ESSI SOPRAVVIVONO! OVVERO: IL DECOMPOSTO CHE AVANZA

A volte ritornano. Non c’è dubbio. Pensavi che fossero morti e sepolti per sempre, cacciati nell’oltretomba della storia per l’esaurirsi di una vecchia e maligna «spinta propulsiva», e invece te li ritrovi dinanzi agli occhi più baldanzosi che mai. È un fatto: essi sopravvivono! Lo attestano Il Manifesto, Liberazione e L’Unità. Di chi parlo? Degli statalisti, è chiaro.

In realtà, lo Statalista riciccia sempre in tempi di crisi economica, allorché il truce Leviatano («quella potenza astuta che tutto scova, con quel nemico tutt’orecchi che mai sonnecchia», per dirla con Kierkegaard) è invocato almeno da una parte della società affinché salvi «le sorti generali del Paese», ossia il regime capitalistico.

E già, allo Statalista piace un sacco il Capitalismo di Stato, come quello che faceva capo al «paradigma dell’IRI» e alla defunta (se Carlo Marx vuole!) Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ma anche il New Deal rooseveltiano non era mica da buttare!

Un Paese come il nostro che ha conosciuto il fascismo e il più forte partito stalinista del Vecchio Continente (alludo al PCI di Togliatti-Longo-Berlinguer-Occhetto), è ovvio che offra più di ogni altro le migliori condizioni di esistenza, o quantomeno di sopravvivenza, allo Statalista, «Nero» o «Rosso» che sia.

Oggi che certe merdose monete sono andate fuori corso, lo Statalista ama celarsi dietro l’ultima epocale fregnaccia ideologica: il Bene Comune. Per mutuare ancora il filosofo di Copenaghen, qui la farsa e il comico si toccano a vicenda in un’infinità assoluta.

L’acqua? È un Bene Comune, si capisce. La Giustizia? Si possono nutrire dubbi a tal proposito? I servizi sociali? Beni Comuni Naturali! E il lavoro? Come sopra. E il Capitale, come la mettiamo con questa demoniaca categoria economica? Nessun timore, nessun tremore: anch’esso è un Bene comune: «lo affermano gli Art. 41 e 42 della Sacra Carta», mi fa sapere lo Statalista. Ah, se lo dice la Sacra Carta possiamo stare tranquilli. Che cacadubbi che sono!

D’altra parte, se i profitti sono privati e le perdite (almeno in Italia) sono pubbliche, perché non pubblicizzare tutte le attività economiche del Paese? Ma sì, mettiamo in piedi un bel Capitalismo di Stato e mandiamo una volta per sempre a farsi fottere quel dannato liberismo selvaggio! Silvio concorda, e anzi ci tiene ad accompagnarlo personalmente lì dove esso merita di finire: a puttane!
Mi raccomando, se si libera un posto mi si tenga presente: l’ideologia antiliberista non mi tange in alcun modo. È il capitalismo tout court che mi serra piuttosto lo scroto: ahia!

Insomma, tempi duri si annunciano per le «lenzuolate liberali» del prossimo governo Bersani-Di Pietro-Vendola-Casini-Fini: il decomposto che avanza reclama il suo momento di gloria. Almeno per qualche settimana ancora.

In effetti, con un debito pubblico che si avvicina paurosamente ai due trilioni di euro, la papera statalista non può certo galleggiare felicemente. «E se tassassimo i più ricchi? Se tassassimo la rendita finanziaria e speculativa? In fondo anche la Tassa è un Bene Comune!» Sarà…

Ad ogni modo, ci terrei a rimanere fuori dal Bene Comune. Quel Bene, infatti, mi puzza assai di Male. Ma tanto!

MI ASTENGO. SOPRATTUTTO DAL DARE CONSIGLI

Credetemi sulla parola: a memoria d’uomo non si era vista una tornata referendaria così demagogica, menzognera e ideologica come quella che, se Dio vuole, si concluderà domenica 12 giugno. Rapidamente svolgo queste che so essere «considerazioni inattuali», non per dare indicazioni politiche – il frastuono progressista mi sovrasta! -, ma per gettare in mare la metaforica bottiglia, sperando intanto che dentro vi sia qualcosa…

Non c’è dubbio che il significato politico immediato dei referendum è il seguente: assestare il colpo di grazia al Male Assoluto, peraltro espugnato anche ad Arcore. Quello ideologico si può sintetizzare in questi termini: Pubblico è bello, la Giustizia esiste, basta volerla, e volerla uguale per tutti. Amen!

Ora, per chi ha in odio Berlusconi e il «berlusconismo», e crede che un diverso governo (magari presieduto da Nichi Narrazione Vendola, il più banale e parolaio dei luogocomunisti), ha certamente eccellenti motivi per sostenere le ragioni referendarie. Analogo discorso vale per gli amanti del cosiddetto Bene Comune (la Menzogna elevata al cubo, anzi ad n+1!), e per i credenti nello Stato Diritto, peraltro declinato in termini ideologici, ossia falsi.

Capite bene che uno come me, che non coltiva questa «religione civile», che ritiene Berlusconi e Vendola (o Bertinotti, oppure Ferrero o qualche altro campione “comunista”) le due facce della stessa medaglia sociale, che non fa alcuna distinzione tra Pubblico e Privato, tra tariffa e profitto, tra bolletta e fattura, e che, per soprammercato, è ostile allo Stato (e quindi al Diritto e alla Giustizia) al di là della sua contingente fenomenologia politica; capite bene che un simile singolare figuro più che andare al mare, domenica 12 farebbe bene a recarsi sulla Luna, o sul Monte di Venere. E non è detto che non lo faccia, magari con la fantasia…

Personaggi come Bersani e Di Pietro che, quando erano al governo, sostenevano la privatizzazione del servizio idrico (non dell’acqua, la cui proprietà, in tutto il Pianeta, è saldamente nelle mani del demanio, ossia del Leviatano che tanto piace ai sinistri e ai fascisti), e il ritorno all’Atomo, oggi cavalcano le paure della gente, facendole credere che nelle sue democratiche mani è stretto il futuro di questo Paese, se non dell’Umanità intera! «Cristo ha detto date da bere agli assetati, non date profitti ai capitalisti!»: così parlò il cattostatalista.

Il noto Scienziato della Politica di Montalcino di Bisaccia, ha dichiarato che «l’acqua non dev’essere una fonte di profitto»: qualcuno può spiegargli che, in epoca capitalistica, la fonte del profitto non è l’acqua (né l’atomo, né il petrolio, né l’idrogeno, né il carbone, né il sole…) ma la capacità lavorativa degli uomini? «E che ci azzecca?» Ci azzecca, ci azzecca…

Persino il quesito sull’energia atomica (peraltro salvato con manovra ardita dalla Cassazione), appare del tutto privo di mordente politico e critico, e si presta solo al gioco politico-economico delle diverse fazioni borghesi. A «Destra» come a «Sinistra» si gioca con le angosce della gente: l’Atomo, l’ortaggio, l’immigrato, lo zingaro,la mucca, la fame, la sete, il Mostro, le malattie, il petrolio, il buco d’Ozono, l’effetto serra, le cavallette, Silvio! Fermate il capitalismo: voglio scendere!

No, il 12 giugno non contribuirò a scrivere il futuro politico di questo Paese, né il suo Piano Energetico Nazionale.

L’IDEOLOGIA FA ACQUA DA TUTTE LE PARTI

L’ideologia del Bene Comune non è che il vecchio statalismo sotto mentite spoglie.

Il cattostatalista Vendola ha dichiarato che «privatizzare l’acqua è una bestemmia contro Dio». Il “Narratore” del luogocomunismo più insulso può permettersi il lusso di una simile bestemmia contro la coscienza critica solo perché Dio, essendo attualmente impegnato tra Giappone e Libia, non può fulminarlo seduta stante. Purtroppo non c’è più l’ubiqua Giustizia Divina di una volta!

Ci sono due diversi modi di osservare e concepire ciò che esiste tra cielo e terra: uno lo possiamo definire, con molte cautele e approssimazioni “filosofiche”, realistico, l’altro possiamo chiamarlo, con più certezze di quel genere, ideologico. Questo all’ingrosso. In realtà c’è un terzo modo, che però qui trascuro in quanto estremamente minoritario.

Vediamo di applicare questo elementare schema concettuale a un caso concreto, ad esempio all’acqua.

Cos’è l’acqua? Un «Bene Comune», come sostengono gli eticamente corretti, o una merce alla stregua delle altre, come affermano o lasciano capire i «liberisti selvaggi»?

Dal punto di vista realistico l’acqua che usiamo tutti i giorni in qualità di utenti è a tutti gli effetti un prodotto industriale, e quindi una merce. L’acqua, come materia prima dell’industria idrica e come oggetto di compravendita, va raccolta, depositata, trattata meccanicamente e chimicamente, aspirata e pompata, distribuita e, dulcis in fundo, consumata. Analogo discorso si può fare, in circostanze particolari (grandi edifici pubblici e privati, navi, aerei, ecc.) per l’aria: prima di giungere ai polmoni degli utenti essa deve essere filtrata, purificata, deumidificata o umidificata, riscaldata o raffreddata, aspirata e soffiata. Un trattamento industriale di tutto rispetto che l’utilizzatore finale paga senza saperlo.

Ma ritorniamo all’acqua. La lunga e articolata filiera idraulica che ce la rende disponibile ha ovviamente un costo, che qualcuno deve sostenere. Se questo «qualcuno» ha una natura pubblica o privata la sostanza delle cose, se considerata dalla prospettiva realistica, non muta di una virgola. È chiaro che mentre il «soggetto pubblico» può permettersi, a spese della fiscalità generale, il lusso di applicare al prodotto (o servizio)-acqua un «prezzo politico», la stessa cosa non può fare il «soggetto privato», il quale deve necessariamente vendere con profitto la propria mercanzia, pena la sua liquidazione. La grandezza di questo profitto dipende da svariati fattori, compreso quello che attiene alla struttura del mercato nel quale i soggetti economici (pubblici e privati) operano: si agisce in una condizione di monopolio, più o meno «naturale», ovvero in un’ambiante che garantisce la libera concorrenza tra diversi competitori? Sappiamo che l’impresa che opera in regime di monopolio sconta anche un plus di profitto. In teoria, ma nei paesi capitalisticamente più avanzati anche in pratica, la privatizzazione di un servizio (quella che nel caso specifico ho chiamato industria dell’acqua, senza la quale noi non berremmo né ci laveremmo, ecc.), se agita in un contesto non monopolistico, comporta quasi sempre una riduzione dei costi di produzione e dei prezzi finali.

Come si vede, tutta la questione si riduce a un problema di forma (che è sostanza delle cose, certo, ma non nel modo in cui pensano gli ideologi): a gestire l’industria – o servizio – dell’acqua dev’essere il Capitale Pubblico o quello Privato? Nel caso concreto del Bel Paese il capitalismo di Stato ha dato, in generale, davvero una pessima prova di sé, anche per quanto concerne il servizio di cui si tratta. Basta ricordare il pietoso stato in cui riversa la rete idrica, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, per capire di cosa stiamo parlando. Senza contare il peso della fiscalità generale che si fa di anno in anno sempre più insostenibile, e che dovrebbe finanziare, tra l’altro, l’ammodernamento di quella fondamentale infrastruttura.

Naturalmente, e qui veniamo al modo ideologico di osservare e concepire le cose, chi attribuisce al Capitale Pubblico un valore etico e a quello Privato un disvalore, perché gravato dal peccato del profitto (questo «sterco del demonio», secondo la vulgata cattostatalista) non può che tifare per il primo a detrimento del secondo. «Viva l’acqua come Bene Comune, abbasso l’acqua come merce!» Chi segue questo Blog sa come la penso in materia: chi pone una distinzione «etica» o «sociale» tra i diversi modi di essere del Capitale (pubblico o privato, «moderato» o «selvaggio, ecc.) suscita la mia più recisa riprovazione, per così dire…

No, l’Ideologo a me non la dà a bere. Il Capitale (pubblico o privato), purtroppo, sì.