YEMEN E SIRIA. DUE PAESI, LA STESSA GUERRA

untitledMentre l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale è tutta concentrata sul macello siriano e sul tragico destino della popolazione civile rimasta intrappolata tra le macerie di Aleppo, nello Yemen si continua a morire: «Sanaa (Yemen), 9 ottobre 2016. È di 155 morti e oltre 500 feriti il bilancio ufficiale, seppur provvisorio, delle vittime del raid aereo compiuto oggi a Sanaa. Le bombe hanno colpito in pieno una sala dove era in corso un funerale del padre di un esponente di spicco dei ribelli sciiti Houthi (*). Nella sala c’erano circa 2 mila persone per partecipare ai funerali di Ali bin Al-Ruwaishan, padre del ministro dell’Interno del governo dei ribelli Houthi, Jalal al Ruwaishan. Tra gli esponenti di spicco dei ribelli sciiti yemeniti che hanno perso la vita in questo attacco c’è il sindaco di Sanaa, Abdel Qader Hilal. Il ministero degli Esteri iraniano ha condannato l’attacco così come il leader delle milizie sciite libanesi Hezbollah, che ha tenuto stasera un discorso pubblico in occasione delle celebrazioni di Ashurà a Beirut. Da parte sua la coalizione a guida saudita nega qualsiasi responsabilità per il raid sul funerale» (Quotidiano.net). Negare, negare sempre, anche contro ogni più bruciante evidenza: è, questa, una linea di difesa adottata con successo da tutti i criminali che possono vantare uno status di legittimità politica sul piano internazionale. Salvo inattesi rovesci sul fronte militare… La domanda che però dobbiamo farci per non rimanere vittime della guerra propagandistica degli Stati (di tutti gli Stati) è la seguente: chi giudica sulla legittimità etico-politica di un’azione bellica? La domanda può essere riformulata in questi altri e più generali termini: da quale prospettiva osserviamo il processo sociale (massacri bellici inclusi) mondiale?

Dopo l’ennesimo “incidente di percorso” in terra yemenita Ned Price, portavoce della Sicurezza nazionale USA, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sono «molto turbati da una serie di attacchi ai civili»: «Alla luce di ciò che è accaduto adesso abbiamo cominciato a rivedere il mostro già abbastanza ridotto sostegno alla Coalizione e lo renderemo compatibile con i principi, i valori e gli interessi degli Stati Uniti, tra cui vi è la fine immediata di questo conflitto. La cooperazione con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco». I principi, i valori e gli interessi che ispirano la politica estera della prima potenza imperialista del pianeta non sono compatibili con l’uso indiscriminato della forza militare, come peraltro attesta nel modo più evidente l’intera storia degli Stati Uniti. Scherzo per allentare la tensione. Inutile dire che l’altro imperialismo da sempre ispirato da principi, valori e interessi che stanno al vertice della scala etica (sì, alludo alla Russia) gongola dinanzi al “turbamento” dei competitori a stelle e strisce. Nelle conversazioni “da bar” si dice: «Il più pulito dei due ha la rogna». Discutibile sotto l’aspetto dottrinario, la battuta rende bene l’idea.

Com’è noto, la Coalizione a guida saudita, costituitasi a marzo dello scorso anno e sostenuta politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna, è composta da Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco e Sudan; il “fronte sciita” che sostiene gli Houthi è guidato dall’Iran, potenza regionale in forte ascesa. «La partita a scacchi che si sta svolgendo tra Iran e Arabia Saudita non è solamente in Siria ma anche nei paesi della Penisola Arabica come lo Yemen. La guerra civile yemenita tra i ribelli Houthi, sostenuti da Teheran (che però nega), e le forze sunnite del governo di Abd Rabbo Mansour Hadi, appoggiate dai sauditi, ha raggiunto livelli critici dopo l’intervento militare della coalizione della Lega Araba volto a sconfiggere gli Houthi. L’intervento, criticato dall’Iran, non ha avuto i risultati sperati visto la resistenza delle forze sciite e la loro capacità di muoversi nelle zone montagnose di confine con l’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi le forze Houthi hanno compiuto lanci di missili balistici verso e postazioni militari dei sauditi oltreconfine, che li hanno intercettati: i missili, secondo americani e sauditi, sono risultati di provenienza iraniana, cosa che constata l’esistenza di un supporto logistico di Teheran alle forze ribelli» (F. Cirillo, Notizie Geopolitiche). Sulla competizione fra “fronte sciita” e “fronte sunnita” rinvio al post Alcune considerazioni sul conflitto mediorientale.

Secondo Human Rights Watch, «Stati Uniti, Regno Unito, Francia, e altre nazioni occidentali dovrebbero sospendere tutte le vendite di armi all’Arabia Saudita, almeno fino a quando smetterà i suoi attacchi aerei illegali nello Yemen». I massacri causati dagli attacchi aerei “legali” vanno dunque bene? Lo so, si tratta di una domanda sciocca, tipica di chi irride l’aureo e umanissimo principio del “male minore”: la guerra è sempre brutta, si capisce, ma lo è di più se essa si dispiega in modo selvaggio, ossia se gli attori in campo non rispettano le leggi che il Diritto internazionale ha previsto anche per il conflitto armato fra gli Stati. Se tutti i Paesi si attenessero alle buone maniere prescritte dal Diritto internazionale, questo mondo sarebbe un luogo meno brutto e cattivo. Forse… Scusate, ma dinanzi a queste idiozie legaliste il mio piccolo cervello si rifiuta di funzionare, per cui mi tengo cara la sciocca ironia di cui sopra. A forza di ingoiare, anno dopo anno, pane e “male minore”, «stiamo creando nel mondo reale l’Inferno di Dante» (Tom Hanks). Io non sarei così ottimista…

Su un documento redatto lo scorso marzo dalle Nazioni Unite si legge che nello Yemen «gli attacchi sono avvenuti sui campi per sfollati interni e dei rifugiati; sui raduni civili, compresi i matrimoni; sui veicoli civili, sugli autobus, sulle strutture mediche, le scuole, le moschee, i mercati, le fabbriche e i magazzini di stoccaggio degli alimenti, sull’aeroporto di Sana’a, sul porto di Hudaydah e le vie di transito nazionali». Se uno Stato nazionale massacra la gente inerme, si tratta di una «legittima operazione bellica», o al più di un errore, di un effetto collaterale: dopo tutto, la guerra non è mai stata un pranzo di gala; se la stessa poco commendevole azione ha come protagonisti i cosiddetti “ribelli”, chiamati anche terroristi, ecco che magicamente ci troviamo dinanzi ad «inaccettabili azioni terroristiche». Due pesi e due misure? Esatto! Lo schema appena considerato naturalmente si ripete inalterato a diverse latitudini, come vediamo in Siria, in Turchia, in Israele, ovunque un “legittimo governo” è chiamato a tenere a bada dei “ribelli”, o “terroristi” che dir si voglia. All’Onu grandi e piccole Potenze si accapigliano intorno a queste distinzioni, le quali non hanno nulla a che fare con il cosiddetto Diritto internazionale astrattamente considerato (esattamente come quello interno alle singole nazioni, il Diritto internazionale non è che il diritto del più forte), mentre hanno molto a che vedere con interessi economici e geopolitici di grande peso, tale da schiacciare gli individui metaforicamente e, a volte, realmente. Per questo ho definito, con un trasparente intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo, Sistema Mondiale del Terrore la società che ci ospita, la cui violenza sistemica (economica, politica, ideologica, psicologica) non smette di crescere e di radicalizzarsi, con improvvise accelerazioni che sempre più spesso sono segnalate dallo scorrere del sangue, del sangue vero, e non solo da quello metaforico.

Anche il nostro “pacifico” Paese dà il suo non disprezzabile contributo alla carneficina di donne, bambini e vecchi che hanno la sventura di vivere nelle aree yemenite toccate dal conflitto. «L’Italia guarda con grande interesse al ruolo dell’Arabia Saudita, per la stabilità della regione, e al rafforzamento dei rapporti bilaterali tra i due paesi», ha dichiarato qualche giorno fa la Ministra della Difesa Pinotti, la quale il 4 ottobre si è recata in visita dagli alleati sauditi. «Al centro dei colloqui tra la ministra Pinotti e il re saudita ed in particolare il Vice principe ereditario e ministro della Difesa, Muhammad Bin Salman, vi sono stati nuovi “contratti navali”. “The talks are said to have focused on naval deals between both countries” – riporta testualmente il sito Tactical Report. Considerato che i colloqui erano tra ministri della Difesa non è difficile immaginare che si sia trattato di navi militari. Lo fa capire chiaramente l’agenzia di stampa saudita: “They discussed bilateral relations and ways to enhance them, especially in the defense field”. Non a caso, quindi, nella delegazione italiana era presente il Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti, il Generale di Squadra Aerea Carlo Magrassi. Per il ministero della Difesa il centro dei colloqui sarebbe invece stato “la formazione e l’addestramento militare”. “Durante il meeting si è parlato dello sviluppo della cooperazione bilaterale con un focus particolare sui settori della formazione e dell’addestramento militare” – riporta il comunicato ufficiale del Ministero. Di addestramento militare hanno sicuramente bisogno soprattutto gli avieri sauditi che da oltre un anno e mezzo stanno bombardando lo Yemen senza alcun mandato internazionale, ma sostenuti dall’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito» (Unimondo.Org). La spessa cortina di silenzio mediatico che ha coperto la missione italiana in Arabia Saudita dimostra che quando vuole il nostro Paese sa ben recitare il ruolo della piccola ma seria potenza regionale dalle grandi ambizioni – quantomeno adeguate ai suoi interessi economici e geopolitici, vivaddio! E già che ci siamo: Evviva l’Italia! Ops… Il nazionalista che c’è in me per un istante ha preso il sopravvento, come quando assisto a una partita di calcio degli Azzurri; basta distrarsi un attimo, ed è fatta. Chiedo scusa al lettore devoto all’internazionalismo proletario!

«Chiediamo alla coalizione a guida saudita e ai governi che la supportano, in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Francia, di garantire l’applicazione immediata di misure volte ad aumentare in modo sostanziale la protezione dei civili. Il fatto che staff medico e persone malate o ferite vengano uccise all’interno di un ospedale dice tutto sulla crudeltà e la disumanità di questa guerra». Così dichiarava Joan Tubau, direttore generale di Medici Senza Frontiere lo scorso 15 agosto, dopo il bombardamento aereo contro l’ospedale di Abs che provocò 19 morti e 24 feriti. Personalmente non ricordo nessuna guerra, lontana o vicina nel tempo, che non abbia avuto gli odiosi requisiti della crudeltà e della disumanità. Nessuna. Ma dai coraggiosi medici che corrono in soccorso delle vittime, non si può certo pretendere anche una concezione critico-rivoluzionaria del mondo; per come la vedo io, il problema non sta nella mancanza di “coscienza di classe” di Tubau e compagni, ma nell’impotenza sociale e politica delle classi subalterne del pianeta. La rituale marcia pacifista Perugia-Assisi si è svolta sotto gli auspici dello slogan francescano Vinci l’indifferenza; ma si tratta piuttosto di vincere l’impotenza, appunto.

A propositi di “concezione critico-rivoluzionaria” e di “coscienza di classe”! Scrive Piotr, un esponente del partito che combatte «l’egemonismo statunitense e il neoliberalismo» di stampo occidentale: «Il messaggio della Russia è chiaro: Signori (anzi “partner occidentali”), non ci spaventate. Odiamo la guerra ma siamo pronti a combatterla. E lo sapete bene. E sapete bene che quando la Russia deve difendersi può diventare brutale. Attenzione allora a due cose. Gli statunitensi pensano che sia possibile un’escalation, da uno stato di guerra circoscritto a uno generalizzato e nel frattempo vedere come reagisce l’avversario. Pensano ciò perché a parte la Guerra Civile hanno sempre combattuto le altre guerre al di fuori dai loro confini. I Russi invece avranno la guerra subito in casa. I missili della NATO stanno ora solo a 100 km da San Pietroburgo. La guerra per loro sarà per forza di cose da subito totale. Questo gli Europei lo capiscono (ci sono già passati), ma gli USA no. Ecco allora la seconda cosa a cui fare attenzione. Se gli USA, presi da disperazione e scelleratezza, arriveranno veramente a un passo dalla guerra con la Russia, la NATO si sfascerà. Basterà questo a salvarci? Ad Aleppo si gioca il destino del mondo». Personalmente non ho la stessa certezza di Piotr sull’assoluta importanza strategica di Aleppo, anche se ovviamente non sottovaluto (sarebbe davvero impossibile!) la dimensione geopolitica del conflitto che ha trasformato quella città in un abisso di violenze, di morte, di dolore. Ma non è sull’aspetto strategico e geopolitico della questione che intendo brevemente soffermarmi.

«Ad Aleppo si gioca il destino del mondo»: e sia! Ma di quale mondo si parla qui? Si tratta forse del mondo dominato dal Capitale, dagli Stati nazionali, dall’Imperialismo (mondiale e regionale, “occidentale” e “orientale”) e da ogni sorta di “brama di potere”? Non c’è dubbio. Ora, lungi dal condannare in blocco, “senza se e senza ma”, questo disumano mondo; il mondo appunto dello sfruttamento, dell’oppressione sociale e delle guerre, Piotr prende piuttosto posizione a favore di una cosca capitalista/imperialista: quella che riunisce tutte le nazioni nemiche degli Stati Uniti, a cominciare da quella Russia che «odia la guerra» ma non ne ha paura – a differenza del poco virile Occidente che preferisce lasciare ai suoi servi sciocchi mediorientali il lavoro sporco! La posizione qui presa di mira illustra perfettamente, e solo per questo ne faccio oggetto di critica sommaria, l’abisso che corre tra il punto di vista geopolitico (nel caso specifico orientato in senso antiamericano e filosovietico, pardon: filorusso) delle classi dominanti, espresso dai suoi intellettuali variamente orientati in senso ideologico (“realisti”, “idealisti”, “marxisti”, “liberisti”); e il punto di vista a esso antagonista che invita – ahimè inutilmente! – le classi subalterne di tutto il mondo a piantare un cuneo nel cuore del «drago dalle molteplici spire» (Sofocle), anziché sostenere una qualsiasi di quelle spire contro le altre.

Il 7 ottobre Piotr pubblica un altro articolo il cui titolo lascia davvero poco spazio all’immaginazione: L’ultima guerra. Leggiamo (e tocchiamo ferro, o qualche altro scaramantico articolo): «È col cuore grave che sono costretto a prendere atto che dal giorno 6 ottobre 2016 una guerra tra la Russia e gli USA è possibile in ogni momento. Una guerra che può avere devastanti effetti anche per noi. Per quanto sia orrendo e penoso parlarne, bisogna farlo, perché i grandi media nascondono questa serissima eventualità. Non ne parlano perché vogliono continuare a farci pensare a una guerra mondiale come a un videogioco e perché vogliono continuare a convincerci che lo Zio Sam alla fine prevarrà, perché è il più forte e perché è nel giusto, qualsiasi cosa faccia. […] L’unica possibilità di uscirne vivi è che l’impero si de-imperializzi, accetti un mondo multipolare e in quello negozi la propria nuova posizione. Il contrario della dottrina dei neocon. Noi, l’Italia e i Paesi europei, dobbiamo facilitare, promuovere questa inversione di marcia. Per farlo dobbiamo opporci alle politiche imperiali, non c’è altro da fare». Per il Nostro, come per molti altri “antimperialisti”, nel mondo esiste un solo vero polo imperialista: quello cosiddetto occidentale a guida statunitense. Le mosche cocchiere dell’”antimperialismo militante” lavorano notte e giorno, giorno e notte per dividere quel polo: «Occorre privilegiare i rapporti non coi settori disponibili a un olocausto nucleare ma con quelli disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Da questo punto di vista, è meglio tifare per l’”isolazionista” Trump o per l’”internazionalista” Clinton in vista delle prossime Presidenziali? Ardua risposta! Nel dubbio, il mio piccolo cervello mi invita (vedi il mio attuale stato di schizofrenia!) a mandarli entrambi a quel Paese, quello che piace tanto ai grillini.

cartina-moEcco dunque il mondo che piace a certi “antimperialisti” nostalgici della Guerra fredda: il «mondo multipolare», la “democrazia imperialista”, il pluralismo degli interessi nazionali. Ora, dal punto di vista delle classi dominate, si scorge forse qualche pur lieve differenza tra mondo unipolare, mondo bipolare e mondo multipolare? A me non pare; dalla mia prospettiva si tratta di tre differenti assetti geopolitici dello stesso disumano – o capitalistico – mondo. Ma Piotr non è d’accordo; egli vede agire nel mondo due opposte forze: quelle del Male, «disponibili a un olocausto nucleare» perché accecati da una demoniaca follia che si ribella anche agli interessi economici del Capitale e agli interessi politici degli Stati, e quelle del Bene, «disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Come si fa a non appoggiare le forze del Bene?! «Se, come penso, solo il potere politico è in grado di avere un progetto grandioso, occorre allora che negli USA riesca ad esprimersi un potere il cui grandioso progetto sia quello di non fare una guerra. Non sarebbe la fine dei problemi, perché l’inizio dei problemi è la cattiva infinità del processo di accumulazione. E quindi non è nemmeno la rivoluzione, ma non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Qui sottoscrivo, senza alcuna ironia (almeno ci provo!): «non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Prima dobbiamo conquistare la possibilità di rimanere in vita, e solo dopo, eventualmente, possiamo pensare di fare la rivoluzione. La logica di Piotr appare inattaccabile. Giungiamo alla conclusione: «È vero, spesso gli schemi si ripetono. Anche John Hobson all’inizio del secolo scorso implorava l’Impero Britannico di adeguarsi al nuovo mondo multipolare di allora per evitare una guerra mondiale. Ma l’Impero s’impuntò e così iniziò un lunghissimo conflitto armato segnato da due grandi battaglie. La prima fu chiamata I Guerra Mondiale e la successiva II Guerra Mondiale. L’Impero vinse nella conta finale dei morti, ma perse l’egemonia mondiale che passò agli USA. È vero, il genere umano c’è ancora, ma gli schemi non si ripetono nelle stesse condizioni. Mai. Le devastazioni della I Guerra Mondiale (che doveva essere l’ “ultima guerra”) superarono quelle di tutte le guerre precedenti, ma vennero ampiamente surclassate da quelle della II Guerra Mondiale (che doveva essere l’”ultima guerra”). Ma le devastazioni della III Guerra Mondiale non verranno superate da quelle seguenti perché non rimarrà più niente da devastare. Quella con molta probabilità sarà veramente l’ultima guerra». Come diceva il bravo cantante, lo scopriremo solo vivendo – o solo crepando, nella peggiore delle ipotesi, nel caso in cui dovessero prevalere, anche in grazia delle sciagurate posizioni qui espresse dal sottoscritto, le demoniache forze del Male.

Siccome mi sento inadeguato dinanzi alla stringente logica storica di Piotr, finisco questo modesto pezzo nascondendomi dietro l’autorità di un celebre antimperialista (senza le solite virgolette!): Herman Gorter, il quale nell’autunno 1914 scriveva quanto segue: «Causa di questa prima guerra mondiale è il capitalismo. Il capitalismo mondiale, che cerca di espandersi. Tutti gli Stati cercano piazze di smercio per i loro prodotti, cercano fonti di alti interessi pei loro capitali. L’imperialismo non vuole solo colonie, vuole anche sfere d’influenza per il commercio e un monopolio industriale e finanziario. […] Tutte le chiacchiere dei partiti borghesi e socialisti e dei loro organi, che si fa una guerra di difesa, e che si è stati costretti a farla perché si era aggrediti, non sono che un inganno, destinato a nascondere la propria colpa sotto una bella apparenza. Dire che la Germania o la Prussia o l’Inghilterra è la causa della guerra sarebbe tanto stolido e falso, quanto l’affermare che la crepa nata in un vulcano è la causa dell’eruzione. Da anni ed anni tutti gli Stati europei si armavano per questo conflitto. Tutti vogliono soddisfare la propria rapace avidità. Tutti sono egualmente colpevoli» (**). Tutti egualmente colpevoli, “aggressori” e “aggrediti”, perché tutti assoggettati alla Potenza sociale chiamata Capitale, un “Impero del Male” anonimo e dal carattere sempre più aggressivo – “a 360 gradi”: dalla sfera economica a quella politica e geopolitica, da quella culturale e ideologica a quella psicologica.

Più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti e rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali (non a caso spesso faccio riferimento all’esibita virilità dello “Zar” Vladimir) e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionale o/e imperialista – magari inseguendo l’”antimperialismo” (di nuovo le antipatiche virgolette!) a senso unico di certi ex filosovietici.

(*) «Il golpe degli houthi (sciiti), dietro al quale vi sarebbe l’Iran (che però nega), è arrivato nel gennaio 2015 dopo che per mesi avevano chiesto invano alcuni riconoscimenti come l’inserimento di 20mila appartenenti alla minoranza sciita nelle forze armate governative, l’assegnazione di 10 ministeri e l’inclusione nella regione di Azal, di Hajja e dei governatorati di al-Jaw. […] Si calcola che dall’inizio della guerra civile i morti siano già 7mila, di cui la maggioranza civili (G. Keller, Notizie Geopolitiche).(**) H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, pp. 51-52, Edizioni Avanti!, 1920.