UMILIATI E OFFESI. I DOLORI DEL POPOLO ANTIBERLUSCONIANO

berlusconi-renzi-liberace-2883381. Pregiudicato!

I manettari del Fascio Quotidiano e i “comunisti” del Manifesto hanno voluto dare voce al «grave disagio», allo smarrimento e alla vera e propria indignazione che in queste tragiche ore attraversano il Popolo di Sinistra. «Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014?», chiedeva retoricamente ieri Marco Politi dal quotidiano che rappresenta forse l’ultima trincea dell’antiberlusconismo duro e puro. La risposta non poteva essere che questa: «Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale».  La parola chiave, qui, è pregiudicato. Notare anche l’accostamento, che la dice lunga sulla natura violenta e rancorosa dei manettari, tra il «professore pedofilo» e il «puttaniere» di Arcore – e nessuno si azzardi a paragonarlo al socialista Hollande!

Ora, e al di là delle tante considerazioni politiche – e psicoanalitiche – che si possono fare sulle opposte tifoserie di Miserabilandia, ditemi se uno che, come il sottoscritto, è da sempre un avversario irriducibile della legalità borghese (scusate l’arcaismo), e quindi del «sistema costituzionale» (scusate il sovversivismo delle classi subalterne), può “vivere” con disagio e insofferenza il “famigerato” incontro tra Renzi e Berlusconi. Renzi e Berlusconi hanno raggiunto un accordo? E chi se ne frega! Non lo hanno raggiunto? Idem!

Parlo in qualità di qualunquista? In un certo senso sì, perché a mio avviso qualunque sistema politico-istituzionale non è che uno strumento di oppressione, di controllo sociale, di difesa e di irrobustimento dello status quo. Certamente, in questa peculiare accezione mi si potrebbe pure definire un perfetto qualunquista: non mi offenderei neanche un po’.

E così ho sdoganato anche il qualunquismo!

Scrive oggi l’afflitta e umiliata Norma Rangeri: «A pen­sarci bene, che a deci­dere sul futuro del nostro Paese sia un pregiudicato non è umi­liante solo per un par­tito, ma per tutti». Naturalmente in questo «tutti» non bisogna considerare la mia modesta persona, poiché dal mio punto di vista semplicemente – rozzamente? – anticapitalistico, i nemici mortali del Cavaliere Nero, quelli che affettano un’odiosa quanto risibile superiorità antropologica nei suoi confronti, si trovano sul suo stesso terreno: la difesa della società capitalistica, che rimane escrementizia e nemica dell’uomo in generale, e dei proletari in particolare, anche se al governo ci fosse un Cavaliere Bianco. Possibilmente di sinistra!

berlusconi-lele-mora-2424522. Berlusconi e il discorso del capitalista

Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare le riflessioni di Lidia Ravera e Massimo Recalcati sollecitate da Lilli Gruber, la “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, e mi si è rafforzata nella testolina un’idea che coltivo da sempre: la critica della società disumana che non è in grado di cogliere le radici storiche e sociali del grave disagio esistenziale che vive l’individuo dei nostri pessimi tempi, facilmente smotta verso una posizione reazionaria “a 360 gradi”: sul piano politico, su quello etico, filosofico e quant’altro. È un fatto che con oltre un decennio di ritardo, i due progressisti sono approdati sulle posizioni antisessantottine di Giuliano Ferrara, forse il più intelligente fra i reazionari (di “destra” e di “sinistra”) in circolazione nel Paese.

In particolare, Ravera e Recalcati non comprendono come «il godimento immediato e senza limiti», «la libertà che non conosce limiti né legge», che insieme danno corpo «a quello che in psicanalisi si chiama perversione», e, dulcis in fundo, «l’evaporazione del Padre» (ma anche la madre non sta messa bene, a quanto pare); come tutto ciò sia essenzialmente il prodotto di processi sociali che rispondono alla sola Legge che in questa epoca storica domina l’intera esistenza degli individui: la bronzea e sempre più totalitaria Legge del profitto.

È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale e residuale rispetto alle funzioni educative formali e informali riconducibili allo Stato, al «sociale privato» e al mercato. Quando il Moro di Treviri, con un certo anticipo su Schumpeter, definì strutturalmente rivoluzionario il Capitalismo, egli non intese riferirsi solo alla dimensione dell’economico, tutt’altro. Il «linguaggio della struttura», per dirla con Lacan, è il linguaggio della prassi sociale dominata dall’economia capitalistica. Dove qui per struttura occorre intendere il corpo sociale colto nella sua complessa, conflittuale e contraddittoria totalità.

Il lacaniano «discorso del Capitalista», che Recalcati cita continuamente soprattutto come corpo contundente antiberlusconiano, ha una pregnanza concettuale e una radicalità politica che egli nemmeno sospetta. In bocca a Recalcati, quel «discorso» non supera il livello dell’impotente lamentela intorno alla nota mercificazione dell’intera esistenza (dis)umana, fenomeno che se è inteso nella sua vera essenza, e non alla maniera, banale e superficiale, degli intrattenitori da salotto, condanna senza appello l’odierno regime sociale qualunque sia la contingente forma politico-ideologica delle sue istituzioni: democratica, dittatoriale, autoritaria. Infatti, come ho scritto altre volte, il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica deve essere messo al centro di ogni riflessione politica, sociologica, ecc.. Altro che «epoca del berlusconismo», secondo lo stanco mantra dei progressisti: il Cavaliere Nero non vale nemmeno come metafora o sintomo dei nostri mercantilistici tempi.

Per capirlo, basta leggere quanto scriveva Robert Paul Wolff, sintetizzando il pensiero di Emile Durkheim, nel remoto 1965: «L’allentarsi della presa che i valori tradizionali e di gruppo esercitano sugli individui crea in alcuni di loro una condizione di mancanza di ogni legge, un’assenza di limiti ai loro desideri ed ambizioni. E poiché non v’è alcun limite intrinseco alla quantità di soddisfazione che l’io può desiderare, ecco che esso si trova trascinato in una ricerca senza fine del piacere, che produce sull’io uno stato di frustrazione. L’infinità dell’universo oggettivo è inafferrabile per l’individuo che sia privo di freni sociali o soggettivi, e l’io si dissolve nel vuoto che cerca di riempire» (Al di là della tolleranza).

Più che ripristinare i vecchi valori, o di crearne di nuovi a regime sociale invariato, a mio avviso è l’intero spazio sociale che occorre umanizzare. E ciò presuppone il superamento della società che ha fatto dell’atomo sociale chiamato cittadino una «macchina desiderante», una perfetta merce (una biomerce, un biomercato), una creatura fatta a immagine e somiglianza di una sempre più bulimica, insaziabile, onnivora economia. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del desiderabile (leggi: acquistabile), fino a eliminare ogni confine, trascinando così l’intera società in un folle vortice che nessuno può controllare. Il dominio del godimento immediato di cui parla Recalcati, nostalgico o comunque ammiratore della Prima
Repubblica di Moro e Berlinguer, cela in realtà il Dominio di un rapporto sociale altamente disumano.

RENZI E TOGLIATTI

togliatti-renzi-288659Secondo Emanuele Macaluso, interpellato ieri da Aldo Cazzullo per Il Corriere della Sera, «I vecchi comunisti hanno per Renzi una diffidenza quasi antropologica. Parlare del nuovo segretario come di un altro Berlusconi è una sciocchezza. Renzi non ha interessi privati, è una persona rispettabile. Ma appartiene a un’era politica del tutto nuova, in cui il livello culturale è drasticamente crollato. La sinistra storica era fatta di personaggi complessi. Togliatti era un intellettuale di livello europeo, un uomo che teneva testa a Stalin». Teneva testa a Baffone?

Nel remoto 1992 scrissi per una modestissima rivista della mia città un “pezzo” sul libro Palmiro Togliatti di Giorgio Bocca; a perenne ricordo dell’«intellettuale di livello europeo», in arte Il Migliore (degli stalinisti), ne cito alcuni passi.

(…) Ma ritorniamo al Togliatti di Bocca: «Lo stalinismo vero di Togliatti è di tipo ideologico, tale da farlo apparire a certuni come lo stalinista perfetto, capace di razionalizzare e ideologizzare anche gli aspetti irrazionali o ancestrali dello stalinismo».

Emerge nel libro di Bocca la responsabilità del perfido Ercoli in rapporto a tutte le nefandezze perpetrate a Mosca ai danni dei suoi oppositori politici, non importa se russi, italiani, polacchi o spagnoli. Nel somministrare condanne e nel fabbricare calunnie Palmiro-Ercole non tiene in nessun conto il passaporto dei suoi avversari, e in questo rivela il suo profondo spirito… “internazionalista”. Nel terrore egli è persino “democratico”: fa fuori, indifferentemente, anarchici, trotskisti (o presunti tali), bordighisti, e persino stalinisti “anomali”; il solo criterio che lo guida è quello della lotta a qualsivoglia tipo di opposizione politica al regime staliniano. «È lui a spiegare che ora processi e condanne vanno intesi come atti di legittima difesa, non solo della rivoluzione e del socialismo, ma della democrazia e della pace». Attaccare il sempre più ferreo e antiproletario regime staliniano significava dunque mettere a repentaglio anche la democrazia e la pace nel mondo: questo sommo abominio non giustifica forse la Siberia e la fucilazione? Nicchio…

Grazie a lui la piccola comunità di comunisti italiani rifugiatisi in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire dalle grinfie fasciste fu decimata attraverso processi farsa. Inutile forse ricordare sotto quale accusa quei militanti caddero: spie del trotskismo, e quindi oggettivamente servi del fascismo e dell’imperialismo. (…)

C’è nel Togliatti di Bocca il leader “comunista” che si appella (1936) «ai fratelli in camicia nera»; c’è il capo dell’Internazionale che si schiera a favore del patto russo-tedesco del ’39, e che poi fa marcia indietro – alla coda dei padroni moscoviti – quando le divisioni tedesche attaccano il Sacro suolo della Madre Russia. E c’è naturalmente il Togliatti democratico-badogliano del «partito nuovo», della Resistenza, del CLN. Bocca tende a opporre il Togliatti democratico all’Ercole stalinista, riconducendo il secondo al retaggio gramsciano, perché, osserva giustamente il Nostro, il «partito nuovo», maturato a Salerno nel ’43, ha la sua origine a Lione nel 1926 (Terzo Congresso del PC d’Italia). Egli però sbaglia quando crede di trovarsi di fronte alla proverbiale doppiezza togliattiana. In realtà «i due Togliatti», quello stalinista e quello democratico, il servitore scrupoloso dello Stato Russo e il geniale interprete degli interessi nazionali del Bel Paese, vanno considerati le due facce della stessa escrementizia medaglia. Tra il “comunista” Ercole e lo statista nazionale Togliatti ci fu assoluta e “organica” continuità».

imagesMacaluso ha ragione quando sostiene che il PCI non è morto con Renzi: «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima». Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci* e continuata con mezzi più sbrigativi da Palmirone. L’evocata «sinistra storica» gronda stalinismo da tutte le parti.

* Scrive Giorgio Galli nella sua Storia del PCI (Bompiani, 1976) a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. Quando infatti la sinistra [Bordiga ecc.] osserva che se ha dovuto organizzarsi in corrente è perché gli organi del partito funzionano da centro di coordinazione della corrente gramsciana, tocca a Longo, dirigente della Federazione giovanile sino a pochi mesi prima su posizioni di sinistra e che ora svolge un ruolo di punta nella campagna contro Bordiga, replicare che, anche in fase congressuale, “vi deve essere una centrale che ordina e dei compagno costretti, dalla disciplina, a ubbidire ” […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia [sia da stalinista che da statista l’amnistia sarà per Palmiro una sorta di destino… ], torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (pp. 112-118).

La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora è parte di quella vicenda segnata dall’accecamento ideologico, dalle falsificazioni più pacchiane e dalle sopraffazioni più odiose, in Italia come in Russia – vedi la tragica storia dei comunisti italiani che si rifugiarono in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire alla persecuzione fascista.