IL PUNTO DAL FRONTE PETROLIFERO

82038293_0_0Dal fronte petrolifero continuano ad arrivare cattive notizie per non pochi operatori economici i cui profitti galleggiano sul nero liquido chiamato, ancora a giusta ragione, oro nero. Ecco un tipico bollettino di guerra degli ultimi giorni: «New York. Non si ferma la caduta del prezzo del petrolio, che segna oggi un’accelerazione in seguito alla decisione dell’Opec di mantenere la produzione immutata. Il light crude Wti di New York ha toccato un minimo dal maggio 2010 di 67,75 dollari, in calo di quasi 5 dollari. Il Brent di Londra, intanto, perde 4,85 dollari a 72,90 dollari al barile dopo aver aggiornato il proprio minimo da oltre quattro anni a 71,25 dollari al barile» (AGI, 27 novembre 2014). Già si contano i morti, i feriti e i terrorizzati.

Su un post del 18 ottobre (Oro nero bollente) facevo notare, peraltro sulla scorta delle analisi degli esperti del settore petrolifero, come per diversi Paesi produttori della preziosa materia prima la soglia minima di sicurezza del suo prezzo si aggirasse intorno ai 100 dollari al barile: «È comunque un fatto che sotto gli 80 dollari al barile Paesi che vivono di rendita petrolifera entrano in sofferenza». Mi permetto di citare alcuni passi del post:

«Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile».

«Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale: vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di 60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre per implementare un serio programma di investimenti tesi al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo) della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il Paese dal disastro economico».

Dopo il vertici Opec di Vienna del 27 novembre, per Russia e Argentina le previsioni più fosche si sono avverate.

img1024-700_dettaglio2_Petrolio-prezzoSecondo Euronews (28 novembre 2014), «La Russia trema dopo la decisione dell’Opec di non tagliare la produzione del petrolio. L’onda lunga del terremoto in arrivo da Vienna investe appieno Mosca e sprofonda il rublo ancora più giù. Dipendente per la metà del suo budget dagli oltre 10 milioni di barili di greggio che sforna ogni giorno, la Russia ha già annunciato che sarà costretta a correre ai ripari con una manovra correttiva alla finanziaria 2015-2016. Una stabilizzazione del petrolio sotto gli 80$ al barile potrebbe tradursi in perdite da 80 miliardi di euro l’anno, ma la picchiata del rublo non permette ora a Mosca di stringere i rubinetti del greggio. Affondata dall’Opec, la valuta russa ha accelerato il suo crollo e toccato nuovi picchi negativi nei confronti dell’euro e del dollaro, che a Mosca di sono rispettivamente scambiati contro 60 e 48 rubli».

A questo bisogna naturalmente aggiungere le magagne connesse alle “inique sanzioni” occidentali decise dall’Asse del «disordine creativo» nel contesto della nota vicenda Ucraina: «Per dare un esempio della disfatta basta rifarsi al recente intervento del ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, ad un forum sull’economia del 24 novembre scorso, dove ha ammesso che “Stiamo perdendo 40 miliardi di dollari all’anno a causa delle sanzioni e stiamo perdendo circa 90/100 miliardi di dollari l’anno a causa del calo del 30% del prezzo del petrolio”. Una batosta, se si pensa che l’introito per la vendita di gas all’Unione Europea è di 130 miliardi di dollari l’anno, cosa che rappresenta buona parte dell’export (la vendita di armi assicura 15,7 miliardi di dollari)» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 28 novembre 2014).

Vendita di materie prime e di armi: è questa la base fondamentale del Capitalismo russo nell’epoca di Putin, in ciò in piena (strutturale) continuità con il Capitalismo russo di matrice stalinista. Naturalmente questa è una tesi che chi concepisce il “socialismo” nei termini del Capitalismo di Stato (il «socialismo di Stato» di lassalliana memoria a suo tempo ridicolizzato da Marx) non è obbligato a condividere.

Veniamo al Paese bolivariano: «In Venezuela, grande produttore mondiale con i conti in bilico, il presidente Maduro ordina tagli del bilancio statale» (RaiNews, 29 novembre 2014). Com’è noto, circa il 70% dell’economia venezuelana dipende dalle vendite di petrolio. Il successore del “mitico” Chávez ha fatto di tutto per convincere i colleghi dell’Opec circa la necessità di ridurre la produzione, quantomeno per sostenere il prezzo del greggio e non lasciarlo al suo declinante destino. Ma gli “amici” arabi non si sono commossi neanche un pochino. Prevedere un approfondimento della già grave crisi sociale che da anni travaglia il Paese, significa darsi alle fin troppo facili profezie. Perché le «riforme strutturali» incalzano.

Come osserva Oliari, l’esito del vertice di Vienna ha spiazzato anche altri importanti Paesi produttori, come Stati Uniti, Iran e Messico, «uniti pur con intenti diversi in un fronte che a tutti i costi voleva il taglio della produzione in modo da alzare i prezzi».

Ma «male è andata anche per la stessa Eni e per Tenaris. A livello europeo l’indice di settore dei titoli energetici è crollato del 3,47%, con i tonfi di colossi come Total, Bp, Royal Dutch Shell e soprattutto Statoil, che è arrivata a perdere il 10% malgrado rassicurazioni sulla tenuta dei dividendi (RaiNews).

Alla fine sembra che si sia imposta, senza compromessi che ne mutassero la sostanza, la linea sostenuta dall’Arabia Saudita (maggior produttore di petrolio al mondo) e dal Kuwait, principali sponsor dello status quo petrolifero. «Dopo avere accumulato una riserva di circa 750 miliardi di dollari, l’Arabia saudita sta cercando di diversificare la sua economia per non dipendere dal greggio. Così, la monarchia si è detta soddisfatta dall’attuale situazione e ha votato contro la proposta di ridurre la produzione. Gli esperti di energia credono che si tratti di una strategia di Riad per far fronte alla concorrenza di Paesi come Iran, Siria Russia e Stati Uniti, nuovo leader nella produzione di shale oil» (Formiche, 28 novembre 2014). Diversificare l’economia per non dipendere dal greggio è un sogno che le fazioni più dinamiche e “moderniste” delle borghesie attive nei Paesi che si reggono sulla rendita petrolifera inseguono praticamente da sempre. Con scarsi risultati, finora.

Secondo Oliari, «La dura legge del mercato ha quindi aperto una grossa crepa in quello che fino ad oggi era il cartello dei membri Opec». In realtà tutto lascia immaginare che siamo solo all’inizio di una dura partita economica e politica – peraltro ancora non del tutto decifrata – dalle forti valenze geopolitiche. Forse non si esagera osservando che nel XXI secolo il petrolio è ancora in grado di evocare scenari che hanno molto a che fare con la continuazione della guerra economica con altri mezzi.

LA TAIGA DELL’ORSO

putin-bear2L’orso russo perde il pelo ma non il vizio. E soprattutto la bestia impellicciata è molto arrabbiata, e ci tiene a farlo sapere alla concorrenza. Fuor di metafora, sono due, in ordine di tempo, gli esempi che illustrano bene l’umore della Russia di Vladimir Putin dopo le “inique sanzioni” occidentali sulla questione ucraina e la flessione del prezzo del petrolio*.

  1. Il trionfo di Putin a Belgrado. «La grande parata organizzata, praticamente in suo onore, a Belgrado il 16 ottobre scorso in occasione dei 70 anni dalla liberazione dai tedeschi della capitale serba da parte dell’Armata Rossa. […] Il calore riservato a Putin e la minuziosità con cui è stato preparato l’evento chiariscono il messaggio che il Cremlino ha voluto lanciare: “la Nato può anche arrivare fino ai nostri confini e minacciare di superarli, ma noi siamo saldamente presenti – politicamente, militarmente ed economicamente – nel cuore dell’Europa, anzi lì dove da sempre l’Europa è più turbolenta e scoppiano le grandi crisi, nei Balcani”» (A. Sansoni, Limes, 21 ottobre 2014).

Lanciato nel centenario della Grande Guerra, il messaggio non suona esattamente come un buon auspicio.

  1. L’annuale tre giorni di discussioni organizzata a Sochi dal Valdai club e conclusasi il 24 ottobre. In un discorso durato 40 minuti, il virile Presidente russo ha espresso tutto il suo disaccordo in merito alla posizione dell’Occidente sulla Russia. A un certo punto Putin ha citato un proverbio latino: «Quello che è concesso a Giove, non è concesso al bove». «Non possiamo essere d’accordo con queste definizioni», ha detto Putin. E ha concluso: «Forse non è ammissibile per un bue, ma devo dire che un orso russo non chiede il permesso a nessuno. L’Orso russo è il padrone della Taiga e non rinuncia a niente».

La Taiga ovviamente è il cortile di casa, o estero-vicino, della Russia.

Dalle parti di Washington e Varsavia** non l’hanno presa bene. Berlino*** e Roma pensano invece ai loro affari con la Russia, che adesso vanno male, e non vedono l’ora di sedersi al tavolo della pace con l’orso russo. Perché morire per la Taiga dell’orso? Il Times di Londra l’atro ieri ha scritto che «a Putin dev’essere ricordato che l’Ucraina è uno Stato sovrano, non il territorio di caccia dell’orso russo». Per Le monde, dopo quello che è successo e che continua ad accadere nell’Ucraina orientale, e alla luce del persistente attivismo diplomatico e militare della Russia putiniana «il peggio non è da escludere». Come si vede, altre parole volte a rassicurare l’opinione pubblica internazionale. Diciamo.

Ma non preoccupatevi: non ci sarà una nuova Guerra Fredda, nonostante l’evocazione di orsi e di foreste siberiane. «E una guerra Calda?». Per la risposta il lettore deve rivolgersi alla cartomanzia: qui al più si “divinizza” il passato – meglio se remoto…

«Secondo Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, nello scontro tra il multipolarismo e l’unipolarismo statunitense Putin sta tentando di resistere agli Stati Uniti. Questo grazie al rafforzamento di una serie di legami politici e culturali fuori e dentro i propri confini nazionali spesso esprimenti sistemi valoriali tra loro diversi. Il presidente russo è certamente consapevole dei rischi che potrebbero comportare queste alleanze. Una politica di de-escalation della crisi in corso con Mosca è nell’interesse di ogni democratico europeo; altrimenti Putin potrebbe continuare a dare spazio a chi – come Salvini e Le Pen – nel Vecchio Continente si sta muovendo per spaccare l’Unione monetaria europea» (D. Flores, Limes, 4 novembre 2014).

Ma sono molti in Europa anche gli “antimperialisti” di provata fede “marxista” (leggi stalinista, più o meno 2.0) che sognano la formazione di un grande polo imperialista, con al centro la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping, da contrapporre al polo egemonizzato dagli Stati Uniti. È nell’interesse di ogni autentico anticapitalista (europeo, americano, russo, cinese, ecc.) opporsi all’imperialismo unitario (ma non unico né unito: tutt’altro!) e alla sua guerra sistemica, qualsiasi forma essa assuma: “fredda”, “calda”, politica, militare, economica, tecnologica, ideologica e via di seguito.

con-naryshkin* «Per Mosca l’Ucraina è solo un effetto scatenante che si somma ad altre incertezze politiche interne russe, finora rimaste in ombra come la fuga di capitali, le difficoltà dei Paesi emergenti colpiti dal tapering della Fed e dal calo dei prezzi delle materie prime che stanno facendo venire a galla squilibri di parte corrente o di deficit pubblici, fragilità finora restati fuori dall’attenzione dei mercati. […] Ieri la divisa russa ha raggiunto un nuovo minimo storico a 49,4 per euro e il minimo da cinque anni sul dollaro a 36. La svalutazione del rublo infatti ha l’effetto di ridurre le spese interne, ad esempio il pagamento delle pensioni, in relazione alle entrate fiscale generate dei prezzi del petrolio sul mercati internazionali, espressi in dollari. Sarà ma i mercati vedono anche rischi di inflazione, e fuga dei capitali» (Vittorio Da Rold, Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2014).

** Scrive la Newsweek Polska di Varsavia (16 ottobre 2014): «Nei Balcani la situazione è ancora peggiore. Una gran parte della popolazione si identifica con i russi, e non solo per ragioni storiche. Per Krastev i bulgari si considerano i grandi perdenti dei cambiamenti avvenuti in Europa e ritengono che la posizione del loro paese si sia ulteriormente degradata negli ultimi 25 anni, sull’esempio di quella russa. Inoltre non si sentono legati agli ucraini. La Slovenia e la Croazia non hanno nulla contro Putin e le sanzioni contro Mosca non piacciono loro. A sua volta la Serbia, che un giorno vorrebbe entrare nell’Ue, si identifica pienamente con la Russia. Solo i rumeni non si sentono attirati da Mosca e rappresentano l’eccezione nei Balcani – così come la Polonia nel gruppo di Visegrád. Angela Merkel ha già troppi problemi con i suoi connazionali, la cui maggioranza è contraria alle sanzioni, per cercare di far cambiare idea ad altri paesi. In secondo luogo l’Europa centrale, che in passato era molto filoamericana, adesso non sembra più dare fiducia agli americani. In ultima analisi si può affermare che le simpatie per Putin sono in gran parte un effetto secondario della crisi dell’Unione europea e del ritiro degli Stati Uniti dall’Europa».

*** Le sanzioni contro Putin affondano l’export della Germania.

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ORO NERO BOLLENTE

2mmftawUno spettro si aggira nei Paesi produttori del famigerato – e tanto bramato – oro nero: il crollo del suo prezzo sui mercati mondiali. Dallo scorso giugno il prezzo/barile del greggio è caduto di circa il 20 per cento. Non è poco. A fine settembre 2014 il benchmark mondiale del prezzo del petrolio, quello del Brent grezzo, è sceso sotto ai 95 dollari il barile, confermando le previsioni fatte nel 2013  dal Dipartimento dell’energia americano: «Il costo del barile di greggio si manterrà sotto i 100 dollari nel 2014» (Panorama,  4 aprile 2013).

Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile.

Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale: vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di 60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre per implementare un serio programma di investimenti tesi al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo) della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il Paese dal disastro economico.

images79XRDQK8Per non entrare in fibrillazione l’Iran ha bisogno di un prezzo/barile fissato all’astronomica quota di 140 dollari, ma per «ritornare sul mercato petrolifero mondiale dopo lunghi e difficili anni di sanzioni, nonostante i costi finanziari l’Iran si è precipitato a lottare per i clienti riducendo il prezzo del petrolio di 85 centesimi al barile fino a quasi 96 dollari. Anche se l’Iran non è interessato ad abbassare il prezzo sotto i 100 dollari al barile, per non perdere clienti è costretto a vendere il petrolio al prezzo al quale è disposto a comprare. Gli affari sono affari». Non c’è dubbio. Si tratterà di vedere fino a che punto questa strategia sarà efficace e sostenibile dal punto di vista sociale.

L’Iraq vede nero sotto i 106 dollari. L’Arabia Saudita può resistere anche con un prezzo/barile fissato a 80 dollari, e il regime saudita ha dichiarato ufficialmente che il “prezzo giusto” è fra 70 e 80 dollari. Un prezzo di 80/85 dollari può essere remunerativo anche per i produttori di shale oil, il petrolio estratto dagli scisti bituminosi usando la devastante tecnologia fracking.

Ho fatto una veloce ricerca sul costo di estrazione (lifting cost) del greggio, per farmi un’idea sufficientemente realistica anche sulla speculazione mondiale che negli ultimi anni si è concentrata sul petrolio. Rimane inteso che i numeri che ho dato e che darò vanno presi con le molle, e hanno solo un significato indicativo, giusto per dare un’idea anche solo approssimativa del problema in oggetto.

Naturalmente il costo di estrazione del greggio varia moltissimo nei diversi Paesi produttori: si va dai circa 2 dollari al barile dell’Arabia Saudita, che vanta il costo di estrazione più basso al mondo, ai 30/50 dollari/barile del Mare del Nord, che invece fissa i costi di estrazione attualmente più alti. Nonostante i suoi molti problemi di sicurezza e di instabilità politica, l’Iraq fa registrare un costo di estrazione molto basso: circa 5 dollari al barile. Altri dati: Argentina 11 dollari, Venezuela 20/30 dollari,  Nigeria 15/30 dollari, Kazakhstan  12/18 dollari. Per lo stesso Paese i costi variano a seconda che i pozzi si trovano nell’entroterra oppure offshore. Ma anche il tempo di sfruttamento del singolo pozzo incide sul costo di estrazione, a causa della perdita di pressione naturale del greggio, che costringe le imprese petrolifere a usare pompe di estrazione sempre più potenti a mano a amano che questa pressione si abbassa. Per “raschiare il fondo” del pozzo in esaurimento si usano poi i più costosi metodi cosiddetti terziari, basati su iniezioni di vapore, anidride carbonica e altri gas e sostanze chimiche. Appare intuitivo che il costo di estrazione del greggio dipende, in linea generale, dalla facilità/difficoltà di questa estrazione: più è facile “spillare” oro nero dalle viscere della terra, più il suo costo risulterà relativamente basso.

imagesXP1EAEF0L’uso di tecnologie estrattive sempre più sofisticate ha ridotto il costo di estrazione del greggio di circa 15 dollari al barile rispetto agli anni Ottanta; ma d’altra parte i costi tendono a crescere nella misura in cui queste stesse tecnologie permettono alle multinazionali del petrolio di estrarre il prezioso liquido in luoghi prima inaccessibili per clima e struttura geologica (vedi l’attuale corsa all’Artico, che sta provocando una rapida militarizzazione del circolo polare artico). In alcuni casi si parla di un costo alla produzione di 80/120 dollari al barile.

Diverso da luogo a luogo è anche il finding cost, ossia il costo connesso all’esplorazione e allo sviluppo dei nuovi giacimenti: si va dai circa 5 dollari al barile del Medio Oriente ai 49 dollari dell’offshore americano, ai 64 dollari dell’offshore brasiliano e ai 61 dollari dell’offshore europeo.

La somma di lifting cost e finding cost dà il cosiddetto break-even, ossia il punto superato il quale inizia la redditività, calcolata come differenza tra il  prezzo di mercato del barile e il break-even. La Saudi & Co., ad esempio, fissa il suo break-even sui 30 dollari: tutto il rimanente margine è profitto che cola, per così dire.

La novità tecnologia degli ultimi tempi è il petrolio cosiddetto non convenzionale, ottenuto trattando sabbie bituminose, oppure materie prime vegetali (biocarburante), o per frantumazione idraulica delle rocce porose sedimentarie. Gli specialisti indicano che il costo di produzione del petrolio di scisto americano è di circa 65 dollari al barile.

Dove bisogna fissare la soglia del prezzo/barile di mercato più “naturale”, più corrispondente ai reali prezzi di produzione? Pare che non esista una risposta univoca. Gli esperti in materia petrolifera hanno infatti a tal riguardo idee molto diverse tra loro: c’è chi parla addirittura di 40 dollari, chi di 75/80 dollari. È comunque un fatto che sotto gli 80 dollari al barile Paesi che vivono di rendita petrolifera entrano in sofferenza.

Si tratta ora di capire le cause che negli ultimi mesi hanno fatto declinare considerevolmente il prezzo del petrolio sul mercato mondiale, mettendo in seria apprensione i Paesi la cui economia fa molto affidamento alla vendita di quella materia prima. E anche qui le opinioni sono assai disparate e spesso confliggenti le une con le altre. Si va da cause puramente economiche, a cause radicate nella geopolitica. E ovviamente non mancano le teorie complottiste: alcuni pensano a un complotto contro la Russia (ordito naturalmente dagli Stati Uniti), altri contro gli Stati Uniti (ad opera soprattutto dell’Arabia Saudita, che ha aumentato la produzione di petrolio), altri ancora contro il “socialismo petrolifero” venezuelano, e via discorrendo. Praticamente ognuno può fabbricare una propria tesi, a seconda delle proprie simpatie politiche e geopolitiche.

Sta di fatto che le ragioni oggettive del rapido declino del prezzo del petrolio sono molte e solo il complottista più ottuso può non vederle. Eccone alcune: perdurante impasse nell’economia europea, rallentamento dell’economia mondiale (forse la Cina non toccherà il tasso di sviluppo del 7,5 per cento fissato per quest’anno), produzione dello shale oil americano a ritmi imprevisti, aumento della produzione petrolifera in Arabia Saudita, speculazione al ribasso sul petrolio, magagne geopolitiche di varia natura sparse per il triste mondo. «Nel 2008 il barile era a 150 dollari e la sete di greggio della Cina, in pieno boom, sembrava infinita. Tutte le compagnie hanno fatto investimenti enormi in trivellazioni, con la certezza di essere remunerate. Ma negli idrocarburi ci vogliono 6 o 7 anni prima di raccogliere i frutti degli investimenti. Dal 2008 a oggi è passato il tempo giusto a inondare il mercato di nuovo greggio, come sta succedendo ora. Da qui una concausa del ribasso dei prezzi» (M. Siano, La Stampa, 17 ottobre 2014). A volte le spiegazioni più semplici sono quelle che più si avvicinano alla realtà. Soprattutto quando si parla di profitti.

offshoreJeremy Rifkin, saggista di successo, teorico del capitalismo «a costo marginale zero» e guru del paraguru di Genova (il Beppe nazionale), è come sempre ottimista: «Non è la fine del petrolio, è il tramonto di un’era. La società gerarchizzata, fortemente accentrata nel potere e nelle ricchezze, si sta lentamente sgretolando. E al suo posto comincia a prendere forma un modello a rete, in cui centinaia di milioni di persone producono l’energia che serve alle loro case e alle loro attività. È una rivoluzione sociale, non solo energetica» (Corriere della Sera, 10 ottobre 2014). Più il Capitale ci prende nella sua rete, estendendo sempre più capillarmente  e scientificamente il suo dominio, e più si fa spesso il velo tecnologico che occulta il processo sociale. Così crediamo di controllare sempre più facilmente ciò che invece ci controlla e ci incalza sempre più da vicino. Il feticismo (della merce, del denaro, della tecnologia) cresce insieme al dominio capitalistico.

L’ATTIVISMO DI CINA E RUSSIA IN AMERICA LATINA – E IN AFRICA

NEWS_196401Era dai gloriosi tempi dell’amicizia fraterna con l’Unione Sovietica che il “compagno” Fidel non respirava una simile aria di orgoglioso “antimperialismo”. Faccio della facile ironia, sperando di riuscirci.

Il mitico (o famigerato) Fidel Castro Ruz ha commentando con «vivo entusiasmo» il doppio tour politico-affaristico di Putin e Xi Jinping in America Latina, e non ha mancato di disturbare le anime di Marx e Lenin, le cui «utopie ispirarono la Russia e la Cina, i paesi chiamati a guidare un mondo nuovo che permetta la sopravvivenza umana, se l’imperialismo non scatena prima una guerra criminale e sterminatrice» (Granma internacional, 23 luglio 2014). Inutile precisare che quando il “compagno” Fidel parla di imperialismo allude al solo «campo occidentale» a guida statunitense.

«L’apporto che la Russia e la Cina possono dare alla scienza, alla tecnologia e allo sviluppo economico in Sudamerica e nei Caraibi, è decisivo», ha sostenuto Fidel. «I grandi avvenimenti della storia non si forgiano in un giorno. Enormi prove e sfide di crescente complessità s’intravedono all’orizzonte. È ora di conoscere un po’ di più la realtà». E la realtà parla di un crescente attivismo imperialista a cura della Cina e della Russia.

Reduci dallo “storico” evento di Fortaleza, che ha visto il lancio in grande stile della Nuova Banca di Sviluppo targata BRICS, i due leader internazionali non hanno perso l’occasione per rafforzare la presenza dei loro rispettivi Paesi in un’area geopoliticamente assai sensibile per gli interessi statunitensi. In realtà il parallelo, e in parte concorrente, attivismo della Russia e della Cina in America Latina ha messo in luce una volta di più le debolezze strutturali dell’imperialismo russo e la forza strutturale dell’imperialismo cinese.

Infatti, se la Russia ha condonato a Cuba un debito da 32 miliardi che con ogni evidenza non era più esigibile, ha venduto al Brasile un sistema di difesa anti-aerea e ha firmato con l’Argentina un’intesa per la cooperazione in campo nucleare, la Cina ha portato a casa ben più di questo. Basti pensare ai numerosi accordi sottoscritti da Xi Jinping e dalla Premier argentina Cristina Kirchner, i quali prevedono forti investimenti cinesi in un’Argentina costantemente sull’orlo del baratro economico, tanto più dopo la sentenza della Corte Suprema di Washington sui bond argentini “ristrutturati” dopo il default del 2001.  Il viaggio del presidente cinese Xi Jinping in Argentina si è concluso con la firma di un accordo multimiliardario tra i due paesi che prevede finanziamenti per le infrastrutture e uno scambio valutario da 70 miliardi di yuan, che aiuterà il paese sudamericano a ripagare i propri creditori difendendo allo stesso tempo la valuta nazionale. Secondo l’accordo inoltre Pechino presterà 2,1 miliardi di dollari all’Argentina per la ristrutturazione del suo sistema ferroviario e 4,7 miliardi di dollari per la costruzione di dighe idroelettriche nel sud del paese (Il Sole 24 ore, 21 luglio 2014). Non bisogna dimenticare che la China National Offshore Oil è la seconda azienda petrolifera del Paese, alle spalle del gruppo nazionale Ypf. «Con il Venezuela, di cui la Cina è ormai il secondo partner commerciale dopo gli Usa, la Cina ha rinnovato una linea di credito per 4 miliardi di dollari, firmando 38 accordi. Ma il suo obiettivo locale è soprattutto il petrolio della Faja del Prinoco, cui ha destinato un investimento da 2,8 miliardi di dollari» (Libero, 22 luglio 2014).

La Russia esporta, perlopiù, armi e politica; la Cina esporta soprattutto capitali e merci, ma anche armi e politica. Il Celeste Imperialismo non si fa mancare niente, ed è sempre più vorace. Il suo appetito cresce soprattutto quando si dà l’occasione di “fare shopping” nei Paesi messi in ginocchio e svalorizzati dalla crisi economica: vedi la Grecia, solo per fare un esempio che ci riguarda direttamente come europei.

Per la Cina adesso non solo l’Africa*, ma anche l’America Latina è molto vicina. A portata di Capitale, se così posso esprimermi.

china-africa* Sul Foglio del 18 luglio è apparso un interessante articolo, a firma Alessia Amighini, che mette in relazione i cambiamenti che stanno intervenendo nella struttura sociale della Cina, quantomeno nelle sue aree capitalisticamente più dinamiche, con l’espansione in Africa del capitale cinese. Ne cito alcuni passi:

«Finora la Cina è cresciuta grazie alla enorme disponibilità di manodopera, soprattutto giovane e a buon mercato, ma le cose stanno cambiando rapidamente. Anche nel paese più popolato del mondo, la manodopera inizia a scarseggiare. E i salari a crescere. L’introduzione di tecnologie avanzate di produzione nella manifattura è uno degli ingredienti principali del cambiamento strutturale che sta interessando l’economia cinese, insieme agli investimenti in infrastrutture tecnologiche, di comunicazione e di trasporto, all’aumento della produttività del settore agricolo grazie alla meccanizzazione di semine e raccolti, e alla progressiva urbanizzazione che permette a milioni di lavoratori rurali di passare dall’agricoltura alla manifattura e ai servizi e di trovare occupazioni meglio retribuite in città. […]

È proprio in molti paesi africani che le imprese cinesi stanno trasferendo la produzione di alcuni settori ad alta intensità di manodopera, come il tessile-abbigliamento e la lavorazione di metalli e minerali. Il cambiamento strutturale in Cina potrebbe oggi avere un ruolo propulsivo sullo sviluppo africano, anche se finora, quantomeno in occidente, sono stati più dibattuti i potenziali effetti negativi: gli investimenti cinesi in Africa – uniti alle importazioni africane di beni dalla Cina – potrebbero spingere le più deboli e meno competitive imprese africane fuori dal mercato.

Tuttavia, sono molti i canali attraverso i quali la presenza cinese in Africa può favorire il cambiamento strutturale. Quelli di cui si parla più spesso sono: creazione d’infrastrutture – che concentrano l’attenzione cinese, dopo vari decenni di sotto-investimento da parte del l’aiuto allo sviluppo tradizionale – aumento della capacità produttiva e dell’occupazione, trasferimento tecnologico e sviluppo del capitale umano».

Altri dati interessanti sull’avanzata del Celeste Imperialismo in Africa:

«Con l’eccezione dell’immediato vicinato asiatico, l’Africa è per molti versi il teatro geopolitico e lo spazio economico in cui più percepibile è la proiezione cinese verso l’estero.

Pechino sta sviluppando una sofisticata public diplomacy, che mira ad accreditare la cooperazione sino- africana come mutualmente vantaggiosa, e non paravento di mire neo-coloniali. In questo quadro assumono una particolare rilevanza le Zone economiche speciali (Zes) su cui la Repubblica popolare cinese (Rpc) investe capitali e energie politiche notevoli. Pur nel quadro di una ripresa dell’economia mondiale ancora debole, la crescita dello scambio commerciale tra la Rpc e il continente africano continua a ritmi sostenuti. Secondo fondi ufficiali, nel 2012 il valore dell’interscambio commerciale ha raggiunto 198 miliardi di dollari USA. Secondo Xinhua, nel 2013 tale valore ha superato i 200 miliardi di dollari. Allo stesso modo il flusso d’investimenti diretti esteri (Ide) da Pechino verso l’Africa – nonostante le statistiche non siano del tutto attendibili – si è moltiplicato nel corso dell’ultimo decennio: nel 2012, a circa 2.000 società cinesi operanti nel continente africano – quasi la metà rispetto alle 5.090 disseminate nel mondo – è corrisposto un flusso di Ide netto pari a 2,5 miliardi di dollari. Nel 2005 l’ammontare era di 390 milioni» (A. P. Quaglia, L’avanzata della Cina in Africa, Orizzonte Cina, maggio 2014).

Leggi:

L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO

FORTALEZA: NASCE LA BANCA DEI BRICS

The 6th BRICS summit in BrazilÈ fatta: dopo un lungo periodo di travagliata gestazione nasce a Fortaleza, nel nordest del Brasile, la Nuova Banca di Sviluppo da tempo caldeggiata dai cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) in funzione antiamericana. La sede centrale della NBDS sarà a Shangai, che ha vinto il ballottaggio con New Delhi – ma il neo Premier indiano Narendra Modi, al suo debutto internazionale, ha già dichiarato che la decisione «non è affatto scontata». Si crea una banca da 100 miliardi di dollari per finanziare progetti infrastrutturali e come un aiuto per affrontare svalutazioni, fughe di capitali e una crisi economica come quella che sta imperversando da anni negli Stati Uniti e in Europa.

Oggi i tifosi del polo imperialista alternativo a quello egemonizzato dagli Stati Uniti d’America possono dunque festeggiare l’evento con qualche legittima soddisfazione, anche se farebbero bene a prestare orecchio alle voci critiche.

Le Monde, ad esempio, ha messo in dubbio l’unità esibita dai leader politici dei Brics al loro VI vertice annuale, perché questi Paesi, al di là della solita retorica contro «un sistema finanziario mondiale dominato dagli interessi occidentali» per mezzo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, non mostrano di avere un progetto comune di lungo periodo sostanzialmente alternativo a quello “occidentale”. Più che un interesse strategico, scrive il quotidiano francese, ciò che li accomuna sarebbero piuttosto interessi tattici di varia natura (economici e politici, d’ordine interno e internazionale) destinati comunque a evolvere nel tempo. Basti pensare all’attivismo diplomatico di Putin, il quale cerca alleati che possano supportarlo nella scottante questione ucraina.

D’altra parte, fino a che punto la Cina è interessata a sovvertire un ordine finanziario mondiale che le ha consentito di conquistare il posto al sole che oggi tutte le nazioni del pianeta le invidiano? E il ruolo economicamente e finanziariamente preponderante del Celeste Capitalismo nell’area d’influenza dei Brics non è destinato a entrare, prima o poi, in rotta di collisione con gli interessi geopolitici della Russia e dell’India? A questo riguardo rimando a quanto scrivevo in un articolo a commento dell’accordo russo-cinese sul gas del maggio scorso.

Ma la potenza e la proiezione internazionale dell’imperialismo cinese sono diventate di tali dimensioni, che la geopolitica di Pechino rischia potenzialmente di entrare in frizione anche con gli interessi strategici vitali del Sudafrica e del Brasile.

Una brevissima precisazione: quando parlo di imperialismo intendo riferirmi, in generale, a fenomeni economici che trovano poi un preciso “riflesso” nella politica interna e internazionale di un Paese. Nella mia visione, il volto aggressivo dell’imperialismo che si può apprezzare nella sfera politico-militare si spiega con la natura aggressiva del rapporto sociale capitalistico, il quale ha oggi una dimensione mondiale – come quella che vorrebbe acquisire “pacificamente” il Celeste Imperialismo, secondo la nota formula: Tutto sotto il Cielo. Chiudo la digressione.

Naturalmente il peso specifico della Cina all’interno dei Brics trova un puntuale riscontro nella struttura finanziaria della NBDS e nella sua gestione politica: «La Cina, titolare delle più grandi riserve di valuta estera del mondo, contribuirà per la maggior parte del pool di valuta, si parla di 41 miliardi dollari. Brasile, India e Russia metteranno un chip da 18 miliardi dollari ciascuno e il Sudafrica si è dichiarato disponibile a conferirne cinque. Si tratta di un meccanismo di reazione rapida alla fuga di capitali, offrendo operazioni di swap in dollari. Il rischio di deprezzamento della moneta locale è anche forte. Se si presenta la necessità, la Cina avrà diritto a chiedere la metà del suo contributo, il Sudafrica per il doppio e per gli altri Paesi la possibilità sarà pari alla quantità conferita» (Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2014).

Comunque la si pensi, non c’è dubbio che ciò che è successo a Fortaleza non va affatto sottovalutato, perché quantomeno l’evento, più o meno “storico” che sia, segnala che nella cosiddetta bilancia del potere mondiale si sono verificati mutamenti assai significativi, e che altri se ne annunciano. «In questo scenario c’è da chiedersi quali mosse faranno gli Stati Uniti»: basta aspettare.

BRICS-schedaAggiunta da Facebook (17 luglio)

LA BANCA TARGATA BRICS NELLA CONTESA CAPITALISTICA MONDIALE

 A integrazione del mio post di ieri sull’accordo di Fortaleza circa la Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS, pubblico una sintesi dell’interessante articolo che Martina Vacca, Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Bologna), ha scritto il 29 gennaio 2014 per BloGlobal.net e che ho avuto il piacere di leggere solo questa mattina.

«Il ventilato esordio sulla scena finanziaria internazionale di una nuova istituzione economica – la Banca per lo Sviluppo dei Paesi BRICS (la BRICS Development Bank) – lascia presagire uno sconvolgimento degli equilibri economici globali futuri, suscitando molte incertezze sulle ripercussioni nei rapporti multilaterali fra grandi Potenze e Mercati Emergenti. Ma soprattutto propone un nuovo percorso monetario, deviante rispetto agli equilibri instaurati in seno agli Accordi di Bretton Woods nel 1944, quando nacquero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che, in quel caso, furono funzionali all’uscita dalla Grande Depressione».

«I Paesi emergenti registrano oggi il 43% della popolazione mondiale, l’unione delle loro riserve valutarie sarebbe pari a 4.400 miliardi di dollari e allo stato attuale detengono circa il 70% dei beni mondiali dei fondi sovrani. Inoltre i loro scambi commerciali ammontano al 16,8% del commercio internazionale, mentre i flussi commerciali intra-BRICS hanno raggiunto i 282 miliardi dollari nel 2012. Nello scenario globale, infine, le cinque economie emergenti rappresentano il 21% del PIL mondiale».

«Non mancano i segnali che generano incertezza riguardo alle relazioni bilaterali all’interno degli stessi Paesi BRICS: Cina e Brasile, economicamente complementari, hanno finora dimostrato una sapiente cooperazione, legata soprattutto agli scambi di materie prime brasiliane contro gli investimenti cinesi in infrastrutture. Resta però il mero interesse economico della Cina verso il Gigante, accompagnato da una concorrenza aggressiva all’estero, che potrebbe restituire un’immagine precaria di una “equal partnership” col Brasile».

«All’interno di un progetto come quello della Banca di Sviluppo per i Paesi emergenti, è considerevole il rischio che un Paese come la Cina tenti di prevalere sugli altri, cercando di dettare l’agenda economica e dunque di assumere un ruolo egemonico. In quest’ottica le relazioni sino-russe – nonostante i due Paesi condividano strutture di potere più compatibili tra loro rispetto a quelle di Brasile, India e Sudafrica – potrebbero entrare in conflitto per quanto riguarda la contesa del predominio nell’area eurasiatica all’interno  del nuovo organismo finanziario. Ma non solo. La “S” dei BRICS, d’altra parte, è tornata ad essere terra di conquista per le altre economie emergenti, palesemente alla ricerca di nuove opportunità economiche in Sudafrica, spesso a spese delle comunità locali e del patrimonio naturalistico e ambientale. In misura maggiore rispetto agli altri, la Cina detiene un ampio parco di interessi economici in Sudafrica, a partire dalle infrastrutture fino alla tecnologia low cost, passando per il settore agricolo e quello minerario».

«All’interno di queste dinamiche, la Banca dei BRICS delinea prospettive condivise e diversificate per ogni Paese aderente, in funzione di una risposta concreta ai bisogni primari di ognuno. Orientati alla ricerca di investimenti diretti, i BRICS attraverso la Banca potranno reindirizzare le risorse che ne deriverebbero, verso progetti di sviluppo propri».

«L’economia della Cina è la maggiore del blocco e raggiunge una produzione annua pari quella totale degli altri quattro. Pur riportando tassi di crescita inferiori rispetto alla Cina, la Russia, in continuità con la sua storia, rincorre la fama di grande Potenza e risente del crescente peso economico cinese, soprattutto nelle regioni situate ad estremo Est».

«È vero che, dati i punti di debolezza e le numerose sfide che gli si pongono davanti, il nuovo organismo non riuscirà ad esercitare un’influenza determinante nel breve-medio periodo, ma l’esistenza di un dibattito in merito almeno dal 2012 e i primi round di negoziazioni come quello di Durban dello scorso anno rappresentano una sfida politica – e geopolitica – ormai avviata».

CONTINUA IL BAGNO DI SANGUE IN UCRAINA

ucrainaContinua il bagno di sangue in Ucraina. «Fonti mediche della città di Donetsk, in Ucraina, hanno riportato che ammonterebbe almeno ad una trentina il numero dei morti degli scontri di ieri fra i miliziani filo-russi e i militari di Kiev, cosa riscontrabile dai cadaveri presenti all’obitorio. […] I miliziani filo-russi sono sempre più isolati dal Cremlino, al quale palesemente interessa solo mantenere il controllo sull’annessa Crimea, dove ha la potente base militare della Flotta del Mar Nero, anche come risarcimento per i debiti non pagati di Kiev: le truppe russe ai confini sono state ritirate e ieri il ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha detto di essere pronto al dialogo con il neo-eletto presidente ucraino Petro Poroshenko, “ma senza mediatori”» (Notizie Geopolitiche, 27 maggio 2014).

Si tratta dell’«ennesima vergogna euro-americana», come sostengono i tifosi italiani di Putin? Non c’è dubbio, se vogliamo rimanere sul terreno dell’indignazione etica.

Peccato che essi non vedano l’altra faccia dell’escrementizia medaglia: l’attivismo dell’Imperialismo russo, il suo decisivo ruolo nella maledetta vicenda. Chi giustifica, di fatto, la Russia con l’argomento che essa, «in fondo», si muove dentro il suo cortile di casa, dentro il suo storico «spazio vitale», si piega nel modo più «vergognoso» alla sanguinosa logica degli interessi nazionali (quelli che, ad esempio, motivano la controffensiva di Kiev nell’Est del Paese) e imperialistici (vedi la contesa globale tra Cina, Russia, Stati Uniti, Europa, Giappone, ecc.).

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POVERA PATRIA EUROPEA…

Eurozone Debt Crisis - General ImageryNon c’è editoriale dedicato all’odierna tornata elettorale europea che non punti i riflettori sul seguente (apparente) paradosso: l’Europa è, «nonostante tutto», la prima potenza economica mondiale (in termini di produzione industriale, di espansione commerciale, di Pil, di capacità tecno-scientifiche, di reddito pro capite, ecc.), ma il suo peso geopolitico è pressoché irrilevante. E questa contraddizione appare tanto più evidente e grave oggi, quando 1) l’attivismo russo a Est rischia di far precipitare il mondo in una nuova “guerra fredda”, 2) la relazione strategica sempre più stretta tra Russia e Cina sposta la bilancia del potere mondiale verso l’Oriente «autoritario», 3) gli Stati Uniti sembrano invischiati in un isolazionismo che pretende dai partner europei una partecipazione all’Alleanza Atlantica «più adulta e attiva».

Il paradosso è solo apparente perché, come sanno benissimo gli editorialisti che oggi versano molte lacrime sull’«identità perduta del sogno europeista», non esiste l’Europa come coerente e unitario spazio geopolitico (non esistono, tanto per intenderci, gli Stati Uniti d’Europa oggi evocati da Roberto Napoletano sul Sole 24 Ore). . Giustamente Adriana Cerretelli (Il Sole 24 Ore) fa notare che oggi la contesa sistemica fra gli Stati si dà come confronto fra «colossi regionali», e che in questo contesto, per la verità non nuovo, la dimensione degli Stati nazionali europei è troppo piccola per reggere il confronto con i protagonisti della politica mondiale: solo unendosi essi possono realizzare quella massa critica idonea a togliere il Vecchio Continente dall’attuale condizione di irrilevanza geopolitica. Ma questa necessità deve fare i conti ancora una volta con la maledetta Questione Tedesca.

Come ho altre volte scritto, la genesi dell’Unione europea ha due fondamentali, e alla lunga contraddittori, centri propulsori: uno fa capo alla necessità di mettere sotto stretto controllo la potenza sistemica tedesca, progetto che ha trovato il suo maggiore sostegno nella Francia, nell’Inghilterra e negli Stati Uniti; l’altro va individuato appunto nella necessità avvertita soprattutto dai Paesi europei di maggior peso politico-militare (Francia e Inghilterra) di non scivolare definitivamente nella più completa inconsistenza geopolitica, almeno là dove residua il loro retaggio coloniale. Soprattutto la Francia ha cercato di usare la potenza economica della Germania in questa chiave, che ben si armonizza con la famigerata, e sempre più insipida e annacquata, grandeur cucinata a Parigi.

L’atteggiamento dei francesi nei confronti dei “cugini” tedeschi è sempre stato (almeno dal 1870 in poi) piuttosto ambivalente, e per certi versi si può persino parlare di una sorta di amore-odio, di un’attrazione fatale respinta con tanta più sdegnata retorica nazionalista quanto più essa si è fatta forte e a volte irresistibile.

Nel 1946 George Orwell notava con la consueta cruda ironia: «In questo momento, con la Francia nuovamente liberata e con la caccia alle streghe verso i collaborazionisti in pieno corso, siamo inclini a dimenticare che, nel 1940, vari osservatori sul posto stimarono che circa il quaranta per cento della popolazione francese era o attivamente a favore dei tedeschi o completamente apatica» (Arthur Koestler).

Scrivevo su un post del 2013 (Francia e Germania ai ferri corti): Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy (Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore), l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: Travail, Famille, Patrie.

Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale salvatore della patria i conti non tornavano.

Questo solo per ribadire quanto stucchevole e ingannevole sia l’attuale piagnisteo intorno all’Europa «gigante economico e nano politico». Una credibile e sostenibile Unione europea non può non avere la Germania come suo asse centrale portante: è intorno a questo dato di fatto, che i critici europeisti dell’egemonia tedesca fanno finta di non vedere, che si gioca la guerra sistemica in corso in Europa.

Come sempre il processo storico non dipende dal “gioco democratico” che oggi celebra il suo momento più significativo (e ideologico, nell’accezione più pregnante del concetto), ma dai rapporti di forza e dagli interessi in gioco. Il rito elettorale è funzionale a un processo sociale di respiro nazionale e internazionale che annulla gli elettori come soggetti politici e, soprattutto, come uomini.

imagesDa Facebook (26 maggio)

La natura economica della supremazia tedesca nel Vecchio Continente

Scrive Hans Kundnani (Esporto, dunque sono. Il ritorno del nazionalismo tedesco, Limes, 26 maggio 2014):

I quotidiani greci hanno paragonato più volte il cancelliere Angela Merkel ad Adolf Hitler; quando Merkel ha visitato Atene, nell’ottobre 2012, manifestanti hanno bruciato bandiere tedesche con sopra la svastica, hanno indossato uniformi naziste e mostrato striscioni con lo slogan «Hitler, Merkel – stessa merda».

Sempre nel 2012 il Corriere della Sera ha dichiarato che «l’Italia non è più in Europa, ora fa parte del Quarto Reich». Nel 2013 anche un editoriale dello spagnolo El País ha equiparato Merkel al Führer. Molti studiosi parlano del riemergere della «questione tedesca»: vi è un intenso dibattito circa il vero o presunto esercizio da parte di Berlino di un’egemonia sul Vecchio Continente e alcuni, come George Soros o Martin Wolf, intravedono addirittura l’emergere di una sorta di «impero» tedesco dentro l’Europa. Persino Anthony Giddens scrive che «la Germania sembra aver raggiunto con mezzi pacifici quanto non era riuscita a ottenere mediante la conquista militare: il dominio dell’Europa».

***

Tra l’altro, a mio parare, ciò avvalora la tesi secondo la quale l’Imperialismo moderno è innanzitutto un fenomeno la cui genesi è radicata profondamente e “strutturalmente” nell’economia capitalistica. La potenza economica degli Stati Uniti fu alla base del loro successo nelle due guerre mondiali del XX secolo e nella cosiddetta “guerra fredda”. La potenza economica tedesca ha permesso alla Germania di ricomporre il suo spazio nazionale, spezzato violentemente nel 1945, senza sparare un solo colpo di cannone. “Sparare” merci, invenzioni e tecnologie è alla base di quel successo tedesco che tanta invidia procura soprattutto ai “cugini” francesi.

La “pacifica” prassi economica attesta insomma la straordinaria forza dell’Imperialismo del XXI secolo – ovviamente sto parlando anche della Cina e della Russia.

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QUALCHE CONSIDERAZIONE SULL’ACCORDO RUSSO-CINESE

20140520_103602_344614_12494848Le implicazioni geopolitiche dell’accordo russo-cinese sul gas sembrano talmente evidenti e di così ampio respiro, che l’analista non sente quasi il bisogno di spendervi sopra lunghe considerazioni.  Ma, appunto, sembrano. In realtà l’accordo (in effetti pare che si tratti ancora di un memorandum in via di perfezionamento) si presta a più di una lettura e in ogni caso esso va collocato all’interno della contesa interimperialistica che investe l’intero pianeta.

Quelle che seguono sono più che altro delle rapide annotazioni a margine dell’accordo, che mi propongo di riprendere e verificare alla luce di quanto sarà accaduto nel frattempo.

Per la Cina l’accordo sulla fornitura del gas russo ha soprattutto (non solo: basta por mente a quanto sta avvenendo nel quadrante Sud-Est del Pacifico) un significato economico, mentre dal versante russo ciò che ha permesso di raggiungere in poco tempo la “massa critica” idonea a superare ogni pregresso impedimento (il negoziato è durato dieci anni) ha un carattere immediatamente geopolitico. Per le ragioni che tutti possono facilmente intuire riflettendo su quanto sta accadendo in Ucraina.

La Cina ha colto con la consueta intelligenza diplomatica l’occasione per strappare alla Russia un buon prezzo (oscillante, secondo indiscrezioni, in un range tra i 350 e i 400 dollari per mille metri cubi), e quest’ultima, pressata da incombenze di vario tipo, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Nella divisione capitalistica del lavoro tra Cina e Russia quest’ultima accetta dunque il tradizionale ruolo di fornitrice di materie prime, riaffermando così il lato debole della sua struttura economica e del suo Imperialismo. La considerazione esattamente speculare vale invece per il capitalismo e per l’Imperialismo con caratteristiche cinesi, basati come sono sulla produzione per il mercato estero e – sempre più col trascorre del tempo – interno.

Non a caso in occasione dell’accordo per la fornitura di petrolio russo alla Cina per i prossimi 25 anni (firmato il 21 giugno 2013 dalla compagnia russa Rosneft e dalla compagnia cinese Cnpc), Putin dichiarò che «Essenzialmente è una nuova era di collaborazione che significa che nella cooperazione con i nostri partner strategici passiamo dalle pure forniture di greggio a una collaborazione a tutto campo nella sfera dell’ingegneristica e della manifattura» (da Notizie geopolitiche, 21 dicembre 2013). Segno che Mosca ha ben presente i limiti di una potenza globale basata esclusivamente sulla vendita di materie prime.

Scriveva Laura Canali nel 2008: «Quello che Mosca dovrà valutare è se conviene aprire a Pechino e alla sua penetrazione nella Russia orientale, dove solo le compagnie cinesi avranno forse il coraggio di lavorare allo sviluppo di una regione tanto ostile, o economizzare le sue risorse. Nella Mosca che conta c’è chi sostiene che ci sono troppi “stream” russi in giro per il mondo, mentre in casa ne servirebbero di più» (Il drago ha sete, Limes, 10 luglio 2008). La differenza di “pressione” tra Russia e Cina in termini di peso economico e di dimensioni demografiche è troppo grande per non conferire alla strategia dell’attenzione tra i due Paesi un carattere quantomeno problematico e potenzialmente perfino ingovernabile.

0_0_putin_1I tifosi dell’asse imperialistico Pechino-Mosca in funzione antiamericana farebbero bene a moderare gli entusiasmi e a non dare per scontato ciò che scontato non è affatto. Oggi la Cina e la Russia hanno più di un motivo per esibire una ritrovata sintonia strategica, per mostrare insieme i muscoli davanti all’opinione pubblica mondiale. Ma ciò non significa che il fondo problematico della relazione russo-cinese sia scomparso magicamente. Nemmeno al virile Putin e al “neomaoista” Xi Jinping è concessa la facoltà di usare la bacchetta magica sul terreno del confronto interimperialistico.

Certo, come scrive Le Monde (con una certa apprensione), «Mosca e Pechino oggi hanno interessi a intendersi contro gli Stati Uniti e l’Europa». Appunto, oggi. Tra l’altro il quotidiano francese parla, sempre a proposito dell’asse russo-cinese, di una «comune lotta ideologica», mentre in realtà si tratta di una lotta tutta interna all’Imperialismo mondiale. Lo schema ideologico del confronto fra le civiltà (Oriente versus Occidente, regimi autoritari contro democrazie, ecc.) non spiegava niente ieri e certamente è del tutto inservibile come strumento per capire il mondo di oggi.

linfa800Secondo Aleksandr Prosviryakov, partner di Lakeshore International, «Questo accordo con Gazprom e la cooperazione con la Russia dimostra come la Cina si stia espandendo, diventando sempre più grande, e che questa parte del Mondo è dominata da Cina, India e Russia. Il ruolo degli Stati Uniti si sta restringendo» (Russia Today). Già vedo l’espressione gongolante delle milizie “antimperialiste” (leggi: antiamericane e anti-Occidente) di “destra” e di “sinistra”.

L’Unione Europea, che ancora fino allo scorso anno rappresentava per il gas russo il primo mercato di sbocco (con 160 miliardi di metri cubi acquistati, ma la Cina da sola già da quest’anno probabilmente sarà un mercato più grande), accusa certamente il colpo ma ancora non ha nelle sue mani tutti gli elementi per iniziare ad abbozzare una coerente ed efficace risposta, sia in termini economici che politici. Ciò che facilmente si può prevedere è un’accelerazione delle tendenze in corso sul terreno della diversificazione delle fonti di approvvigionamento delle materie prime energetiche, dello sviluppo di nuove tecnologie estrattive, e così via. Com’è noto, per il Capitalismo la sfida è un fondamentale motivo di sviluppo.

Come sempre, quando si parla di Ue in realtà bisogna alludere ai singoli Paesi che la compongono, i quali com’è noto sono fra loro divisi su diversi “dossier” economici e politici, come peraltro la stessa questione ucraina ha messo in luce.

Gli Stati Uniti quasi certamente cercheranno di trasformare questo accordo che irrobustisce l’asse Mosca-Pechino in una ennesima leva tesa a mettere all’angolo gli alleati europei (soprattutto la recalcitrante Germania) e costringerli a una collaborazione Atlantica “più fattiva e convinta”.

Russia's President Vladimir Putin (L) at Da Facebook (23 maggio)

Ieri il Financial Times consigliava Putin a smorzare gli entusiasmi e a riflettere piuttosto sul reale significato dell’accordo firmato a Shangai con la Cina. Infatti, per il FT l’accordo mette in evidenza soprattutto le debolezze strutturali della Russia, che si appresta a recitare il ruolo di «alleato junior» (minore) della grande potenza cinese. Secondo il quotidiano della City la funzione di fornitrice di materie prime umilia la storica fierezza della Russia.

Per Enrico Oliari «Da più parti è stata sopravvalutata la portata del contratto firmato lo scorso 21 maggio fra la Russia e la Cina per la fornitura di gas naturale prelevato dall’Artico: l’accordo fra la Gazprom e la Cnpc, che era in preparazione da almeno un decennio e che porterà il combustibile in Cina a partire dal 2018, prevede una fornitura per un valore di 426 mld di dollari, spalmabile però su 30 anni.

Facendo tuttavia un raffronto con quanto avviene con l’Europa, intesa come continente e non solo come Unione europea, risulta che, per quanto la cifra faccia impressione, si tratta di una fornitura non proprio consistente: il gas russo viene venduto in Europa ad una cifra compresa fra 350 e 550 dollari per 1000 m3, a seconda del paese acquirente; tenendo una cifra ipotetica di 400 dollari per per 1000 m3 (i dati precisi sono secretati), si deduce che il quantitativo di gas venduto dalla Russa alla Cina corrisponde ad una cifra di 14 mld di dollari all’anno, pari a 35 mld di m3 di gas, per una popolazione che è quasi il doppio di quella dell’intero continente europeo. Questi ha infatti importato nel solo 2013 dalla Russia 130 mld di m3 di gas, ovvero più di tre volte la portata di quanto previsto dal contratto fra la Gazprom e la Cnpc, per una popolazione che è quasi il doppio di quella del continente europeo» (Notizie Geopolitiche).

Scrive Giorgio Cuscito:

«Il riavvicinamento tra Pechino e Mosca è legato anche alle contingenze. Espandendo l’export energetico in Cina, Putin vuole dimostrare di saper sopravvivere alle sanzioni occidentali legate alla crisi Ucraina, rafforzando al contempo il legame con il suo vicino. Ma la Russia non vuole essere il junior partner della Cina o una “potenza regionale” (così è stata definita dal presidente Usa Barack Obama). I due paesi hanno entrambi una vocazione imperiale e condividono circa 4 mila chilometri di confine. Questi fattori li rendono rivali strategici. Insomma, la logica “il nemico del mio nemico è mio amico” potrebbe non avere vita lunga» (Limes, 23 maggio 2014).

Io non parlerei di «vocazione imperiale», ma di vocazione imperialista, la stessa vocazione che, mutatis mutandis, muove nell’agone mondiale gli Stati Uniti d’America e l’Europa (più precisamente, i Paesi di maggior peso economico e politico che la strutturano: Germania, Inghilterra e Francia, in primis).

A differenza del Financial Times, The Wall Street Journal Europe mette in evidenza i punti forti dell’accorda stipulato a Shanghai, che si compendiano in un rafforzamento dell’asse Mosca-Pechino in funzione antiamericana. Almeno questo nel breve e nel medio termine.

Mentre gli stati Uniti d’America arretrano anno dopo anno sullo scacchiere geopolitico mondiale, la collaborazione strategica fra Russia e Cina mette entrambi i Paesi nelle condizioni di avanzare tanto dal punto di vista politico-militare quanto da quello economico e tecnologico. In questo contesto si acuisce l’irrilevanza geopolitica dell’Europa.

Secondo il WSJE l’accordo di Shanghai sul gas echeggia il patto Molotov-Ribbentrop del 1939. Se riflettiamo sul destino non certo luminoso cui andò incontro il patto di non aggressione firmato dalla Germania nazista e dalla Russia stalinista, capiamo subito su quale scivoloso terreno si muove la contesa imperialistica dei nostri giorni. Quello del WSJE non sembra affatto un punto di vista ottimista sul mondo. D’altra parte, niente invita oggi all’ottimismo.

 

LA “DERIVA” DELL’ANTIFASCISMO DURO E PURO SULLA QUESTIONE UCRAINA

2Con ritardo mi sono imbattuto nell’interessante articolo di Andrea Ferrario dedicato alla «deriva di una parte della sinistra riguardo all’Ucraina». Ai miei occhi l’artico appare interessante soprattutto perché l’autore si riconosce pienamente nella «sinistra anticapitalista» italiana, quella che, per intenderci, fa dell’antifascismo militante il punto politico (e identitario) dirimente e discriminate più importante. Chi scrive, invece, non ha mai aderito all’antifascismo mainstream di matrice resistenzialista, e l’ha anzi sempre combattuto ritenendolo una forma particolarmente odiosa di ideologia al servizio dello status quo sociale.

A mio parere la lamentata «pericolosa deriva di settori del movimento» sulla questione ucraina (o su quella siriana) non è dovuta a «scivoloni», come crede Ferrario, ma a una griglia concettuale di stampo stalinista (e, per estensione, maoista e terzomondista) che nei fatti e sottotraccia non ha mai cessato di informare la teoria e la prassi di gran parte della «sinistra anticapitalista» italiana ed europea.

GORBACHEV-CHIESA_PressConference2006Da Facebook (20 maggio):

DALLA RUSSIA CON AMORE

Scrive Fosco Giannini (Marx XXI) a proposito della cosiddetta «manifestazione antimperialista e antifascista» di sabato 17:

«In piazza vi sono le televisioni nazionali russe: sono intervistati, e rispondono in lingua russa, Giulietto Chiesa e Luigi Marino. Ma molti sono i compagni della piazza cercati dai giornalisti russi». Nella mia enorme ingenuità non so spiegare il motivo di cotanto interesse dei massmedia basati nell’Imperialismo Russo per la manifestazione di gente che si dichiara «antimperialista». Misteri della fede (geopolitica).

Chiedo a Giulietto Chiesa: “Che ne pensi, com’è andata?”. “ È stata una grande cosa – risponde Chiesa –, specie in relazione al massiccio dispiegamento di forze politiche, culturali e mediatiche volte a deformare le notizie sull’Ucraina, a portare acqua al mulino dell’imperialismo”». Inutile dire che il simpatico Chiesa conosce un solo Imperialismo: quello di stampo occidentale centrato sugli Stati Uniti d’America. Per certi “antimperialisti” la Russia e la Cina rappresentano l’Asse del Bene. Certo, si fa fatica a crederlo, ma la realtà supera sempre, e di molto (oltre il parossismo, sovente) ogni più fervida (o contorta) immaginazione.

Ma ascoltiamo ancora il Chiesa-pensiero, e tratteniamo il respiro (o la sghignazzata): «Abbiamo bisogno di far capire agli antifascisti ucraini, ai compagni del Partito Comunista ucraino, al popolo e al governo russo e a tutto il mondo antimperialista che anche in Europa e in Italia in molti hanno capito e scendono in campo contro il nazifascismo. E oggi questo obiettivo è stato colto: le televisioni russe che sono qui in piazza Verdi già stasera, 17 maggio, manderanno in onda il servizio sul sit-in e a guardarlo saranno circa quaranta milioni di telespettatori russi». Qualcuno può dire all’uomo di Pandora TV che, se Marx vuole, la Russia di Stalin è morta e sepolta da qualche annetto a questa parte? Dite che lo sa? E che pure la Russia di Gorbaciov è andata a sgualdrine? Anche questo sa. A questo punto non so che dire. Diciamo.

«La manifestazione è forte e tranquilla», scrive con legittimo orgoglio antimperialista Giannini; «i compagni sono soddisfatti di come è andata, contenti dell’esito del duro lavoro fatto per farla riuscire». Mentre io mi esibisco in inutile chiacchiere, che si risolvono in un oggettivo fiancheggiamento dell’Imperialismo (quello solito: occidentale), «i compagni» agiscono e praticano l’antimperialismo. Di qui, la simpatia del governo russo e l’interesse dei media russi per «i compagni». A occhio, c’è qualcosa che non quadra. Ma cosa? Cosa?

LO STALINISMO NON È (PURTROPPO) UN’OPINIONE!

VARATE LE NUOVE “INIQUE SANZIONI” CONTRO LA RUSSIA

CRISI UCRAINA E “IMPOTENZA EUROPEA”

IL PUNTO SULLA “QUESTIONE UCRAINA”

È SCOPPIATA UNA NUOVA GUERRA FREDDA?

SULLA CRIMEA E SUL MONDO

DUE PAROLE SULLA CRIMEA

ESSERE VLADIMIR PUTIN

FANTAPOLITICA!

HOLOMODOR!

ULTIM’ORA DALL’UCRAINA!

KIEV. ANCORA SANGUE A PIAZZA MAIDAN

L’UCRAINA E I SINISTRI PROFETI DI CASA NOSTRA

L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA

L’UCRAINA DA LENIN A LUCIO CARACCIOLO

QUANDO UNA STATUA DI LENIN (O DI MARX) CADE

INTRIGO UCRAINO

LA CINA E LA QUESTIONE DEL SOCIALISMO NEL 21° SECOLO

Ossia, lo sviluppo della lotta di classe nella più
grande fabbrica capitalistica del pianeta.

milano_070614Scrive il tardo maoista Francesco Valerio della Croce:«Secondo un assunto, alquanto semplicistico, la Repubblica popolare cinese sarebbe divenuta, nel corso del tempo, una forma inedita di “capitalismo di stato”, una realtà economica in cui le regole del profitto e della turboproduzione vigerebbero assolute e incontrastate» (Il sorpasso: come la Cina cambierà la storia). Secondo il mio assunto, non so quanto semplicistico (tocca al lettore giudicare), la Repubblica popolare cinese è SEMPRE stata una realtà sociale pienamente capitalistica, dalla sua proclamazione (1949) in poi. Naturalmente in modi diversi nel corso dei decenni sulla base del retaggio storico di quel grande Paese, della sua struttura sociale (caratterizzata dalla predominanza dell’elemento rurale) e nazionale (presenza nello spazio cinese di diverse nazionalità, etnie, ecc.), nonché della sua collocazione nello scenario internazionale (vedi in primis il bipolarismo USA-URSS).

Ai sostenitori della natura pienamente capitalistica/imperialista della Cina, della Croce obietta sostanzialmente due argomenti: il forte tasso di sviluppo dell’economia cinese, anche nel contesto della crisi economica internazionale deflagrata nell’estate del 2007 a cominciare dagli Stati Uniti, e la forte presenza in quell’economia dello Stato: «Ebbene, il suddetto pensiero cozza non poco con la realtà, per più d’un motivo. Il più vistoso motivo è rappresentato proprio dallo stato di salute in cui prospera l’economia cinese: una situazione di segno decisamente opposto rispetto all’occidente capitalistico, spolpato di una parte ingentissima della sua capacità produttiva dal 2007, anno in cui la crisi di sovraspeculazione finanziaria è esplosa ed ha palesato in proporzioni gigantesche l’enorme indebitamento che ha risucchiato via una parte consistente di economia reale […] Decisivo, per comprendere come la presenza irremovibile dello Stato nelle scelte di orientamento dell’economia cinese si raccordi in ogni ambito della vita produttiva del Paese, è sottolineare che lo strumento principale di legislazione, regolazione e controllo è rappresentato dal Piano quinquennale». Ho risposto a queste due risibili obiezioni in diversi post, ad esempio in questo: L’indiscutibile successo del Capitalismo con caratteristiche cinesi.

A proposito del mitico «Piano quinquennale» scrivevo qualche tempo fa: «Detto en passant, anche Stalin e, in seguito, Kruscev puntarono i riflettori della propaganda sugli altissimi tassi di sviluppo dell’industria russa per dimostrare la natura socialista dell’economia del Paese, e magnificarne la superiorità nei confronti dei competitori occidentali. Lungi dall’attestare la natura socialista della Russia stalinista, i mitici Piani Quinquennali ne testimoniavano piuttosto l’essenza capitalistica; essi raccontavano, a chi avesse orecchie per ascoltare la verità, il processo «di accumulazione originaria» in un Paese capitalisticamente arretrato e molto ambizioso sul terreno della contesa imperialistica, peraltro in ossequio alla tradizione Grande-Russa del Paese, così odiata dall’uomo che subì l’oltraggio della mummificazione – in tutti i sensi. Di qui l’opzione di politica economica tesa a orientare tutti gli sforzi della nazione verso la costruzione, a ritmi stachanovisti, di una potente industria pesante: più acciaio e meno burro! Com’è noto il burro non fa ingrassare gli arsenali» (L’imperialismo è la grande Cina).

stalin33Stalinismo e maoismo come facce della stessa (capitalistica) medaglia? Non c’è dubbio. Almeno per chi scrive, si capisce. Diciamo meglio: il maoismo come stalinismo con caratteristiche cinesi.

«La nuova leadership del Presidente Xi Jiping, sembra aver compreso appieno l’importanza del ruolo internazionale che la Repubblica popolare svolge oramai a livello mondiale ed accanto a questa consapevolezza si mantiene saldo il riferimento al marxismo-leninismo in una visione dialettica di riforma dello Stato». La «visione dialettica» del «marxismo-leninismo» posta al servizio dell’Imperialismo con caratteristiche cinesi. Andiamo bene, nel migliore dei «socialismi reali» possibili. Ovvero: Come volevasi dimostrare.

«La visita di Putin in Cina, in programma a maggio, diventa quindi un appuntamento cruciale, sia per comprendere i prossimi sviluppi del rapporto tra le due potenze (in termini commerciali, militari e strategici) che per veder messi seriamente in discussione gli attuali equilibri di potere. Un asse russo-cinese, con ovvie ricadute anche nei rapporti all’interno dei Brics, costituirebbe una sfida decisiva al predominio politico-militare del blocco a guida statunitense. Non ci resta che attendere. Fiduciosi, se abbiamo come obiettivo la pace e il dialogo fra civiltà e culture (D. A. Bertozzi, Il “filo rosso”: Cina e Russia sempre più vicine ). Come ai bei tempi della Guerra Fredda (vedi i famigerati Partigiani della Pace) l’obiettivo della “pace” e del «dialogo fra civiltà e culture» riposa nelle mani della Cina e della Russia. In effetti, la cosa gronda fiducia da tutte le parti, e quasi mi converto alla lungimirante visione strategica elaborata dal «maggiore generale cinese Wang Hayun (consulente presso il China International Institute for Strategic Society)». Quasi. Datemi il tempo di imparare un po’ di «marxismo-leninismo».

timthumbDal post pubblicato su Facebook

实事求是 *

«Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l’11 settembre del 1976, L’Economist scrive: “Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame”» (A. Barbera, La stampa, 12 maggio 2014). Non «contro le prescrizioni di Marx», come se Mao avesse voluto seguire una strada originale rispetto alla rivoluzione proletaria marxiana, ma piuttosto sulla base di una concezione borghese del mondo messa al servizio di una rivoluzione nazionale-borghese centrata sull’iniziativa del vasto mondo rurale cinese**. Già Stalin aveva chiamato «socialismo» («in un solo paese») l’accumulazione capitalistica a tappe accelerate in Russia.

Quanto alla natura “egualitaria” dello stato cinese è meglio stendere un velo pietoso. Anzi funerario, come racconta Yang Jisheng, l’autore di Tombstone, The Great Chinese Famine, 1958-1962: «A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un “orgoglioso giornalista” dell’agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all’Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura […] Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tienanmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati – lo ha ricostruito lui stesso – che a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti». Ho provato ad indagare quelle «vere ragioni» in Tutto sotto il cielo (del Capitalismo).

«Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c’era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». L’”egualitarismo” come miseria di massa: un classico delle cosiddette utopie negative raccontate in diversi romanzi fantapolitici. Solo che questo è il mondo reale dell’accumulazione capitalistica, la quale, com’è noto, non è un pranzo di gala.

«”Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l’ho spiegata ai cinesi con una formula matematica”. Prende un pezzo di carta e scrive: “Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione”. L’orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia». Peccato che l’orgoglio da solo non è in grado di cogliere la radice sociale delle disgrazie.

Scrive M. Borghi: Con la sua ricerca completa e puntuale “Tombstone”, pubblicato a Hong Kong nel 2008 e subito vietato nel resto della Cina per ovvie ragioni, ha il merito di fare chiarezza sulla vera causa che portò alla morte di ben 36 milioni di persone (fra cui il padre adottivo dell’autore): l’economia pianificata. Quella gestione statale e burocratica che ancora oggi molti, dall’estrema sinistra all’estrema destra, sognano ancora, pur con accenti e modalità diverse. Speriamo che la lettura del saggio di Jisheng (che a breve verrà pubblicato in traduzione italiana da Adelphi) possa contribuire a far cambiare loro idea» (L’intraprendente, 12 maggio 2014).

Personalmente non ho avuto mai una grande simpatia, se mi si concede l’ironico eufemismo, per il Capitalismo di Stato, soprattutto per quello venduto al mondo (per la gioia degli anticomunisti) come «socialismo», ancorché «reale».

* Shí shì qiú shì: cercare la verità attraverso i fatti.

** «Nel caso dei Paesi arretrati che hanno bevuto l’amaro calice del colonialismo e dell’imperialismo, la rivoluzione contadina assume necessariamente anche una valenza nazionale, cioè a dire anticoloniale e antimperialista, senza che ciò esuberi minimamente dal quadro borghese. «Non vi può essere il minimo dubbio – scriveva Lenin – che ogni movimento nazionale può essere soltanto un movimento democratico-borghese, perché la massa fondamentale della popolazione dei Paesi arretrati consiste di contadini, che sono rappresentanti di rapporti borghesi capitalistici»1. Certo, il sincero rivoluzionario contadino di una volta si sarebbe ribellato dinanzi a questa impostazione “dottrinaria”, e avrebbe sostenuto che a lui il borghese e il capitalista piacevano più da morti che da vivi. Ma egli, proprio come Mao, non conosceva né la dialettica storica né il concetto marxiano di ideologia: non sempre – per usare un eufemismo – chi parla sa esattamente quale tendenza storica gli sta, per così dire, suggerendo il discorso, e per questo Marx invitava a studiare la storia al netto di quel che i suoi protagonisti pensano di se stessi.

[…]

L’unificazione economica e politica della Cina deve perciò diventare l’assoluta priorità di una forza sociale autenticamente nazionale, cioè borghese, nel senso storico, non puramente sociologico, della parola. E questo però in un contesto che non vede agire una forte classe borghese, e dove per giunta lo spirito nazionalistico di questa classe è assai indebolito in grazie dei profondi legami che fin da subito si sono instaurati tra capitale interno e internazionale. Pure forti sono i legami che legano la borghesia delle città ai proprietari terrieri. Come in India, anche in Cina la borghesia urbana parla una lingua internazionale, la lingua del capitale. Stando così le cose, la forza sociale che appare in grado di portare a termine l’unificazione della Cina nella nuova epoca storica abita nelle campagne cinesi: sono i contadini che non hanno nulla a che spartire con i grandi proprietari terrieri. Si tratta di mobilitare, disciplinare e organizzare questa immensa risorsa rivoluzionaria, della quale la borghesia cinese ha giustamente paura, anche perché la comparsa del proletariato sulla scena mondiale getta una inquietante ombra sui movimenti sociali a carattere democratico-nazionale che giungono in ritardo all’appuntamento con quello che, scomodando Hegel, possiamo chiamare Processo Storico Universale. È precisamente in questa complicata dialettica storica che viene a inserirsi il maoismo, che diventa il catalizzatore della rivoluzione nazionale-borghese, in parte per una consapevole scelta del PCC, in parte in virtù di tendenze oggettive che passarono largamente sopra la sua testa» (Tutto sotto il cielo – del Capitalismo).

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1908321_813884558640004_2429129820417131050_nOdessa e il mondo «sempre più feroce»

«Corpi bruciati e accatastati l’uno sull’altro. Uomini, donne, bambini, cristallizzati nei loro ultimi momenti, mentre cercano una via di fuga dalle fiamme, ma non ce la fanno. Le immagini dei morti di Odessa, stipati come animali in gabbia nella casa dei Sindacati, fanno male agli occhi e al cuore» (Panorama.it).

«Non avevo previsto, per mancanza di coraggio intellettuale, che il mondo divenisse sempre più feroce» (William Butler Yeats).

Chi si sforza di cogliere la maligna essenza di questo mondo strutturato in classi sociali, per trovare il modo di archiviarlo, non può fare a meno di nutrirsi di questo «coraggio intellettuale». Per questo egli “prevede” con estrema facilità tutto il peggio possibile nella società che non conosce ancora l’uomo, ma solo «capitale umano» da mettere a valore.

Ai più questo “dono” appare quasi come un’affettazione cinica, magari di chi non riesce ad avere successo nel «mondo reale», e che per questo non vede che il male e s’inventa un mondo irreale di sua fantasia. Ma si tratta semplicemente di una coscienza che non vuole scendere a patti con il Dominio (in tutte le sue manifestazioni: economiche, politiche, geopolitiche, ecc.), e che sa che esso non è necessariamente e inevitabilmente l’ultima parola nella nostra storia.

D’altra parte, i fatti stessi si incaricano di ricordarci sempre di nuovo che «il mondo diviene sempre più pericoloso». Ma privi dell’irriducibile coscienza di cui sopra, facilmente ci abituiamo a sopravvivere «alla meno peggio» perfino nei campi di sterminio e nei «campi di rieducazione attraverso il lavoro». Per questo le sventure lontane non ci guastano l’appetito. Il «male agli occhi e al cuore» presto finisce. A cena esso sembra già del tutto assente.

trinceaDimmi con chi stai e ti dirò chi sei!

Molti stalinisti, più o meno dichiarati e più o meno “post ideologici”, sembrano vivere una seconda giovinezza. La crisi ucraina ha fatto questo cattivo miracolo. Ad esempio, mi è capitato di leggere su Facebook commenti di questo genere: «L’offensiva di Kiev fallirà senza bisogno dell’intervento dell’Armata Rossa». Capite? Armata «Rossa», non Russa. Lo so, qui siamo allo stadio più patologico dello stalinismo, ma non bisogna credere che quelli che applicano lo schema della Seconda guerra mondiale (quella «patriottica» e «antinazista»)* alla questione ucraina esibiscano un’eccellente stato di salute, quantomeno sul terreno dell’analisi politica e geopolitica. Per dirla con l’ubriacone di Treviri, la prima volta come tragedia, la seconda come malattia.

C’è gente talmente ideologicamente “malata”, che non capisce come essere contro tutti gli attori della crisi (filoeuropei, filorussi, filoamericani, nazionalisti, stalinisti, democratici, autoritari, ecc.) non equivale affatto ad assumere una posizione neutrale nel conflitto, ma come all’opposto questo atteggiamento sia il solo adeguato sul terreno dell’autentico anticapitalismo/antimperialismo. Non in un’astratta dimensione storica, ma nel 2014, nell’epoca della sussunzione totalitaria e mondiale del pianeta al Capitale. Se un “comunista” qualsiasi assimila l’autonomia di classe al neutralismo, vuol proprio dire che con lui perfino l’esorcista avrebbe vita difficile. Amen!

10262079_705833302796397_6196992169817477510_n* Scrivevo su un post pubblicato su Facebook il 25 aprile:

Un diffuso mito giustificazionista

Scrive Michele Nobile (Sinistrainrete, 10 aprile 2014):

«Un diffuso mito giustificazionista è quello basato sul ruolo dell’Armata rossa nella liberazione dell’Europa dal nazismo. A questo proposito, dovrebbe bastare ricordare che, se è vero che fu l’Unione sovietica a sopportare l’urto maggiore delle armate naziste dopo il giugno 1941 e poi a liberare da esse gran parte dell’Europa, tuttavia fu il patto tra Hitler e Stalin (per interposti ministri) nel 1939 che segnò l’inizio alla Seconda guerra mondiale: ad esso seguì immediatamente l’invasione e la spartizione della Polonia di comune accordo tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Se si vuol ragionare in modo geopoliticamente o strategicamente onesto, allora non dovrebbe essere difficile comprendere che l’alleanza di fatto fra i due totalitarismi fu quanto permise a Hitler di conquistare quasi tutta l’Europa continentale, essendosi assicurato il confine orientale e venendo pure rifornito di materie prime essenziali per la guerra dall’Unione sovietica, fino all’ultimissimo momento prima di rivolgersi contro di essa. La solidarietà con le atroci sofferenze dei popoli sovietici sotto il tallone nazista non può far passare in secondo piano il fatto che l’Armata rossa fosse strumento al servizio del totalitarismo sovietico e che esso si sia imposto con la forza nell’Europa centrale e orientale. Le rivolte dei lavoratori e le conseguenti repressioni in Germania orientale, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, sono lì a testimoniarlo. Questo è solo un esempio, ma storicamente e psicologicamente importante, per illustrare un concetto più generale: la politica estera sovietica e degli altri «socialismi» ha sempre avuto (ed ha) natura nazionalista e conservatrice».

Chissà perché queste considerazioni non suonano nuove alle mie orecchie. Forse perché è dalla fine degli anni Settanta che mi batto contro il «mito giustificazionista» e contro il mito resistenzialista, due facce della stessa ultrareazionaria medaglia. Intanto mi inchino con piacere al mito della Scampagnata!

Da Stalinismo di andata e di ritorno:

Per me lo stalinismo fu una dittatura capitalistica esattamente – mutatis mutandis sulla scorta del diverso retaggio storico – come lo furono, dittature al servizio del Capitale, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania. Per certi versi quello russo (o «sovietico») fu un regime sociale ancora più oppressivo e miserabile di quello italiano e di quello tedesco. In più, ma dalla mia prospettiva sarebbe meglio dire ancora peggio, tale regime dittatoriale (capitalistico: questo elementare concetto va sempre ripetuto) si autoproclamava «socialista/comunista», gettando in tal modo nel discredito, con la zelante collaborazione degli stalinisti basati a Occidente, la stessa possibilità dell’emancipazione del proletariato internazionale e, dunque, dell’intera umanità. Basta insomma poco per comprendere perché lo stalinismo in tutte le sue varianti nazionali (togliattismo, maoismo, guevarismo, castrismo, ecc.) si sia subito imposto alla mia mente come il nemico principale su cui sparare a palle incatenate.

Infatti, per me si è trattato di cogliere due obiettivi strettamente correlati l’uno all’altro: 1. svelare la natura capitalistica del falso socialismo/comunismo russo (e poi jugoslavo, cinese, cubano, vietnamita e chi più ne ha più ne metta), mostrando per questa via la miserabile funzione controrivoluzionaria espletata dal cosiddetto «movimento comunista internazionale» devoto a Mosca (e poi in parte anche a Pechino); 2. combattere la falsa idea secondo la quale l’esperimento «sovietico» dimostrerebbe quanto vana sia la ricerca di una società fondata su rapporti sociali umani: «Se il comunismo è questo, meglio tenerci il capitalismo!». Gli stalinisti di tutto il mondo hanno fatto di tutto per confermare al 100 per 100 il noto aforisma di Churchill.

Non ho mai pensato che questa battaglia fosse facile, tutt’altro; ma una volta impadronitomi di questo fondamentale punto di vista su un evento che ha segnato l’intero Novecento, e che proietta la sua maligna ombra anche sul nuovo secolo, per me non si è posta all’attenzione alcuna alternativa, né a dire il vero l’ho mai cercata. Per mutuare un noto statista americano, sono da sempre un antistalinista non perché sia facile esserlo, ma perché è vero (ancora oggi, anche dopo il crollo dei miserabili muri!) esattamente il contrario.

Naturalmente da questo giudizio sullo stalinismo (come espressione della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre) discendono a cascata una serie di importanti tesi: sulla Seconda guerra mondiale (come guerra imperialistica analoga alla Prima), sulla Resistenza (come continuazione della guerra imperialistica con altri mezzi e nelle mutate circostanze), sulla «Repubblica nata dalla Resistenza» (come continuazione del regime sociale capitalistico con altri mezzi e nelle mutate circostanze, e quindi in assoluta continuità “strutturale” con il precedente regime fascista), e via di seguito. Sul piano teorico, l’antistalinismo mi ha permesso di approcciarmi a Marx e a Lenin senza la maligna mediazione dei “marxisti-stalinisti”, cosa che mi ha evitato un miserabile destino di statalista-riformista-nazionalista.

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L’UCRAINA DA LENIN A LUCIO CARACCIOLO

QUANDO UNA STATUA DI LENIN (O DI MARX) CADE

INTRIGO UCRAINO

IL PUNTO SULLA “QUESTIONE UCRAINA”

Scontri a Kiev2014. Morire per l’Europa: è il sobrio, ma nient’affatto beneaugurante, titolo dell’articolo di Oxana Pachlovska pubblicato nell’interessante numero di Limes (20/2014) dedicato alla cosiddetta «Crisi Ucraina». Perché cosiddetta? Lo spiega la stessa Pachlovska: «Ciò che designiamo con l’espressione “crisi ucraina” non costituisce un conflitto locale, bensì uno scenario di proporzioni mondiali. Non si tratta di un conflitto tra Kiev e Sinferopoli, bensì uno scontro frontale e ormai senza infingimenti tra Russia ed Europa e tra Mosca e Washington, “nuova Cartagine” da distruggere nell’ottica euroasiatica. […] Nell’ottica russa un’Ucraina indipendente protesa verso l’Europa non può e non deve esistere». Quale sia l’interesse strategico della potenza russa è chiaro a tutti, anche se le potenze concorrenti sorvolano sul punto per evidenti ragioni di marketing geopolitico. Meno chiari e certamente più contraddittori appaiono invece gli interessi occidentali, per il semplice motivo che 1. non esiste una Europa in quanto organico e coerente spazio geopolitico, bensì una serie di Paesi europei i cui specifici interessi nazionali non sempre consentono una efficace “sintesi unitaria” , e 2. non sempre gli interessi delle due sponde dell’Occidente separate/unite dall’Atlantico collimano, e anzi dalla fine della cosiddetta Guerra Fredda le occasioni di una divaricazioni di interessi strategici tra almeno una parte dei Paesi europei (pensiamo a ciò che accadde durante l’invasione americana dell’Irak) e gli Stati Uniti si sono moltiplicate.

«La crisi ucraina e i conseguenti rapporti più o meno autenticamente burrascosi dell’Unione europea con la Russia stanno gettando le tracce di una nuova geopolitica del gas: per quanto sia difficile che realmente quanto sta accadendo nel paese di Kiev possa incrinare in modo duraturo i rapporti fra i due blocchi specialmente in tema di energia, certo è che la strategia delle minacce fa intravvedere nuovi e possibili scenari interessanti. E se c’è qualcuno che si preoccupa, qualcun altro si sfrega le mani» (Notizie Geopolitiche, 17 aprile 2014). Fra chi si «sfrega le mani» poteva mancare la Germania? Certo che no: «In soccorso di Kiev è arrivata la tedesca RWE: il colosso dell’energia elettrica con sede ad Essen, nella Renania Settentrionale (Vestfalia), ha infatti iniziato a vendere il proprio metano a Kiev, unica tra tutte le società europee a farlo dall’inizio delle ostilità con la Russia, tramite un gasdotto che attraversa la Polonia. Si tratta di un contratto firmato con l’ucraina Naftogaz per una fornitura annuale a pieno regime di 10mld di m3, al prezzo, com’è stato spiegato, “d’ingrosso europeo»”. Forse a qualche vecchio polacco l’attraversamento del gasdotto germanico lungo il suolo patrio fa balenare vecchi e brutti ricordi.

Scrive giustamente Lucio Caracciolo (in realtà è una sorta di intelligente mantra che egli ripete crisi geopolitica dopo crisi geopolitica): «Nelle crisi ci svegliamo per quel che siamo e non per quel che vorremmo essere. Vale anche per gli attori geopolitici» (Lo specchio ucraino, Limes 4/14). Il mio mantra dice: «È l’eccezione che svela la vera natura della regola *». L’eccezione è la crisi (economica, geopolitica, sociale, esistenziale); la regola è il Capitalismo/Imperialismo.

1397464947232_fotocolore_8_500Ma ritorniamo a Caracciolo: «Il test dell’Ucraina, al quale si sono sottoposti russi, americani ed europei, ha prodotto un esito negativo per Mosca, positivo per Washington, catastrofico per l’unione Europea. Bilancio molto provvisorio, da riverificare nel futuro prossimo. Eppure ineludibile, se vogliamo intendere il senso di una partita la cui prima posta è la ridefinizione della sempre mobile frontiera fra impero russo e spazio euroatlantico». Detto che all’anacronistico concetto di «impero russo» preferisco quello più storicamente adeguato (almeno dai tempi di Stalin in poi) di Imperialismo russo, almeno in parte condivido l’analisi di Caracciolo. In effetti, l’attivismo politico-militare di Mosca non riesce a nascondere un dato di fatto: l’Ucraina colta nella sua precedente configurazione nazionale ha opposto una inaspettata resistenza a una sua organica integrazione nello spazio egemonico russo. La Russia ha investito tantissimo, in termini economici (alcune stime parlano di 200 miliardi di euro spesi negli ultimi venti anni) e politici, su Kiev per scongiurare l’esito a cui stiamo assistendo, e certamente farà di tutto per non trovarsi la NATO alle sue frontiere. Sulla debolezza strutturale dell’Imperialismo energetico russo rimando qui.

Già che ci sono formulo la solita retorica e provocatoria (ma solo alle orecchie delle tante mosche cocchiere del Bel Paese che svolazzano allegramente sulla cacca della competizione interimperialistica) domanda: possono gli antimperialisti occidentali che lottano contro la NATO allearsi “tatticamente” con l’Imperialismo russo? La risposta mi sembra già contenuta nella suggestiva domanda. A ogni buon conto, rimando il lettore ai miei precedenti post “geopolitici”.

Anche Caracciolo mostra di prendere sul serio l’unione Europea, sebbene per mostrarne le magagne: le divisioni, le contraddizioni, gli “egoismi nazionali”. I maggiori analisti geopolitici del pianeta sanno bene che solo la Germania potrebbe conferire peso sistemico e direzione strategica a un’Unione Europea di nuovo conio (un Quarto Reich?), ma naturalmente cosa ciò significhi in termini di competizione tra le Potenze è a loro altrettanto evidente.

«La Germania», lamenta Ian Bremmer, «ha una visione economica e non geopolitica» (La Stampa, 15 aprile 2014). Diciamo piuttosto che la Germania “ha fatto” geopolitica attraverso l’economia, come ben dimostra la Riunificazione del Paese e la creazione di un’area del Marco che coincide con l’area capitalisticamente più forte e dinamica del Vecchio Continente. D’altra parte, Berlino sa bene che Parigi, Londra, Mosca, Washington ecc. amano così tanto la Germania, che ne vorrebbero almeno tre (visto che due non sono bastate…). Da questo punto di vista è vero che la potenza sistemica del capitalismo tedesco è fonte di inquietudine per la stessa classe dirigente tedesca, la quale ha paura di assecondare anche geopoliticamente la natura capacità espansiva del Made in Germany. Gestire una macchina potente non sempre è facile.

Secondo Gregor Gysi, capogruppo parlamentare della Linke, «Molti russi si sentono umiliati dal crollo dell’impero sovietico. Quello che Putin ha fatto in Georgia, in Siria e ora in Ucraina dà ai russi la sensazione di essere ancora importanti». Non c’è dubbio, e chi lotta contro l’Imperialismo mondiale (russo, americano, europeo, cinese, italiano, ecc.) deve mostrare alle classi dominate il contenuto ultrareazionario del sentimento patriottico alimentato sempre di nuovo dalla propaganda nazionalista. La tesi marxiana secondo la quale l’ideologia dominante è quella delle classi dominanti, ossia quella che sorge spontaneamente sulla base dei vigenti rapporti sociali, nell’epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale è più vera che mai. Non solo non bisogna “cavalcare”, alimentare e carezzare i “sentimenti popolari”, come fanno coloro che lavorano per la difesa dello status quo sociale (e magari “tirare su” tanti bei voti), ma bisogna piuttosto bastonarli con la più intransigente e puntuale delle critiche *.

«Dall’altra parte», continua Gysi, «Putin è prigioniero di un vecchio modo di pensare. Cerca – come gli Stati Uniti, del resto – di mantenere e consolidare la sua sfera d’influenza. Questo bisogna saperlo se si vuole convincere il governo di Mosca a non procedere verso l’escalation» (Intervista del Tagesspiegel, 8 aprile 2008). Peccato che quel «vecchio modo di pensare» sia radicato profondamente e necessariamente nella vigente dimensione del Dominio. Sono piuttosto le categorie di “vecchio” e di “nuovo”, declinate in modo ideologico, ossia tale da non consentire di afferrare la reale dinamica dei processi sociali, che bisogna dismettere una volta per sempre. Questo bisogna saperlo se non vogliamo farci arruolare anche solo “spiritualmente” in uno dei campi imperialistici in reciproca competizione.

images* «La trincea non è il non-luogo nel quale è sospesa la Legge della Civiltà, come suggerisce anche De Roberto, ma piuttosto l’eccezione che illumina a giorno la normalità (la Regola) di una dimensione esistenziale dominata da rapporti sociali che negano con tetragona necessità ogni autentica umanità» (1914-2014. La grande paura).

** «Per la popolarità Marx nutriva un sovrano disprezzo. […] La  folla era per lui il gregge senza idee, che riceveva pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Finchè il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, per Marx il plauso della folla non può che andare a gente che si oppone al socialismo» (W. Liebknecht, Colloqui con Marx, p. 177, Einaudi, 1977).

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