire.it); e dove tutti sono visti e sorvegliati dal Potere – qui declinato in termini astrattamente, e proprio per questo assai realisticamente, sociali. Il Grande Fratello orwelliano impallidisce dinanzi al controllo sociale realizzato spontaneamente dal mondo che ci ospita. Chi sorveglia? Chi punisce? «La società si comporta nello stesso modo esclusivo dello Stato, solo in forma più gentile, per cui non ti mette alla porta, ma ti rende la vita nella sua società così scomoda, che tu stesso spontaneamente cerchi la porta» (K. Marx, La sacra famiglia). «Solo in forma più gentile»: le parole del Moro di Treviri oggi fanno quasi tenerezza, a dimostrazione che il Male non smette di peggiorare.

In questo contesto, il cosiddetto mercato gioca un ruolo centrale, come un po’ tutti del resto sono disposti a riconoscere, salvo non tirarne le coerenti conclusioni. «Trovo solo aberrante che in questa storia ci siano macchine per far soldi, come motori di ricerca e siti potenti, che possono essere irresponsabili per le loro condotte»: è quello che ha dichiarato Fabio Foglia Manzillo, l’avvocato titolare dello studio che seguì la causa civile intentata da Tiziana. Non c’è dubbio, il rapporto sociale capitalistico è aberrante, e certamente il quadro generale non muterà di molto qualora venissero adottate misure restrittive nei confronti di chi gestisce le piattaforme digitali chiamate “social”. Il Capitale – perché di questo stiamo parlando! – ha trasformato la nostra intera esistenza in una immensa risorsa economica, in una gigantesca occasione per far soldi, e le preoccupazioni di chi vuol mettere sotto controllo la bestia, di chi vuole frenarne solo gli istinti e gli appetiti “più insani”, mi ricordano quella battuta che narra la vicenda del Tizio che vuole la moglie incinta, ma solo un poco.

Ricordate la gogna mediatica che trent’anni fa stritolò Enzo Tortora, l’infido «venditore di morte», fino a ucciderlo? Ebbene, quanto veleno e quanta cacca mediatica in più avrebbe dovuto ingurgitare il “bravo presentatore” (a me stava un po’ antipatico, per la verità) se allora fosse stata operativa la Big Net? Voglio dire allora, contraddicendomi, che il problema sta nella tecnologia che usiamo? No. Voglio ribadire un concetto: la tecnologia non fa che potenziare una carica distruttiva, in senso materiale, spirituale e psicologico, che pulsa al centro di questa società. Mi scuso e mi cito: «Metti nelle mani del Pregiudizio più antico la tecnoscienza più moderna (non mi riferisco solo agli strumenti di morte, ma anche ai moderni strumenti di informazione elettronici:  vedi gogna mediatica e messaggi virali), e avrai creato l’inferno sulla Terra. Dante dovrebbe riscrivere interamente l’Inferno!» (Due popoli, due disgrazie, 28/07/2014). Com’è facile capire, alludevo all’antisemitismo. Il problema non è dunque la tecnologia in sé, anche se non esistono tecnologie socialmente neutre anche al netto dell’uso che di esse facciamo; il problema è una società che alimenta sempre di nuovo pregiudizi, frustrazioni, invidie, illusioni, rabbia, odio, desiderio di vendetta e quant’altro (**).

Sostiene Slavoj Žižek, interrogato sul caso qui in esame dal Corriere della Sera: «Il web riproduce e diffonde più del passaparola. E può mostrare orrori da scenario di guerra, o morbosità atroci. Non può essere lasciato a se stesso. Se dai solo libertà poi si arriva a una esplosione di violenza, brutalità, razzismo. È lo Stato che deve trovare il modo di controllare il web, almeno per gli aspetti penalmente rilevanti, socialmente pericolosi. Non credo come Assange che la libertà totale del web ci salverà: certo, non mi fido neanche delle agenzie di sicurezza attuali; servono apparati trasparenti che senza indirizzo politico salvaguardino quella che è una deriva generale». Già il concetto di «deriva generale» suona alle mie orecchie quanto mai sospetto, perché esso suggerisce al pensiero che, posta questa società, le cose potrebbero andare diversamente, cioè un po’ meglio (siamo realisti!), se solo si riuscisse a tenere sotto controllo la cosa aliena responsabile, appunto, della «deriva generale», della «brutta china». Invece le cose vanno esattamente come devono andare, ossia in modo conforme alla natura di questa società: la Cosa è di questo mondo. Mai come oggi la “realistica” ideologia del male minore ha mostrato di essere irrealistica, per un verso, e alleata del Dominio, per altro verso. Questa ideologia si dà nei fatti come apologia dell’impotenza sociale che grava su tutti gli individui, a partire naturalmente da quelli che affollano le ultime posizioni della scala gerarchica.  Sulla cosiddetta «libertà» di cui parla Žižek, qui sono sufficienti le poche considerazioni “esistenzialistiche” fatte sopra; in più ripeto il mio solito mantra: non esiste autentica libertà, né umana razionalità, nella società che conosce la divisione classista degli individui. Per approfondimenti sul tema, rinvio ai miei precedenti post “politico-filosofici”.

Antonio Borrelli (Il Giornale), che certo non milita nello stesso versante politico-ideologico dell’intellettuale sloveno, la pensa tuttavia come lui circa la necessità di controllare il Web: «Forse non sapremo mai i reali motivi che hanno spinto la giovane napoletana al suicidio. Una cosa è certa: come già dichiarato dal garante della privacy Antonello Soro, risulta ormai necessario riflettere e agire concretamente per contrastare il potere degradante del mare magnum del web». Ammettiamolo: chiunque sia fornito di un briciole di buon senso non può che pensarla così. Ebbene, confesso sul punto una totale mancanza di buon senso. L’illusione proibizionista si fa strada come un vero e proprio riflesso condizionato nella testa di moltissime persone, anche perché la soluzione coercitiva delegata al Sovrano di problemi molto complessi e in grado di urtare la sensibilità etica dei più, sembra rispondere perfettamente alla nostra condizione di sudditanza, e certamente essa ci appare come la soluzione più economica, o semplicemente come la sola realisticamente praticabile. Ed è appunto questa inerzia di pensiero che bisogna combattere, su tutti i fronti della guerra quotidiana per l’esistenza, ovunque la prassi del Dominio ha modo di manifestarsi.

Nella misura in cui penso che lo Stato sia il cane da guardia posto a difesa del vigente e disumano meccanismo sociale, non posso certo condividere la ricetta di Žižek e Borrelli. Nel mio infinitamente (inconcludente?) piccolo, agisco politicamente per demistificare e delegittimare il Discorso del Leviatano, non per confermarlo e accreditarlo agli occhi dell’opinione pubblica, la quale peraltro è appunto avvezza a prestare orecchio ai paterni consigli dell’Autorità, e ciò vale soprattutto in tempi di crisi, quando tutto sembra andare in malore. Domanda del Corriere della Sera: «Lo Stato dovrebbe controllare la nostra privacy?». Risposta: «No. Il problema non è difendere la nostra privacy, ma difendere gli spazi pubblici dalla nostra invadenza, dalla tendenza a privatizzarli che li rende indecenti e indecorosi». In una parola, lo Stato, bontà sua, dovrebbe difenderci dalle nostre stesse cattive inclinazioni. Frenare la «deriva generale» per mezzo dello Stato non è certo un compito che può allettare, nemmeno un poco, chi ha in odio i vigenti rapporti sociali e le istituzioni chiamate a puntellarli sempre di nuovo, con tutti i mezzi necessari, usando il guanto di velluto o quello di ferro (oppure “pugno di ferro in guanto di velluto”), secondo le circostanze. Quanto poi agli «apparati trasparenti senza indirizzo politico» di cui parla Žižek, ognuno è ovviamente libero di coltivare la propria utopia, quella che gli è più congeniale. E poi io chi sono per giudicare l’utopia degli altri? Mi limito a costatare che la radicalità di pensiero che spesso ammiro nei suoi libri non sempre, anzi: raramente, ha modo di tradursi in indicazioni politiche altrettanto radicali, tutt’altro.

Per fortuna chi non la pensa come Assange sulle presunte capacità liberatorie e salvifiche del Web non deve necessariamente invocare l’intervento del Leviatano, come invece appare più opportuno e più realistico fare al soggetto che non vede alternative possibili a questa cattiva situazione, esattamente come capita a quelle persone che “scelgono” di imboccare la strada senza ritorno dell’oblio assoluto. Scrive la già citata Giaccardi: «La tecnologia non libera affatto, se non ne capiamo il senso, ma anzi può essere piegata a forme subdole e sempre più perverse di umiliazione e violenza. Pensiamo a quel che stiamo facendo, a dove stiamo andando, a dove sta il senso». Prendiamo coscienza del fatto che la tecnologia che usiamo, ovunque la usiamo (al lavoro, a casa), è essenzialmente espressione degli odierni rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, i quali proiettano la loro cattiva luce su tutto ciò che facciamo, agli altri e a noi stessi.

(*) «Il male non fa più paura, la violenza e la morte possono essere regine di like. Così un gruppo di ragazzi in vacanza a Sorrento posta un selfie di vittoria dopo lo stupro di un’americana nei bagni di un locale, mentre un giornalista uccide in diretta una giovane reporter e il suo cameraman in Virginia. Subito dopo si toglie la vita, ma non prima di aver caricato il video sui social, divenuto virale in pochi attimi. Tutti scandalizzati? Per niente: il 44% dei ragazzi è a favore della socializzazione della violenza. O almeno è quanto hanno risposto a un’indagine di Skuola.net.» (Linkiesta, 29 agosto 2015).

(**) Nei primi anni Novanta Radio Radicale aprì i microfoni ai radioascoltatori senza filtri né commenti. Ne venne fuori un caso sociologico definito Radio parolaccia o Radio bestemmia. «L’iniziativa delle telefonate libere fu chiamata “Radio parolaccia” e venne replicata nel 1991 e nel 1993, quando sempre per salvarsi da una possibile chiusura fu riattivata la segreteria telefonica. In tre settimane Radio Radicale divenne una delle radio più ascoltate d’Italia» (Il Post, 18 settembre 2014). «Durano da 15 giorni le telefonate di Radio Radicale con bestemmie, oscenità, razzismo. Nell’intervista di Pierluigi Battista, Marco Pannella fornisce dati e giudizi assai interessanti, curiosi e degni di attenzione sul fenomeno di “Radio parolaccia”, la trasmissione radiofonica che sta mettendo in luce “la violenza del mondo”. Alla domanda se non tema di passare alla storia come colui che ha “innescato il più osceno e sconvolgente turpiloquio radiofonico”, Pannella risponde denunciando piuttosto la “pigrizia mentale” di chi non vuole cogliere l’aspetto di grande interesse fornito dalla trasmissione: non c’è “un sociologo che si prenda la briga di studiarle, quelle voci”, e nemmeno un “linguista…”. Richiesto di un suo giudizio, Pannella parla di un “gorgo da incubo”, “l’anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole” tra le quali spicca l’ossessivo “desiderio di ‘spaccare il culo’, segno di una nevrosi sociale..”, “elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sociale…”, un bisogno “di esaltare il male che si oppone al Bene…”. La trasmissione insomma fa venire fuori tutti “gli angoli torbidi e bui della nostra esistenza…” Onorevole Pannella, non ci verrà a raccontare di aver acceso Radio Parolaccia con lo spirito di chi apre un laboratorio di studi? I maligni dicono anzi che si tratta di un’ottima trovata pubblicitaria. “E i maligni, come al solito, si condannano a non capire niente. In questi giorni la radio ha quadruplicato i suoi ascolti, milioni di persone che prima non ci conoscevano ma adesso giorno dopo giorno, cercano con affanno di sintonizzarsi sulle frequenze di Radio Radicale”. Curiosità morbosa? “Non saprei. Meglio questo di chi invece di scendere ‘nel gorgo muto’, si mette a sbraitare nello stesso modo in cui gli altri sbraitano attraverso il telefono . Un gorgo, un gorgo da incubo. Ma come, c’è da domandarsi, vi si dà la possibilità non solo di parlare ma di presentare per così dire il vostro biglietto da visita e cosa scegliete di lasciare di voi stessi? L’anonimia. Non l’anonimato, che è un’altra cosa, ma la torbida, paurosa anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole. Un numero infinito di fotocopie in cui variano soltanto gli accenti ma come in una parodia terrorizzante di unità nazionale, si adoperano le stesse, consunte parole a Trapani e a Milano”. E quali sarebbero queste parole? “Prima di tutto l’ossessivo, maniacalmente ripetitivo desiderio di ‘spaccare il culo’. Segno di una nevrosi sociale diffusa che dovrebbe far riflettere psicologi e psichiatri. Simbolo linguistico di una società in cui affiora un elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sessuale in cui il sesso, come fosse un totem, diventa un simbolo di catartica violenza in grado di appagare istinti ben piantati nel nostro immaginario. E poi c’è la bestemmia reiterata, gridata, annunciata come in un cupo rullio di tamburi”» (La Stampa, 19 novembre 1993).

MARX E LA SHARING ECONOMY

Karl_Marx_and_Ms__Universe_by_selfregionLa scorsa settimana mi è capitato di ascoltare su Radio Radicale una interessante rubrica, A che punto è la notte, curata da Roberto Sommella, “Direttore Relazioni Esterne e Ricerca dell’Istituto Autorità Antitrust”. La puntata del giorno era dedicata alla cosiddetta economia della condivisione, meglio conosciuta come sharing economy (1). Ho trascritto l’intera puntata a beneficio di chi ne fosse eventualmente interessato. Il tema non è affatto nuovo, e già da alcuni anni si parla, soprattutto nel mondo anglosassone, di «socialismo digitale», di «rivincita di Marx» a proposito dell’Open Source. Perfino Bill Gates tempo fa parlò dei teorici dell’Open Source come dei «moderni comunisti» (la cosa può far sorridere ma, a mio modesto avviso, è sempre meglio che associare il comunismo marxiano allo statalismo e al socialsovranismo!). Ho trovato particolarmente interessante e sfizioso, per così dire, l’approccio al tema tentato da Sommella, il quale, fra l’altro, mostra molta ingenuità nei confronti dello scarso “tasso di marxismo” che rimprovera a certi sinistri italiani. Cercherò di ritornare in un prossimo futuro sul tema. Mi scuso per le imprecisioni presenti nella trascrizione. Buona lettura!

nep_newsocialism_fBuongiorno e benvenuti. Buongiorno da Roberto Sommella. Mi ha colpito molto che Sinistra Italiana, il nuovo partito Di Stefano Fassina e di altri fuoriusciti dal Partito Democratico, abbia scelto come Guru spirituale ed economico il premio Nobel Joseph Stiglitz, tra l’altro celebre per i suoi scritti sull’ampliamento delle diseguaglianze. Nulla da dire sulla levatura e sull’autorevolezza del personaggio, ma forse da un partito che a questo punto si pone a sinistra del Partito Democratico, e visto come sta andando il mondo, visto come sta andando l’economia, visto in particolare come sta andando l’economia digitale che sempre più è la vera economia del pianeta, almeno da questa faccia del pianeta, sarebbe stato forse più utile utilizzare una diversa ideologia, diverse chiavi di lettura che possono arrivare a capire meglio, a mio modo di vedere, quello che hanno capito personaggi come Jeremy Rifkin, per intendersi quello della marginalità a costo zero, ovvero dell’impatto dell’innovazione tecnologica sui ricavi (2), o, perché no e sottolineo tre volte perché, come Karl Marx.

Vorrei inquadrare un attimo il momento che attraversiamo, che evidentemente è, come titola questa rubrica, abbastanza buio, soprattutto per l’incapacità degli economisti di individuare i percorsi giusti. Nell’ultimo decennio il fenomeno del costo marginale zero ha in effetti seminato lo scompiglio negli USA nel settore dei prodotti di informazione; ad esempio milioni di consumatori si sono trasformati in prosumers, un neologismo molto in voga di questi tempi negli Stati Uniti, ossia in produttori e consumatori che producono e condividono musica attraverso i servizi di file sharing, video attraverso YouTube, sapere attraverso i social media come Wikipedia, Ebook gratuiti attraverso il web,  persino la propria casa attraverso community di viaggiatori come Airbnb, ecc. Il fenomeno tanto decantato del costo marginale zero, che andrebbe studiato da Jeremy Rifkin, ha quindi messo in ginocchio l’industria discografica, estromesso dal mercato molti giornali e molte riviste, indebolito l’intera editoria libraria e chissà che non metta in difficoltà anche il mondo del credito e le banche molto prima di quanto non si pensi, dopo aver creato problemi al turismo, ai trasporti e ad una amplissima fetta di industria  – tra virgolette –  tradizionale.

Anche negli USA, che di solito sono abbastanza avanti e che possono vantare un cinque per cento soltanto di disoccupazione, non si era prevista una tale ondata di innovazione. Secondo le previsioni della Cisco System nel 2022, quindi proprio tra pochi anni, l’internet immateriale della share economy genererà risparmi ed entrate per 14.400 miliardi di dollari, una montagna di danaro. Uno studio della General Electric, che guarda caso e il fato è stata appena superata da Facebook come capitalizzazione di borsa, sostiene invece che nel 2025, a questo punto tra dieci anni, quindi dietro l’angolo, i guadagni di efficienza e produttività resi possibili da una struttura internet industriale intelligente potrebbero interessare tutti i settori economici investendo circa metà dell’economia globale.

Per Rifkin, e questo evidentemente potrebbe interessare un soggetto che si dice di sinistra e desideroso di cambiare le cose non solo nella politica ma anche nell’economia; per Rifkin, dicevo, questi fenomeni cambieranno completamente il ruolo delle multinazionali e renderanno il mercato più democratico.  C’è da chiedersi però con quale impatto sull’occupazione.  Io più volte me lo chiedo, anche attraverso questa rubrica. È un problema che si impone come un brand di successo nella convegnistica: non c’è giorno che passi senza due o tre convegni sul tema in giro per l’Italia e in Europa. La nuova economia sta creando o sta distruggendo lavoro? È la domanda che ci dobbiamo porre e che io personalmente ho provato a pormi anche nel saggio Sboom(3).

Qualche cifra sull’economia amata da chi vuole la condivisione può aiutare: […] Le imprese innovative digitali (come le prime dieci della Silicon Valley) valgono complessivamente oltre 80 miliardi di dollari e occupano non più di 10.000 addetti (4). Insomma, molto capitale e poco, davvero poco lavoro. È la sharing economy bellezza!

Karl Marx, molto prima dell’economista di Denver e del premio Nobel Stiglitz, e molto prima di un altro premio Nobel: Paul Krugman, aveva già a suo tempo trovato una definizione perfetta per questa rivoluzione digitale. Sentite un po’: «La possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica dopo i pasti, tutto a proprio piacimento senza essere pescatore, cacciatore o critico». Era la definizione della società comunista fatta dal celebre filosofo nel 1846 in alcuni scritti poi raccolti nella sua opera L’ideologia tedesca (5).

Questi passi fanno impressione, non c’è dubbio, eppure sembrano pensati oggi per definire il pianeta delle condivisioni, dove il capitalismo sembra ammantarsi di libertà nell’attimo stesso in cui genera immensi profitti e un miliardo di utenti in un solo giorno si connettono a Facebook che gli regala sogni, desideri e identità; l’economia collaborativa che si è materializzata decenni dopo la caduta del Muro e che sembra, e sottolineo di nuovo sembra, avere creato spazi inimmaginabili per i consumatori e per la creazione di plusvalore a quel capitale che continua comunque a dividere (non c’è altro da fare e bisogna rassegnarsi) i fattori della produzione (chi insomma detiene macchine e applicazioni) da chi li impiega. Quindi Rifkin ma anche Stiglitz, insomma a mio modo di vedere le teorie economiche contemporanee che cercano di osservare la realtà mentre già mutata non aiutano a prevedere cosa accadrebbe se i fattori della produzione restassero sempre in mano ai padroni della Rete, da Mark Zuckerberg agli altri miliardari della Rete, lasciando quindi solo un’illusione di benessere ai condivisori. Il caro vecchio Marx, verrebbe proprio da dire, insieme all’altro caro vecchio Friedrich Engels, ha scritto e previsto nel Manifesto del Partito comunista proprio quello che sta accadendo oggi, e forse, lo dico senza alcuna polemica, andrebbe riletto soprattutto da chi ha fatto nascere il partito della sinistra italiana, perché nel Manifesto del Partito comunista si legge che «Il continuo sconvolgimento della produzione comporta la dissoluzione di tutti i rapporti stabili e irrigiditi con il loro seguito. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione e con le comunicazioni rese infinitamente più agevoli la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni anche le più barbare, costringe tutte le nazioni ad adottare il suo sistema di produzione se non vogliono andare in rovina, in una parola», scrivono ancora Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista, «la borghesia si crea un mondo a propria immagine e somiglianza e lo impone a tutti» (6).

Ebbene questa ideologia marxista sembra avere quegli elementi visionari e anche attuali che, a mio modo di vedere, ma sbaglierò, spiegano molto meglio di tante altre teorie dei premi Nobel sull’Uber-capitalismo di oggi, il turbo capitalismo della rete che forse alla fine non è altro che il risultato finale derivante dalla sottrazione del ruolo dello Stato padrone all’utopia comunista.

(1) «Ma benvenuti nel mondo della sharing economy, quella classe di attività economiche che fanno leva sulla tecnologica informatica al fine di costruire mercati virtuali in cui lo scambio di informazioni permette lo sfruttamento di beni e risorse sottoutilizzate. Uno dei primi sistemi digitali di “consumo collaborativo” a entrare nell’utilizzo comune è stato Ebay, che ha condotto a piena commercializzazione l’intuizione libertaria di cui siti come Craiglist e Napster si erano fatti pionieri, quella cioè di una collaborazione diffusa, e per questo fondamentalmente incontrollabile, delle reti sociali virtuali volta a una creazione diretta di valore, sotto la forma di una condivisione di beni e servizi, capace di tagliare fuori gli intermediari tradizionali, annullandone i guadagni. Negli ultimi anni, è però l’ascesa irrefrenabile di aziende come Uber, che sulla sua piattaforma fornisce trasporto automobilistico privato, e Airbnb, che offre l’affitto di case e appartamenti, a essere diventata il simbolo di ciò che è considerato il chiaro segnale di una tecnologia economica destinata a essere disruptive, a rompere cioè i vecchi modelli di produzione e offerta di servizi in determinati settori. La reputazione è meritata. Uber ha 160mila autisti ma solo 550 dipendenti. Airbnb ha poco più di 600 dipendenti con un milione di stanze. E il lavoro non ha orari né regole precise. […]  Come le patacche senza valore di Mao, che i lavoratori potevano appuntarsi orgogliosamente al petto ma non riempivano il piatto, anche il Turco Meccanico [Mechanical Turk, una piattaforma digitale usata da diverse imprese informatiche] distribuisce certificati di eccellenza. Dopo averne ricevuti tre e aver portato a termine oltre 100mila Hit [è l’acronimo di Human intelligence task], Rachael Jones, casalinga del Minnesota, è riuscita a guadagnare “ben” 8 dollari l’ora. A fine 2014, dopo aver svolto 830 mila Hit per una media di 20 centesimo l’uno, la 35enne canadese Kristy Milland ha scritto una email al Ceo di Amazon, Jeff Bezos: “Sono un essere umano, non un algoritmo”, si è lamentata, senza ricevere risposta. È il rovescio della medaglia del capitalismo cognitivo. “Dobbiamo capire in che cosa gli umani sono insostituibili”, ha detto di recente il Ceo di Google Eric Schmidt. Creatività, immaginazione, intelligenza emotiva sono le caratteristiche umane che i robot non possono replicare, e che fondano l’innovazione e la creazione di valore nel nuovo regime economico. Dietro la patina dell’innovazione tecnologica si nascondono dunque una serie di rapporti che si possono studiare con categorie antiche: un mix di alienazione, sfruttamento del lavoro, sistematica elusione delle regole. In quanto tale, la sharing economy va normata e riconciliata con un principio di interesse pubblico, al di là delle difese corporative che, per la logica dello sviluppo tecnologico, sono altrimenti destinate a mostrare la corda»  (Nicolò Cavalli, Left numero 24 agosto 2015).

Nel mio studio Dacci oggi il nostro pane quotidiano si trova il mio punto di vista sul cosiddetto Capitalismo cognitivo. Cito alcuni passi dello scritto che riguardano proprio la sharing economy:

Dal possesso alla condivisione? Ma di cosa esattamente? […] Un’analoga concezione capovolta del mondo la troviamo in Jeremy Rifkin. Nel suo ultimo capolavoro il geniale socio­logo americano torna a pestare i suoi soliti concetti postcapi­talistici. Nei nuovi spazi distributivi e collaborativi disegnati dalla terza rivoluzione industriale l’accumulazione del capitale sociale acquisisce un’importanza e un valore pari all’accumu­lazione del capitale finanziario (J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale, pp. 250-251, Mondadori, 2011). Per «capitale sociale» egli in­tende il patrimonio di conoscenze, di tecnologie e di pratiche che danno sostanza al cosiddetto «mondo immateriale», fatto di relazioni sociali, di transazioni economiche ultrarapide, di intrattenimento, di studio e quant’altro. Insomma, parliamo della «Net economy». Ma non solo. Mentre nel «vecchio Capi­talismo» dominava il capitale industriale e il possesso dei beni, nel «nuovo Capitalismo», sempre più veloce e immateriale, si fanno largo il capitale sociale e la condivisione dei beni. La ri­voluzione nelle comunicazioni e nel comparto energetico crea un mondo sempre più connesso, democratico, leggero, pulito e a basso costo, con il prezzo delle merci che tende allo zero. Tende… Insomma, un suicidio in piena regola: davvero astuta, la storia!

In effetti, Rifkin non fa che ripetere i concetti già espressi in un suo saggio del 2000: «Nel processo economico, la pro­prietà del capitale fisso – un tempo fondamento della civiltà industriale – diventa sempre meno rilevante … nella nuova era, la mente domina la materia. Prodotti più leggeri, minia­turizzazione, contrazione degli spazi di lavoro, scorte just-in-time, leasing e outsourcing sono prove della svalutazione di una visione del mondo che ha posto l’accento sulla fisicità … il capitalismo si sta allontanando dalle proprie origini mate­riali, per diventare sempre più una questione di tempo» (J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, pp. 7-76, Mondadori, 2000). Ma è proprio l’autore che fonda la sua concezione sulla fisicità del mondo che lo circonda, sebbene per porre l’enfasi sulla sua rapida smaterializzazione, e questa concezione «triviale» non gli permette di capire che il Capitalismo è sempre stato una questione di tempo, per l’esattezza di tempo di lavoro. La proprietà del capitale fisso era ed è lo strumento che consente al Capitale di trasformare il tempo di lavoro in una miniera di valore, vero fondamento della Civiltà Capitalistica.

Per questo tutto il gran parlare intorno alla cosiddetta «eco­nomia della condivisione» mi fa un po’ sorridere, perché osser­vo i sociologi e gli economisti più alla moda scoprire la famosa acqua calda (ad esempio, la condivisione o «interazione siner­gica» fra diversi capitali di un determinato settore dei fattori oggettivi e soggettivi del lavoro: macchine, stabilimenti, mate­rie prime, servizi e lavoro), e presentarla all’opinione pubblica pagante come se fosse la più grande delle scoperte scientifiche. Il carattere feticistico del pensiero sociale ed economico «post­moderno» non consente allo Scienziato Sociale che lo incarna di capire che lo «sforzo sinergico» di cui sopra, teso ovviamente a razionalizzare ed economizzare l’impiego dei fattori oggettivi e soggettivi della produzione, e quindi ad esaltare la produttività del lavoro, la razionalizzazione del processo industriale e, dulcis in fundo, il saggio del profitto; che questo necessario processo non indebolisce ma piuttosto rafforza la peculiare for­ma storica della proprietà borghese, che si dà, appunto, come appropriazione di lavoro altrui non retribuito. È sul fondamen­to di questa appropriazione del fattore immateriale per eccel­lenza (l’impalpabile e filosofico tempo) che riposa la proprietà in ogni sua possibile declinazione, compresa quella «triviale» e vetusta ancorata al vile corpo delle cose.

Il pensiero rovesciato di Rifkin – ma egli è in questo in buo­na compagnia – non gli consente di capire che non solo il «capitale sociale» (o il General Intellect, come piace chiamarlo ai «postmarxisti») non si dà come antitesi rispetto al Capitale, finanziario o meno; ma come ne sia piuttosto una tipica fe­nomenologia nel contesto del Capitalismo mondiale del XXI secolo. La scienza, la tecnologia e la conoscenza sono, nell’e­poca della sussunzione totale dell’esistenza sotto il Capitale, esse stesse Capitale all’ennesima potenza, e lo stesso concetto di «capitale umano» la dice lunga su come stanno realmente le cose.

Fine della lunga citazione. Mi scuso. Il General Intellect secondo Marx: «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il con­trollo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale forma le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (K. Marx, Lineamenti, II, p. 403, La nuova Italia, 1978).

Nella sharing economy chi è il capitalista? Chi si pone questa domanda deve sapere che il Capitale è in primo luogo un rapporto sociale e deve fare i conti con la natura immateriale (astratta ossia eminentemente sociale) della proprietà al tempo del Capitalismo.

(2) «Gli effetti della dematerializzazione di molti processi industriali negli Stati Uniti e la nuova era di internet che rende possibile la marginalità a costo zero –  tanto decantata da Jeremy Rifkin – alla fine rischiano di mettere ancora più a rischio i poveri aumentando invece la solidità dei più ricchi. E oggi è già domani, almeno in America. Apple quest’anno potrebbe raggiungere quota 88 miliardi di euro di profitti occupando solo 92.600 persone, mentre negli anni sessanta General Motors – all’epoca la più grande azienda del mondo come oggi è la mela di Steve Jobs – raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando però un salario a oltre 600.000 dipendenti. Questa è la prova che il capitale si sostituisce sempre più al lavoro e che per produrre ricchezza il denaro ha sempre meno bisogno di individui» (Huffington Post, 8 aprile 2015).

Copertina Sommella(3) «Sboom (Giovanni Fioriti Editore, 2015), più capitale meno lavoro: è il nuovo libro di Sommella. Nel libro, che affronta anche alcuni capitoli ancora oscuri della costruzione europea, come la caduta del governo Berlusconi e gli effetti paradossali del Quantitative Easing della Bce, vengono ricordati alcuni dati inediti che spiegano bene la rivoluzione che stiamo vivendo. Se si considera la capitalizzazione di borsa e il numero di clienti, i dati personali valgono 405 dollari ciascuno per Google e 194 dollari per Facebook. Forse anche per questo si spiegano l’acquisizione di WhatsApp e i piani telefonici di Facebook, i progetti bancari di Apple, la scelta di Google di diventare operatore tlc. E’ in atto una generale ritirata dei vecchi processi, che colpisce tutto, anche la società. Ci si accorge del cambiamento solo quando è troppo tardi» (Economia Finanza, Il Messaggero).

(4) «C’è chi dice che la “sharing economy” valga 110 miliardi di dollari ma sembrano stime troppo prudenti: se Uber, la piattaforma online per i taxi facilita 2 milioni di corse al giorno, se Airbnb, il sito che affitta camere e appartamenti, dice di avere già avuto più di 40 milioni di “ospiti” e LinkedIn, dove i professionisti vanno a trovare lavoro, ha 380 milioni di membri, allora hanno ragione i cervelloni del McKinsey Global Institute quando predicono che questa nuova era di Internet potrebbe creare 72 milioni di nuovi posti di lavoro e aggiungere più del 2 per cento al Pil mondiale nei prossimi dieci anni. […] La spinta dei lavoratori, la domanda dei consumatori e il potere della tecnologia rende la marcia della sharing economy inesorabile. Non la si potrà sradicare, solo regolare, dirigere, plasmare?» (F. Guerrera, La Stampa, 23 agosto 2015). Bisogna chiederlo a sua Maestà il Capitale: tutto dipende dalla profittabilità delle sue pratiche economiche e delle sue tecnologie. Il velo tecnologico mostra come «potere della tecnologia» ciò che in realtà è il potere sociale del Capitale.

(5) K. Marx, L’ideologia tedesca, 1845-1846, p. 33, Opere Marx ed Engels, V, Editori Riuniti, 1972. «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. […] Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta”  e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica» (p. 34). Decisamente Marx non fu mai né un sovranista né un teorico del comunismo in un solo Paese, concezione che anzi egli ridicolizzò ai danni dei «comunisti rozzi e volgari» del suo tempo. Molti teorici della decrescita più o meno felice, soprattutto di  matrice ambientalista, hanno rinfacciato al comunista di Treviri una concezione sviluppista del progresso, senza considerare il fatto che al tempo in cui egli scriveva la sua critica anticapitalistica solo pochi Paesi potevano vantare un discreto sviluppo economico. Senza contare le sue velenose accuse soprattutto al Capitalismo e al colonialismo inglese, al sistema di dominio, cioè, più avanzato del suo tempo. «La profonda ipocrisia e l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno davanti senza veli quando dalla madre patria, dove assumono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove essa vanno nude. […] Gli effetti devastatori dell’industria inglese, se vengono considerati in rapporto all’India, un paese vasto quanto l’Europa, sono palpabili e sconcertanti. Ma non dobbiamo dimenticare che essi sono soltanto i risultati organici dell’intero sistema di produzione come è costituito oggi. […] Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese, dei mercati mondiali e dei moderni mezzi di produzione e li avrà assoggettati al controllo collettivo dei popoli più progrediti, soltanto allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orrendo idolo pagano che voleva bere il nettare soltanto dai crani degli uccisi» (K. Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, New-York Daily Tribune, 8 agosto 1853, in India, pp. 73-74, Editori Riuniti, 1993). Nel XXI secolo, nell’epoca del dominio totale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici le condizioni materiali su cui fondare il marxiano Regno della Libertà più che mature sono a dir poco senescenti! Ci sarà spazio per la “decrescita felice” dopo la «grande rivoluzione sociale», eccome!

Ma lasciamo la mia più che modesta ideologia e ritorniamo all’Ideologia tedesca! «La concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui e il suo soffocamento nella grande massa, che ad esso è connesso, è conseguenza della divisione del lavoro. […] In un’organizzazione comunista della società in ogni caso cessa la sussunzione dell’artista sotto la ristrettezza locale e nazionale, che deriva unicamente dalla divisione del lavoro, e la sussunzione dell’individuo sotto questa arte determinata, per cui egli è esclusivamente un pittore, uno scultore, ecc.: nomi che già esprimono a sufficienza la limitatezza del suo sviluppo professionale e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro. In una società comunista non esistono pittori, ma tutt’al più uomini che, tra l’altro, dipingono anche» (pp. 407-408). Inutile dire che il sottoscritto non sarà mai né un «uomo in quanto uomo» né un pittore – e di questo l’umanità non ha motivo di dolersi, diciamo.

(6) K. Marx, Manifesto del partito comunista, pp. 489-490, Opere Marx ed Engels, VI, Editori Riuniti, 1973. Dedico i passi che seguono ai sovranisti del XXI secolo: «Con gran dispiacere dei reazionari, la borghesia ha tolto all’industria la base nazionale. […] Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegati tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale» (pp. 490-491). Si tratta della Nazione del Capitale, i cui confini oggi abbracciano davvero l’intero pianeta, e dove le singole nazioni, poste al servizio del capitale nazionale e internazionale (distinzione peraltro sempre più labile),  non sono che nodi della fitta rete del Dominio capitalistico, e dove i singoli Stati non sono che cani da guardia posti a difesa dei rapporti sociali che rendono possibile la divisione dei “soggetti sociali” in sfruttati e sfruttatori, salariati e capitalisti, padroni della Rete e… prosumers.

CIBO AMARO. Può la merce sfamare l’uomo?

Riso_AmaroMi sono casualmente imbattuto in una simpatica diatriba tra un sostenitore del cosiddetto lato buono della finanza speculativa e una sua critica benecomunista. Il pomo della discordia è il cibo: può esso diventare oggetto della speculazione finanziaria al pari delle altre merci? Di più: può il cibo essere considerato una merce come le altre? Ancora più alla radice: il cibo è una merce o un «bene comune»?

Secondo Michele Governatori, conduttore della rubrica Derrick in onda il martedì su Radio Radicale per trattare temi legati soprattutto alle fonti energetiche industriali, la parola speculazione è diventata un parafulmine per gli strali di chi ha in odio la finanza, accusata di aver precipitato l’Occidente nel baratro della crisi economica. Di qui, il suo contributo per “sdoganare” una prassi economica che nel corso di oltre un secolo ha dimostrato di poter concorrere allo sviluppo razionale dell’economia. Certo, al netto dei suoi “lati negativi”, che bisogna ovviamente eliminare, senza tuttavia gettare il bagno sporco col bambino dentro. «L’affermazione secondo la quale il cibo non è una merce come le altre, come ha sostenuto Milena Gabanelli in una puntata di Report, è tautologica e carica di ideologia … In realtà, se la finanza serve a orientare gli investimenti non si capisce perché non vada bene su una cosa che si mangia». Già, non si capisce perché.

Che il cibo non sia una merce come tutte le altre* che fanno di questo mondo capitalistico «una immane raccolta di merci» (Marx) può pensarlo solo chi aderisce al pensiero politicamente corretto in salsa benecomunista, il quale è ideologico nella peculiare accezione marxiana di concezione capovolta, «a testa in giù», del mondo. Si assume una realtà astratta, della seria come dovrebbe essere il mondo sulla scorta di presupposti etici e “umanistici” negati sempre di nuovo dalla vigente prassi sociale disumana, e su questa illusione si fondono giudizi che non hanno nulla a che fare con la verità: il cibo non è una merce come le altre, il lavoratore non deve essere considerato una merce, l’acqua non è una merce… Il tutto, beninteso, fermi restando i rapporti sociali capitalistici, l’impalpabile realtà che fa di tutto quello che esiste sul nostro pianeta un’occasione di profitto: di qui, tra l’altro, il prodigioso sviluppo della scienza e della tecnica in epoca capitalistica.

Ma il pensiero economico di Governatori, nella misura in cui non scorge il centro propulsore dell’economia (capitalistica) in generale e della speculazione in particolare, ossia la ricerca ossessiva del profitto, il più pingue possibile e nel tempo più breve possibile, mostra di essere ancor più impigliato nella fitta rete dell’ideologia. Per riprendere la metafora di sopra, più che l’acqua sporca della speculazione è il bambino della valorizzazione capitalistica a mezzo sfruttamento di lavoro umano che andrebbe buttato una volta per sempre nella famosa pattumiera della storia, o della preistoria, per dirla con il barbuto di Treviri.

Scrive Silvia Pattuelli, la critica benecomunista del liberista radicale: «La finanza oltre che orientare, dirige gli investimenti con lo “sguardo corto” del mercato, che trascura, tra gli altri, anche i costi sociali che ne possono scaturire» (Silvia Pattuelli, Il cibo è una merce come le altre?, Terrestra.it ). A mio modesto parare il mercato, cioè a dire il Capitale (perché porre ancora nel XXI secolo la distinzione fra mercato e capitale è semplicemente ridicolo, nonché manifestazione di quel feticismo della merce già a suo tempo analizzato dal Capitale), il mercato, dicevo, ha lo sguardo disumano del profitto. Ma potrebbe essere diverso nella vigente società? Per la Pattuelli, che «per una distinzione tra bene e merce» rimanda a uno scritto di Edoardo Salzano (La città come bene comune), probabilmente sì. Forse leggendo Salzano capiamo di più.

«Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo. Una merce è qualcosa che ha valore solo in quanto posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in sé, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate» (Edoardo Salzano, Relazione al seminario internazionale Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberista o una città comune e solidale?, European Social Forum, Malmö, 19 settembre2008).

Se avesse citato la marxiana distinzione di valore d’uso e valore di scambio (Il Capitale, libro primo, prima sezione, capitolo primo) probabilmente il nostro benecomunista se la sarebbe cavava meglio, e con più… economia di pensiero. Ma non stiamo qui a spulciare la barba di Carletto, per dirla con il salumiere lanciato verso il trionfo elettorale. Chiediamoci piuttosto se sulla base degli attuali rapporti di dominio e di sfruttamento il valore d’uso può trionfare sul valore di scambio. La mia risposta è assolutamente, e utopisticamente, negativa, e giudico chimerica l’opinione contraria. L’utopia allude a una realtà che ancora non esiste, ma che potrebbe concretizzarsi sulla base dell’attuale processo sociale, attraverso un suo «capovolgimento dialettico», altrimenti chiamato rivoluzione sociale; la chimera esiste solo nella fantasiosa, ancorché  indirizzata verso il meglio, testa di chi la concepisce. Mai la merce sfamerà l’uomo in quanto uomo: questo è sicuro.

«Oggi le cose stanno cambiando», continua Salzano: «Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Si discute sulle cause del cambiamento. Ci si domanda perché hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità, che hanno schiacciato l’uomo sulla sua dimensione economica (di strumento della produzione di merci), che hanno reso la politica serva dell’economia». Ma come sarebbe a dire oggi? Ma se è almeno dal 1844 che taluni bizzarri personaggi, con o senza barba, parlano di riduzione dell’individuo, «reificato e alienato», a «mera merce», a «strumento di produzione», di più: «appendice della macchina»! La tendenza a mercificare l’intero spazio esistenziale degli individui, sogni e desideri compresi, è un fatto necessario sulla base del Capitalismo, e anziché nutrire la “nostalgia canaglia” per una sua fase meno sviluppata, come fanno i critici «della fase attuale del capitalismo», bisogna porsi la domanda se sia possibile, e come, superare il vigente regime sociale per costruire la comunità dei valori d’uso, «Perché l’uomo s’innalzi all’uomo» (Schiller).

aaaDov’è, poi, questo «primato dell’individuo sulla comunità», se non nell’ideologia dominante che smercia quel primato per celare il reale annichilimento di ogni individualità, sottoposta alla disumana dittatura degli interessi economici? Nella società di massa non esistono individui, almeno nell’accezione filosofica del concetto, ma atomi assoggettati alla micidiale forza d’attrazione del Dominio. «Oggi, con Richard Sennett, constatiamo con angoscia il “declino dell’uomo pubblico», osserva Salzano. Più modestamente chi scrive «constata», con l’avvinazzato di Treviri, l’inesistenza dell’uomo in quanto uomo sulla faccia della terra. E se l’uomo non esiste tutto è possibile, a cominciare dai campi di sterminio e dalla trasformazione del cibo in biocarburante mentre in molte parti del pianeta la gente continua a morire di fame, nonostante la pia attività dei missionari laici e religiosi. Per conto mio aderisco alla «forma più pura della ribellione espressa dal grido straziante di Karamazov: se non tutti vengono salvati, che cosa conta la salvezza di uno solo?» (Albert Camus, L’homme révolté).

Vedi anche qui.

* «Il cibo non è una merce come le altre»: in un certo senso questa tautologia ideologica cela qualcosa di radicalmente vero intorno al Capitalismo. Infatti, nella misura in cui il cibo entra in modo ancora oggi “pesante” tra i costi della capacità lavorativa, in qualità di bene-salario, non è del tutto infondato dire che il cibo è una sorta di «merce par excellence», per mutuare la definizione marxiana della forza-lavoro. Una testimonianza di ciò la troviamo in Inghilterra all’epoca del furibondo scontro tra proprietari fondiari e capitalisti industriali intorno alle leggi sul grano, abrogate nel 1846, che miravano a limitare o a vietare l’importazione di cereali. Quando Malthus e Ricardo incrociarono le spade, il prezzo delle materie prime alimentari basate sui cereali incidevano in modo assai rilevante sul costo della capacità lavorativa. «Pane a buon mercato, salari elevati – cheap food, high wages – ecco il solo fine per il quale i liberoscambisti in Inghilterra hanno speso milioni» (per battere i sostenitori delle leggi sul grano), scriveva ironicamente Marx nel 1848, nel suo celebre Discorso sulla questione del libero scambio; e concludeva: «Ma – fatto sorprendente! – il popolo, a cui si vuole per forza procurare pane a buon mercato, è quanto mai ingrato. Il pane a buon mercato è così malfamato in Inghilterra come il governo a buon mercato lo è in Francia» (K. Marx, Opere Marx-Engels, VI, p. 469). Davvero sorprendente! O no? Ancora Marx, il portavoce degli ingrati di tutto il mondo: «Non è forse il salario diminuito in rapporto al profitto? … Dal momento che il prezzo del pane e, di conseguenza, il salario, sono a un livello molto basso, [all’operaio] non sarà più possibile economizzare sul pane per procurarsi altri oggetti». Mutatis mutandis, la dialettica appena abbozzata conserva una notevole pregnanza sociale, e basta seguire i dati Istat sull’incidenza del consumo di generi alimentari sulla «spesa media mensile per famiglia» per farsene un’idea.