1.
Classe politica, élite, establishment, classe dirigente, oligarchia, casta tecnocratica, burocrazia, tecnoburocrazia, casta dei competenti, La Casta: la terminologia politologica e sociologica si arricchisce continuamente di termini, concetti e definizioni che sembrano fabbricati apposta per confondere le acque, soprattutto ai danni di chi frequenta per necessità (per “condizione sociale”) i piani bassi dell’edificio sociale. Il direttore del Foglio Claudio Cerasa il 2 settembre cercava “disperatamente” la nuova classe dirigente; il 7 settembre sembrava averla già trovata: «Preparati e globalizzati: medici e professionisti sono la nuova classe dirigente». Auguri!
La confusione terminologica qui richiamata ha beninteso anche una sua spessa consistenza oggettiva, ha cioè delle precise motivazioni sociali sintetizzabili, con qualche forzatura riduzionista (diciamo pure semplicistica), con il concetto di complessità. Si tratta tuttavia di una complessità che a sua volta ha una sua ben riconoscibile connotazione storica e sociale, la quale rinvia a “problematiche” (economiche, politiche, istituzionali, ideologiche) di grande rilievo che cercherò di toccare in questo scritto – senza peraltro approfondirle.
In questi tempi calamitosi molto si parla, quasi sempre in modo elogiativo, del grande ruolo che gli scienziati e gli “esperti” starebbero svolgendo a favore del “bene comune”; tuttavia non sono pochi gli intellettuali che, non condividendo l’entusiasmo di Cerasa, rimproverano i decisori politici di aver lasciato uno spazio di manovra e di discrezionalità eccessivamente largo a quella “nuova classe dirigente”, peraltro esentata dal vaglio elettorale, con ciò che ne segue in termini di “controllo democratico”. Addirittura c’è chi si spinge a parlare senza alcun timore di dittatura degli scienziati e degli esperti: che esagerazione! In questo l’accusa di “complottismo negazionista” è assicurata e immediata. Qualcuno parla addirittura di Tecnocene [1], in evidente continuità polemica con il concetto di Antropocene: due esempi su come affibbiare un nome a una cosa considerandola da una prospettiva completamente capovolta: a testa in giù, come avrebbe detto l’uomo con la barba. Si vede il dominio della tecnica o di una prassi umana genericamente (astoricamente) considerata, là dove insiste invece il dominio del Capitale, ossia dei rapporti sociali capitalistici.
Carl Schmitt criticava la «neutralizzazione passiva» della politica attraverso il suo farsi tecnica e scienza, e ne metteva in luce il momento ideologico, ossia il voler negare da parte della politica una realtà che contraddice in radice ogni discorso intorno alla possibilità di una società pacificata, libera dal conflitto e da ogni forma di antagonismo – tra le classi, tra gli Stati, tra le nazioni, tra i singoli individui. La tecnoscienza come modello “demoniaco” che la politica deve rifiutarsi di far suo: «La tecnica resasi con il passare del tempo sempre più autonoma e più importante nella produzione economica ha prodotto, grazie alle sue invenzioni, l’unificazione mondiale dei mercati, gettando il germe della futura unità politica mondiale. L’uomo moderno, assoggettato alla logica dell’utile, ha perso così ogni dimensione culturale e disinteressata e vive unicamente in vista di bisogni artificiali, quali il comfort e la ricerca di sicurezza» [2]. Come se la tecnica e la scienza non fossero due modi di essere fondamentali del Capitale, il quale diventa potenza dominante proprio grazie al loro uso sistematico nel processo produttivo. La concezione schmittiana della modernità capitalistica è viziata da quel feticismo tecnologico che non smette di fare proseliti in diversi ambiti culturali e politici. Che la «logica dell’utile», cioè del profitto, domini necessariamente e in modo sempre più stringente la società capitalistica colta nella sua totalità, ebbene questo è un concetto incomprensibile per l’intellettuale borghese (di “destra” o di “sinistra” che sia), il quale riscalda il proprio cuore con la chimerica idea di un capitalismo dal volto umano: «Si tratta di scacciare i suoi lati cattivi e tenerci quelli buoni». Dalla mia utopistica prospettiva rido di questa pessima e miserrima illusione. Ma qui rischiamo di “allargarci” troppo! Ritorniamo dunque “sul pezzo”.
Intanto va rilevato, a proposito di scienziati e competenti vari, che in tutti questi mesi di “crisi sanitaria” i virologi, gli scienziati e i tecnici coinvolti nella gestione della crisi hanno detto – e continuano a dire – tutto e il contrario di tutto, fornendo tuttavia al governo una preziosa collaborazione intesa a giustificare/legittimare agli occhi dell’impotente opinione pubblica le sue decisioni, le sue indecisioni, le sue contraddizioni. La politica ha sempre potuto invocare, nella buona come nella cattiva sorte, il “parere degli esperti”, e tutte le volte che è stato necessario i decisori politici hanno usato il registro della colpevolizzazione, sempre supportati dal “parere degli esperti”: «Per colpa di qualche irresponsabile rischiamo di mandare in fumo i sacrifici che abbiamo fatto»; «Tutto dipende da noi», ecc. A mio avviso sbaglia chi pensa che siano gli scienziati e i tecnici a dirigere il traffico. I comitati tecnico-scientifici rappresentano la continuazione della politica con altri mezzi. Cosiddetti competenti e governanti (nell’accezione più larga del termine che include anche l’opposizione parlamentare e sindacale) sono naturalmente al servizio della classe dominante.
Chi aspetta l’agognato vaccino per tirare un sospiro di sollievo, crede in perfetta buonafede che la nostra salute e la nostra stessa vita siano nelle mani della scienza; in realtà siamo tutti, scienziati compresi, nelle mani del Capitale. E a proposito di “crisi sanitaria”, occorre dire che abbiamo avuto, e abbiamo a che fare, con una crisi sociale nel senso più puntuale del concetto, perché il cosiddetto evento pandemico si inscrive per intero, tanto per la sua genesi quanto per le sue conseguenze di portata globale, nel quadro della vigente Società-Mondo. Credere che il problema sia il Virus, e non la società che l’ha trasformato in una fonte di malattia, di sofferenze e di crisi sistemica: è ciò che chiamo, con scarsa originalità di pensiero, feticismo virale.
«Sono d’accordo con l’introduzione dei robot nell’industria e nei servizi a condizione che a comandare sia l’uomo, non il robot: quante volte abbiamo sentito e letto queste “sagge parole”? Tantissime, fin troppe! In questo caso ci troviamo dinanzi a un feticismo di tipo tecnologico, il quale impedisce ai “saggi” di capire che chi comanda l’uomo è il Capitale, che si serve del mezzo di produzione chiamato robot per sfruttare nel modo sempre più economicamente razionale tutti i “fattori della produzione”, a cominciare dal «lavoro vivo».
Poco sopra ho evocato la classe dominante, locuzione assente nell’elenco terminologico che apre questo scritto, e anche di questa mancanza si dovrà dare una qualche spiegazione. Quello di classe dominante non è forse un concetto troppo vecchio, anzi antico? Qui è solo il caso di dire che chi giudica i concetti e le parole che usiamo per esprimerli adoperando le categorie di “vecchio”e “nuovo”, spesso mostra, quantomeno agli occhi di chi scrive, di avere un approccio superficiale e formale con la realtà. Nel caso che ci riguarda, si tratta di vedere se il concetto di classe dominante è ancora in grado di dar conto dei più importanti fenomeni sociali che rigano e plasmano sempre di nuovo la società del XXI secolo. È attuale (non “vecchio” o “nuovo”) il concetto di classe dominante? E in che senso si può parlare oggi “materialisticamente” (ossia da una prospettiva storica e sociale critica, non ideologica) di classe dominante?
Scriveva Marx a proposito del «denaro come rapporto sociale»: «Questi rapporti di dipendenza materiali opposti a quelli personali (il rapporto di dipendenza materiale non è altro che l’insieme di relazioni sociali che si contrappongono autonomamente agli individui apparentemente indipendenti, ossia l’insieme delle loro relazioni di produzione reciproche diventate autonome rispetto a loro stessi) si presentano anche così: che gli individui sono ora dominati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l’uno dall’altro. L’astrazione non è però altro che l’espressione teoretica di quei rapporti materiali che li dominano» [3]. Il Capitale realizza il dominio dell’astratto sul concreto, della totalità sociale sul particolare. Su questo concetto, sviluppato a partire dalla teoria marxiana del valore, rinvio al mio scritto Il dominio dell’astratto. Credo che i concetti di classe dominante e di dominio di classe debbano essere fondati «sul rapporto di dipendenza materiale» di cui parlava Marx.
L’ultimo libro di Thomas Piketty Capitale e ideologia, destinato ovviamente a diventare in fretta un altro bestseller, «è una fluviale (1.232 pagine) denuncia delle crescenti e non più tollerabili disparità create dal capitalismo [sai che novità!], con alcune proposte dirompenti come “superare la proprietà privata e sostituirla con una proprietà sociale e temporanea”» [4]. Proposte davvero “dirompenti”, non c’è che dire; e già mi pare di vedere e di sentire il Moloch tremare e urlare: «Che paura!» Scherzi a parte, ha senso contrapporre la proprietà privata alla proprietà sociale? Cercherò di rispondere a questa domanda nelle pagine che seguono. Come vedremo, attraverso l’espropriazione della proprietà privata individuale/personale precapitalista e semicapitalista, a cominciare dalla proprietà centrata sui produttori diretti trasformati, con le buone e – soprattutto – con le cattive”, in lavoratori salariati, si realizza quel monopolio sociale dei mezzi di produzione e del prodotto del lavoro che sta a fondamento della moderna società capitalistica [5]. Questo monopolio, il cui fondamento sociale si rinnova sempre di nuovo, giorno dopo giorno, produzione dopo produzione, conferisce alla proprietà capitalistica una peculiare natura sociale che per l’essenziale prescinde dalla forma giuridica che questa proprietà assume nei diversi Paesi e nelle diverse congiunture storiche. Semplificando al massimo: privata o statale che sia, la proprietà capitalistica ha sempre un preciso connotato di classe. Questa tesi è valida anche alla luce del fatto che lo Stato non è una classe sebbene, in determinate circostanze, esso può surrogare le funzioni della classe dominante? Credo proprio di sì.
L’essenza del Capitale come viene fuori dalla teoria marxiana non ha a che fare con la proprietà privata personale, sebbene strutturata economicamente e giuridicamente in coerenza con una nuova configurazione storica (borghese): tale essenza va appunto individuata nel carattere di forza sociale che il Capitale ha fin dall’inizio. Vedremo in seguito in che senso possiamo parlare di proprietà privata sul fondamento della vigente società.
Quando parlo di classe dominante e di dominio di classe è dunque a questa precisa costellazione concettuale che faccio riferimento; al centro di essa pulsa come «momento egemone» il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento (dell’uomo e della natura) che oggi ha la dimensione del nostro pianeta e che in mille modi orienta la nostra esistenza, penetrandone anche la sfera psicosomatica grazie soprattutto all’ausilio della tecnoscienza. Il concetto di biopolitica, peraltro oggi usato e abusato in certi ambienti politico-intellettuali in guisa di segno di riconoscimento identitario, non è in grado di restituire per intero la radicalità della prassi del dominio.
Per Jacques Bidet, filosofo e “teorico sociale” francese, «la classe dominante comprende due poli, uno attorno alla proprietà capitalista e l’altro attorno all’organizzazione presumibilmente competente». Egli contrappone il mercato a una non meglio specificata, e a dire il vero assai confusa, organizzazione, regno, se ho capito bene, dei «competenti». «La tesi di Marx spingeva all’idea che fosse necessario abolire il mercato, cioè anche la proprietà privata dei mezzi di produzione, contemporaneamente al capitale. Questa era la strada seguita dai sovietici» [6]. Diciamo piuttosto che quella era la strada che i sovietici dicevano di voler seguire, mentre in realtà ne seguivano un’altra e opposta: quella del Capitale, e quindi la strada del mercato e della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione. «Mi sembra molto importante che l’organizzazione domini il mercato. E questo è, mi sembra, il caso della Cina oggi. In questo senso, il termine “capitalismo di Stato”, non più che “socialismo di mercato”, mi sembra che gli si addica. Ma io sono un sostenitore del comunismo, non del socialismo». A me risulta che più che «un sostenitore del comunismo», il Nostro sia un estimatore del “comune”, il quale «apre una prospettiva di democrazia economica partecipativa e discorsiva». Anche qui non posso che dire: auguri! D’altra parte, chi sono io per giudicare il “comunismo” degli altri?
Tuttavia mi sento di dire che contrapporre il comunismo al socialismo, anziché porli in una dialettica relazione concettuale e storica, ha senso solo se si ammette la natura socialista dei regimi del cosiddetto “socialismo reale”, cosa che personalmente ho sempre negato nel modo più assoluto. Quel che si può certamente affermare, e qui l’intellettuale francese ha ragione, è che nel caso della Cina (come negli altri casi analoghi) si debba parlare solo ed esclusivamente di capitalismo: se di “Stato” o altro, qui è secondario. Capitalismo, beninteso, in senso stretto, nell’accezione più conforme ai concetti marxiani sviluppati come critica dell’economia politica intesa a penetrare la natura sociale del Capitale.
Scrive Bidet a proposito della funzione sociale dei cosiddetti competenti: «Tra capitalisti e cosiddetti competenti c’è la doppia possibilità di convergenza e divergenza. I competenti, se sono attratti da un’alleanza con i capitalisti mentre questi ultimi predominano, possono anche, almeno per grosse frazioni, trovare più interessante allearsi con la gente comune, con la speranza di prendere l’iniziativa. Questa possibilità di alleanza dipende, per la maggior parte, dalla forza politica organizzata della gente comune. Inoltre, è in queste condizioni che da un secolo sono state impegnate le grandi rivoluzioni comuniste nel mondo. Ma, una volta emarginati i capitalisti, i competenti sono diventati una nuova classe dirigente». Detto che a me non risultano «grandi rivoluzioni comuniste nel mondo» nel XX secolo, salvo quella, poi finita malissimo, del 1917 in Russia; detto questo, ha un senso parlare dei competenti nei termini di «una nuova classe dirigente»? E poi, quanto per Bidet il concetto di classe dirigente è assimilabile a quello di classe dominante? Il dubbio nasce perché egli parla di «nuova classe dirigente» in relazione alla “emarginazione” dei capitalisti: si tratta di un confronto, di un’assimilazione funzionale o cos’altro? E cosa intende Bidet per «gente comune»? Quest’ultima domanda occorre guardarla alla luce della critica che il francese rivolge alla moltitudine di Toni Negri: «Questo discorso “moltitudinale” è venuto a sostituire il discorso classista. Il problema non è la sua risonanza teologica, è il fatto che ci libera da considerazioni analitiche, soprattutto in termini di sfruttamento, a cui ci chiama l’analisi di classe». Condivido questa critica, ed è per questo che la «gente comune» mi sembra una categoria sociologica quantomeno vaga, diciamo così.
Classe dominante e classe dominata (o subalterna) si corrispondono reciprocamente con assoluta necessità: l’una presuppone e pone sempre di nuovo l’altra, esattamente come il Capitale presuppone e pone sempre di nuovo il lavoro salariato, e viceversa. Si tratta piuttosto di capire come fondare il concetto di classe dominante andando oltre il punto di vista meramente sociologico (empirico/statistico), non per negare o sottovalutare la concreta realtà con cui facciamo tutti i giorni i conti, ma per comprenderla nella sua intima natura. A mio avviso, la ricerca sociologica empiricamente orientata mostra tutti i suoi limiti concettuali ed euristici proprio nella ricerca di presunte nuove classi dominanti, sforzo che finora non ha mai contribuito a spiegare nulla di veramente significativo circa la struttura di classe della società e la sua dinamica, mentre di fatto costringe il pensiero che vuole diventare critico a distogliere lo sguardo dall’essenziale, dai rapporti sociali di produzione.
In ogni caso, la stessa esistenza di una classe di senza riserve (di proletari, come li chiamavano Marx ed Engels) ci obbliga a parlare del dominio sociale capitalistico nei termini di un dominio di classe – in quanto esso si fonda appunto sullo sfruttamento di una classe. E dove c’è un rapporto di sfruttamento, deve esistere con assoluta necessità un rapporto di dominio che si estende a tutta la società, ben oltre i confini della sfera della produzione. Dominio di classe e dominio sociale sono due nomi diversi per una stessa Cosa.
Scrive Luciano Gallino: «Dovendo effettuare una scelta tra un elevato numero di dimensioni o indicatori di classe, io credo che la combinazione più utile sia ancora quella classica, anche se piuttosto comune, che include la ricchezza o reddito, il prestigio o valutazione sociale, e il potere o controllo. […] Tutte queste dimensioni devono esser considerate da un punto di vista societario; ciò che importa è il reddito “tipico” di ogni classe in rapporto a tutte le altre classi della società, il prestigio che i membri di una classe ricevono in media ovunque essi vadano, il potere che essi hanno all’interno dell’organizzazione sociale totale e su di essa» [7]. Nella determinazione della classe dominante ciò che invece importa è a mio avviso come si dispongono le diverse classi in relazione al rapporto sociale di produzione dominante, mentre tutto il resto («la ricchezza o reddito, il prestigio o valutazione sociale, e il potere o controllo») ne discende dialetticamente, cioè in termini di mediazione tra generale e particolare, essenza e fenomeno. Detto in altri e più brutali termini (ma brutale è la realtà!), si tratta di stabilire chi sfrutta e chi viene sfruttato, chi produce la ricchezza sociale (in termini marxiani: valore e plusvalore) e chi e perché si appropria di questa ricchezza; chi (o che cosa) domina e chi viene dominato. Tra l’altro, assimilare senz’altro ricchezza e reddito è tipico dell’economia politica volgare, per dirla sempre con l’autore del Capitale, con ciò che ne segue in termini di analisi della struttura di classe di un Paese. Marxianamente parlando, il reddito è cioè che non viene reinvestito nel processo di accumulazione ma consumato improduttivamente – dal punto di vista capitalistico.
Lo spazio d’intervento che anche nei Paesi occidentali lo Stato sta conquistando sul terreno immediatamente economico è certamente una delle più importanti fenomenologie della crisi capitalistica che la nostra società sta attraversando. Un’economia incapace di remunerare a sufficienza il capitale investito in ogni ambito di attività (produzione, distribuzione, servizi finanziari, ecc.), costringe di fatto lo Stato a intervenire nel “mondo degli affari” per puntellare investimenti bisognosi di profitti che oggi il “libero mercato” non è in grado di assicurare, e per far fronte ai problemi sociali che derivano dal fallimento generalizzato delle imprese. Gettando lo sguardo oltre l’apparenza fenomenologica, la quale restituisce al pensiero privo di profondità analitica e critica il quadro che tanto inquieta i nemici del “socialismo”, non è lo Stato che si serve del Capitale per allargare il proprio potere sulla società, ma è piuttosto il secondo che si serve del primo per “ossigenare” una congiuntura economica diventata asfittica, e per stabilizzare la struttura economico-sociale sottoposta a gravi tensioni sociali [8]. Qui per “Capitale” intendo sempre la potenza sociale dominante – e non solo “in ultima analisi” – su scala mondiale. Il rafforzamento del ruolo dello Stato anche nelle democrazie capitalistiche di stampo occidentale va sempre considerato alla luce di quanto accade e si muove nel “mondo degli affari”, il quale ormai da oltre un secolo è legato in mille modi al “mondo della politica”. Sul concetto di capitalismo di Stato ritornerò più diffusamente in seguito.
Per comprendere la portata politica, e non meramente dottrinaria, del tema qui posto a riflessione, credo sia sufficiente richiamare la circostanza per cui in tutti i più importanti Paesi del mondo la cosiddetta opinione pubblica mostra d’essere estremamente permeabile ai discorsi di demagoghi e populisti di ogni genere, intesi a individuare capri espiatori su cui scaricare rabbia, frustrazione, paure, angoscia, invidia sociale e quant’altro questa pessima società è in grado di produrre a ritmi industriali. Capire il pessimo mondo in cui viviamo è fondamentale nella ricerca delle vie che portano oltre i suoi confini, verso un mondo autenticamente umano. Più che di un viaggio, in realtà si tratta di una distruzione e di una costruzione. Come diceva qualcuno, le classi subalterne possono distruggere tutto, perché tutto possono costruire; esse possono distruggere il presente perché possono costruire il futuro. Possono, è in loro potere farlo. Evocata questa eccezionale possibilità, qui bisogna però arrestarsi, sempre per non allargare eccessivamente il campo “problematico” che proverò a indagare.
Devo lo spunto della riflessione che consegno al giudizio dei lettori alla lettura dell’ultimo libro di Raffaele A. Ventura Radical choc, dal quale mi piace citare i passi, forse ispirati dal comunista di Treviri, che seguono: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi. L’anno 2020 ce lo ha ricordato nel modo più incisivo» [9]. Di qui, all’avviso di chi scrive, la necessità e l’urgenza di farla finita con rapporti sociali (non semplicemente con individui sociologicamente caratterizzati) che determinano per tutti gli esseri umani, e per i senza riserve in particolare, una condizione di permanente disumanità e pericolo. A me pare che sempre più la salvezza dell’umanità e della natura coincide con la distruzione del regime sociale capitalistico, il quale per l’una e per l’altra rappresenta un problema (anzi: il problema), non certo la soluzione: è una tra le poche certezze che ho e che mi piace coltivare e condividere con gli altri. Inutile dire che la riflessione che segue ha molto a che fare con queste mie anticapitalistiche considerazioni.
2.
La rilettura, a distanza di moltissimi anni, del libro che Bruno Rizzi [10] pubblicò a Parigi nel 1939 (La Bureacratisation du Monde), e che nel suo interessante libro Ventura cita ampiamente, ha insinuato nella mia curiosa (in tutti i sensi!) testa la paradossale quanto bizzarra domanda che segue: posta la società capitalistica, avrebbe un senso parlare di dominio di classe nel caso – del tutto ipotetico – in cui non fosse più possibile individuare una classe dominante nell’accezione sociologica del concetto? È “legittimo” parlare, sempre in linea di principio, del dominio di classe nei termini di una fitta rete di interessi [11] del tutto impersonale (ossia empiricamente “impalpabile”) e dunque totalmente sociale (o astratta in questo preciso significato)? È concettualmente concepibile un dominio di classe che non abbia come suo fondamento una classe dominante? Nelle pagine che seguono cercherò di dare un senso, più che una risposta, a queste domande. Qui faccio rilevare che l’espressione totalmente sociale usata sopra chiama in causa il totalitarismo sociale realizzato (nella prassi, non nella teoria) dai rapporti sociali capitalistici, e che sta a fondamento della dittatura del Capitale che informa la prassi sociale di tutti i Paesi, a prescindere dal loro regime politico-istituzionale. È soprattutto in opposizione a questa dittatura sociale che Marx sviluppò il concetto di «dittatura rivoluzionaria del proletariato».
Va ribadito, a scanso di equivoci, che qui non cercherò di illustrare la situazione storica attuale, né di riflettere su casi storici particolari, né, tanto meno, di azzardare previsioni di medio o lungo periodo sulla scorta delle tendenze individuate nel processo sociale; cercherò piuttosto, e assai più modestamente, di usare materiali storici, politici e teorici per rendere più chiara possibile (in primis a me stesso!) la concezione che ho maturato ormai da molto tempo sulla natura della vigente Società-Mondo. Ragionare “al limite”, focalizzando l’attenzione su una mera ipotesi (la scomparsa della classe dominante concepita come sommatoria di capitalisti individuali) può forse aiutarci a capire meglio la concreta realtà della società capitalistica del XXI secolo. D’altra parte, occorre anche dire che quell’ipotesi ha, come vedremo, un preciso fondamento storico e sociale nel capitalismo come il mondo ha imparato a conoscerlo nell’epoca dei monopoli, del capitale finanziario e dell’imperialismo.
Molti degli studiosi che hanno analizzato il Capitalismo di Stato nelle sue diverse manifestazioni storiche, hanno commesso l’errore di identificare la classe dominante con lo Stato, di appiattire senz’altro l’una nell’altro, con ciò eliminando la tensione dialettica che è sempre esistita tra il sociale propriamente detto (l’hegeliana società civile) e il politico, e questo proprio perché essi non sono riusciti a cogliere ciò che sovrasta e, al contempo, regge la struttura sociale. Il pensiero che aspira alla “concretezza” ha bisogno di toccare con mano, per così dire, gli oggetti che indaga, salvo poi ritrovarsi a contemplare una cattiva concretezza, una concretezza vuota di determinazioni socialmente significative perché non contiene al suo interno il momento della totalità. Si tratta di una «concretezza fantomatica» (Marx) che non è in grado di spiegare la società nel suo incessante, contraddittorio e conflittuale movimento.
Nel Capitalismo sviluppato il dominio sociale non è esercitato da un soggetto personale, o dalla somma sociologicamente caratterizzata di persone (i capitalisti), ma da un soggetto impersonale (o, marxianamente parlando, astratto) che è il prodotto delle attività economiche informate dal rapporto sociale capitalistico: si produce (un “bene” o un “servizio”, cioè una merce) in vista di un profitto. È appunto la potenza sociale di cui parla il comunista di Treviri, e che personalmente spesso caratterizzo, non so con quanta accuratezza “scientifica”, come Moloch, una mostruosa creazione interamente umana – ossia realizzata dalle attività e dalle relazioni umane. Dalla mia prospettiva, il Capitale-Moloch nei termini qui proposti appare ben più di una metafora o di una semplice figura retorica.
Scriveva Marx: «Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essa, della quale essi non sanno né donde viene né donde va, che quindi non possono più dominare, e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini ed anzi dirige questo volere e questo agire» [12]. Nei passi del Capitale che Marx dedica al feticismo della merce troviamo gli stessi fondamentali concetti. Potere sociale e rete/intreccio di interessi sono due modi diversi di chiamare in causa la stessa Cosa: il dominio sociale capitalistico. Si tratta di mettere in dialettica questo concetto con quello di classe dominante.
Alle spalle degli individui prende dunque corpo una volontà sovraumana (meglio, disumana) che si impone su tutti e su tutto. Non a caso sempre Marx affermò che nel capitalismo il lavoro morto domina sul lavoro vivo: che mostruosa aberrazione! Il Capitale ha dunque una sua volontà, o, meglio, ciò che possiamo concettualizzare nei termini di una volontà, ancorché essa non abbia come “sede” un cervello comunemente concepito; è in grazia di questa peculiare volontà, che, è bene ribadirlo, ha un carattere puramente oggettivo (sociale), che il Capitale merita a mio avviso lo status di soggetto sociale. Scrive lo psicoanalista Alfredo Eidelsztein: «La questione è che non si riconosce l’esistenza di un soggetto se non pensando a un individuo in carne e ossa, responsabile di detti, sogni, lapsus e sintomi» [13]. Mutatis mutandis, penso che si possa dire qualcosa di analogo a proposito del soggetto di cui parlo in questo scritto.
[1] «Questi manager detengono conoscenze tecniche e ingegneristiche, capacità di coordinamento e direzione, sanno guidare, amministrare e gestire, organizzare, sovraintendere e la distanza tra la loro preparazione tecnica e quella necessaria al lavoratore medio aumenta di giorno in giorno. Inoltre, a causa del progresso tecnologico, queste funzioni diventano sempre più specializzate, complesse, decisive» (D. De Masi, Lo Stato necessario, Rizzoli, 2020).
[2] M. salvato, L’origine della politica e il problema della tecnica nel pensiero politico di Carl Schmitt, PDF, p. 3.
[3] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 107, La Nuova Italia, 1978.
[4] Intervista di T. Piketty al Corriere della Sera, 31/8/2020. L’economista francese si lagna della censura subita dall’editore cinese del suo libro: «A mio parere questa censura illustra il nervosismo crescente del regime cinese e il suo rifiuto di un dibattito aperto sui diversi sistemi economici e politici. È un peccato; nel mio libro adotto una prospettiva critica ma costruttiva sui diversi regimi inegualitari del pianeta e sulle loro ipocrisie, in Cina ma anche negli Stati Uniti, in Europa, in India, Brasile, Medio Oriente e altri. È triste che il “socialismo dai colori cinesi” di Xi Jinping si sottragga al dialogo e alla critica». La mia critica dei diversi regimi capitalistici del pianeta (compreso ovviamente quello con caratteristiche cinesi) è invece tutt’altro che costruttiva, essa è anzi radicalmente distruttiva, irriducibilmente negativa. D’altra parte Piketty si batte per un diverso assetto (meno “inegualitario” e “più umano”: sic!) del capitalismo, e quindi la prospettiva anticapitalistica gli è completamente estranea. Ma il “socialismo dai colori cinesi” non bada a questi dettagli!
[5] L’espropriazione dei liberi produttori da parte del Capitale è, come scrisse Marx nel suggestivo Capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria), l’atto fondativo della moderna società borghese. A un polo il Capitale (mezzi di produzione, materie prime, merci, scienza, industria, commercio, finanza), al polo opposto il lavoratore, proprietario di mera capacità lavorativa. Questo rapporto sociale realizza la sostanza della proprietà capitalistica, la quale come scrisse sempre Marx è in primo luogo proprietà sul tempo di lavoro altrui. Che sia un singolo capitalista, o la classe dei capitalisti oppure un capitalista “collettivo” (ad esempio, lo Stato) a disporre di questa proprietà non fa alcuna differenza quanto all’essenza della cosa.
[6] J. Bidet, Marx, Althusser, Foucault e il presente, Bollettino culturale, 6/9/2020.
[7] L. Gallino, L’evoluzione della struttura di classe in Italia (1970), Quaderni di sociologia, 26/27 2001.
[8] Scriveva Paul Mattick nel 1934, analizzando il capitalismo di Stato come venne a configurarsi negli anni Trenta: «Il capitalismo di Stato non è una forma economica più elevata del capitalismo monopolistico, bensì soltanto una sua variante camuffata; esso ha lo scopo di compensare politicamente gli squilibri tra le forze di classe, poiché nel capitalismo monopolistico, a causa dell’assottigliamento della classe dirigente e dei suoi lacchè, è necessario un intervento più diretto dello Stato per la conservazione del dominio di classe» (P. Mattick, La crisi permanente, in AA. VV., Capitalismo e fascismo verso la guerra, La Nuova Italia, 1976).
[9] R. A. Ventura, Radical choc, p. V, Einaudi, 2020. Il Capitale di Marx si apre come segue: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immensa” raccolta di merci”» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 67, Editori Riuniti, 1980). Produzione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica e produzione di rischi e di magagne d’ogni tipo (e sottolineo d’ogni tipo) sono, a mio avviso, due facce della stessa medaglia, due inscindibili modi di essere e di apparire del Capitale.
[10] «Poggio Rusco 1901, Bussolengo 1977. Nel gennaio 1921 prende parte a Livorno ai lavori di fondazione del nascente Partito Comunista d’Italia (PCd’I), cui aderisce fin dal suo sorgere. Ben presto, però, in seguito alle scoraggianti informazioni che giungevano dall’Unione Sovietica, assume un atteggiamento sempre più critico nei confronti delle pratiche poste in essere dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica e dal Comintern. Negli anni trenta, convinto che fosse ancora possibile reincanalare nel giusto alveo lo stato di cose scaturito dalla Rivoluzione d’Ottobre, si avvicina al movimento internazionale capeggiato da Lev Trockij. In questo compito è facilitato anche dalla sua attività di rappresentante di calzature, che gli permette di viaggiare per tutta Europa, toccando grandi capitali come Parigi e Londra» (Wikipedia).
[11] «Che cosa precisamente è la classe? Un insieme di persone? Detto male. È invece una “rete di interessi”, […] intreccio, incontro di interessi» (Amadeo Bordiga, lettera a Onorat Damen del 9 luglio 1951, in O. Damen, Bordiga fuori dal mito, p. 39, Prometeo, 2010). Ecco chi mi ha suggerito la locuzione fitta rete di interessi! Quanto al concetto sottostante non so se, o fino a che punto, esso rispecchi il pensiero di Bordiga. Rileggendo dopo molti anni i suoi scritti sul falso socialismo sovietico, credo che i “miei” concetti di dominio sociale e di classe dominante hanno molti punti di contatto con la concezione bordighiana che informa l’analisi del capitalismo di Stato, in generale, e di quello russo in particolare. Ma, ripeto, posso anche sbagliarmi. Personalmente sono arrivato alla “rete di interessi” seguendo Marx, e la stessa cosa dice di aver fatto Bordiga, il quale peraltro riteneva di essere un mero «ripetitore di Marx»; ma non volendomi nascondere né dietro l’autorità del comunista italiano né dietro quella, assai più riconosciuta, del comunista tedesco, preferisco assumermi la piena responsabilità dei concetti che esprimo. D’altra parte, a differenza di Bordiga io penso che citare un autore significhi già interpretarlo, farlo nostro, restituirlo agli altri attraverso la nostra pregnante mediazione, che lo si voglia o meno. «Propendiamo per sostenere che in Bordiga, proprio in seguito alla riflessione da lui sviluppata sulla struttura economico-sociale dell’URSS, la categoria dì “classe capitalista” tende a decadere come categoria sociologica – indicante cioè un gruppo sociale ben definito – e resta come pura categoria economica» (L. Grilli, Amadeo Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, p. 83, La Pietra, 1982). Categoria economico-sociale, o sociale tout court, mi permetto di “correggere”. Anche qui vale ciò che ho scritto sopra.
[12] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 33, Editori Riuniti, 1972.
[13] A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 36, Paginaotto, 2020.