Ieri la stampa italiana ha prodotto due piagnistei di pregevole fattura sul cattivo mondo che ci ospita. Alludo a due articoli densi di concetti molto importanti, sebbene “declinati” in un modo che non posso condividere, neanche un poco. Le notizie che sempre ieri sono arrivate dal fronte economico (le pessime previsioni sulla crescita economica in Europa e in Italia elaborate dal FMI e dalla Confindustria) e da quello politico (le «provocatorie e improvvide» dichiarazioni del premier Cameron sulla sostenibilità “europeista” della Gran Bretagna) confermano il cupo quadro delineato dagli articoli in questione. Vediamoli.
Il piagnisteo del pessimista tecnologico…
Giovanni Sartori, esponente della scuola sociologica che possiamo definire neo malthusiana 2.0, versa un fiume di lacrime pensando alla grave crisi economico-sociale che attanaglia l’Occidente, stordito dalla “cultura del Prozac”, e ancor più riflettendo sugli “effetti collaterali” della «rivoluzione digitale» che si annuncia. Di che si tratta?
«In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione» (L’economia del Prozac, Il Corriere della Sera, 23 gennaio 2013). Una tecnologia laborsaving che viene a impattare, osserva Sartori, su un corpo sociale già molto debilitato dalla disoccupazione.
Come ho scritto altrove, nel Capitalismo anche quello che allude alla possibile – e sempre più possibile – emancipazione dell’umanità da ogni forma di miseria e di sfruttamento ha la maligna predisposizione a congiurare contro questa stessa splendida promessa. Ciò che lascia immaginare un futuro davvero «radioso», o, meglio, semplicemente umano, liberato da potenze sociali che, ancorché create dagli individui, dominano questi ultimi alla stregua di impotenti marionette assoggettate a un destino cieco e crudele, è recepito dal pensiero che manca di profondità critica alla stregua appunto di una tragica fatalità. Ma questa “dialettica sociale” può essere compresa da uno come Sartori? Vediamo!
Scrive il Nostro: «Abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro». Qualcuno dica al simpatico Scienziato Sociale che l’Occidente, come il resto del pianeta, ha sposato non una teoria fallace ma la prassi capitalistica, la quale risponde a un solo totalitario imperativo categorico: fare profitti. La ricerca del profitto più grasso e immediato possibile spiega qualsiasi movimento dei capitali, compresi quelli che l’ipocrita diritto borghese chiama «illegali». La stessa tendenza parassitaria della «società dei servizi» che il Professore denuncia (per perorare la causa di un ritorno a un Capitalismo più “reale”, ancorato ai valori del lavoro produttivo, «al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose»), si spiega per un verso con lo sviluppo della produttività del lavoro su base mondiale, che espande sempre di nuovo la torta del plusvalore sulla cui base è possibile qualsiasi gioco di prestigio finanziario (attraverso la moltiplicazione di ricchezza nominale cartacea ed elettronica); e per altro verso con la continua fuga in avanti del Capitale radicato nelle metropoli capitalistiche più mature, le quali scontano quella tendenza a cadere del saggio di profitto industriale che già gli economisti classici osservarono, senza peraltro comprenderne la causa. Ecco perché è semplicemente ridicolo stigmatizzare in nome dell’economia cosiddetta reale ciò che è il prodotto di questa stessa economia.
Decisamente Sartori non è attrezzato a capire l’essenziale di quel che gli capita sotto lo scientifico naso. Il massimo di “critica” cui può aspirare il suo pensiero è chiedere di farla finita con il mantra dell’ottimismo: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti», scrive citando un non meglio specificato Scienziato indiano. E su questo punto mi trovo d’accordo…
… e quello della federalista dura e pura
L’interventismo militarista del compagno Hollande in terra africana sembra aver ispessito il pessimismo che cova nella nobile anima europeista di Barbara Spinelli, sempre più avvelenata dalle contorsioni dell’Unione Europea intorno ai debiti sovrani e ai tempi della ripresa economica nella zona euro. Prima l’austerità o la crescita?; oppure: austerità e crescita insieme? E ancora: Europa a egemonia tedesca o a guida franco-tedesca? Tempi duri per i federalisti europei duri e puri!
Piccola parentesi: Bersani dice di non volere gli F 35 in Italia, però appoggia i raid aerei francesi in Africa. «Forse Bersani vuole lasciare l’aeronautica militare italiana in gestione alla Francia», ha osservato ironicamente Arturo Parisi, ex Ministro della Difesa del governo Prodi.
Scrive la Spinelli: «È venuta l’ora di riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario, democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a 19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare, compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia. È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche di questo, e non sarebbe inutile» (L’Europa bendata alla guerra d’Africa, La Repubblica, 23 gennaio 2013).
No, signora Spinelli, non si tratta affatto di un’ipotesi ma di una cruda e inevitabile realtà: si chiama Imperialismo. Inevitabile, beninteso, posta la realtà capitalistica degli ultimi due secoli. «Per il vecchio capitalismo, sotto il dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventa caratteristica l’esportazione di capitale» (Lenin, L’Imperialismo). La Cina, che per molti versi si trova ancora dentro il vortice di una colossale «accumulazione capitalistica originaria», esporta capitali in ogni loro manifestazione empirica, per così dire: merci, denaro, capitali stricto sensu (investimenti diretti e indiretti all’estero), capacità lavorativa, tecnologie e quant’altro. E compra di tutto: materie prime in cima alla lista della spesa, com’è noto.
Il suo contegno “pacifista” (per adesso!) per un verso rende evidente la natura eminentemente economica del moderno imperialismo, e per altro verso attesta l’ascesa della potenza capitalistica cinese sulla scena mondiale mentre relativamente le altre potenze declinano. Ripeto: relativamente, ossia non in termini assoluti né in modo deterministicamente irreversibile, almeno per ciò che riguarda gli Stati Uniti. Francia e Inghilterra sono già delle stelle spente, sebbene ancora sufficientemente calde, come dimostra il loro attivismo in Africa, in quello che fu il loro «spazio vitale». Discorso ancora diverso deve farsi per Germania e Giappone, ma non è il caso di farlo adesso.
«Forse», osserva sconsolata la Spinelli dopo aver tratteggiato il caotico grumo di contraddizioni (e di materie prime!) che travaglia il Mali e tutta l’area che si estende dal Sahara al Sahel, «l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha una visione perversa ma più moderna della crisi dello Stato-nazione. Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno edificato». Qui fa capolino la vecchia illusione europeista, ridicolizzata a suo tempo da De Gaulle, teorico dell’«Europa delle patrie», di chi immagina possibile la creazione di uno spazio politico-istituzionale di tipo federale (gli Stati Uniti d’Europa) attraverso una pacifica e totale cessione di sovranità da parte di tutti i Paesi europei. E quando dico pacifica non intendo alludere solo alla guerra di tipo tradizionale, quella che ha sconvolto e insanguinato periodicamente l’Europa, ma anche alla guerra di tipo economico-sociale, che infatti è in pieno corso nel Vecchio Continente. Anche qui, la guerra degli eserciti in armi non è che la continuazione della guerra sociale incardinata sul solito mantra capitalistico: profitti, profitti, profitti! La guerra sistemica (economica, scientifica, tecnologica, politica, culturale, psicologica) è la guerra peculiare dei nostri disumani tempi. I raid aerei “umanitari” ne sono solo l’ultima manifestazione. Ma può capirlo questo chi ha in testa gli Stati Uniti – e capitalistici! – d’Europa come il massimo di “utopia” possibile nel XXI secolo?