Dal fronte petrolifero continuano ad arrivare cattive notizie per non pochi operatori economici i cui profitti galleggiano sul nero liquido chiamato, ancora a giusta ragione, oro nero. Ecco un tipico bollettino di guerra degli ultimi giorni: «New York. Non si ferma la caduta del prezzo del petrolio, che segna oggi un’accelerazione in seguito alla decisione dell’Opec di mantenere la produzione immutata. Il light crude Wti di New York ha toccato un minimo dal maggio 2010 di 67,75 dollari, in calo di quasi 5 dollari. Il Brent di Londra, intanto, perde 4,85 dollari a 72,90 dollari al barile dopo aver aggiornato il proprio minimo da oltre quattro anni a 71,25 dollari al barile» (AGI, 27 novembre 2014). Già si contano i morti, i feriti e i terrorizzati.
Su un post del 18 ottobre (Oro nero bollente) facevo notare, peraltro sulla scorta delle analisi degli esperti del settore petrolifero, come per diversi Paesi produttori della preziosa materia prima la soglia minima di sicurezza del suo prezzo si aggirasse intorno ai 100 dollari al barile: «È comunque un fatto che sotto gli 80 dollari al barile Paesi che vivono di rendita petrolifera entrano in sofferenza». Mi permetto di citare alcuni passi del post:
«Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile».
«Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale: vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di 60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre per implementare un serio programma di investimenti tesi al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo) della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il Paese dal disastro economico».
Dopo il vertici Opec di Vienna del 27 novembre, per Russia e Argentina le previsioni più fosche si sono avverate.
Secondo Euronews (28 novembre 2014), «La Russia trema dopo la decisione dell’Opec di non tagliare la produzione del petrolio. L’onda lunga del terremoto in arrivo da Vienna investe appieno Mosca e sprofonda il rublo ancora più giù. Dipendente per la metà del suo budget dagli oltre 10 milioni di barili di greggio che sforna ogni giorno, la Russia ha già annunciato che sarà costretta a correre ai ripari con una manovra correttiva alla finanziaria 2015-2016. Una stabilizzazione del petrolio sotto gli 80$ al barile potrebbe tradursi in perdite da 80 miliardi di euro l’anno, ma la picchiata del rublo non permette ora a Mosca di stringere i rubinetti del greggio. Affondata dall’Opec, la valuta russa ha accelerato il suo crollo e toccato nuovi picchi negativi nei confronti dell’euro e del dollaro, che a Mosca di sono rispettivamente scambiati contro 60 e 48 rubli».
A questo bisogna naturalmente aggiungere le magagne connesse alle “inique sanzioni” occidentali decise dall’Asse del «disordine creativo» nel contesto della nota vicenda Ucraina: «Per dare un esempio della disfatta basta rifarsi al recente intervento del ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, ad un forum sull’economia del 24 novembre scorso, dove ha ammesso che “Stiamo perdendo 40 miliardi di dollari all’anno a causa delle sanzioni e stiamo perdendo circa 90/100 miliardi di dollari l’anno a causa del calo del 30% del prezzo del petrolio”. Una batosta, se si pensa che l’introito per la vendita di gas all’Unione Europea è di 130 miliardi di dollari l’anno, cosa che rappresenta buona parte dell’export (la vendita di armi assicura 15,7 miliardi di dollari)» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 28 novembre 2014).
Vendita di materie prime e di armi: è questa la base fondamentale del Capitalismo russo nell’epoca di Putin, in ciò in piena (strutturale) continuità con il Capitalismo russo di matrice stalinista. Naturalmente questa è una tesi che chi concepisce il “socialismo” nei termini del Capitalismo di Stato (il «socialismo di Stato» di lassalliana memoria a suo tempo ridicolizzato da Marx) non è obbligato a condividere.
Veniamo al Paese bolivariano: «In Venezuela, grande produttore mondiale con i conti in bilico, il presidente Maduro ordina tagli del bilancio statale» (RaiNews, 29 novembre 2014). Com’è noto, circa il 70% dell’economia venezuelana dipende dalle vendite di petrolio. Il successore del “mitico” Chávez ha fatto di tutto per convincere i colleghi dell’Opec circa la necessità di ridurre la produzione, quantomeno per sostenere il prezzo del greggio e non lasciarlo al suo declinante destino. Ma gli “amici” arabi non si sono commossi neanche un pochino. Prevedere un approfondimento della già grave crisi sociale che da anni travaglia il Paese, significa darsi alle fin troppo facili profezie. Perché le «riforme strutturali» incalzano.
Come osserva Oliari, l’esito del vertice di Vienna ha spiazzato anche altri importanti Paesi produttori, come Stati Uniti, Iran e Messico, «uniti pur con intenti diversi in un fronte che a tutti i costi voleva il taglio della produzione in modo da alzare i prezzi».
Ma «male è andata anche per la stessa Eni e per Tenaris. A livello europeo l’indice di settore dei titoli energetici è crollato del 3,47%, con i tonfi di colossi come Total, Bp, Royal Dutch Shell e soprattutto Statoil, che è arrivata a perdere il 10% malgrado rassicurazioni sulla tenuta dei dividendi (RaiNews).
Alla fine sembra che si sia imposta, senza compromessi che ne mutassero la sostanza, la linea sostenuta dall’Arabia Saudita (maggior produttore di petrolio al mondo) e dal Kuwait, principali sponsor dello status quo petrolifero. «Dopo avere accumulato una riserva di circa 750 miliardi di dollari, l’Arabia saudita sta cercando di diversificare la sua economia per non dipendere dal greggio. Così, la monarchia si è detta soddisfatta dall’attuale situazione e ha votato contro la proposta di ridurre la produzione. Gli esperti di energia credono che si tratti di una strategia di Riad per far fronte alla concorrenza di Paesi come Iran, Siria Russia e Stati Uniti, nuovo leader nella produzione di shale oil» (Formiche, 28 novembre 2014). Diversificare l’economia per non dipendere dal greggio è un sogno che le fazioni più dinamiche e “moderniste” delle borghesie attive nei Paesi che si reggono sulla rendita petrolifera inseguono praticamente da sempre. Con scarsi risultati, finora.
Secondo Oliari, «La dura legge del mercato ha quindi aperto una grossa crepa in quello che fino ad oggi era il cartello dei membri Opec». In realtà tutto lascia immaginare che siamo solo all’inizio di una dura partita economica e politica – peraltro ancora non del tutto decifrata – dalle forti valenze geopolitiche. Forse non si esagera osservando che nel XXI secolo il petrolio è ancora in grado di evocare scenari che hanno molto a che fare con la continuazione della guerra economica con altri mezzi.