IRAN. OGGI E IERI

1. Oggi

«Negli ultimi anni, i caffè sono nati anche in abbinamento a librerie e a gallerie d’arte. L’aspetto è moderno, tant’è che potrebbero essere a Parigi o in qualsiasi metropoli occidentale. Ci si accorge di essere a Teheran solo per i codici di comportamento, soprattutto nel vestiario. Mi è capitato di assistere in uno di questi posti a uno shooting fotografico, con una modella, truccatissima e con il foulard, che sfilava. La gente guardava con indifferenza: è uno spettacolo usuale. Eppure, la modella, la pubblicità, il consumismo erano quanto la Rivoluzione Islamica voleva combattere. Questo è un tratto tipico degli iraniani: sanno adattarsi, rielaborare e fare proprio qualcosa che viene da fuori secondo i propri canoni. A proposito, in quel caffè ho bevuto un mojito. Naturalmente reinventato dagli iraniani senza alcol!» (A. Vanzan). Naturalmente. D’altra parte la “rivisitazione” dei rapporti sociali capitalistici in chiave locale (regionale, nazionale, continentale) è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi del mondo: dalla Cina al Giappone, dall’India al Brasile. Soprattutto nel settore dell’abbigliamento e dell’alimentazione il Capitale si avvantaggia delle specificità culturali e “antropologiche” dei vari Paesi: merci e servizi per tutti i gusti e per tutte le sensibilità – nazionali, etniche, religiose, sessuali e quant’altro. Il Capitale ama la “libertà” e la “creatività”. Mi fanno ridere, per non dire altro, gli intellettuali occidentali di diverso orientamento ideologico (ma di identica militanza sociale al servizio della conservazione) che paventano una «deriva consumistica» della società iraniana (e magari anche di quella nordcoreana!), i cui giovani si troverebbero esposti alla demoniaca influenza dei social media che li invitano a partecipare alla luccicante ed eterna festa della globalizzazione capitalistica. Questi intellettuali possono anche accettare, bontà loro, l’economia di mercato, purché ben temperata e attenta ai bisogni del “capitale umano”, ma insieme al Santissimo Papa Francesco e alla Guida Suprema Ali Khamenei essi gridano un forte e irremovibile NO alla società di mercato: si può essere così intellettualmente indigenti?

«Un’altra parte degli Iraniani, quella dei sobborghi, che ha come uniche certezze nella vita la religione e la povertà, è soggiogata dalla propaganda religiosa. Le moschee attirano giovani per arruolarli sin da piccoli nelle milizie irregolari con i loro bastoni da hooligan. Due facce così diverse dello stesso paese dove, per un giovane, non ci sono alternative ad un modello edonista e decadente oppure ad uno estremista e violento» (L. Tavi). Lo sviluppo ineguale del Capitalismo (su scala mondiale, nazionale e regionale) si presenta con aspetti particolarmente contraddittori, e persino paradossali, nei Paesi storicamente “ritardatari” che hanno alle spalle un lungo periodo di sfruttamento coloniale e imperialistico.

«Proibire l’inglese alle elementari, e magari anche gli hamburger e la coca cola. La reazione dei conservatori alle proteste di piazza si manifesta anche così, ma riapre la spaccatura fra ultrà e riformisti, con il presidente Hassan Rohani contrario alla nuova stretta e che anzi invita a capire i giovani, perché «pensano in maniera diversa» (G. Stabile, La Stampa). Anche la pizza, ci fa sapere Stabile, è stata “attenzionata” dai puristi iraniani, benché la nota prelibatezza italiana sia stata “reinventata” in salsa iraniana. Secondo il “moderato” e “riformista” Rohani l’inglese invece serve ai giovani iraniani per «trovare lavoro»: «Il governo accoglie le critiche e credo che tutti dovrebbero essere criticati, persino Maometto ha permesso alle persone di criticare. Il problema è la distanza tra noi e le nuove generazioni. La pensano diversamente sul mondo e sulla vita». Se non è un invito a bombardare il quartier generale, poco ci manca, e comunque la presa di posizione del Presidente iraniano ci dice quanto dura sia diventata la più che decennale lotta di potere al vertice del regime. E qui arriviamo agli eventi di questi giorni.

Violenta oppressione politica, ideologica e culturale (che tocca in primo luogo le donne e le minoranze religiose), alta disoccupazione giovanile (oltre il 26%), crescente inflazione (12,5%), carovita, crisi in alcuni comparti industriali, crescenti e vistosissime (soprattutto nei grandi centri urbani) diseguaglianze sociali, piccoli imprenditori e piccoli risparmiatori gettati sul lastrico dal fallimento di alcune finanziarie, oppressione etnica (azeri, curdi, armeni), centri urbani elefantiaci e zone rurali spopolate, una spesa militare sempre crescente in grado di supportare le aspirazioni di grande potenza regionale coltivate dal Paese (a discapito ovviamente delle condizioni di vita delle classi subalterne: «Occupatevi di noi, non della Siria!», gridano i manifestanti), un Capitalismo, gestito in gran parte dalla “casta” degli ayatollah e dai vertici dei Pasdaran, sempre più inefficiente e aperto alla corruzione sociale (una parte dello stesso proletariato iraniano è interessato al mantenimento della greppia clerico-statalista: il “clientelismo” non è un fenomeno esclusivo dell’Italia!), alto inquinamento in molte zone del Paese, e molto altro ancora: gli ingredienti della crisi sociale esplosiva in Iran ci sono tutti. E non si tratta certo di una condizione sociale prodottasi negli ultimi mesi o negli ultimi anni, tutt’altro. Né la crisi sociale in quel sensibilissimo quadrante geopolitico attraversa solo l’Iran, come ben dimostra il movimentismo politico che da parecchi mesi si segnala in Arabia Saudita, il nemico/concorrente numero.[1] Per non parlare della cosiddetta Primavera Araba del 2011. Le proteste contro il carovita che si stanno sviluppando in Tunisia in questi giorni certamente non sono di buon auspicio per i due regimi diversamente islamici.

«Il consenso verso il regime è, per molti versi, oggetto di uno scambio: finché gli ayatollah garantiscono buone condizioni di vita, i cittadini accettano obtorto collo di rinunciare alla propria libertà e adeguarsi alle censure del clero. Ma quando la borsa è vuota, il regime clericale viene messo in discussione. Le attuali proteste potrebbero quindi rivelarsi molto pericolose per il regime. […] Se la Rivoluzione verde del 2009 mirava a una svolta moderata del regime, ma non ad abbatterlo, queste proteste hanno un carattere maggiormente anti-establishment. Meno politicizzate e più spontanee delle precedenti, sembrano mancare nel proporre un’alternativa al regime, ma il loro carattere anarchico le rende imprevedibili. Il dissenso è un fenomeno carsico e tacitarlo per alcuni giorni, mesi, persino anni, non significa averlo sconfitto. Al di là del loro esito, queste proteste hanno segnato un passaggio di mentalità: se le immagini della guida suprema possono essere fatte a pezzi, vuol dire che anche il regime può cadere. Come ricordato da Kader Abdollah, scrittore e oppositore del regime, gli iraniani hanno compreso che il potere degli ayatollah non è eterno né inevitabile. Se vorrà conservarsi alla guida del paese, il clero dovrà andare incontro alle esigenze dei cittadini. La repressione e la censura autoritaria non sono più opzioni possibili» (East Journal). In ogni caso, il regime continua come e più di prima a usare il pugno di ferro, e sono quasi quattromila i manifestanti finiti in galera, per non parlare dei morti e dei feriti. Già si registrano diversi casi di “suicidio” (assistito?) nelle carceri, notoriamente luoghi di tortura, oltre che di infinito dolore.

È ovvio che nel mare della crisi sociale nuotano e prosperano i nemici interni ed esterni della Repubblica Islamica, ma non è certo con la chiave interpretativa dei nemici esterni (americani, sauditi, israeliani) che possiamo capire ciò che accade – e non da oggi – in quel Paese decisivo per gli assetti interimperialistici del Medio Oriente, e non solo di quell’area. A scadenza quasi decennale, i giovani iraniani scendono in strada per rivendicare la fine dell’oppressione esercitata sull’intera società dal regime dei mullah e migliori condizioni di vita, e puntualmente il regime risponde con la ben nota tattica che prevede l’uso della carota (vedi il “partito delle riforme”) e del bastone. Promesse e carcere. Ammiccamenti politici e pallottole “vaganti”. Celebrazione di “libere” elezioni e impiccagioni: anche chi è accusato di offendere in qualche modo Allah è meritevole di morte per «atti ostili contro Dio» (moharebeh). Il regime può anche contare sulla massa d’urto repressiva mobilitata dai Pasdaran (Basji) composta perlopiù da sottoproletari che per un tozzo di pane sono disposti a massacrare di botte chi gli capita a tiro durante le manifestazioni di piazza. «Dai Pasdaran dipendono i Bassij, una diramazione paramilitare molto numerosa nata negli anni 80 durante la guerra contro l’Iraq; si stima che il numero dei Bassij si aggiri intorno ai dieci milioni di iraniani sparsi su tutto il territorio nazionale. Per il reclutamento dei membri lo stato iraniano spende ogni anno centinaia di migliaia di dollari, certo di poter trovare adepti negli strati più poveri della popolazione, incentivati da offerte finanziarie e benefici, in cambio dell’arruolamento. I Bassij sono costituiti per lo più da giovani e il loro ruolo è quello di sopprimere e arginare il più possibile e dal basso, qualsiasi forma di rivolta nei confronti del regime; un altro importante ruolo che gli viene affidato è quello della propaganda e della conservazione di tutti quei valori religiosi e ideologici che fanno capo ai capisaldi del regime dei mullah» (East Journal). Dal loro canto, i Pasdaran oltre a rappresentare «da più di vent’anni la più grande forza economica iraniana, sono in prima linea per impedire che lavoratori e studenti possano riunirsi e discutere dei diritti che li riguardano e reprimono con violenza ogni minimo tentativo di dissenso nei confronti del regime» (E. J.). Tra l’altro, i pii e misericordiosi Guardiani della Rivoluzione gestiscono il traffico illegale dei prodotti di lusso occidentale che entrano di nascosto nel Paese e il cui giro d’affari pare ammontare a una cifra gigantesca: tre volte più grande della ricchezza generata dalle fondazioni legali. La massiccia violenza che i Pasdaran dispiegano contro i “nemici di Dio e dell’Iran” è adeguata agli interessi economici che essi difendono. Sarò pure un materialista volgare e determinista, ma io la penso così!

All’inizio delle proteste il “pragmatico” Presidente iraniano dichiarò che «le persone per le strade non chiedono pane e acqua, ma più libertà», rendendo così palese la guerra intestina che, come detto, da decenni travaglia il regime di Teheran. In realtà, oltre a «più libertà» i manifestanti chiedevano più generi di prima necessità e a più basso costo, e non a caso le manifestazioni sono comparse all’inizio (28 dicembre 2017) nelle aree economicamente più depresse del Paese, dove peraltro più forte è la presenza degli attivisti ultraconservatori. Pare che gli uomini legati all’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad, colui che voleva cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente nonché acerrimo nemico dell’attuale Presidente, abbiano in qualche modo favorito la protesta, per evidenti fini strumentali, salvo poi esserne scavalcati. In ogni caso, Teheran li ha subito “attenzionati”, e lo stesso Ahmadinejad è finito definitivamente in disgrazia, seppellito sotto infamanti accuse di corruzione e abusi d’ogni tipo – non ancora di stampo sessuale: questo tipo di calunnie applicate al “pio” Ahmadinejad non sarebbero forse credibili.

Con il consueto tweet, il Presidente americano ha voluto sferrare un facilissimo attacco politico, non solo al regime iraniano, ma anche, se non soprattutto, agli “alleati” europei che intendono proseguire sulla strada del “negoziato diplomatico” tracciata dall’ex Presidente Obama nel 2015 (accordo di Losanna): «Il grande popolo iraniano è stato represso per molti anni, ha fame di cibo e libertà; insieme ai diritti umani, viene saccheggiata la ricchezza dell’Iran!». Anche dalle nostre parti c’è stato qualche idiota che ha caricato la responsabilità dei manifestanti uccisi in Iran solo sulla testa di Donald Trump, reo di essersi sfilato dall’accordo sul nucleare sottoscritto dal cosiddetto 5+1 sotto l’egida dell’Onu. Ovviamente Trump, nella sua qualità di Presidente della prima potenza imperialistica del mondo, ha tutto l’interesse nel gettare benzina sul fuoco del malcontento popolare che attraversa l’Iran, e ciò tanto più dopo il relativo insuccesso americano registrato in Iraq e in Siria, dove la Russia e appunto l’Iran hanno invece riscosso un indubbio successo politico-militare.

Ieri il Financial Times e il New York Times invitano il Presidente americano a una maggiore prudenza nelle sue esternazioni sui fatti iraniani, perché le sue invettive via Twitter potrebbero ricompattare il regime; e gli consigliano anche di non sfilarsi dall’accordo sul nucleare iraniano, per rendere evidente agli occhi dell’opinione pubblica iraniana il fatto che la moratoria sulle sanzioni non dà alcun beneficio al popolo iraniano, mentre facilita l’investimento del regime in costosi armamenti. «Cinquantadue tra ufficiali militari statunitensi in pensione, membri del Congresso degli Stati Uniti, ex ambasciatori statunitensi, esperti statunitensi della sicurezza nazionale hanno firmato una lettera per sollecitare Trump a non mettere a repentaglio l’accordo con l’Iran» (NYT). Abbaiare furiosamente o tessere intorno al regime di Teheran una fitta rete diplomatica aspettando che la classe media iraniana prepari una seria alternativa in vista dell’auspicato regime change: qual è la tattica più produttiva per gli Stati Uniti? Certo non sarò io a dare buoni consigli! «Il capo della Casa Bianca vorrebbe uscire dall’accordo, in linea con le obiezioni avanzate anche da Israele, e le proteste iraniane dei giorni scorsi lo hanno incoraggiato a farlo; il segretario di Stato Tillerson, quello alla Difesa Mattis, e il consigliere per la Sicurezza nazionale McMaster ritengono che convenga salvarlo» (P. Mastrolilli, La Stampa). È probabile che alla fine anche Trump sarà della partita diplomatica, ma dopo aver chiarito che la Casa Bianca non dà nulla per scontato e che si aspetta dai negoziati risultati concreti – ovviamente dal punto di vista degli interessi americani, i quali sempre più spesso divergono dagli interessi degli “alleati” occidentali, e questo a prescindere da chi pro tempore veste la carica di Presidente degli Stati Uniti.

Il costo finanziario dei successi militari e politici di Russia e Iran è stato molto alto per entrambi i Paesi, e solo la relativa stabilità del prezzo del petrolio (intorno ai 50 dollari il barile) e del gas ha permesso, anche se solo in parte, di tamponare le falle finanziarie che si sono aperte nelle loro casse. L’Iran è impegnato pesantemente anche in Yemen, in una guerra sanguinosissima che ormai si protrae da molti anni e che, com’è noto, è alimentata anche dalle armi fabbricate in Italia: un fatturato tutt’altro che disprezzabile! Non bisogna poi sottovalutare il sostegno che Teheran offre a Hezbollah, «che è una milizia costosa, perché i miliziani Hezbollah sono pagati due volte di più di quanto Israele paga i beduini che lavorano per l’esercito; poi hanno tutta la struttura industriale militare, i missili balistici, ad esempio non li fabbricano, ma li importano dalla Corea del Nord; poi hanno la massa impiegatizia dei clerici ed anche loro sono molto costosi» (E. Luttwak, Notizie geopolitiche). Si segnala anche un crescente attivismo dell’Iran in Afghanistan, cosa che sta mettendo in allarme i pakistani e gli americani.[2]

Può, si chiede il citato Luttwak, un Paese che campa sostanzialmente di rendita petrolifera sostenere un così forte impegno militare e geopolitico? In effetti, un’economia ancora fortemente centrata sull’estrazione e la vendita di petrolio e gas rappresenta, al contempo, il punto di forza e il punto di debolezza dell’ambiziosissima potenza persiana.

L’innegabile sviluppo dell’industria metallurgica, dell’industria tessile e dell’edilizia che si è registrato negli ultimi tre decenni non è stato comunque tale da mutare la struttura del capitalismo iraniano, con ciò che ne segue sul piano degli equilibri politico-istituzionali del Paese. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale di qualche anno fa, il tasso di crescita del PIL iraniano si aggira intorno al 7,4%, ma al netto del settore petrolifero quel tasso precipita a un risicato 1%. Dati forniti dal Ministero degli Esteri del nostro Paese attestano questa struttura del PIL iraniano: «Il petrolio influisce per il 15% sul Prodotto Interno Lordo, il settore manifatturiero, quello edilizio e l’industria mineraria per il 23%, l’agricoltura per il 9%, mentre i servizi occupano il 53% del totale». Il maggiore importatore di prodotti iraniani è la Cina, ma per un valore totale molto modesto, soprattutto se posto in rapporto alle potenzialità industriali dell’Iran: appena 615 milioni di dollari. Proprio ieri l’Italia ha siglato un importante accordo con l’Iran: «Un’intesa che apre a garanzie sovrane da parte dell’Iran per finanziamenti fino a 5 miliardi di euro. I finanziamenti che seguiranno stanzieranno fondi per progetti e partnership in Iran, realizzati congiuntamente da imprese italiane ed iraniane, in settori di reciproco interesse, come ad esempio le infrastrutture e costruzioni, il settore petrolifero e del gas, la generazione di energia elettrica, le industrie chimica, petrolchimica e metallurgica. I due Ministeri [dell’economia] hanno sottolineato come l’accordo sia “un passo importante per il consolidamento della partnership economica e finanziaria tra i due Paesi, le cui origini vanno molto indietro nel tempo. L’obiettivo principale dell’accordo è quello di rafforzare il tessuto economico iraniano, in linea con gli obiettivi stabiliti dal Governo dell’Iran e con le legittime aspirazioni del popolo iraniano”» (La Repubblica). Le «legittime aspirazioni del popolo» sono costantemente in cima ai pensieri dei Governi di tutto il mondo! Troppo facile spiegare i rapporti tra gli Stati e gli affari tra le imprese dei vari Paesi del pianeta con la logica del potere sistemico e del profitto! Volevo fare dell’ironia: ci sono riuscito?

L’economia iraniana appare insomma sempre sul punto di decollare verso un grande boom (fattori di varia natura premono in quel senso)[3], ma diversi problemi strutturali e politici impediscono all’aereo di prendere il volo diretto ai piani alti del Capitalismo mondiale, una destinazione che pure sarebbe alla portata di un Paese che peraltro vanta un antichissimo e luminoso retaggio storico. Un punto molto debole di quell’economia è senz’altro la penuria di investimenti diretti esteri in Iran, che si spiega in larga parte con il ruolo di potenza regionale che il Paese vuole giocare a tutti i costi; una legittima aspirazione che lo porta sovente a cozzare contro gli interessi dell’imperialismo occidentale e dei suoi alleati regionali. Beninteso, all’avviso di chi scrive quell’aspirazione è legittima allo stesso titolo delle aspirazioni dei Paesi concorrenti: dal punto di vista antimperialistico tutte le vacche capitalistiche, piccole o grandi che siano, appaiono nere e meritevoli di finire al macello della rivoluzione sociale. La quale, ahimè, non ne vuole sapere di apparire sulla scena della tragedia.

Pur con tutti i limiti qui sommariamente evidenziati, l’economia iraniana è molto integrata nella divisione internazionale del lavoro, e una sua più piena partecipazione alle dinamiche del mercato mondiale appare ormai come prossima. Salvo devastanti crisi politico-sociali, le quali d’altra parte trovano terreno fertile nell’attuale struttura capitalistica dell’Iran e negli assetti di potere che sono venuti fuori dalla cosiddetta Rivoluzione Islamica.

Scriveva tre anni fa Eugenio Fatigante sull’Avvenire a proposito della struttura economica del Capitalismo iraniano: «C’era una volta la Rivoluzione. Islamica e, sulla carta, socialista.[4] Come tutte le rivoluzioni, però, dello spirito del ’79 è rimasto ben poco nell’Iran di oggi. All’epoca dello Scià un centinaio di famiglie cortigiane dei Pahlevi controllavano l’80% dell’economia locale. Oggi più o meno la stessa percentuale è in mano al lato oscuro degli ayatollah e dei fedeli Guardiani della rivoluzione. Si chiamano Bonyad e sono il vero prodotto doc iraniano, quanto il caviale: un coacervo di religione e pragmatismo affaristico che controlla le leve del potere e il 60% della capitalizzazione della Borsa di Teheran. È la cosiddetta Pasdaran Economy, basata su un labirinto di Fondazioni (come tali esentasse) che negli anni han fatto man bassa dei beni della corona imperiale e delle famiglie benestanti: oggi è divenuto il loro patrimonio, che utilizzano per nuovi affari e per una rete fittissima di donazioni, posti di lavoro e sussidi, necessari per mantenere il potere con metodi clientelari e con un anomalo Welfare state».[5] Questo incredibile intreccio di interessi economici e politici ci fa capire quale è la posta in gioco in Iran e come sia difficile sostituire l’attuale regime con un altro di diverso orientamento politico-ideologico. Per quanto mi riguarda, un regime (capitalistico) vale l’altro, in Iran come nel resto del mondo, e personalmente trovo risibile ogni discorso circa la necessità di sostenere in quel Paese una “rivoluzione democratica e popolare” in attesa che maturino le condizioni per una rivoluzione sociale “pura”. Lascio ai teorici delle “doppie rivoluzioni” questi insulsi discorsi. Tutto invece lascia supporre che le classi subalterne verseranno ancora molto sangue per combattere guerre volute dai loro nemici di classe per difendere e possibilmente ampliare un potere che, come abbiamo visto, si fonda su enormi interessi economici.

2. Ieri

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso vennero al pettine in Iran tutte le gigantesche contraddizioni e i fortissimi limiti di una “rivoluzione capitalistica dall’alto”, iniziata intorno al 1962 per impulso diretto del regime monarchico; una “Rivoluzione bianca” intesa a modernizzare il Paese a ritmi accelerati senza però troppo incrinare i vecchi assetti di potere (inclusa la preziosa funzione sociale svolta dal clero sciita, sebbene esso fosse stato pesantemente penalizzato sul terreno economico dalla riforma agraria) né mettere in discussione la collocazione geopolitica della moderna Persia, ormai da decenni saldamente ancorata all’Occidente.

Già negli anni Trenta lo Scià Reza Pahlavi aveva tentato una prima modernizzazione/laicizzazione forzata del Paese, espropriando le proprietà dei notabili Qajar e intaccando rapporti sociali feudali che arricchivano il clero sciita. Negli anni Cinquanta il Primo ministro Mohammad Mossadeq, il «nazionalista mistico», continuò l’opera di modernizzazione capitalistica attraverso la nazionalizzazione dell’industria petrolifera allora controllata dalla Anglo-Persian Oil Company, cosa che gli valse l’ostilità del Regno Unito e degli Stati Uniti. La produzione e l’esportazione di petrolio crollarono immediatamente. Altre riforme politiche e sociali privarono il governo di Mossadeq dell’appoggio del clero sciita e delle componenti politico-sociali che in precedenza lo avevano sostenuto ma che dopo la nazionalizzazione del maggio ‘51 temevano una modernizzazione troppo spinta del Paese. Come conseguenza di un fallito colpo di Stato tentato il 16 agosto 1953 lo Scià Mohammad Reza Pahlavi fu costretto a fuggire dal paese e a riparare a Roma. Un secondo colpo di Stato, attuato tre giorni dopo, ebbe invece successo e mise fine alla breve ma intensa stagione riformista di Mossadeq; il nuovo governo presieduto dal generale Zahedi sottoscrisse un accordo con le principali compagnie petrolifere del tempo (Consorzio delle Compagnie petrolifere: le mitiche Sette sorelle), accordo che sradicò il precedente monopolio della Anglo-Persian Oil Company. Lo Scià ritornò dall’esilio e affidò a uno Stato totalitario e potentemente centralizzato l’opera di svecchiamento definitivo del Paese. Entrambi i colpi di Stato del 1953 furono chiaramente voluti e sostenuti da Washington, che tra l’altro approfittò dell’”aiuto fraterno” offerto a Londra per prenderne il posto come prima potenza imperialista in Iran e in tutto il Medio Oriente. Mai fidarsi degli “aiuti fraterni”!

La società iraniana uscì letteralmente sconvolta dalla seconda “rivoluzione”, soprattutto a causa della riforma agraria varata nel 1963, la quale allontanò dalle campagne milioni di contadini poveri che si riversarono nei centri urbani del Paese per formarvi un esercito industriale a disposizione delle necessità dell’industrializzazione e della stessa urbanizzazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta il 60% della popolazione viveva nella campagna iraniana. Il 15 giugno del ’63 l’esercito iraniano fece fuoco con obici e mitragliatrici sui manifestanti che chiedevano pane e lavoro, uccidendone più di 4.000.

Le città si riempirono a un ritmo vertiginoso di milioni di ex contadini, soprattutto giovani, che non riuscivano a trovare un impiego e che solo nelle “caritatevoli” organizzazioni religiose riuscivano a trovare un qualche conforto materiale e spirituale. Il controllo sociale, com’è noto, ha mille volti, compreso quello barbuto del Misericordioso Mullah. Inutile dire che l’ingerenza della “mano pubblica” nella sfera economica creò una diffusissima rete di corruzione sociale, la quale venne usata dai mullah per esacerbare il rancore degli strati più poveri del proletariato in chiave antimonarchica.

A capodanno del 1978 il Presidente americano Jimmy Carter ebbe l’ardire di dichiarare durante il tradizionale brindisi di fine anno offerto dallo Scià che l’Iran rappresentava un modello di stabilità per tutto il Medio Oriente. Chissà cosa pensò di quelle parole un Pavone ormai ampiamente spennacchiato e prossimo alla fuga più vergognosa. Nel febbraio del 1979, quando la radicalizzazione dello scontro sociale divenne inarrestabile (già ad agosto del ’78 lo Scià fu costretto a promettere «elezioni libere» per il giugno dell’anno successivo), anche i partiti laici, e persino l’Amministrazione americana, si convinsero che puntare sul cavallo chiamato Khomeini fosse la sola opzione possibile per tenere sotto controllo una società in preda a convulsioni e a tensioni di estrema gravità, tali da far temere alle forze antimonarchiche un esito autenticamente rivoluzionario della crisi. La fugace apparizione sulla scena politica del Paese di Sciapur Bakhtiar, dimessosi precipitosamente dal governo all’arrivo trionfale di Khomeini dall’esilio francese, dimostrò che non era possibile una soluzione “convenzionale” (di stampo occidentale) della crisi generale che investiva l’Iran. È anche bene ricordare come solo nel 1978, dinanzi al dilagare delle manifestazioni, l’alto clero sciita iniziò a staccarsi definitivamente dal regime monarchico, dopo averlo supportato più o meno apertamente per decenni e aver contribuito per secoli alla passività delle classi subalterne.

La cosiddetta “rivoluzione islamica” del febbraio 1979 parve insomma surrogare/prevenire una potenziale rivoluzione sociale – resa peraltro impossibile dall’assenza in Iran, come peraltro ovunque nel mondo, di soggetti politici autenticamente rivoluzionari in grado di avere una certa influenza almeno su una parte del proletariato urbano e dei contadini poveri, allora molto numerosi in quel Paese. Ben presto il clero sciita si autonomizzò nei confronti del blocco “laico-socialista” che si era illuso di poter governare il Paese senza la sua ingerenza politica, e prese nelle proprie mani tutte le leve del potere (economico, politico, ideologico), schiacciando brutalmente i partiti che per decenni avevano combattuto il regime di Reza Phalavi. «Khomeini non è un uomo politico: non ci sarà un partito di Khomeini, non ci sarà un governo di Khomeini. Khomeini è il punto di incontro di una volontà collettiva»: così si era espresso Michel Foucault. Sappiamo com’è andata a finire. Come recita il Corano, «L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità».[6] Verità che nel caso di specie si “declina” in termini rigorosamente classisti, al netto della fuffa ideologica dai contorni pseudo religiosi che l’avvolge. Che una repressione violentissima volta a ripristinare l’ordine sociale assuma l’aspetto di una “rivoluzione” (ancorché Islamica) è un falso paradosso che può stupire solo chi non ha chiara la natura sociale degli eventi che si dipanano sotto i suoi occhi. Noi italiani non parliamo forse, mutatis mutandis, di “Rivoluzione Fascista”?

Le organizzazioni di estrema sinistra presenti in Iran inquadrarono gli avvenimenti che scuotevano il Paese all’interno dello schema, ormai storicamente superato, della rivoluzione democratica e antimperialista, dimostrando così la loro estraneità a un’autentica posizione anticapitalista. Per quanto strutturalmente ancora debole e legato a doppio filo all’imperialismo occidentale, il capitalismo si era ormai radicato in profondità nel Paese, mettendo definitivamente in crisi i vecchi rapporti sociali basati sulla rendita fondiaria. L’Iran del 1979 non era la Russia del 1917, né la funzione dello Scià era assimilabile a quella dello Zar. Rimanendo nel quadro delle cose contingentemente possibili, in quel Paese non c’era all’ordine del giorno una rivoluzione democratico-nazionale, ma una modernizzazione capitalistica che permettesse al Paese di superare le vecchie e le nuove contraddizioni. Investire anche solo una parte della borghesia iraniana (e del clero sciita!) di una seppur residuale «missione storica progressiva» non solo era infondato sul piano dell’analisi storica, ma soprattutto creava le premesse per una totale subordinazione delle presunte forze rivoluzionarie agli interessi dello status quo sociale. Scenario che infatti si realizzò. La sanguinosa repressione che colpì quelle forze rese evidente la loro incapacità di analisi, incapacità che aveva creato in esse illusioni davvero risibili ma pienamente conformi alla loro ideologia piccolo borghese.

È un fatto che le preziose energie che il proletariato iraniano seppe dispiegare nel biennio 78-79 non ottennero l’effetto di creare un terreno fertile all’autonomia di classe, con la formazione di organismi politici, sindacali e culturali legati agli interessi immediati e strategici delle classi subalterne. Quelle energie andarono disperse o, peggio ancora, furono usate dalle forze della conservazione sociale, non importa se in guisa laica o clericale. Ma ciò testimoniò anche, se non soprattutto, la debolezza politica e sociale del proletariato mondiale, completamente assente sulla scena storica grazie soprattutto al nefasto lavoro dello stalinismo internazionale.

Dal canto loro i partiti antimonarchici che si contendevano la leadership politica del Paese cercarono di usare i “rivoluzionari” come massa d’urto da lanciare contro il vecchio regime ma badando che il movimento sociale rimanesse sui binari di un mero cambiamento di regime politico, che alla fine ci fu. Insomma, solo il clero sciita si dimostrò all’altezza della situazione, dimostrando ancora una volta come la necessità storica spesso lavori con grande creatività politica e ideologica.

Sviluppo “ordinato” dell’economia, forte e capillare controllo sociale, proiezione del Paese nello scenario internazionale, conquista della leadership in Medio Oriente: dalla fine della guerra con l’Iraq (1980-1988) la “democrazia confessionale” degli ayatollah ha cercato di perseguire tutti questi obiettivi. Lungi dal ripristinare i vecchi rapporti sociali, impresa d’altra parte impossibile, il clero sciita si è posto al servizio dello sviluppo capitalistico del Paese, nei modi più conformi al suo nuovo assetto politico-istituzionale e alla sua nuova collocazione nello scacchiere imperialistico. C’è da dire, per concludere, che cacciati dal Paese gli assistenti americani, l’industria petrolifera iraniana si rivolse soprattutto al Giappone, alla Germania e all’Italia per ricevere gli aiuti indispensabili per riavviare la produzione e riprendere le esportazioni di greggio. L’aiuto arrivò, e ciò mise l’Iran nelle condizioni di portare avanti la lunga e sanguinosissima guerra contro l’Iraq, Paese sostenuto dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Detto en passant, la guerra Iran-Iraq favorì la strana alleanza di fatto tra Iran e Israele, entrambi interessati a frenare le ambizioni del blocco sunnita.

[1] «Oggi per la prima volta le donne saranno ammesse negli stadi in Arabia Saudita. La notizia viene riportata da Arab News» (Ansa). Una notizia davvero epocale! Ho la pelle d’oca! Scherzo, ovviamente. D’altra parte tutto è relativo, come diceva quello. «La decisione era stata annunciata lo scorso 29 ottobre, nell’ambito del processo di riforme avviate dal giovane principe ereditario Muhammad ben Salman».
[2] «L’obiettivo dell’Iran in Afghanistan, sostengono diversi analisti, è contare sempre di più, mantenendo il governo afghano debole, in due modi: aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato Islamico, entrambi nemici dell’Iran. In questo senso è difficile dire se e quanto l’uccisione di Mansour abbia indebolito gli interessi iraniani in Afghanistan. Certamente l’Iran ha perso un importante interlocutore, ma il successore di Mansour, Hibatullah Akhundzada, non ha mostrato finora di avere intenzione di rompere i legami con il governo iraniano. Di certo c’è che l’atteggiamento futuro del Pakistan verso i talebani, e la collaborazione tra il governo pakistano e americano, saranno elementi che condizioneranno il tentativo dell’Iran di farsi largo in Afghanistan» (Il Post).
[3] «La composizione demografica della popolazione, l’alto livello di alfabetizzazione e istruzione (più del 60% degli abitanti ha meno di 30 anni), la posizione geografica strategica (crocevia tra oriente e occidente), e la presenza di una rete sufficientemente sviluppata di infrastrutture, trasporti e telecomunicazioni, sono ulteriori punti di forza del contesto economico iraniano» (Ministero degli Esteri Italiano).
[4] Ovviamente Fatigante quando scrive «socialismo» intende in realtà parlare del Capitalismo di Stato in salsa iraniana promesso quarant’anni fa dal misericordioso clero sciita alle masse diseredate del Paese. Sul “socialismo islamico” avevano nutrito molte – e pietose – illusioni anche gli stalinisti del Tudeh prima che finissero sotto il tallone di ferro della Repubblica Islamica. Ecco ad esempio ciò che dichiarò a un settimane statunitense un dirigente di quel partito per spiegare l’appoggio accordato dai “comunisti” iraniani all’idea avanzata da Khomeini di creare un Consiglio della rivoluzione islamica:  «La religione sciita ha radici democratiche ed è sempre stata legata alle forze popolari nazionali anti-imperialiste. Credo che non ci sia differenza fondamentale tra il socialismo scientifico e il contenuto sociale dell’Islam. Al contrario ci sono molti punti comuni». Ricordo che nelle tempestose giornate del ’79 iraniano anche molti “comunisti” italiani si produssero in stravaganti ipotesi circa la possibilità di mettere insieme l’islamismo sciita (la «religione degli oppressi») e il “marxismo” (la “coscienza degli oppressi”). C’è anche da dire che nei confronti della parola consiglio (Soviet della rivoluzione islamica!) molti “comunisti” manifestano un alto tasso di feticismo, confermando la tesi di chi sostiene la natura magica di certe parole per certe persone.
[5] Un’inchiesta del 2013 della Reuters ha fatto luce sulla Setad, il mega-colosso finanziario iraniano, controllato direttamente dalla Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. «L’immagine al Paese e al mondo è quella sobria, ma la Guida suprema della Repubblica Islamica controlla un impero economico da 95 miliardi di dollari, oltre 70 miliardi di euro, una cifra ben superiore alle esportazioni petrolifere annuali dell’Iran. Nata per fini caritatevoli, nel corso del tempo la società Setad avrebbe cambiato volto, diventando il braccio armato dei vertici dell’Iran e gonfiandosi di partecipazioni private e pubbliche nei settori più delicati anche dal punto di vista geopolitico» (formiche.net).
[6] Allora avevo diciassette anni e le notizie che venivano dall’Iran mi riempivano di entusiasmo “rivoluzionario”; quando poi Khomeini ordinò alle milizie sciite di regolare i conti con gli ex alleati appartenenti alle diverse tendenze politiche antimonarchiche ci rimasi davvero male. Ricordo che un giorno il mio professore di religione, peraltro persona simpaticissima (in pagella mi dava il massimo dei voti!), mi avvicinò lentamente come un serpente per sussurrarmi all’orecchio la seguente velenosa frase: «Sebastiano, devi rassegnarti, le rivoluzioni vanno a finire tutte così, cioè male». Non seppi come replicare e mi nascosi dietro un sorriso di circostanza. Solo qualche mese dopo fui comunque in grado di impartirgli una circostanziata ricostruzione storico-politica degli eventi iraniani che metteva in luce la vera natura sociale della cosiddetta Rivoluzione Islamica. «Sebastiano», obiettò il prete professore, «non mi hai affatto convinto». E mi prestò un libro il cui autore cercava di mettere insieme religione e marxismo. «Dimmi che ne pensi». Lo lessi e scoprii la fulminante frase che mi portò sul campo del “marxismo”: «Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità». Grazie, Padre Papotto!

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